Scrutatio

Venerdi, 26 aprile 2024 - San Marcellino ( Letture di oggi)

Chiesa


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Premessa. Questo contributo non risponde né all'esigenza del trattato De Ecclesia, né dell'indagine monografica su qualche tematica o problematica ecclesiologica. E soltanto un'analisi del lemma nell'ottica generale della mistica. Di questa presuppone un'adeguata conoscenza. Dovendo illustrare il rapporto C. mistica, il suo riferimento va ovviamente alla mistica cristiano cattolica. Riferimento ineccepibile, oltre che illuminante e relativamente nuovo: non sempre infatti, o non adeguatamente, la teologia spirituale ne ha tenuto conto.
Anche della C. si presuppone una conoscenza globale, dovendo qui limitarne l'analisi a quella parte (Corpo mistico, mistero, comunione, santità) che più da vicino riguarda la mistica. Si studierà pertanto la C. entro i limiti indicati, quindi la mistica come vocazione cristiana ed, infine, la mistica nella sua relazione alla C. In via preliminare va qui precisato che « non è in esame una qualunque esperienza mistica, né una qualunque teoresi di essa, né una qualunque religiosità, pubblica o privata. In esame non è nemmeno una qualunque delle innumerevoli chiese, ma la C. cattolica. Di conseguenza, la mistica della quale si parlerà è soltanto quella di matrice cattolica. Non si nega con ciò la possibilità di esperienze mistiche in ambiti non cattolici, ma s'intende definire metodologicamente l'estensione del presente contributo.

