Scrutatio

Mercoledi, 24 aprile 2024 - San Fedele da Sigmaringen ( Letture di oggi)

Apparizioni di Cristo


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1. Le apparizioni nella Bibbia costituiscono uno dei modi della rivelazione di Dio. Attraverso esse si rendono presenti in modo visibile gli esseri che, per natura, sono invisibili agli uomini. Nel VT, Dio appare in persona («teofania»), manifesta la propria gloria, o si rende presente tramite il suo angelo. A queste apparizioni si collegano su scala inferiore le apparizioni di angeli o i sogni. Il NT riferisce di apparizioni dell‘angelo del Signore o degli angeli, in occasione della nascita di Gesù (Mt 1-2; Lc 1, 11. 26; 2,9) o della sua risurrezione (Mt 28, 2 ss; Mc 16,5; Le 24,4; Gv 20,12), per dimostrare che in questi momenti culminanti dell‘esistenza di Cristo, il cielo è presente sulla terra. In questo, il NT è il prolungamento del VT. Ma lo oltrepassa in modo decisivo, quando si astiene dal riferire delle teofanie, perché non è possibile definire con questo termine la trasfigurazione (Mt 17, 1-9 par.) e neppure l‘avanzata sul mare (14, 22-27 par.), sebbene allora traspaia l‘essenza misteriosa di Gesù. Infatti, è intervenuto un cambiamento radicale, che Giovanni esprime in questo modo: «Dio, nessuno l‘ha mai visto; il Figlio unico che è nel seno del padre, è lui che l‘ha fatto conoscere» (Gv 1, 18). Come? Con la sua sola esistenza. «Chi vede me ha visto il Padre» (14, 9; cfr. 12, 45); Dio è apparso in Cristo. Il grande mistero si è così rivelato (efanèrothe) (1 Tim 3, 16), «il giorno in cui apparvero (epèfane) la bontà di Dio nostro salvatore e il suo amore per gli uomini» (Tito 3, 4). Noi attendiamo soltanto «l‘epifania della sua gloria» (2, 13), al momento della parusia. Quest‘ultima apparizione sarà come il lampo (Lc 17,24). Allora, essa non avrà più come oggetto il testimone che Stefano vide «in piedi alla destra di Dio» (Atti 7, 55), ma il giudice «seduto alla destra della Potenza» (MT 26, 64 par.). Manifestatosi infine, Cristo renderà pure noi manifesti «con lui pieni di gloria» (Col 3, 4), perché «apparirà tura seconda volta.., a coloro che lo attendono in vista della salvezza (Ebr 9,28) e conferirà loro «la corona di gloria immarcescibile» (1 Piet 5, 4). «Al momento di questa manifestazione noi saremo simili a lui, perché lo vedremo qual è» (1 Gv 3,2). Tra le teofanie del VT e la parusia futura, si inseriscono le apparizioni di Gesù risorto che al tempo stesso ricapitolano la esistenza anteriore di Gesù di Nazareth e ne anticipano il ritorno.

2. Le diverse apparizioni di Cristo. - L‘elenco più antico è fornito da Paolo nell‘anno 55, muovendo da una tradizione che aveva ricevuto molto tempo prima e che in seguito (verso il 50) aveva trasmesso ai Corinti (1 Cor 15, 3 ss). Secondo questa antica confessione di fede, Cristo è apparso a Cefa, ai Dodici, a più di cinquecento confratelli, a Giacomo, a tutti gli apostoli e infine a Paolo. Di questa lista, i vangeli contemplano solo le prime due apparizioni: a Simone (Lc 24,34), nonché agli Undici (Mt 28, 16-20; Mc 16,14-18; Gv 20,19-29) ai quali si uniscono alcuni altri discepoli (Lc 24, 33-50); in compenso, riferiscono delle apparizioni a dei privati: Maria e le donne (Gv 20,11-18; MT 28,9-10; Mc 16,9-11), i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35; Mc 16, 12 s), i Sette sulle rive del lago (Gv 21, 1-23). Queste diverse apparizioni possono essere riportate a dite tipi, a seconda che siano destinate al collegio apostolico o ai discepoli in generale: le apparizioni ufficiali, i cui resoconti puntano soprattutto sulla ? ?`missione che sta alla base della Chiesa, e le apparizioni private la cui narrazione si interessa innanzitutto al riconoscimento di colui che appare.

