Scrutatio

Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

Lettera ai Romani 14


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Coloro, che sono più saldi nella fide, debbono aiutare, non dispreggiare i deboli, e ne questi, ne quelli giudicare di alcuno rispetto alla differenza de' cibi, o dei giorni, sapendo, che abbiam tutti lo stesso padrone, per cui viviamo, e muoiamo, ed a cui ciascuno renderà conto di se stesso; e sebbene già nissun cibo è immondo, niuno però deve mangiare di una cosa o con iscandalo del fratello, o contro la propria coscienza.

1Porgete la mano a colui, che è debole di fede, non disputando delle opinioni.2Imperocché uno crede di mangiare qualunque cosa: quegli poi che è debole, mangi degli erbaggi.3Colui, che mangia, non dispregi colui, che non mangia: e colui che non mangia, non condanni uno, che mangia: perché Dio lo ha preso per se.4Chi se' tu, che condanni il servo altrui? Egli sta ritto, o cade pel suo padrone: ma egli starà ritto: perché potente è Dio per sostenerlo.5Imperocché uno distingue tra giorno, e giorno: un altro poi tutti i giorni confonde: ognuno segua il proprio parere.6Chi tien conto di un giorno, ne tien conto per amor del padrone. E chi mangia, mangia pel padrone: imperocché rende grazie a Dio. E chi non mangia, non mangia pel padrone, e a Dio rende grazie.7Imperocché niuno di noi per se medesimo vive, e niuno per se muore.8Imperocché se viviamo, viviamo per il padrone: se muoiamo, muoiamo per il padrone. O muoiamo adunque, o viviamo, siamo del padrone.9Imperocché Cristo ed è morto, ed è risuscitato, alfine di essere Signore dei vivi, e de' morti.10Ma tu perché giudichi il tuo fratello? ovvero perché disprezzi il tuo fratello? Imperocché tutti compariremo davanti al tribunale di Cristo.11Conciossiachè sta scritto: Vivo io, dice il Signore, a me piegherassi ogni ginocchio: e tutte le lingue confesseranno Dio.12Ognun di noi adunque renderà di se conto a Dio.13Non ci giudichiamo adunque più gli uni gli altri: ma piuttosto vostra sentenza sia, che non ponghiate inciampo, o scandalo al fratello.14Io so, ed ho fidanza nel Signore Gesù, che non v' ha cosa impura di per se stessa, eccetto che per chi tiene, che una cosa è impura, per lui ella è impura.15Ma se per un cibo il tuo fratello resta conturbato, già tu non cammini secondo la carità. Non volere per il tuo cibo mandar in rovina uno, per cui è morto Cristo.16Non sia adunque bestemmiato il bene nostro.17Imperocché il regno di Dio non è cibo, e bevanda: ma giustizia, e pace, e gaudio nello Spirito santo:18Imperocché chi in queste cose serve a Cristo, piace a Dio ed è approvato dagli uomini.19Attenghiamoci adunque a ciò, che giova alla pace: e osserviamo quello, che fa per la mutua edificazione.20Non volere per un cibo distruggere l'opera di Dio. Tutte le cose veramente sono monde: fa però male, un uomo, che mangia con iscandalo.21Bene stadi non mangiar carne, a di non ber vino, né cosa per cagion della quale il tuo fratello inciampa, od è scandalizzato, o si indebolisce.22Tu hai la fede? Abbila presso di te dinanzi a Dio; beato chi non condanna se stesso in quello, che elegge.23Ma chi fa distinzione, se mangia, è condannato: perché non secondo la fede. Or tutto quello, che non è seconda la fede è peccato.

Note:

14,1:Porgete la mano a colui, che è debole di fede, ec. Dal precetto della carità esposto di sopra deduce adesso l'Apostolo alcune conseguenze molto opportune a conservare la pace, e l'unione nel popolo Cristiano composto di Giudei (i quali non era così agevol cosa di distaccare interamente dall'amore, e dall'osservanza de' riti Mosaici ), e di Gentili, i quali ben sapendo, che questi riti non erano più nè utili, nè necessari dopo la morte di Cristo, non potevan patire, che i primi li volessero tutt'ora in parte almeno osservare, e li disprezzavano perciò come ignoranti, o superstiziosi. Questo punto, da cui nascevano continuamente molti bisbigli, e dissapori, e potevano nascerne eziandio de' mali maggiori, prende a trattare l'Apostolo con la solita sua ammirabil sapienza, e discrezione, e tenendo la via di mezzo, fa ogni sforzo per ridur tutti all'unita, e alla pace mediante la mutua sofferenza. Comincia adunque con dire, che esige la carità, che a colui, che è debole di fede, si porga la mano per sostenerlo. Or debole di fede, o nella fede è colui il quale non è ancora ben capacitato, che la distinzione dei cibi, e de' giorni non è più nè necessaria, nè utile per la salute. A un tal uomo adunque dee porgersi la mano, vale a dire, convien tollerarlo con pazienza e amore, tralasciando di disputare intorno alle opinioni diverse, che son tra voi, riguardo alla Cristiana libertà.