I. La definizione della C. come « società dei veri cristiani che professano la stessa fede, fanno uso degli stessi mezzi salutari ed obbediscono agli stessi legittimi pastori », elementarmente ineccepibile, coglie della C. quella rilevanza estrinseca che si concreta nella sua istituzionalità e per la quale è sacramento universale di salvezza. Lascia però in ombra tanto la genesi della C. da Cristo, quanto il suo complesso mistero; cioè proprio quel che non deve restar in ombra. A tal fine, le fonti a disposizione sono quelle neotestamentarie nel loro duplice valore di rivelazione divina (conoscenza soprannaturale) e d'attestazione storica (conoscenza naturale, scientifica). Ne discende che un uso onesto di esse non dovrà mai prescindere dalla loro natura, confinandosi in una trattazione puramente storico scientifica. Esse esigono una trattazione teologica. Tale non fu né quella liberale, né quella Formgeschichtlich (storico critica), né quella del recente Frühkatholizismus che, obliterando l'elemento soprannaturale della rivelazione, tutto incapsula in schemi preconcetti d'analisi storica. Staccata dal Cristo postpasquale, la C. diventa una sovrapposizione rispetto agli intenti di lui, che si sarebbe limitato a proclamare il regno di Dio. Tant'è che la testimonianza neotestamentaria non trasmetterebbe né parole di fondazione, né qualche sintomo di decisioni o almeno d'intenzioni, da parte di Cristo, di collegare gli effetti della sua opera salvifica con la presenza e l'azione d'una C. Chi legge l'Evangelo con gli occhi della fede sia pur senza pregiudizi per la scienza, perviene a risultati diametralmente opposti: la C. è voluta da Cristo, da lui fondata ed istituita. Per ciò essa non può esser diversa, nella sua sostanza, da quella che egli fondò e da come l'istituì. Tale conclusione non è impedita dal rarissimo ricorrere della parola C. (ekklesia, trad. greca dell'ebr. qahal, che Gesù probabilmente pronunciò qehala nella sua lingua aramaica, cf Mt 16,18; 18,17), ma dipende da non pochi indizi, che non sarebbe « scientifico » ignorare. E già poco attendibile il procedimento storico critico nella sua negazione di parole neotestamentarie riconducibili a Cristo come espressione della sua volontà di fondare la C. Di Mt 16,18 (un testo in passato molto discusso e perfino contestato) nessuno oggi mette in dubbio l'autenticità e storicità; il suo tenore aramaico ne conferma l'origine da Cristo e gli conferisce il carattere d'un suo loghion: la sua presenza in tutti i più antichi codici lo strappa all'alea del dubbio e dell'inverificabilità. Orbene, proprio in esso è evidente l'idea della fondazione (oikodomézo) e la C. ne è l'oggetto (ten ékklesian). Né meno importanti sono le prove indirette. R. Schnackenburg, mentre sottolinea la non estraneità della C. al momento postpasquale per avere il Risorto convocato ed atteso i suoi a Gerusalemme (cf Mc 16,7), parla anche dei « giorni terreni » di Cristo, caratterizzati dalla scelta dei Dodici « perché stessero con lui e per mandarli a predicare » (Mc 3,14; cf Mt 10,14; Lc 6,12 16). Si tratta di coloro che Cristo « chiamò Apostoli » (Lc 6,13) e che inviò prima ai figli d'Israele, quindi a tutte le genti (cf Mt 28,18; Rm 1,16), perché tutti ammaestrassero, santificassero, governassero (cf Mt 28,18 20; cf Mc 16,15 16; Gv 14,23). I Dodici assurgono, in tal modo, a vera istituzione, con poteri profetici, sacerdotali e disciplinari, ed il gruppo dei discepoli forma, attorno ad essi e con essi, il primo nucleo della C. nascente. In effetti, i discorsi missionari della prima parte degli Atti dimostrano che essa è già in atto quale Cristo l'aveva voluta. Ad essi si aggiunge la testimonianza di s. Paolo ed in special modo della 1 Cor e delle lettere dalla prigionia: documento inequivocabile della « C. di Dio » (1 Cor 11,22) che è in ciascuna delle comunità cristiane particolari, tutte amalgamate dal medesimo riferimento al Risorto, tutte unificate sia dallo Spirito di lui, sia dalla presenza di Pietro e dei Dodici. Se nel NT i Dodici sono la cellula fondamentale della « C. di Dio », non mancano contesti che ne comprovano la dipendenza genetica ed esistenziale dalla Parola e dall'azione di Cristo. Un solo esempio: la pericope dell'Ultima Cena (cf Lc 22,19 20; 1 Cor 11,23 25; At 27,35). Qui non solo è istituito il sacerdozio cattolico con l'ufficio di consacrare il Corpo ed il Sangue di Cristo Eucaristia, ma in parallelo è istituita la C. nella sua realtà di nuova alleanza (e kainè diathèke, Lc 22,20; 1 Cor 11,25) suggellata nel e dal sangue di Cristo (cf Ibid.). Una stretta connessione annoda l'ultima Cena ai fatti del Sinai (cf Es 19,24): qui si conclude l'alleanza (berîth) di JHWH con il suo popolo che nasce come tale in quel medesimo istante, là viene sancita la nuova alleanza e con essa la nascita del nuovo « Israele di Dio ». Al sangue dei giovenchi è sostituito il sangue dell'« Agnello che toglie i peccati del mondo » (Gv 1,29). L'alleanza del Sinai configura « un regno di sacerdoti, una gente santa », quella dell'Ultima Cena dà vita al popolo sacerdotale generato ed unificato dal nuovo sacrificio. La corrispondenza è impressionante: dà l'idea d'un processo perfettivo, d'una tensione escatologica dalla berîth sinaitica all'alleanza del mistero pasquale, dalla prefigurazione e dalla profezia al compimento e alla realtà. In questo contesto ha luogo l'investitura dei poteri sacerdotali con il conferimento del potere sul Corpo e il Sangue del Signore. Ma i precedenti sono vari e dilatano l'ambito dei poteri stessi. Operando « in persona Christi » (cf Mt 10,40; Lc 10,16; Gv 12,44 45), i Dodici potranno d'ora in poi predicare l'avvento del regno (cf Mt 10,7; Lc 10,9), scacciare i demoni (cf Mt 10,1; Mc 3,15; 6,7 13; Lc 9,15), rimettere i peccati (cf Gv 20,23). Sono mandati « in tutto il mondo » ad « ogni creatura » per tale scopo: una missione alla quale è assicurato l'avallo celeste: « Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo » (Mt 18,18; Gv 20,23). In Mt 28,18 è indicata senza equivoci la ragione di codesta investitura: « Mi è stato dato ogni potere (pasa exousia) in cielo e in terra. Andate, dunque (cun)... ». La forza del ragionamento sta tanto nella premessa, quanto nella conseguenza; quel « dunque » non si spiega senza la totalità dei poteri nelle mani di Cristo che ne compie la trasmissione. Ne discende che l'operato dei Dodici sarà quello dello stesso Cristo, espressione della sua stessa exousia. E che Cristo intendesse non già gratificare i Dodici per se stessi, ma provvedere alla vita e sopravvivenza della C. è dimostrato dal seguito delle sue parole: mediante la presenza dei suoi poteri egli sarà con loro « tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Dinanzi a tale e tanta chiarezza c'è solo un'osservazione da fare: per negare la dipendenza della C. da Cristo, bisognerebbe tracciare un segno di croce sulle parti più significative del NT, o negare ad esso ogni validità documentale. Forte di siffatta certezza, la coscienza cristiana ha spesso accreditato l'idea della C. che nasce dal costato trafitto del Crocifisso: « ex Corde scisso Ecclesia Christo iugata nascitur ». Così la liturgia, così alcuni Padri, così non di rado il Magistero. E un linguaggio radicato nel rapporto Cristo C., ma in qualche misura riduttivo. Il « Cuore squarciato » di Cristo richiama evidentemente il colpo di lancia infertogli dal soldato, di cui in Gv 19,34 35. In pari tempo, è per sineddoche un riferimento al sacrificio dell'Agnello di Dio inchiodato sulla croce del venerdì santo; ma anche al fatto sacramentale del giovedì santo, che anticipa « in mysterio » sia la tragedia del Golgota sia l'aurora pasquale della risurrezione. L'evento della salvezza tutt'intero è, dunque, da leggere ed adorare nella sopracitata espressione; ma soprattutto il nascere della C. dal cuore piagato del Signore significa affermarne e confermarne la dipendenza da lui.

