Scrutatio

Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

Lettera agli Ebrei 4


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D'ippoichè i Giudei per l'incredulità non entrarono nella requie promessa, e vi rimane, che altri vi entrino, proccurar dobbiamo di non essere di essa privati, ma di esservi ammessi per mezzo della fede: come la parola di Dio è parola viva, ed efficace, e tutto penetra: come Cristo si fece infermo per compassione alle nostre infermità.

1Temiamo adunque, che per disgrazia abbandonata la promessa di entrare nella requie di lui, si trovi alcuno di voi restar indietro.2Imperocché noi pure abbiam ricevuto la buona novella, come anche quelli. Ma non giovò loro la parola udita, non contemperata con la fede delle cose udite.3Imperocché entreremo nella requie noi, che abbiamo creduto; conforme disse: come giurai nel mio sdegno: non entreranno nella mia requie e certamente compiute le opere dopo la fundazione del mondo.4Imperocché parlò egli del settimo giorno in un luogo in tal guisa: e si riposò Iddio il settimo giorno da tutte le opere sue.5E qui pure: non entreranno nella mia requie.6Dacché adunque vi resta, che alcuni entrino in essa, e quegli, a' quali fu da prima annunziata la buona novella, a motivo della incredulità non vi entrarono:7Stabilisce di nuovo un dato giorno, oggi, dicendo presso Davidde, tanto tempo dopo, conforme è stato detto di sopra: oggi se la voce di lui udirete, non vogliate indurare i vostri cuori.8Imperocché se Gesù avesse dato loro la requie, non avrebbe mai parlato in appresso di un altro giorno.9Rimanvi pertanto un sabatismo pel popolo di Dio.10Imperocché chi è entrato nel riposo di lui, si è egli pare preso riposo dalle opere sue, come Dio dalle proprie.11Affrettiamci adunque di entrare in quella requie: affinchè alcuno non cada in simile esempio di incredulità.12Imperocché viva è la parola di Dio, ed attiva, e più affilata di qualunque spada a due tagli; e che s' interna sino alla divisione dell'anima, e dello spirito, delle giunture eziandio, e delle midolle, e che discente ancora i pensieri, e le intenzioni del cuore.13E non havvi cosa creata invisibile nel cospetto di lui; e le cose tutte nude sono, e svelate agli occhi di colui, del quale parliamo.14Avendo adunque un pontefice grande, il quale penetrò ne' cieli, Gesù, Figliuolo di Dio, ritenghiamo la nostra confessione.15Imperocché non abbiam noi mi pontefice, il quale non possa aver compassione delle nostre infermità: ma similmente tentato in tutto, tolto il peccato.16Accostiamoci adunque con fiducia al trono di grazia: affin di ottenere misericordia, e grazia trovare per opportuno sovvenimento.

Note:

4,1:Temiamo adunque, che per disgrazia abbandonata la promessa ec. Fa passaggio l'Apostolo dalla figura al figurato, e dall'autorità riferita nel capo precedente ne deduce questa utilissima conclusione: se Dio disgustato con quelli, i quali non credettero, giurò, che non sarebbero entrati nella requie promessa, e di fatto non poterono entrarvi, noi pure abbiam ragion di temere, che abbandonata per incostanza, od infedeltà la promessa, che Dio ci ha fatta della sua beata ed eterna requie, alcuno di noi non resti indietro al principio della sua corsa; onde da tale eredità sia escluso. E si osservi come, secondo l'Apostolo, questo santo timore debbe averlo ogni Cristiano per sè, e l'un Cristiano per l'altro per effetto della mutua carità.