14,2:Imperocchè uno crede di mangiare qualunque cosa: quegli poi, che è debole, mangi degli erbaggi. Ecco uno de' punti controversi tutt'ora tra' Cristiani del Gentilesimo, e quelli del Giudaismo. Il Gentile, o anche il Giudeo perfettamente istrutto nella fede tiene per fermo, che è lecito mangiare di qualunque cosa, perchè sa di non esser tenuto a osservare la distinzione, che si fa nella legge intorno a quello, che poteva, o non poteva mangiarsi. Ma un Giudeo tutt'ora debole nella fede, affine di porsi al sicuro di non trasgredire i riti della legge, si contenta di non mangiar altro che erbaggi; imperocchè ne' diversi generi di animali molte erano le proibizioni della legge, ma niuna proibizione era stata fatta di niuna sorta di erbaggi. Si astenevano adunque costoro dalle carni degli animali per maggior cautela, e rispetto della proibizione legale, e dovevano essere in ciò tollerati, fino a tanto che fosse venuto il tempo, che per pubblico giudizio della Chiesa altrimenti fosse ordinato. Erano, dico, da tollerarsi, mentre lo facevano per ubbidire alla legge: imperocchè se fatto l'avessero per maggior perfezione, e per mortificazione della carne, sariano stati anche degni di lode; onde di S. Matteo scrive Clemente Alessandrino, che non di altra cosa cibavasi, che di se mi, e di frutti, e di erbaggi, senza carne di sorta alcu na (pedag. 2. ); e di s. Giacomo fratello del Signore il simile racconta s. Agostino, e Palladio della celebre Olimpiade diaconessa della Chiesa di Costantinopoli

14,3:Colui, che mangia, non dispregi colui, che non mangia. Chi mangia de' cibi, che erano già proibiti dalia legge, non disprezzi il fratello, il quale per un rispetto, che più non dovrebbe alla legge, non ardisce di mangiarne.
E colui, che non mangia, non condanni uno, che mangia: perchè Dio lo ha preso per sè. Alla stessa maniera colui, che si astiene da que' cibi, non si faccia lecito di condannare il Gentile, che con sicura coscienza ne mangia; non si faccia lecito di condannarlo, conciossiachè dee sapere, che Dio lo ha accettato per suo adoratore, per uno di sua famiglia, per membro della sua Chiesa.

14,4:Chi se' tu, che condanni il servo altrui? Parla l'Apostolo primieramente col Giudeo, perchè egli era veramente nell'errore. Chi se' tu, e donde vieni, e da chi hai ricevuto autorità di giudicare i servi non tuoi, ma di Dio?
Egli sta ritto, o cade pel suo padrone: ma egli starà ritto: ec. Il bene, e il male del servo tocca tutto al padrone, a cui egli appartiene in proprio. Così il servo di Dio se sta fermo nel bene, dà gloria al padrone; se male opera e cade, disonora il padrone; e al padrone si appartiene di giudicare, se egli stia fermo o cada; se pecchi o no. Io però ti dico, che egli si terrà fermo nel bene, perchè non manca di virtù il padrone per sostenerlo, affinchè non vacilli, e non cada. Così si umiliala superbia dell'uomo, il quale niuna cosa trova più facile e naturale che il giudicare il suo prossimo. Mi sembra assai verisimile il sentimento di un dotto Interprete,che i Giudei convertiti osservando la libertà, di cui face van uso i Cristiani del Gentilesimo nel mangiare indifferentemente di tutti i cibi anche vietati da Mosè, prevenuti dall'idea della proibizione della legge, che non intendevano ancora essere in ciò abolita, di leggieri si inducessero a giudicare essere questo un passo, che facevano i Gentili per ritornare agli antichi errori.