1. Mistica identificazione tra Cristo e la C. Qualcosa, in tutto ciò, evadendo dal quadro documentale, si pone su un livello più alto. L'investitura dei poteri sacerdotali illumina la natura profonda della C., ben oltre i confini della sua fenomenicità e verificabilità. Cristo e la C. s'identificano misticamente; essa è il suo prolungamento storico, la sua proiezione spazio temporale e può parlare, pertanto, al posto suo, la sua Parola: « Questo è il mio Corpo, questo il mio Sangue; io ti battezzo; io ti assolvo ». Il carattere paradossale di tale realtà è fuori discussione: essa è un'associazione di uomini, non di angeli; ha le sue leggi e i suoi istituti, ma non si definisce in essi ed in ciò che ne traspare; la sua verità è oltre (para) il suo stesso fenomeno (dóxa). E invisibile nella sua visibilità, carismatica nella sua autorità, appartenente allo Spirito del Padre e del Figlio nella sua temporalità. E mistero. Realizza in sé quel mistero nel quale l'apostolo Paolo vede il piano della salvezza universale, concepito ab aeterno dal Padre, attuato dal Figlio nello Spirito Santo e consegnato alla C. Per quante riserve occorra fare sulla Mysterientheologie di O. Casel, va lui riconosciuto il merito d'aver ricostituito il binomio C. mistero come continuazione della missione del Verbo. In realtà, per l'analogia di costituzione che assimila la C. a Cristo, a essa va ricondotta quella ministerialità e strumentalità che è propria della natura umana di Cristo e che ne continua la missione salvifica. La C., pertanto, è come l'umanità di Cristo al servizio della salvezza, è suo organo. L'essere mistero è non un fatto statico, ma un impegno. Proprio perché mistero, la C. è sacramento, cioè segno e strumento della salvezza stessa. Si compie in essa, così, quel travaso che O. Casel e H. de Lubac costatarono nella semantica di mistero: verso il sec. IV, tutto il contenuto di mistero passò in quello di sacramento. Unità contenutistica, dunque, anche se mistero e sacramento si specificano sul piano formale: il mistero è un dono, è grazia; il sacramento è il gesto, il rito, la parola che l'esprime e lo realizza. Il mistero è; il sacramento avviene. Per questo il Vaticano II riaffermando la C. mistero, ne proclama la sacramentalità, perché costituita « segno e strumento », « un sacramento grande », una grande mediazione di salvezza in cammino verso il regno. Il discorso sulla C. mistero elude quello, puramente apologetico, di una ecclesiologia attenta più alle rilevanze esteriori che all'interiorità della C., ed è soprattutto un atto di fede nel mistero di Cristo: ne coglie, infatti, il prolungamento sacramentale e proclama la sacramentale « identità » fra Cristo e la C.

