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Giovedi, 16 maggio 2024 - San Simone Stock ( Letture di oggi)

CAPO XIV. MALATTIE E PATIMENTI CORPORALI DI ANNA CATERINA

Vita della Beata Anna Caterina Emmerick - Libro primo

CAPO XIV. MALATTIE E PATIMENTI CORPORALI DI ANNA CATERINA
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1. « Io mi era data interamente al mio Sposo celeste, ed egli dispose di me come volle. Il poter soffrire tranquillamente mi è sempre sembrato lo stato più degno d'invidia su questa terra, ma non vi sono mai pervenuta. » In quest? confessione Anna Caterina ha palesato il segreto di tutta la sua vita nel chiostro, come anche dopo la soppressione. I patimenti non mancavanle giammai, ed ella li riceveva riconoscente, come doni bene graditi della mano di Dio; ma la quiete nel soffrire, ossia quella solitudine tacita e non disturbata, in cui non sarebbe stata esposta a veruno sguardo, era destino che non le cadesse mai in sorte, giacchè doveva pervenire ad una piena conformità col suo Sposo celeste, il quale volle condurre a fine i proprii patimenti in mezzo ad incessanti contraddizioni ed a continue angustie e persecuzioni esterne. Tutti i dolori e le infermità con le quali era stata visitata fin dall'infanzia, aveano un profondo significato spirituale, poichè o ella aveva implorato che cotesti guai dovuti ad altri passassero sopra di lei, onde soffrire invece loro in parte od in tutto, ovvero li aveva da Dio ricevuti per espiazione impostale di colpe altrui. Dal momento, per altro, in cui ricevè la santa Cresima, e specialmente dopo la professione dei voti solenni, questo suo patire in luogo d'altri prese un carattere sempre più elevato ed una più larga estensione; mentre le malattie del corpo della Chiesa, cioè a dire i delitti di intere diocesi e di singole comunità, le colpe e le negligenze di alcuni superiori spirituali, la cattiva condizione morale di interi ordini religiosi, vennero imposte alle di lei spalle onde portarle ed espiarle, sotto la forma di molteplici ma lattie e svariate condizioni di patimento. I di lei dolori e malattie erano adunque una trasformazione in forma di mali temporali di quei mali spirituali, che come conseguenze seco traevano le colpe delle differenti gerarchie della Chiesa, a grave danno del gregge di Gesù Cristo. E qui ella venne appuntino ed esattamente a calcare le orme della beata Liduina di Schiedam, la quale dopo Christina Mirabilis di S. Trond è forse il più meraviglioso strumento d'espiazione, di cui Iddio si sia servito in pro della sua Chiesa. Uno sguardo sulla di lei vita compilata da un suo coetaneo l'olandese provinciale de' minori osservanti, frate Giovanni Brugmann, morto in odore di santità, e redatta a tenore delle comunicazioni del di lei confessore Gualtiero da Leida, del di lei coabitante di casa Giovanni Gerlach, delle ufficiali testimonianze del borgomastro e dei consiglieri della città di Schiedam, ed in seguito anche ricompilate dal venerabile Tommaso da Kempis (1), ci renderà più facile assai il comprendere con piena e profonda intelligenza la missione di Anna Caterina.