14,5:Uno distingue tra giorno e giorno: un altro poi tutti i giorni confonde. Non convengono gli Interpreti intorno a quel che si abbia da intendere per la distinzione, o differenza de' giorni notata qui dall'Apostolo,come osservata dagli uni, cioè da' Giudei, rigettata dagli altri, cioè da' Gentili convertiti. S. Tommaso spiega questo luogo della astinenza da certi cibi osservata in alcuni giorni, e non in altri, perchè in quegli era prescrittata l'astinenza o dalla antica legge, come ne' giorni di solenne digiuno, o in quelli, ne' quali secondo la consuetudine degli uomini timorati soleva da' Giudei praticarsi lo stesso digiuno. I Giudei adunque osservano scrupolosamente l'astinenza in que' giorni; i Gentili poi non badavano a nulla di questo, ma contentandosi di mortificare col digiuno la carne non meno de' Cristiani Giudei, non credevano, che nulla rilevasse, che ciò si facesse o in questo, o in quel giorno. E nulla infatti ciò importava, quando non si fosse contravvenuto a qualche ordinazione, o consuetudine della Chiesa. Imperocchè (per esempio) siccome non fu mai costume tra' Cristiani di digiunare in domenica, così il digiuno del mercoledì, e del venerdi si trova praticato fino dai primi tempi per quasi general costumanza di tutti i buoni, onorandosi con la mortificazione corporale que' due dì della settimana come consa grati alla memoria della passione di Cristo.
Il Giudeo adunque, dice l'Apostolo, pone differenza tra uno, e un altro giorno; il Gentile poi non bada a tal differenza, e uguali sono per lui tutti i giorni. Che s' avrà egli a dire sopra una tal discrepanza? Che ognuno segua liberamente il proprio parere, mentre non si tratta qui di cosa appartenente alla fede, ma di cosa tutt'ora indifferente, non essendo ancora stata proibita a' Giudei battezzati l'osservanza di tali riti. Vedremo come l'Apostolo tratti questa materia nell'epistola a' Galati.

14,6:Chi tien conto d'un giorno, ne tien conto per amor del padrone, ec. Chi pone nel modo già detto differenza tra' giorni, ciò fa, perchè crede, che al padrone, cioè a Cristo piaccia così. Nella stessa guisa chi mangia de' cibi proibiti nella legge, ha in cuore di dar gloria al padrone; conciossiachè (come è costume tra noi Cristiani) rende a Dio grazie prima di mangiare, lodando la sua beneficenza, e usando della libertà datagli dallo stesso padrone di mangiare di ogni cosa. E similmente chi di tali cibi non mangia, se ne astiene per amor del padrone, temendo i suoi comandamenti, persuaso essendo, che a lui non piaccia, che di tali cibi si faccia uso, e Dio ringrazia della volontà e virtù, che gli dà di astenersene.

14,7-8:Imperocchè niuno di noi per se medesimo vive, e niuno ec. Quanto a noi Cristiani niuno v'ha, che per se stesso viva, per suo comodo, per sua gloria, e parimente niuno di noi per sè muore. Imperocchè e la vita, e la morte, e tutto quello che fanno, riferiscono i fedeli alla gloria del loro Signore, ben sapendo, che un servo nulla in proprio possiede. Parla l'Apostolo anche della morte, perchè si intenda, che il dominio di Cristo sopra i redenti risguarda non solo il secolo presente, ma anche il futuro.

14,9:Imperocchè Cristo ed è morto, ed è risuscitato, ec. Rende ragione di quello, che aveva detto ne' due precedenti versetti, vale a dire, che noi siam di Cristo in virtù del dominio, che egli acquistò sopra di noi con morire, e risuscitare per noi, o sia col redimerci dalla schiavitù del peccato col prezzo del sangue suo. Parla della risurrezione, perchè dopo di essa cominciò Cristo ad esercitare il nuovo dominio, che egli si era acquistato sopra gli uomini.

14,10:Ma tu, perchè giudichi il tuo fratello? Ovvero perchè ec. Ma tu qual hai diritto di far giudizio di un fratello ovvero di disprezzare un fratello? Nè la carità permette, che un fratello leggermente disprezzi il proprio fratello; nè la giustizia comporta, che un fratello alzi tribunale contro il fratello.
Imperocchè tutti compariremo ec. E chi avrà ardire di mischiarsi in un giudizio, che è riserbato al tribunale di Cristo, dove tutti senza eccezione dovrem comparire a render ragione del bene, e del male, che avrem fatto?