2. Questa è per tale motivo il suo mistico Corpo. Che si tratti d'una definizione o d'una metafora, una cosa è certa: si è qui dinanzi ad una delle più profonde verità cristiane, oltre che ad un'acquisizione ecclesiologica che non solo segna una direttrice di marcia, tra le più felici, alla riflessione teologica, ma apre anche luminose prospettive di vita e di crescita nella fede. Incrementa, infatti, una sensibilità autenticamente ecumenica che valorizza l'efficacia ecclesificante del battesimo e l'universale chiamata alla salvezza. La dottrina è già presente, almeno in nuce, nel quarto Vangelo ed è poi approfondita dall'apostolo Paolo. Mt 10,40 e Lc 10,16 unitamente ad At 9,4 5 la espongono come mistica identificazione di Cristo e dei suoi seguaci; Gv 15,16 la presenta come mutua immanenza dell'uno negli altri (cf Gv 17,21 24). L'apostolo Pietro, a sua volta (cf 1 Pt 2,4 5), scorge nella detta immanenza la ragione per la quale tanto Cristo quanto i cristiani sono « pietre vive » dell'« edificio spirituale », cioè la C. Ma la vera applicazione dell'idea di corpo alla C. e la sua analisi teologica sono opera di san Paolo. Nelle sue grandi lettere e in quelle dalla prigionia l'idea di corpo gli serve per sottolineare la partecipazione vitale e l'ammembramento dei cristiani a Cristo. E questo il contenuto di 1 Cor 12,27 nella cui scia si muovono pure Rm 12,5 e Gal 3,28 verso un medesimo traguardo: « Tutti voi siete uno (=corpo solo) in Cristo Gesù... ». Alla base di tale ammembramento Rm 6,3 11 pone la partecipazione sacramentale a Cristo morto e risorto, grazie alla quale ogni cristiano diventa un sunphotos, un innesto, un germoglio, un « connaturato » o consanguineo di Cristo. Viene così a determinarsi una comunione insieme verticale ed orizzontale: l'una fa dei cristiani una sola entità in Cristo (eis éste en Cristó Iesoú, dove è da notare il maschile eis), al quale essi sono stati conformati dal battesimo, cosicché la loro individuazione non soggiace più ai criteri del discernimento puramente umano, ma al loro mistico identificarsi col Signore Gesù (cf Gal 3,27 28); l'altra insorge da codesto identificarsi e si configura come una grandiosa concorporazione: gli uni son membra degli altri (cf Rm 15,5; 1 Cor 12,27) ed ognuno concorre al bene dell'intero organismo (cf 1 Cor 12,16 30; Rm 12,4). A quest'analisi le lettere dalla prigionia aggiungono l'idea del pléroma, la pienezza, o totalità (pan to pléroma) della vita divina che il Padre si compiacque d'effondere in Cristo (cf Col 1,19) e che questi riversa sulle membra del Corpo suo che è la C. (cf Col 2,9 10; Ef 1,23; 3,19). Per questa partecipazione vitale a Cristo, la C. risulta soggetto ed oggetto dell'enunciata pienezza: Cristo la « riempie » di sé ed essa ne « riempie » a sua volta i cristiani. Vi si può verificare davvero quella pienezza o totalità ch'è espressa dall'ebraico basar (il tutto vivente), del quale soma (corpo) è la traduzione greca. Dal NT all'enciclica Mystici Corporis (29.6.1943) e da questa al Vaticano II (particolarmente in LG 7), l'idea del corpo come totalità vivente accompagna la maturazione d'una coscienza ecclesiologica: presente nella patristica (chi non ricorda il « Christus totus » di sant'Agostino?), nella preghiera liturgica, nella riflessione dei grandi scolastici e perfino nella Riforma, sia pur con alterne vicende ed interpretazioni non univoche si presenta come una colonna portante dell'essere cristiani, non raramente consolidata dall'intervento del Magistero. E vero che l'aggettivo « mistico » può creare, e di fatto talvolta creò, qualche difficoltà, ma, se non altro dopo la Mystici Corporis, tali difficoltà hanno sempre avuto minore consistenza. « Mistico », infatti, non significa, come in qualche caso si disse, morale, spirituale, ideale, irreale, non scientifico, sentimentale; significa appartenente ad una realtà diversa da quella naturale, cioè soprannaturale. L'aggancio a codesta realtà mette in evidenza, attraverso Cristo, il dilatarsi in senso trinitario della C. mistero. L'Ecclesia de Trinitate assume il significato di C. modellata sul paradigma trinitario, donde si sprigiona sia la relazione Spirito Santo C., sia l'ecclesiologia in prospettiva pneumatologica. Spunti di una ricchezza e profondità e suggestività incomparabili, che solo una trattazione monografica potrebbe permettersi di sondare.

