Scrutatio

Mercoledi, 24 aprile 2024 - San Fedele da Sigmaringen ( Letture di oggi)

Giobbe 3


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Giobbe per isfogo di natura maledice il giorno di sua natività, e la vita presente, dimostrando l'infelicità de' mortali, e dà quanti mali sia libero chi è subito privato di questa luce.

1Indi Giobbe aperse là bocca, e maledì il suo giorno,2E parlò così:3Perisca il giorno, in cui io nacqui, e la notte, in cui si disse: E stato conceputo un uomo:4Si cangi quel gionio in tenebre: non ne tenga conto lassù Iddio, e non sia rischiarato dalla luce.5L'oscurino le tenebre, e l'ombra di morte, lo investa la caligine, e sia rinvolto nell'amarezza.6Un turbine tenebroso occupi quella notte; non sia contata tra i giorni dell'anno, né faccia numero nei mesi.7Quella notte sia solitària, né sia degna di udire dei canti:8La maledicano quelli, che odiano il giorno, quei che ardiscono di svegliare il Leviathan:9La sua caligine oscuri le stelle, aspetti ella la luce, né mai vegga la luce, né lo spuntar dell'aurora nascente:10Perocché ella non chiuse le porte del ventre che mi portò, e non sottrasse agli occhi miei la vista di questi mali.11Perché non morii nel seno stesso materno? perché non perii subito uscito dall'utero?12Perché fui accolto sulle ginocchia? Perché alattato alle mammelle?13Perocché adesso dormendo starei in silenzio, e nel mio sonno avrei riposo14Insieme coi re, e coi grandi della terra, che alzano fabbriche in luoghi deserti,15Ovver coi principi ricchi di oro, e i quali empievan le case loro di argento;16Almen fossi stato senza sussistenza come un aborto, che si nasconde, o come quelli, che conceputi non vider la luce.17Colà finiscono i tumulti degli empj, e colà riposano quelli che eran rifiniti di forze.18E quelli che erano già insieme alla catena, son senza molestie, non odono la voce del soprastante.19Ivi sono il piccolo, e il grande, e il servo, ma libero dal suo padrone.20Per qual motivo fu conceduta la luce a un infelice, e la vita a quelli, che portano l'anima afflitta?21I quali la morte, che non viene, aspettano, come si cerca un tesoro,22E son tutti giulivi quando han trovato il sepolcro:23A un uomo, il qual non vede sua strada, avendolo Dio circondato di tenebre?24Sospiro prima di prender cibo, e i miei ruggiti qual piena di acque che inonda:25Perocché quello che io temeva, mi è accaduto, e i miei sospetti si son verificati.26Non dissimulai io forse? non mi tacqui? non fui forse paziente? e l'ira è caduta sopra di me.

Note:

3,1:E maledì il suo giorno. Il dì, in cui era nato. Colui, che parla è un uomo aggravato, e poco men che oppresso da' mali, il quale dopo aver lungamente sofferto in silenzio le sue miserie, sfoga l'interno dolor dell'animo dinanzi a' suoi amici, e per esprimere l'infelicità dello stato suo dice, che il giorno in cui egli nacque non merita giù di essere solennizzato, come si usa riguardo ai giorni natalizi de' grandi, ma si di essere tolto dal numero dei giorni, perocchè bramerebbe egli, che questo giorno non fosse mai stato per lui, che non vorrebbe esser nato. Simili maniere di parlare si trovano Jerem XX. 14.15, ec. Habac. 1. 2. 3., ec. Senza perdere la rassegnazione a' voleri di Dio, esprimono questi Santi la violenza della tentazione, nella quale si trovano, e a cui non sono all'atto sicuri di resistere sino alla fine. Gli Ebrei (e dietro ad essi qualche interprete Cristiano), che non hanno avuto ribrezzo di condannare di empietà le parole di Giobbe. Sono certamente degni di molto biasimo, e non hanno posto mente, che non solo Giobbe, ma due altri santissimi profeti ancora venivano condannati colla loro atroce sentenza. Havvi adunque in queste parole di Giobbe, e in quelle de' due profeti una iperbolica esagerazione di una eccessiva miseria, come noto s. Girolamo, e queste voci non dichiarano i sensi della ragione e della volontà, ma bensi i movimenti e le agitazioni della parte inferiore, che incitava que' santi uomini a voler piuttosto non essere, che essere in tanta calamità. Imperocchè guardici Dio dall'attribuire queste parole ad impazienza e disperazione, e dal credere, che la virtù di Giobbe paragonata dall'Apostolo s. Giacomo a quella del Signore Gesù Cristo soccombesse giammai, e che il Demonio vincesse la prova.

3,7:Sia solitaria, ne sia degna di adire de' canti. Non si facciano in quella notte liete adunanze pe' conviti, e per festeggiare sposalizi con suoni e canti.