14,11:Sta scritto: Vivo io, dice il Signore, a me piegherassi ec. Le parole di Isaia citate dall'Apostolo per dimostrare la podestà, che ha Cristo di giudicare i vivi, e i morti nella nostra Volgata sono: Per me medesimo ho giurato, dice il Signore, a me piegherassi ogni ginocchio e giurerà (per me) ogni lingua. E con poco, o niun divario i LXX. L'Apostolo prendendo il senso del Profeta, volle esprimere la parola del giuramento, il qual giuramento (come osserva altrove l'Apostolo, Hebr. VI.) Dio, che non ha maggiore di sè, non può fare se non per se stesso: onde la formola di un tal giuramento è frequentemente espressa nelle Scritture con quelle parole: Vivo io, vale a dire, per la vita, che io ho essenzialmente, e necessariamente io giuro, ec. Similmente quelle parole: ogni lingua (per me) giurerà, le ha cambiate Paolo con quelle: mi confesserà Dio: spiegando il senso di Isaia: imperocchè suole nelle Scritture per giuramento intendersi tutto il culto, che a Dio si rende, perchè la sovrana potenza di Dio sopra degli uomini è riconosciuta col giuramento, che si fa nel nome di lui. Or in queste parole si ha una magnifica dimostrazione della divinità di Gesù Cristo, non potendosi dubitare dopo l'applicazione, che ne ha a lui fatta l'Apostolo, che egli stesso non sia, che in tal guisa parlò per bocca di Isaia; Vivo io, dice il Signore, tutte le creature si soggetteranno a me, e mi adoreranno, e tutte le nazioni varie di lingue, e di fa vete mi confesseranno Dio. La qual profezia sarà in tutta la sua pienezza adempiuta nel futuro giudizio, allora quando tutti gli uomini saranno soggetti a Cristo, e alla sovrana sua podesta, i buoni volontariamente, i cattivi necessariamente, e contro lor voglia, mentre nel tempo presente non veggiano ancora, che tutte le cose a lui sieno soggette (Heb. XI. 8.).

14,12:Ognun di noi .... renderà di sè conto a Dio. Ciascheduno sarà giudicato da Cristo intorno alle sue proprie azioni, non sopra le altrui. Imperocchè quantunque si dica, che i superiori, per esempio, saran giudicati sopra le azioni de' loro inferiori, il vero però si è, che esattamente parlando dee dirsi, che saran giudicati intorno a quello, che hanno fatto, o non fatto riguardo all'obbligo, che avevano di ben governarli.

14,13:Non ci giudichiamo ... più gli uni gli altri. Niuno adunque si faccia lecito omai di giudicare il proprio fratello, vale a dire di condannarlo, e tenerlo per reo nelle cose, che non sono evidentemente contrarie al volere di Dio, che questo è quel giudizio, che chiamasi temerario.
Ma piuttosto vostra sentenza sia, che non ponghiate in ciampo, ec. Che se pur vi piace di giudicare intorno a' vostri fratelli, il giudizio, e la sentenza, che io vi propongo, si è, che non dovete dare ad essi occasione di inciampo, o di scandalo. Con molta acutezza l'Apostolo trafigge la malignità di coloro, i quali si affaccendano per trovar materia di biasimo ne' prossimi loro, e niun riflesso mai fanno sopra la grande obbligazione di non iscandalizzare il fratello. Una stessa cosa significano inciampo, e scandalo, ed è dall'Apostolo usata questa repetizione per meglio inculcare la gravezza del male, che fassi in dare al prossimo occasion di caduta.