3. La considerazione della C. corpo si completa, per logica conseguenza, in quella della C. comunione. Nel NT il sostantivo koinonia varia di significato in ragione dei diversi contesti: da comunione a comunicazione, partecipazione, colletta, società. Lasciando le rispettive analisi agli specialisti, non si può non ricordare alcuni punti fermi dai quali meglio si deduce l'idea di comunione. In At 2,42 46 essa ha per oggetto la dottrina degli apostoli, la preghiera comune, l'agape fraterna, la messa in comune dei propri averi. Gli fa eco At 4,32 35 collegando un comportamento del genere all'essere tutti « un cuor solo ed un'anima sola ». In 1 Cor 10,16 21 la comunione dipende dall'esperienza eucaristica della C. e si precisa mediante due sinonimi: koinioneo (comunico) e metexo (partecipo, ho parte a). Altrove, è un valore che si traduce operativamente in carità fraterna (cf Rm 12,13; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8 9; Gal 2,10). Le comunità più dotate sovvengono ad altre più bisognose, temperando così le differenze del più e del meno. Anche della comunione va detta la profonda radicazione nella coscienza cristiana, che, nel sec. IV, con Niceta vescovo di Remesiana ( 414 ca.), l'introdusse nel Simbolo sotto l'ormai classica formula « Sanctorum communio ». Il genitivo di tale formula può interpretarsi in due sensi: oggettivamente (cioè di cose sante: sacramenti, sacramentali, meriti, preghiere, opere buone) e soggettivamente (di persone sante, ossia dei cristiani in quanto santificati dal battesimo). Il senso soggettivo unifica cielo e terra, trapassati e viventi, nell'unità della C. trionfante, purgante e militante (espressioni, oggi, piuttosto in disuso: ma non è un progresso). 4. La terza parte del Simbolo colloca la C. fra le verità di fede e la definisce « una santa cattolica apostolica ». Si potrebbe esser tentati, e qualcuno a tale tentazione ha ceduto, di collegare la santità della C. al significato soggettivo poco prima accennato, ma potrebbe essere un errore. Se il collegamento venisse assolutizzato, implicherebbe il pericolo di trasferire sulla C. le condizioni etiche dei suoi figli, come se essa fosse santa o peccatrice in conseguenza della santità o della peccaminosità dei cristiani. Anche quel poco che qui è stato possibile dire sul rapporto Cristo C. e Trinità C. e Spirito Santo C. lascia facilmente intendere che la C. è dotata di santità oggettiva. Non solo perché realizza in sé il significato etimologico di santità (separazione), ma perché è costituzionalmente santa. E, sì, « separata », quindi « riservata » per il Signore che perciò l'amò e la volle tutta per sé splendente, « senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Ef 5,26 27). Ma soprattutto ha nella santità uno dei suoi costitutivi essenziali. Se in quanto « separata » s'aggancia al significato veterotestamentario di santità come popolo tutto dedito al servizio del Signore (cf Lv 11,44, 19,2; 20,7; Sal 89,27), in quanto costituita di santità rivela sul suo volto il riflesso della santità increata di Cristo e del suo Spirito e si pone come « segno e strumento » dell'« umana universale santificazione ».

II. La C. tra il già e il non ancora. Perfino una veloce carrellata sul pianeta C. è in grado di svelarne l'appartenenza non solo al tempo e allo spazio, ma anche all'eternità nella vita di Dio. Ma a questo punto, prima di continuarne l'esplorazione sul versante della mistica, sarà opportuno qualche ragguaglio sulla mistica stessa.