3. Né apocalisse, né cronaca. - I racconti evangelici non consentono di venir catalogati nel genere apocalittico: nessuna insistenza sulla gloria, nessuna rivelazione di segreti, niente messa in scena straordinaria, ma la vicinanza familiare e la missione. Una novità del genere nella descrizione presuppone un‘esperienza originale unica, tale da trasformare quello che il linguaggio apocalittico, pur tuttavia preoccupato di descrivere le cose celesti, si sforzava di esprimere. I narratori non hanno inteso neppure redigere una cronaca biografica delle apparizioni del risorto. E‘ impossibile coordinare i racconti nel tempo e nello spazio. Il concordistno, che vuole in ordine successivo le apparizioni a Gerusalemme nel giorno di Pasqua (Lc, Gv) e l‘ottavo giorno (Gv), poi in Galilea (Mt, Gv), e di nuovo a Gerusalemme per l‘ascensione, tenta un‘armonizzazione inaccettabile, perché sacrifica dei dati letterari sicuri. Secondo Lc 24, 49, i discepoli devono restare a Gerusalemme fino al giorno della Pentecoste: il che esclude ogni possibilità di apparizioni in Galilea. Viceversa, Mt e Mc dicono che l‘incontro è fissato in Galilea. Non è possibile far concordare queste topografie divergenti; lo stesso vale per la cronologia: i «molti giorni» di cui parla Atti 1, 3 sono in antitesi con Lc 24, che colloca chiaramente l‘ascensione al giorno di Pasqua, e in antitesi anche con Gv 20 che presenta il dono dello Spirito nel giorno stesso di Pasqua, salvo riferire di una ulteriore apparizione al lago di Tiberiade (Gv 21). Una costruzione letteraria artificiosa caratterizza sia Luca (concentrazione a Gerusalemme in un giorno) che Giovanni (distribuzione del racconto secondo lo schema di una settimana). Gli evangelisti non hanno neppure voluto lasciarci delle «foto-ricordo»: i particolari (ad es. porte chiuse, palpazione del corpo...) non devono venir considerati indipendentemente dalla totalità del mistero di cui vogliono rendere un aspetto.

4. Iniziativa, riconoscimento, missione, sono i tre aspetti comuni a tutti i racconti, che permettono di penetrare concretamente nell‘intendimento degli autori.

a) Mostrando che Gesù interviene personalmente presso o in mezzo a gente che non se l‘aspetta, gli evangelisti (salvo Lc 24, 34) vogliono dimostrare che non si tratta di un‘invenzione soggettiva degli interessati, originata da una fede esasperata o da una fantasia sbrigliata. Questo tema dell‘iniziativa del risorto (che a suo modo esprime il verbo ofthe, «si è fatto vedere», nella lista di 1 Cor 15) sta a significare che i racconti di apparizioni descrivono esperienze realmente vissute dai discepoli. Questo aspetto dei racconti corrisponde ai modi di vedere della predicazione primitiva: Dio è intervenuto per risuscitare Gesù, gli ha concesso di mostrarsi vivo dopo la morte. La fede è una conseguenza di questo incontro.

b) Seconda caratteristica, il riconoscimento. I discepoli scoprono l‘identità dell‘essere che si impone loro; è quel Gesù di Nazareth di cui hanno conosciuto la vita e la morte. Lui che era morto è vivo. In lui, si compie la profezia. In un certo qual modo, non hanno più nulla da «vedere», in futuro, perché è stato loro dato tutto nel risorto. Il modo in cui avviene questo riconoscimento è progressivo: nell‘uomo che viene verso di loro, i discepoli vedono in un primo tempo un personaggio comune, un viaggiatore (Lc 24, 15 s; Gv 21, 4 s), un giardiniere (Gv 20, 15); poi riconoscono il Signore. Questo riconoscimento è libero, perché secondo il tema dell‘incredulità, che fa parte del complesso della tradizione (Mt 28, 17; Mc 16,11. 13 s; Lc 24,37.41; Gv 20,25-29), essi avrebbero potuto rifiutarsi di credere. Infine, poiché il Signore in genere appare ad un gruppo di persone, ne viene facilitata la verifica. Per elaborare dal punto di vista letterario questo dato fondamentale, i narratori hanno voluto mettere in evidenza contemporaneamente due aspetti. Il risorto è sottratto alle normali condizioni della vita terrena come Dio nelle teofanie del VT (Gen 18,2; Num 12, 5; Gios 5,13; 1 Cron 21, 15 s; Zac 2, 7; 3, 5; Dati 8, 15; 12, 5...) appare e scompare a suo piacere. D‘altra parte, non è un fantasma; di qui l‘insistenza sui contatti sensibili. Questi due aspetti devono essere presi in considerazione simultaneamente se non si vuole incorrere in errore. Il corpo del risorto è vero corpo, ma, per dirlo con S. Paolo in una formula apparentemente paradossale, è un «corpo spirituale» (1 Cor 15, 44-49), perché è un corpo trasformato dallo Spirito (cfr. Rom 1, 4).