14,14:Io so, e hofidanza nel Signore Gesù, che non v'ha cosa impura di per se stessa. Io so, e ho ferma opinione (perchè così mi ha insegnato Gesù Cristo), che niuna cosa è impura, o immonda per sua propria natura. Sopra di che è da osservare che gli Ebrei, i quali per la maggior parte il vero uso ignoravano delle cerimonie legali, portavano altamente radicata questa opinione, che i cibi proibiti nella legge immondi fossero per se stessi, e per tal ragione proibiti, e non (come era in verità) che immondi fossero, perchè erano proibiti. E che essi così si pensassero, manifestamente apparisce dal vedere, come da essi erano riputati impuri e immondi i Gentili, i quali di tali cibi mangiavano, benchè non avesser questi ricevuta la legge, in cui tal proibizione era stata intimata. L'Apostolo per lo contrario dichiara (e con l'autorita avuta da Cristo il dichiara), che tutte le cose uscite dalle mani del Creatore supremo sono pure per se medesime, e monde.
Eccetto che per chi tiene, ec. Niuna cosa è impura per se stessa, ma accidentalmente può avvenire, che alcuna cosa per un uomo divenga impura, ed è ciò per colui, il quale con erronea coscienza crede, che quella tal cosa sia impura, e che mangiandone contrarrà immondezza, e pecchera. Or questi, che così pensa erroneamente, è pur tenuto ad astenersi, e mangiandone farà peccato, perchè le azioni dell'uomo la loro estimazione traggono dalla volontà dell'uomo: onde, chi vuole, per esempio, mangiare di ciò, che crede proibito da Dio, benchè fal samente lo creda, vuole offendere Dio, e lo offende.

14,15:Ma se per un cibo il tuo fratello resta conturbato, ec. Il Gentile poteva qui rispondere all'Apostolo: se niuna cosa è immonda per se stessa, perchè non potrò io di qualunque cosa cibarmi? Ma risponde l'Apostolo: tu il puoi assolutamente parlando; nolpotrai però, ove venga ad essere offesa la carità,perchè diasi al fratello occasione di scandalo. Ponghiamo, che il tuo fratello Giudeo vedendoti mangiare di un cibo, che egli crede pur proibito, giudichi, che tu faccia peccato in mangiandone, e se ne affligga, o anche ne prenda ira, e avversione contro di te; già tu mangiando di quel cibo, dal quale puoi astenerti, offendi la carità, per la quale se' tenuto a fare pel fratello quello che per te vorresti, che fosse fatto, e a preferire la quiete del fratello a qualunque cibo, e a sopportare la sua soverchia timidità di coscienza, e la sua ignoranza.
Non volere per il tuo cibo mandar in rovina ec. Credi tu, che ciò facendo, piccolo e leggero sia il male, che tu commetti? Guarda, dico io, che per volere liberamente usare di ogni e qualunque cibo, tu se' occasion di rovina a un fratello, per cui Cristo ben'altro fece, che quello che or si chiede da te, mentre por lui sofferse Cristo la morte. Manda adunque secondo l'Apostolo, quant'è da sè, in perdizione il suo prossimo, chi le occasioni di peccare gli somministra.

14,16:Non sia adunque bestemmiato il bene nostro. Non si dia adunque occasione, che sia bestemmiata, cioè vi tuperata e calunniata la libertà, che abbiamo ricevuto da Cristo, la quale è un bene per se medesima; ma quando servir si faccia a divenire causa di scisme, e di divisioni, ne prenderebber motivo e gli infedeli, e i deboli di biasimarla, e di credere, che non per principio di religione, ma per licenza della carne, e in favore della gola introdotta siasi questa libertà di mangiar di ogni cosa.

14,17:Imperocchè il regno di Dio non è cibo, e bevanda: ma giustizia, ec. Regno di Dio chiama in questo luogo l'Apostolo quelle cose, mediante le quali Iddio regna in noi, e noi arriviamo al suo regno. Del numero di tali cose non è, dice l'Apostolo, il cibo, e la bevanda. Imperocchè, come dice s. Agostino: I figliuoli della sapienza ben sanno, che non nell'astinenza, ovvero nel mangiare consiste la giustizia, ma si nella rassegnazione, con cui la mancanza del necessario sopportasi, e nella temperanza, per cui l'uomo per la abbondanza non si corrompe, nè per l'eccesso in cibarsi, o in non cibarsi. Nè importa, quali alimenti, o quanti uno prenda (purchè osservi quel che si conviene secondo la qualità degli uomini. tra' quali vive, e della propria persona, e secondo l'esigenza della sua sanità), importa bensì, con qual libertà, e severità di spirito di questi si privi o allorchè conviene, o allor chè è necessario di esserne privo, quaest. Evang. lib. I. cap. XI. Il regno adunque di Dio è dentro dell'uomo, come dice Gesù Cristo, e consiste nella giustizia, cioè nella ferma volontà di rendere a ciascheduno quello che gli è dovuto, e nell'amor della pace e con Dio, e con gli uomini, e finalmente nel gaudio spirituale; quel gaudio, che è fondato nello Spirito santo, ed è effetto della carità diffusa dallo stesso Spirito ne' nostri cuori, dalla quale ne viene, che amiamo, e procuriamo la gloria di Dio, e il lbene de' prossimi. Queste tre cose, nelle quali dice l'Apostolo essere posto il regno, che debbe Dio avere in noi, le quali a Dio ci uniscono, non possono aversi da noi se non imperfettamente in questa vita; le avremo perfetta mente, allora quando si adempia quello che tutto giorno chieggiamo a Dio, dicendogli: Venga il tuo regno.