3,8:La maledicano quelli, che odiano il giorno. Maledicano quella notte tutti gl'infelici che odiano il giorno della loro natività. Ovvero come altri spiegano: maledica quella notte quel popolo, che e solito di maledire il sole. I popoli dell'Egitto superiore, o sia gli Etiopi odiavano, e bestemmiavano il sole, e lo stesso facevano gli Atalanti, popolo vicino agli Etiopi, perché gli ardori di quel pianeta danneggiavano le loro campagne. Il fatto è attestato da Strabone, da Plinio e da altri.
Quei, che ardiscono di svegliare il Leviathan. Nella sposizione di queste parole v'ha contrarietà grandissima tragli interpreti. Il Leviathan v' ha chi crede la balena, chi un mostro marino, e chi finalmente il coccodrillo, il quale era adorato in una parte dell'Egitto, ma era perseguitato, ucciso, e mangiato nell'altra parte, cioè nell'Egitto superiore: e per quanto apparisce da Erodoto, quei, che trattavano cosi male il coccodrillo, doveano essere quegli stessi, che aveano per rito di mandare imprecazioni al sole ogni dì, al suo nascere, e al suo tramontare. Posto ciò il senso di tutto questo versetto sarebbe: maledicano quella notte que' popoli, che sono nemici del sole, e contro di lui vomitino bestemmie e improperi que' popoli, i quali ardiscono di andare a svegliare il coccodrillo, che dorme sulle rive del Nilo, e di assalirlo. Il coccodrillo sia la notte nel Nilo, e di giorno dorme sulla riva. Giobbe in una parola invita a maledir la notte del suo concepimento que' popoli feroci, che non temevano il Coccodrillo, e ardivano di lanciare quotidiane maledizioni contro del sole. Ognun vede, che questa è una forte esagerazione atta a mostrare quanto infausta reputar dovesse quella notte, in cui fu conceputo un uomo, che era serbato a si atroce calamita.

3,12:Perchè fui accolto sulle ginocchia? Dalla levatrice, ovvero dal padre, o dall'avo.

3,13:Adesso dormendo starei in silenzio ec. Se io fossi morto o nell'utero della madre, o subito quando venni alla luce, non gemerei, ne mi sfogherei in querele, come fo adesso, ma starei in silenzio, e avrei riposo. La morte è sovente chiamata sonno nelle Scritture, come per un annunzio della futura risurrezione.

3,14:Insieme coi re e co' grandi ec. Se io fossi morto appena nato, io avrei la stessa sorte, che hanno adesso tanti re, tanti grandi della terra, i quali non godono più la luce del sole, e i quali non son adesso più fortunati per essere stati grandi e potenti e ricchi quando viveano. Poteva alcuno dire a Giobbe: se tu fossi dal sen della madre passato al sepolcro, non avresti goduti i beni di questa vita. A questa tacita obbiezione risponde: ma e quali beni son questi, che colla morte si perdono? Quali beni son questi, che nulla giovano per loro stessi a migliorar la sorte dell'uomo nella vita futura?
Che alzano fabbriche in luoghi deserti. Si può intendere i monumenti, o depositi eretti da' grandi principi nella campagna, e in luoghi disabitati, non tanto per esservi sepolti, quanto per eternare la loro memoria.

3,17:Colà finiscono ec. Nel sepolcro hanno fine le agitazioni degli empi, i quali non hanno pace per se, e non lasciano, che altri l'abbia. Nel sepolcro hanno riposo queli, che si consumano di fatiche, e di stenti nella vita presente.

3,18:E quelli, che erano già insieme alla catena, ec. Vi erano dei servi, che erano legati a due a due. Vedi il Pignorio. Questi meschini (dice Giobbe) restano sciolti alla morte da tanta molestia, e non odono più la voce minaccevole, e cruda del soprastante, che gli sgridava, perché lavorassero anche più di quel che potevano.

3,23:A un uomo, il qual non vede ec. Intendesi ripetuto: per qual motivo fu conceduta la luce ( v. 20.) a un uomo ec.? Deplora Giobbe la condizione dell'uomo, il quale nella vita presente non sa mai quello che di lui sia per essere a quali avvenimenti debba essere soggetto, nè il modo conosce di sottrarsi da' mali, ne quale abbia ad essere il termine del suo vivere e del penare.

3,24:Sospiro prima di prender cibo, ec. Nello stato infelice, in cui mi ritrovo e pena per me il cibarmi, perché di mala voglia m'induce a conservare una vita piena di dolore e di acerbezza.
E i miei ruggiti qual piena ec. Paragona i suoi gemiti al romoroso fremito di una piena d'acqua, che rotti gli argini allega le campagne, volendo significare, che questi gemiti erano accompagnati da dirotta pioggia di lacrime.

3,25:Perocchè quello, che io temeva mi è accaduto ec.Non indarno, ne a caso (dice Giobbe) io temei sempre un cangiamento di stato, e che alla prosperità dovesser succedere i mali e le sciagure. Può essere, che Dio prima di affliggerlo prevenisse Giobbe con questi timori, affinchè la miseria giungendo in inopinato non lo abbattesse. Ma oltre di questo egli è proprio dell'uomo saggio, quale egli era, il non porre fidanza nelle incerte ricchezze, e nel tempo della felicità temere il giorno cattivo, come sia scritto Eccli. VII. 5.

3,26:Non dissimulai io forse? ec.Certamente io portai con rassegnazione, con pace, in silenzio le prime calamità, colle quali volle Dio visitarmi, portai con pazienza la perdita de' miei beni, la morte stessa de' miei figliuoli: ma non per questo il Signore ha lasciato di ferirmi nella mia propria persona con nuova orrenda tribolazione a guisa di irato. Altri danno a questo luogo altre sposizioni, le quali però non mi pare che possano quadrare colla lezione della nostra volgata.