2. Liduina, nata poche settimane innanzi alla morte di S. Caterina da Siena, e figlia di un povero guardiano notturno nella città olandese Schiedam sulla Mosa, fu onorata sin dalla prima infanzia di una speciale direzione della Madre di Dio, onde renderla atta a rimpiazzare S. Caterina di Siena nella missione da lei om?i lasciata di patire per la Chiesa, e portarla più oltre assai. Caterina era stata in mezzo al decimoquarto secolo, come Ildegarda al principio del duodecimo, suscitata da Dio, onde al pari dei santi profeti venisse in aiuto alla Cristianità. A trentatrè soli anni si estese la durata della vita della eletta vergine; poichè il di lei cuore infranto dalla forza dell'amor divino non potè più a lungo sopportar il dolore cagionatogli dallo sciagurato scisma della Cristianità, per l'intronizzazione di un antipapa contro Urbano VI. Cotesto scisma era scoppiato due anni prima della di lei morte, e Caterina non avrebbe certo abborrito da verun sacrifizio, per lottare e soffrire in pro del ristabilimento della purità della Chiesa; anzi ella aveva implorato da Dio che durante gli ultimi tre mesi della sua vita, cioè dalla domenica di Sessagesima, cadente nel 29 di gennaio, fino alla quinta domenica dopo Pasqua, cadente il 30 aprile 1380, la rabbia dell'intero inferno allora scatenata contro il legittimo capo della Chiesa, fosse alla di lei persona rivolta, e le fosse dato di sostenere la lotta contro le schiere infernali, come nei tempi addietro santa Ildegarda per tre interi anni sostenne una simile lotta in pro della Chiesa. Fu allora che il Signore richiamò a sè la sua fida serva, poichè nella domenica delle Palme del 1380, nella lontana Olanda era nata la erede dei di lei patimenti e delle di lei lotte, nella per sona di Liduina di Schiedam. Sin dalla cuna soffrì Liduina del mal della pietra, e ciò nondimeno pervenne di buona ora a tale sviluppo di forze, e a tal bellezza di forme, che nel duodecimo suo anno fu da taluno desiderata in matrimonio. Ma ella si era già da alcun tempo consacrata a Dio col voto di verginità, e per essere in futuro liberata dalle premure de' pretendenti impetrò da Dio che le ritogliesse la bellezza. Fu esaudita. Nel quindicesimo suo anno venne la vergine assalita da una malattia, di cui per verità guarì, ma ne rimase talmente deformata che non venne più annoiata dagli uomini. Il di lei corpo, per altro, venne da Dio disposto a divenire un vaso e ricettacolo di patimenti, nel quale egli incominciò a deporre tutta l'immensa onda di quei mali, che in allora travagliavano la Chiesa. Accadde che Liduina per l'urto accidentale di un'amica sua, che rapidissimamente sopravvenne in veloce corsa coi pattini sul ghiacchio, cadesse sovra un mucchio di quel ghiaccio medesimo, e che le si rompesse una delle piccole coste del lato dritto. In seguito di quella frattura le si formò nell'interno un tumore, che resistette ad ogni mezzo di cura e le cagionò dolori indicibili. Mentre un anno dopo cotesta caduta il padre si trovava a capo del letto della figlia ammalata per consolare quella poveretta, ella presa dal dolore si gettò nelle sue braccia in modo tale che per quel precipitoso movimento il tumore venne a scoppiare nell'interno, e la quantità del sangue che sgorgò dalla bocca e dal naso minacciò di soffocarla. Ben tosto la di lei infermità divenne sempre maggiore.

Un tumore suppurante nell'interno la rendeva incapace di prendere alcun nutrimento, e seppur superava la nausea pel cibo, non così riusciva a reggerlo il di lei stomaco. Spesso la tormentava insopportabile sete, talmentechè a gran stento levandosi dal letto de ' suoi dolori, cercava acqua da bere, ma immediatamente doveva rivomitarla. Non eravi più mitigazione alcuna o raddolcimento, che con lei riuscisse. Ed inoltre passarono molti anni, durante i quali quella misera dovè sopportare la privazione d'ogni spirituale guida e soccorso. Solo una volta nel corso dell'anno, ed appunto nel tempo pasquale, fu trasportata in chiesa onde ricevere la santa Comunione; del resto rimase interamente abbandonata a sè stessa. E parve anche che Iddio la abbandonasse alla propria debolezza ed alla piena balia de' suoi inauditi dolori, senza consolazione e senza alcuno ordinario ristoro, poichè davvero anche a lei sembrava sovente una specie di impossibilità e di meraviglia il ritrovarsi in quello stato disperato. La malattia non potè tanto subitaneamente e completamente distruggere in lei ogni vigore e freschezza di gioventù, che essa non si sentisse mossa da vivaci desiderii di guarigione, anche in mezzo ai suoi sempre rinnovati dolori, quando sentiva le allegre compagne della sua gioventù passare cantando e scherzando dinanzi all'ingresso della di lei stanza terrena, talmente miserabile da rassomigliare ad una caverna. Ben di buon grado voleva essa servire al Signore, e rinunziava ad ogni parte nei beni di questo mondo; ma simili guai e dolori accompagnati da sì possente nausea non le erano mai passati per mente. Così trascorsero tre e quasi quattr'anni, sinchè finalmente ella scontrò in Giovanni Pot un confessore ed un direttore spirituale, che la diresse nell'esercizio dell'orazione mentale, e le insegnò col mezzo della meditazione della Passione di Nostro Signore a guadagnare una forza di spirito atta a sopportare con pieno abbandono tutte le sue molteplici pene. Ella seguì per quanto le fu possibile le di lui ammonizioni, ma non trovò conforto allo sconsolato abbandono dell'anima sua, se non quando una volta nel ricevere la santa Comunione le venne accordato il dono delle lagrime. Per quattordici interi giorni non le fu possibile di trattenere il poderoso torrente di quelle lagrime, con le quali ella piangeva la di lei impazienza e pusillanimità; e soltanto allora il conforto e la unzione spirituale le rientrarono nel cuore. Ben presto fece tali progressi nell'orazione mentale, che seppe dividersi secondo le sette ore spirituali del giorno la contemplazione della Passione, e quindi giorno e notte, poichè era interamente privata di sonno, si mantenne con tale fedeltà in quell'esercizio, da poter far credere essere ella chiamata internamente a pregare siccome dal suono di un orologio. Nell'anno ottavo della sua malattia fu in grado di palesare lo stato suo in questi termini:
« Non sono io che soffro, ma è il mio Signore Gesù che soffre in me. » E non contenta della soprabbondanza dei suoi dolori, ne implorò fervidamente dei nuovi, offrendosi continuamente a Dio, siccome vittima espiatoria dei peccati altrui. Così ella implorò una volta, nella domenica di Quinquagesima, un buon patimento in espiazione delle in temperanze ed orgie da altri commesse durante i giorni del carnevale, ed ottenne sino al santo giorno di Pasqua tali dolori nelle ossa, che non osò più assalire il Signore con simili preghiere. Onde ottenere l'allontanamento della peste da Schiedam offrì sè stessa a Dio in vittima espiatoria, e ne riebbe due carbonchi pestiferi, uno alla gola, l'altro sotto il seno; ed appena aveva ella supplicato di riceverne un terzo in onore della santissima Trinità, che il fatale tumore già si mostrava al ginocchio.