c) Un terzo aspetto, di ordine uditivo, caratterizza il racconto. Riconoscendo il Signore, i discepoli anticipano la visione che sarà prerogativa del cielo; con l‘ascolto della parola, sono riportati alla condizione terrena. Odono così la promessa di una presenza eterna (Mi 28,20) e l‘invito a continuare l‘opera di Gesù in una missione propriamente detta (MI 28,19; Mc 16,15-18; Lc 24,48s; Gv 20,22s; cfr. Mt 28,10; Gv 20,17). La presenza di Gesù non è statica, ma missionaria. Questi tre aspetti devono rimanere in rapporto dinamico. Il presente è senza posa rinnovato dall‘iniziativa del risorto; il discepolo è invitato ad assumere il passato nella persona di Gesù di Nazareth, che lo incita allora a costruire l‘avvenire che è la Chiesa-

5. L’apparizione a Paolo ha un posto a parte (Gal 1, 12-17; Atti 9, 3-19 par.). Paolo la colloca allo stesso livello delle altre apparizioni: come i discepoli, egli ha visto il Signore vivo. Distingue così il fatto di Damasco dalle semplici visioni (horama) che avrà in seguito (Atti 16, 9; 18, 9; 23, 11; 27,23). Quest‘apparizione è interpretata come una missione affidata a Paolo (Gal 1, 16), non con la mediazione di un uomo qualsivoglia (1, 1; cfr. Atti 9, 6; 22, 15), ma in modo diretto (Atti 26, 16 ss). L‘ha costituito apostolo (1 Cor 9, 1), ma non l‘ha tuttavia assimilato si Dodici. Questi, sotto i tratti del risorto, hanno riconosciuto Gesù di Nazareth col quale avevano vissuto (cfr. Atti 2,21 s), e, sulla parola di Cristo, hanno costituito la Chiesa. Paolo, invece, non conosceva Gesù se non attraverso la Chiesa che andava perseguitando; e questo significa due cose. L‘apparizione di cui beneficia non è all‘origine della Cihesa; è orientata non verso il Gesù pre-pasquale, ma verso la Chiesa già esistente. Per tali motivi, e anche perché Luca lo colloca dopo l‘ascensione, essa, conformemente al linguaggio di Paolo (apokalypsai: Gal 1, 16), viene presentata in uno stile apocalittico: luce, voce, gloria, conferiscono alla scena un tono sostanzialmente diverso da quello delle apparizioni familiari destinate agli Undici. Tuttavia, malgrado queste differenze, Paolo ha catalogato questa apparizione tra quelle che contrassegnarono i quaranta giorni.