4,2:Noi pure abbiam ricevuto la buona novella, come anche quelli. Dimostra, che questa sollecitudine, e questo timore conviene allo stato nostro. Imperocchè a noi pure sono state annunziate delle promesse, come già a quelli; imperocchè quello, che fu ad essi annunziato e promesso, in un senso più sublime e spirituale figurava e rappresentava quello stesso, che a noi è stato svelatamente promesso pel Vangelo di Cristo; onde in certo modo lo stesso Vangelo ebbero quelli, che abbiam ricevuto noi.
Ma non giovò loro la parola udita, ec. Non giovò a quegli l'avere udito, perchè quello, cheudito avevano, non lo temperarono colla fede, non lo conversero in propria sostanza per mezzo della fede, nè con questa animarono le loro opere e la loro vita.

4,3-4:Entreremo nella requie noi, che abbiamo creduto; ec. Entreremo nella vera requie, in quella requie, che di Dio propriamente si chiama, noi, i quali con fede vi va e ubbidiente abbiam creduto al Vangelo, ed alle promesse di Cristo. Dimostra questa proposizione l'Apostolo con un argomento tratto dalle stesse parole del salmo XCIV. riferite nel capo precedente; imperocchè se l'ingresso nella requie di Dio è negato agli increduli, egli è adunque conceduto ai credenti, e per conseguenza anche a noi. Questo è quello, che vuol concluder l'Apostolo dalle parole, che qui ripete: Non entreranno nella mia requie.
E certamente compiute le opere dopo la fondazione del mondo. Secondo una lezione riportata da s.Tommaso queste parole leggevansi legate con quelle del versetto seguente in questo modo: E certamente compiute le opere dopo la fondazione del mondo parlò egli (lo Spirito santo) del settimo giorno in un luogo ec. E questa lezione rende un buonissimo e chiarissimo senso, al quale si accosta la versione Arabica, la quale porta: Imperocchè ecco che compiute le opere... parlò egli del settimo giorno in un luogo ec. Ma siccome e la Volgata, ed il greco sono perfettamente uniformi, bisogna perciò ricorrere ad altro spediente per trovare la necessaria connessione in questo ragionamento dell'Apostolo. Or il più semplice di tutti a me pare, che sia quello indicato dal lo stesso s. Tommaso, che è di sottintendere ripetuto nelle sopraddette parole di questo versetto quello che si ha al principio del versetto secondo: Noi pure abbiam ricevuto la buona novella; onde il ragionamento sarà tale: E certamente compiute le opere dopo la fondazione del mondo fu annunziata a noi pure la buona novella; imperocchè parlò egli ec. A noi pure fu annunziata la promessa di una requie spirituale, e dove mai? In quello stesso luogo, dove di Dio fu detto, che egli riposò il settimo giorno da tutte le opere sue, Gen. II. Sopra queste parole è da osservarsi in primo luogo, che siccome di Dio non si può parlare agli uomini se non per mezzo di immagini sensibili, e siccome in tutte le opere sensibili è indispensabile il moto, ed ogni azione di un qualche movimento porta l'idea; così dicesi, che Dio si riposò, che vuol dire, cessò di muoversi, allora quando cessò di produr nuove creature. In tal maniera egli riposò, e, come nota s. Agostino, riposò non nelle sue opere (come sogliono fare gli uomini, i quali delle proprie opere si dilettano), ma dalle opere sue riposò in se stesso; conciossiachè di veruna opera non ebbe egli bisogno; nè minore sarebbe egli stato, oppur men beato, se alcuna non ne avesse mai fatta, nè più beato divenne per quelle, che egli creò, De gen. ad litt. Cap. XV. In secondo luogo il riposo di Dio era rappresentato dal riposo del settimo giorno, o sia del sabato, nell'antica legge. Ma il riposare, che fece Dio dopo le opere de' sei giorni, rappresentava la requie eterna riserbata ai santi dopo il tempo di questa vita, e dopo la fine de' loro travagli, e delle opere laboriose, per le quali a tal requie si arriva. Non adunque alla requie del sabato, nè alla nuda figura limitar si dovevano le speranze del popolo di Dio, dei veri fedeli, pe' quali lo stabilimento del settimo giorno fu un vero annunzio, ed una promessa di una vera spirituale eterna requie nel sen di Dio, in cui dalle fatiche e dalle affllizioni della mortalità trovin riposo.