1. Più che una sintesi teologico formale, è in oggetto l'esperienza mistica; il motivo è che così si è più vicini alla C. santa, Corpo mistico e comunione. D'altra parte, la considerazione formale è presente in quest'opera, sotto la voce « mistica ». Mistico, dunque, è qui inteso un certo tenore di vita, quello che, o a livello ancora primordiale, o al massimo sviluppo della perfezione cristiana, si caratterizza come unione con Dio e sua contemplazione. Ciò non dev'essere mai confuso con qualche processo psichico, pur non essendo del tutto avulso da alcuni moti psicologici. Né va confuso con quei fenomeni paranormali cui la santità non è correlata né sotto il profilo dei segni probatori, né sotto quello assiologico dei gradi di perfezione. L'unione con Dio, la contemplazione mistica qui in esame è conseguente all'efficacia dei sacramenti, dei doni dello Spirito ed altri mezzi della grazia; è il processo stesso dell'inserzione in Cristo, o più genericamente nella vita divina; è l'effetto del graduale sviluppo dell'organismo soprannaturale instaurato dal battesimo e perfezionato dagli altri sacramenti, specie dall'Eucaristia. Di conseguenza, è inimmaginabile una vita mistica che prescinda dai mezzi della grazia, anche nel caso d'una eccezionale capacità di concentrazione nel mantenersi alla presenza di Dio. Purtroppo A. Mager rilevò che, già dopo s. Teresa d'Avila, l'osservazione si portò più sui risvolti psichici dei mistici, che non sull'azione della grazia in essi. Ma il nocciolo dell'esperienza mistica sta qui e solamente qui, anche se da qui partono due diverse interpretazioni del fenomeno. C'è chi, come P. Poulain, lo distingue nettamente da una normale vita cristiana, e chi, come R. Garrigou Lagrange, riconosce, sì, la detta distinzione, ma la definisce non già d'essenza, bensì di grado. L'idea del P. Garrigou Lagrange, emergendo da uno sfondo tipicamente tomistico, è che l'unione mistica sia la vocazione d'ogni battezzato, anche se non tutti la conseguono. Da notare che parlando d'unione o di contemplazione mistica, l'aggettivo distingue il fenomeno da quello qualificato con l'aggettivo « acquisita », perché questo può conseguirsi anche con le forze puramente umane. Le due scuole hanno riflessi pratici da non trascurare: per l'una, infatti, la contemplazione mistica non rientra affatto nella normale vocazione cristiana; per l'altra, ogni cristiano è, in quanto tale, ordinato alla contemplazione mistica in quanto essa satura tutte le virtualità del suo organismo soprannaturale. Tra le due scuole, è senz'ombra di dubbio preferibile la seconda: tutti infatti sono chiamati alla vita eterna che ha il suo anticipo nella grazia e il suo coronamento, in terra, nell'unione mistica, in cielo nella visione beatifica. E quanto, del resto, sembra emergere, ora più ora meno esplicitamente, dalla letteratura più recente: G. Gozzelino ne è un esempio.

2. Ciò stabilito, ci si chiede quale sia il contenuto dell'unione mistica. E pacifico che il punto di partenza è l'incorporazione in Cristo, con tutti gli effetti cristoconformanti che ne derivano. Il grande messaggio paolino lascia intendere che la grazia, infusa con il santo battesimo, è la « gratia Christi », cioè la partecipazionecomunione con tutto il mistero di Cristo. « Con luiin lui » è una formula ricorrente, per ricordare che si è immersi sacramentalmente nella sua stessa morte, comunicanti con la sua stessa vicenda salutare, concrocifissi consepolti conrisuscitati in novità di vita. Come Cristo vive in Dio, così in lui si è tutti ugualmente viventi a Dio (cf Rm 6,3 11). Spogliati dell'uomo vecchio con tutte le sue opere (cf Col 3,9), si è rivestiti di Cristo (cf Gal 3,27), ma in modo che l'assimilazione a lui sia sempre in divenire. La vita nuova, proprio perché vita e come ogni altra vita, è dinamismo e polarità: tende al suo epilogo perfetto « affinché la vita di Gesù sia manifesta in noi » (2 Cor 4,10). Ciò significa che, come Cristo è il fondamento della vita cristiana fin dal suo primo sbocciare, così lo è pure nella fase del suo coronamento, vale a dire nel dinamismo ascensionale di tutta l'esperienza mistica.