14,18:Chi in queste cose serve a Cristo, piace a Dio, ed è approvato dagli uomini. Chi a Cristo, che è il nostro Re, serve vivendo nella giustizia, nella pace, e nel gaudio dello spirito, piace a Dio, perchè promuove il suo regno, ed è approvato dagli uomini, perchè, con essi mantiene l'unione e la pace. E parla certamente l'Apostolo di quegli uomini, i quali nello stesso regno hanno parte, cioè dei buoni.

14,19:Attenghiamoci adunque a ciò, che giova alla pace: e osserviamo ec. Per arrivare adunque al regno di Dio facciam tutto quel che è in noi per mantenere la pace, e studiamoci di praticare tutto quello, che è utile e a conservare il bene, che è in tutti noi, e ad accrescerlo.

14,20:Non volere per un cibo distruggere l'opera di Dio. Non volere per un cibo, per una cosa corruttibile, e di si poco momento corrompere, e guastare l'opera della grazia, vale a dire la carità, e la pietà del debole fratello.
Tutte le cose veramente sono monde: fa però male un uomo, ec. So anch'io, che tutte le cose e di loro natura, e per la permissione di Cristo sono pure; ma so ancora, che quando un uomo con detrimento spirituale del fratello mangia un cibo anche lecito, fa male, e pecca offendendo la carita.

14,21:Bene sta di non mangiar carne, e di non ber vino, nè cosa, ec. Niuno negherà, che cosa buona sa, e santa, e utile per la comune edificazione l'astenersi non solo da quel che era proibito nella legge, ma e dalle carni in generale, e anche dal vino, e da ogni altra cosa, per ragion della quale il tuo fratello venga ad inciampare, e scandalizzarsi, e indebolirsi vie più nella fede.

14,22:Tu hai la fede? Abbila presso di te dinanzi a Dio. Mi dirai forse, che tu hai la fede, la quale ti insegna esser lecito l'uso di qualunque cibo, e che vuoi far palese questa tua fede, mangiando di ogni cosa senza riguardo? Ma io ti dico, tieni pure costantemente questa credenza, che è vera, e retta; ma non voler farne uso imprudentemente con danno altrui: tienila in tuo segreto, e davanti a colui, cui i segreti tutti sono aperti, e palesi. Il Grisostomo, e s. Ambrogio per la parola fede intendono qui la intima persuasione della coscienza. Ma ciò, come ognun vede, non varia il senso.
Beato chi non condanna se stesso in quello, che elegge. Queste parole secondo l'opinione più verisimile risguardano (come il versetto seguente) il Giudeo convertito, il quale spinto o dall'esempio, o dall'intemperanza avesse contro la propria coscienza mangiato di alcuna di quelle cose, che credeva tuttor proibite. Costui eleggendo di far uso di un tal cibo contro la propria benchè falsa credenza, veniva a pronunziare sentenza controlli se stesso, e a condannarsi. Beato colui, che niuna cosa fa contro coscienza.

14,23:Chi fa distinzione, se mangia, è condannato; perchè non secondo la fede. Dimostra la verità della precedente proposizione. Chi fa differenza tra cibo, e cibo, perchè altri ne crede permessi, altri tuttor vietati, si condanna da se medesimo di peccato, se mangia, perchè opera non secondo la coscienza. Fede in questo luogo si può prendere per la coscienza, come abbiam fatto; e può anche prendersi nel suo ordinario significato per la virtù, che chiamasi fede. Imperocchè quello, che in universale insegna la fede, verbigrazia, che l'uso de' tali cibi è lecito, o illecito, la coscienza lo applica all'azione fatta, o da farsi: onde riman sempre lo stesso senso. Or tutto quello, che non è secondo la fede, è peccato. Tutto ciò, che si fa non secondo il dettame della coscienza, è peccato. Vedi il versetto 14.