4,5-7:E qui pure: non entreranno nella mia requie. Dimostra adesso l'Apostolo, come la stessa requie spirituale, ed eterna è annunziata anche nel salmo XCV. In esso dicesi in primo luogo, che non entreranno nella requie di Dio i disubbidienti e gl'increduli; dal che certamente risulta, che vi entrin coloro, i quali ubbidiranno, e saranno fedeli, la espressa esclusione degl'indegni essendo certo argomento, che avran parte a si gran bene coloro, che ne saran meritevoli; non entrarono per la loro incredulità i Giudei; vi entreranno adunque i Cristiani fedeli. In secondo luogo la requie, di cui si parla nello stesso salmo, non è la requie della terra di Canaan; imperocchè tanto tempo dopo il possesso, che sotto di Giosuè preser della medesima terra gli Ebrei, parla Davidde di questa requie come futura, dicendo: oggi se udirete, ec. Or quest'oggi significa tutto il tempo di questa vita; e questo tempo e questo giorno stabilito dallo Spirito Santo presso Davidde egli è il giorno di grazia e di misericordia per noi Cristiani, nel quale illuminati da Cristo siamo esortati ad udir con docilità la voce di Dio, che pel Figliuolo suo a noi parla, ovvero la voce dello stesso Cristo, che a tal requie c' invita, e i mezzi ci somministra per conseguirla.
Conforme è stato detto di sopra, cap. III. 7.

4,8:Se Gesù avesse dato loro la requie, ec. Se per la vera requie si fosse dovuto intendere il possesso della terra promessa, questa requie l'avrebbe procurata a' figliuoli d'Israelle quel Gesù, o Giosuè, il quale nella terra medesima gl'introdusse; ma in tal caso come parlerebbe cinquecento anni dopo lo Spirito Santo di un'altra requie, e di un altro giorno nel luogo citato? Di una diversa requie adunque si parla, di una requie molto più prege vole, perchè spirituale ed eterna, di cui e la requie nella terra promessa, e lo stesso riposo del sabato eran figura.

4,9:Rimanvi pertanto un sabatismo ec. Vi rimane a dunque la celebrazione di un nuovo sabato pel popolo di Dio. Ragionando l'Apostolo con gli Ebrei, si serve non solo di ragioni, ma anche di termini, ed espressioni convenienti alla loro maniera di pensare, e discorrere. La requie eterna era chiamata sabato non solo nelle Scrittu re, come Isai. LVIII. 13. LXVI. 13., ma anche nel comune loro linguaggio; onde solevan dire, che il tal salmo quel tempo, e quel giorno riguarda, che è un sabato continuo, e permanente. Richiama adunque agli Ebrei in memoria il mistero ascoso nella istituzione del sabato legale, e nei loro animi procura di accendere sempre più la brama di quel beato eterno riposo, a cui siam destinati; per la qual brama più forti divengano, e costanti nelle tribolazioni e nelle tentazioni, per le quali fa d'uopo di passare per giungere al possesso di si gran bene. Il popolo di Dio e gli è il popolo imitatore della fede di Giosuè, di Abramo, e degli altri patriarchi, il vero spirituale Israelle, in una parola il popolo cristiano.

4,10:Chi è entrato nel riposo di lui, si è egli pure preso riposo ec. Chiunque entra in quella requie, la quale è stata preparata da Dio pel suo popolo, si riposa dalle opere, e dalle fatiche in una perpetua beatitudine a somiglianza di quello, che fece Dio dopo le opere de' sei giorni. Questo è il motivo (dice Paolo), per cui sabatismo, e vero e perfetto sabatismo io chiamo quella requie beata.