3. Per tale ragione, il mistico riproduce in sé il mistero pasquale nella sua interezza. E, come Cristo, obbediente fin alla morte e alla morte di croce; al seguito del suo Maestro lungo le pendici del Calvario esistenziale, prende anche lui la sua croce, ogni giorno, e si dona all'Amore; con Cristo muore, e con Cristo risorge per vivere soltanto nell'ottica di Dio. In Cristo morto e risorto, diventa ogni giorno « creazione nuova » (2 Cor 5,17). Nuova, perché quotidianamente altra, sempre più intimamente personalmente immediatamente e perfino affettivamente sprofondata nella preghiera di contemplazione, parvasa dall'azione dell'Unitrino in attitudine insieme attiva e passiva, in un rapporto semplicissimo con le tre divine Persone sotto l'influsso dei doni dello Spirito Santo, come ha ben segnalato J. Aumann. E stato sempre difficile analizzare l'esperienza del divino; ma è certo che si tratta di un'esperienza senz'uguali, colma di fascino, mai statica, inarrestabile nella sua evoluzione intrinseca e nel suo movimento d'adorante contemplazione, oltre che di gaudiosa comunione.

III. A tale esperienza la C. può esser estranea? Nella realtà « misterica » della C. cattolica e nella sua ordinazione a tutta la realtà dell'uomo, una tale estraneità sarebbe assurda. In verità, il rapporto C. mistica è ineludibile ed intenso, non essendo altro che lo stesso rapporto tra la mistica e Cristo. Vediamone alcuni aspetti.

1. L'attenzione si volge anzitutto all'enorme tesoro accumulatosi nell'arco di secoli, nel quale si coaugulano le esperienze mistiche del passato e le teorizzazioni teologiche ripetutamente sintetizzate. Si tratta d'un capitale inestimabile, che ha arricchito ed arricchisce la C. e che la propone come luogo e strumento sacramentale dell'esperienza mistica. Luogo, anzitutto: perché, se la mistica è di per sé esperienza del divino, non ogni esperienza del genere avviene nella C. Non c'è però esperienza soprannaturale di Dio che possa far a meno della C. Non si nega la possibilità che una tale esperienza sia dovuta all'influsso diretto del divino; ma nell'economia ordinaria della salvezza, la causalità efficiente è quella dei sacramenti, nonché della preghiera liturgica; e ciò ha nella C. il suo ambiente, il terreno ideale, l'humus dove affondare le radici e donde trarre linfa vitale. Oltre che luogo, strumento. La C. stessa è mistero e sacramento. Ha in sé il divino e concorre alla produzione dei suoi effetti. E come strumento, concorre anche, attraverso la grazia dei sacramenti, la liturgia e gli altri mezzi della grazia ad essa stessa affidati, a far nascer e crescere il fenomeno mistico. Questo, pertanto, dipende immediatamente dalla C., che a sua volta è essa stessa unione mistica con Dio. Pertanto, una mistica diversa, se pur possibile, non è e non può esser cattolica; tale infatti può esser solo se è nella e dalla C.

2. Non sembri, questo, in antitesi con la nozione corrente di mistica, facente leva sul carattere « immediato » del rapporto con Dio. Il mistico, è vero, viene come pervaso dal fulgore del divino ed in certa misura trasformato in esso. Nulla, dunque, da eccepire su una nozione che definisce lo stato nel quale il mistico si trova. Se non che, l'interesse di quest'analisi è volto non alla teorizzazione dello stato mistico, bensì alla causa soprannaturale che lo determina. Ora, se la causa remota è Dio, quella prossima è sempre la C. Come a Dio appartengono i doni dello Spirito Santo e gl'influssi molteplici della grazia, così alla C. appartengono i sacramenti, la liturgia è tutto quel « munus triplex » grazie al quale svolge il suo ministero. Alla C. pertanto appartiene anche il fenomeno mistico in ognuno dei suoi gradi ed in ognuna della sue fasi di sviluppo. Ne consegue la totale e gioiosa sottomissione del mistico alla C., sia quanto al giudizio circa la natura delle sue manifestazioni mistiche, sia quanto all'esclusione di qualunque messaggio mistico non conforme alla « sacra dottrina » (Tt 2,1; 2 Tm 4,19) ed al suo « bonum depositum » (2 Tm 1,14).

3. E, questa, una conseguenza dello stesso fenomeno mistico. In quanto unione con Dio, esso ripropone in sé, analogicamente, il teandrismo di Cristo. E la C., Corpo di Cristo, ha nel mistico il suo membro più coerente, non perché sia ontologicamente diverso dagli altri, o si discosti dal cammino che ogni altro dovrebbe intraprendere, ma perché lo percorre tutto. Del pari, la C. comunione non è un'astrazione, ma la compresenza armonica d'ogni suo membro, che peraltro solo il mistico vive in pienezza. Se infine la C. è tutta santa e generatrice di santità trova nel mistico il suo riflesso più fulgido ed un contributo efficace all'espansione della santità.