6. Il fatto e il linguaggio. - Per interpretare correttamente il linguaggio al quale gli evangelisti ricorrono per riferire l‘esperienza pasquale, devono essere rispettate due condizioni. Alla base, si trova un avvenimento che deve essere definito escatologico; poiché la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita terrena, ma l‘accesso alla vita che non conosce più la morte (Rom 6, 9), l‘avvenimento delle apparizioni trascende il quadro nel quale viviamo e le categorie per mezzo delle quali ci esprimiamo: è di per sé indicibile. D‘altra patte, si tratta nello stesso tempo di uh‘esperienza reale dei discepoli, che ebbe luogo nel nostro tempo e fa parte della conoscenza storica. Conviene perciò guardarsi da due eccessi. Dal momento che la risurrezione non è un mito, non si deve «mitizzare» il linguaggio delle apparizioni: questo equivarrebbe inevitabilmente a ridurre la presenza di Cristo a quella di un qualsiasi eroe sopravvissuto nella memoria dei suoi ammiratori. Per evitare un eccesso del genere, per non ridurre le apparizioni a un‘esperienza puramente soggettiva, non bisogna neppure cadere nell‘eccesso opposto e reputare necessario dichiarare che l‘oggettività dipende esclusivamente dall‘ordine sensibile, spaziotemporale. Immaginare il contatto stabilito dal risorto con i suoi discepoli sulla falsariga di quello che avrebbe potuto essere il contatto di Lazzaro risuscitato che ritrova i suoi, significherebbe misconoscere il carattere unico della risurrezione di Gesù; non basta aggiungere qualche ritocco al concetto che ci si fa di un corpo rianimato: un confronto del genere porterebbe a conferire un valore indebito ai particolari materiali dei racconti. In effetti, l‘esperienza dei discepoli, non esclusivamente soggettiva, ripetuta, condivisa, è stata comunicata tramite il linguaggio ambientale e la tradizione religiosa, in particolare con l‘aiuto della loro fede nella risurrezione collettiva alla fine dei tempi. Se si vuole evitare di assimilare il contatto con il risorto con quello che si può avere quaggiù con un uomo, basta far riferimento alla triplice dimensione che i racconti manifestano. Per iniziativa del risorto, i discepoli sono preservati dall‘illusione che li porterebbe a dubitare dell‘autenticità del loro incontro con il vivente; «vedendolo», collegano questa esperienza al passato che hanno vissuto; udendolo, fanno fronte all‘avvenire. Nel rapporto tra queste tre dimensioni, risiede appunto il segreto della presenza di Cristo vivente oggi.

7. «Beati quelli che credono senza vedere!» (Gv 20, 29). - Attraverso l‘incredulità di Tommaso, Giovanni ha presente i futuri credenti. La loro situazione infatti non è paragonabile da tutti i punti di vista a quella dei primi testimoni. Certo, i vangeli suggeriscono che anche i discepoli dal canto loro non avrebbero dovuto aver bisogno delle apparizioni: sarebbe dovuto bastare l‘annuncio (Mc 16,13), e la comprensione stessa delle Scritture avrebbe dovuto avviare i discepoli alla fede nella risurrezione (Gv 20,9). In un certo senso, le apparizioni rispondono alle esigenze di una fede ancora imperfetta. Tuttavia, in un altro senso, furono necessarie e hanno una portata unica, quella che gli evangelisti hanno sottolineato descrivendo le apparizioni dei quaranta giorni. Quelli che avevano vissuto con Gesù di Nazareth dovevano essere i testimoni unici e privilegiati di Gesù il Cristo. Occorreva radicare storicamente il punto di partenza della fede cristiana e della Chiesa. Così si può dire che i discepoli hanno visto il Signore vivente, in una esperienza storica: senza dubbio nel corso di un pasto comunitario, di una passeggiata, di una pesca... Di colpo sono stati a contatto con il Cristo vivente. Concedendo loro di riconoscere Gesù, Dio ha donato loro la fede: questa fede è quindi, in certo qual senso, conseguenza dell‘aver visto. La situazione cambia per i credenti che non sono dei testimoni privilegiati. Per quanto riguarda loro, non hanno visto quel che hanno visto i discepoli, però sanno che questi l‘hanno visto. Il credente conosce il significato delle apparizioni solo attraverso la predicazione attuale fatta dalla Chiesa, corpo di Cristo. Si ritrova la triplice dimensione della presenza del risorto, ma trasposta. L‘iniziativa proviene sempre da Dio, e più precisamente dal risorto, ma oggi egli parla attraverso la predicazione attuale. Gesù di Nazareth si fa riconoscere, ma attraverso l‘esperienza storica dei primi testimoni. Il Signore invia in missione, questa volta in diretta continuità con la missione apostolica. Il risorto è quindi oggi ancora presente (Mt 28,20), ma con la mediazione della Chiesa vivente, suo corpo; e si fa sempre «riconoscere dalla frazione del pane» (Lc 24, 35).

Autore: X. Leon Dufour
Fonte: Dizionario di Teologia Biblica