4,11:Affrettiamoci adunque ec. Dopo di aver dimostrato, qual sia quella requie, che debbe esser l'oggetto della espettazione del popolo di Dio, ripiglia la sua esortazione incominciata nel versetto primo: studiamoci, dice egli, ed ogni opera ed industria impieghiamo, affin di entrare in quella requie, onde ad alcuno di noi non avvenga di cadere nell'errore e nella incredulità, di cui diedero quegli un pessimo esempio. Alludesi alla storia riferita nel libro de' numeri cap. XIV. e alla sentenza di Dio, per la quale i mormoratori, e gli increduli furono privati della consolazione di goder la terra promessa, e condannati a morir nel deserto. Bisogna correre, e correre a tutta forza: colui, che corre, non bada nè a' prati, che sono all'intorno, nè agli amici, ne agli spettatori, ma alla palma; muri non si arresta, e vicino alla meta non rallenta, anzi accelera il corso. Cosi noi quanto più invecchiamo, e ci accostiamo al cielo, tanto più dobbiam correre, e con maggior lena, Grisost. Hom. VII. Heic.

4,12:Imperocchè viva è la parola di Dio, ed attiva, ec. E abbiamo certamente motivi grandi di temere; imperocchè ec. Alcuni Padri per questa parola di Dio intendono lo stesso Verbo di Dio, il Figliuolo di Dio Gesù Cristo. Altri intendono la parola del Vangelo, e particolarmente le promesse, e le minacce di Dio fatte agli uomini nello stesso Vangelo: così il Grisostomo, Teodoreto e lo stesso s. Ambrogio, lib. III. de virgin. cap. VII., il quale in altri luoghi, di Cristo espone queste parole. E certamente non può negarsi, che questo versetto lega meglio col precedente in questa sposizione, che nella prima. Nel linguaggio delle Scritture la parola di Dio è sovente rappresentata come un essere animato, attivo, potente, vendicatore, che tutto vede, che tutto penetra. La parola di Dio adunque primieramente chiamasi viva da gli effetti, che opera in color che l'ascoltano. Vedi Phi lip. 11. 16. Jo. VI. 63. Rom. I. 16.; lo che ancor meglio si spiega col dirla efficace; onde dice Dio per Isaia, Lv. II.: la parola, che uscirà dalla mia bocca, non ritornerà a me senza frutto; ma opererà tutto quello, che io ho voluto. In secondo luogo si dice più affilata d'una spada a due tagli; e con ciò la forza di lei si rappresenta, per cui i cuori degli uomini penetra potentemente non solo per illuminarli, ma ancor per convincerli, e condannarli come un giudice, il quale i più occulti misfatti disamina, e severamente gastiga. Quindi in terzo luogo la parola nelle più astruse, ed ascoseparti dell'uomo penetra, e s' interna, e i più piccoli moti dello spirito, e dell'anima distingue, le opere del medesimo spirito discernendo dalle opere della carne, e severamente giudicando i più minuti pensieri, e le più segrete intenzioni del cuore umano.
Anima, e spirito la stessa cosa significano in questo luogo. La parola è qui perpetuamente paragonata alla spada, come Ephes. VI. 17., e siccome la spada materiale tutte penetra, e discioglie le parti del corpo umano, e le più forti, e le più intime; così la parola di Dio nei più cupi nascondigli dell'anima porta la sua luce, e la sua virtù, e tutte le interne operazioni disamina, il buono dal reo ne distingue, e l'apparente dalla vera giustizia discerne.

4,13:Le cose tutte nude sono, e svelate agli occhi di colui, del quale parliamo. Nissuna creatura può sottrarsi allo sguardo del suo creatore, e tutte le cose sono manifeste, e patenti dinanzi a colui, del quale noi parliamo; ovvero (come espone il Grisostomo) a cui, come giudice di tutti gli uomini siamo per render conto di tutte le nostre opere, cioè al Figliuolo di Dio. Act. X. 42., 2. Cor. V. 10.