4. Quest'ultimo accenno sposta ancora l'interesse verso uno dei possibili equivoci collegati con la nozione formale di mistica; cioè verso la famosa passività. Non c'è autore di teologia spirituale che non ne parli, definendo « passiva » l'orazione mistica. S. Giovanni della Croce allude alla passività nella purificazione sia dei sensi, sia dello spirito. Altri accennano alla « preponderanza » del passivo. Parrebbe che passività e mistica siano un tutt'uno. Impressiona però s. Giovanni della Croce con la sua « conoscenza amorosa » e con la « fiamma viva » che non solo consuma il mistico, ma lo trasforma in tanto in quanto questi risponde con atti d'amore, fonte di meriti inestimabili. Sembra di capire che non si tratta di sola passività. La carità, infatti, sviluppa e perfeziona tutte le facoltà soprannaturali, coinvolgendole attivamente nel farsi della vita mistica, nella sua partecipazione alla C. ed alle esigenze dei fratelli. I carismi dell'esperienza mistica diventano così principio di fecondità cristiana. Perfino al livello più alto di vita spirituale, il mistico non può né deve considerarsi disobbligato dal precetto comune: « Ama il prossimo tuo come te stesso » (Gal 5,14). Insomma, questo sembra di poter dire: anche l'esperienza mistica è vita di C.

Bibl. Attesa la relativa novità del contributo, nella seguente nota bibliografica, si segnalano soltanto, con quelli citati nel testo, alcuni Autori fra i più sensibili alla tematica svolta: Aa.Vv., s.v., in DSAM IV, 370 479; Aa.Vv., La Chiesa sacramento di comunione, Roma 1979; E. Ancilli - M. Paparozzi (cura di), La mistica I e II; J. Arintero Gonzales, Desenvolvimiento y vitalidad de la Iglesia, 3 voll., Madrid 1974 1976; J. Aumann, Sommario di storia della spiritualità, Napoli 1986; J. Beaude, La mistica, Cinisello Balsamo (MI) 1992; J. Betz, Die Gründung der Kirche durch den historischen Jesus, in Theolog. Quartalschr., 138 (1958), 152 185; E. Bianchi, Una Chiesa da vivere, Casale Monferrato (AL) 1995; L. Bouyer, Jésus a t il fondé l'Eglise?, in Id., L'Eglise de Dieu, Corps du Christ et Temple de l'Esprit, Paris 1970, 677ss.; J.M. van Cangh (cura di), La mistica, Bologna 1992; L. Cognet, I problemi della spiritualità, Torino 1969; M. Figura, Kirche und Mystik, in WMy, 310 312; A. Gardeil, La structure de l'âme et l'expérience mystique, Paris 1927; R. Garrigou Lagrange, Perfezione cristiana e contemplazione secondo san Tommaso d'Aquino e san Giovanni della Croce, Torino 1936; Id., Le tre età della vita interiore, 4 voll., Roma 1984; B. Gherardini, La Chiesa. Mistero e servizio, Roma 1993; G. Gozzelino, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo, Leumann (TO) 1985; Id., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia della vita spirituale, Leumann (TO) 1989; B. Haussler, The Church and God's People, Baltimore Dublin 1963; G. Helewa - E. Ancilli, La spiritualità cristiana. Fondamenti biblici e sintesi storica, Milano 1982; O. Kuss, Bemerkungen zum Fragekreis: Jesus und die Kirche im Neuen Testament, in Theolog. Quartalschr., 135 (1955), 28 55; A. Mager, Mystik als Lehre und Leben, Innsbruck Wien Köln 1934; A. Poulain, Delle grazie di orazione. Trattato di teologia mistica, Torino 1926; P. Pourrat, Spiritualité chrétienne, 4 voll. Paris 1919 1928; H. Rahner, Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Vater, Salzburg 1964; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 1965; R. Schnackenburg, La Chiesa nel Nuovo Testamento, Roma 1965; A. Stolz, Teologia della mistica, Brescia 1947.

Autore: A. Gherardini
Fonte: Dizionario di Mistica (L. Borriello - E. Caruana M.R. Del Genio - N. Suffi)