4,14:Avendo adunque un pontefice grande, ec. Ha finora esortati gli Ebrei a camminare sollecitamente verso la requie di Dio, sul riflesso principalmente dell'ubbidienza, che deesi alla parola del Signore, ed a Cristo scrutatore di tutti i cuori, e giudice di tutti gli uomini; viene adesso a dar peso alla stessa esortazione, proponendo a considerare il sacerdozio del medesimo Cristo, il quale essendo stato di sopra paragonato con Mosè, si paragona adesso tacitamente con Aronne. Abbiamo adunque un pontefice, pontefice grande, perchè il di lui sacerdozio non ha solamente per oggetto i beni della vita presente, ma quelli della futura, a' quali aspiriamo (inf. cap. IX.); grande, perchè non solo è entrato nel sancta sanctorum, come i pontefici della legge portando il sangue degli animali, ma per mezzo del proprio sangue, e per sua propria virtù ha penetrato la più sublime parte dei cieli, quasi a noi facendo la strada; grande finalmente, perchè Figliuolo di Dio e Figliuolo unigenito, non servo, o ministro. E tale essendo il pontefice, che noi abbiamo, ritenghiamo con tutto l'affetto del cuore la fede, che abbiam professata, la quale è il principio delle nostre speranze.

4,15:Non abbiam noi un pontefice, il quale non possa aver compassione ec. Ma la grandezza medesima, e la infinita dignità di questo pontefice servir potrebbe piuttosto a intimidire, e allontanare da lui noi, che siam deboli, infermi, e per la condizione di nostra natura fragili, e inclinati al peccare. A questa obbiezione risponde l'Apostolo dicendo, che il nostro pontefice quantunque sì grande, e si elevato in ogni santità e virtù divina, non è però tale, che non sia propenso a sovvenirci, e pronto a sollevarci in ogni tempo nelle nostre miserie e tenta zioni, egli, il quale nelle tentazioni medesime volle essere in tutto e per tutto simile a noi, e conoscere a prova le nostre miserie, eccetto però qualunque movimento di peccato.
Tutte le tentazioni di Cristo furono, come dice s. Gregorio, al di fuori, e non nell'interno; imperocchè non fu in Cristo giammai quella, che è in noi, discordanza, e contrarietà tralla carne, e lo spirito: del rimanente questo nostro Re (come dice s. Agostino), il quale a noi mostrò l'esempio di pugnare e di vincere, prendendo sopra la sua carne mortale i nostri peccati, fu tentato dall'inimico, e cogli allettamenti, e co' terrori, lib. VI. 83. q. q. 61.; imperocchè in tutto volle egli esser tentato, perchè noi siamo tentati; siccome morir ei volle, perchè noi muoiamo, In ps. XC. Or l'essere stato tentato, inchinevole lo rende ad aver compassione di noi, che siamo tentati; e l'essere stato tentato, senza che fosse morso giammai dal peccato, dimostra, che egli è potente a soccorrerci efficacemente; la qual cosa non potrebbe mai fare un pontefice, il quale non solo alla tentazione, ma anche al peccato fosse soggetto. Un tal pontefice ben lungi dal poter soccorrer altrui, di soccorso avrebbe bisogno egli stesso per superare il peccato.

4,16:Accostiamoci adunque con fiducia ec. Conclusione evidente e giustissima delle grandi verità esposte nei due precedenti versetti. Accostiamoci non con un cuore timido, e ristretto, ma con libertà di spirito, e con santa fiducia a Cristo (il quale è talmente nostro pontefice, che è insieme nostro Re, e Signore), accostiamoci al trono di grazia, su di cui egli siede, per ottenere la misericordia, per cui siam liberati dal peccato, e ricever la grazia, la quale a bene operare ci aiuti con sovvenimento sempre opportuno, perchè sempre necessario, nissun tempo essendovi nella vita dell'uomo, in cui di tal soccorso non abbia egli bisogno.