3. Ed ecco che da Dio fu imposto alle di lei spalle tutto il peso della profanazione e della desolazione del corpo della Chiesa. La triplice devastazione che il disordine, la crapula e l'eresia aveano indotta nella Chiesa al tempo di quel gran scisma, essa dovette sopportarla sotto la forma di quegli innumerevoli bachi o vermi di color verdastro, che derivando dalla colonna vertebrale le rodevano i reni, e di colà portandosi all'esterno le divoravano per tre grosse e rotonde aperture tutto il basso ventre; dimodochè ogni giorno un centinaio, anzi spesso due centinaia di questi divoratori animali, grossi di un pollice circa, venivano apertamente a mostrarsi. Per salvarsi dai loro morsi e dal martirio della corrosione doveva Liduina nutrirli con una mistura di miele e di farina fresca di grano, o col grasso di un cappone, col quale venivano unti alcuni pannilini, che poi erano distesi su quelle aperture. Se a caso veniva a mancare a cotesti vermi quel nutrimento che la povera ammalata doveva come per elemosina questuare dagli estranei, ovvero se la mistura non era assai fresca, allora quei roditori divoravano il di lei corpo martirizzato. Siccome la miscredenza e l'eresia hanno la loro radice nei peccati contro il sesto precetto, come pure nell'orgoglio dello spirito, che del pari all'incontinenza avvilisce l'uomo, così dovevasi da Liduina espiare in un modo stesso la triplice devastazione: cioè con la putredine e con una verminazione velenosa.

Gli altri visceri interni del corpo suo in parte venivano distrutti dalla suppurazione del tumore già indicato, e in parte ancora furono estratti dal medico, di camera della duchessa Margherita di Olanda, e secondo il desiderio di Liduina sepolti. Nella cavità abdominale fu posto un piccolo viluppo di lana. I dolori della pietra per altro durarono senza punto essere sminuiti, malgrado ogni putrefazione, e giunsero spesso ad una tale intensità che Liduina ne doveva perdere conoscenza e parola. In quei dolori della pietra ella espiava gli orrori del concubinato degli ecclesiastici. I di lei polmoni ed il fegato uscivano vomitati parte a parte. Alle due mammelle poi si formarono fignoli suppuranti; simbolo che in quei feroci tempi un numero infinito di pargoli doveva venire privato del latte della pura dottrina e ricevere in vece quello dello scandalo. Le dispute dei teologi e dei canonisti, che invece di preparare sano nutrimento alla Cristianità, moltiplicavano soltanto guai e dissenzioni, dovette Liduina espiarle con dolori di denti, che duravano non di rado settimane, anzi mesi, con tale veemenza da farle temere di perdere per ciò sino la ragione. Quegli assalti febbrili, che assalivano il corpo della Chiesa durante i Concilii, essa li soffrì simboleggiati da incessanti febbri terzane, che talora quasi le abbruciavano le ossa con fiamme ardenti, talora la facevano abbrividire col gelo di un freddo ineffabile.

E siccome alla fine la Cristianità intera stette divisa per quarant'anni fra il Papa ed un antipapa, così pure fu il corpo di Liduina diviso in due metà; dimodochè, onde le due spalle dislogate non venissero a cadere, convenne avvolgerle e legarle con fascie. Anche la giunzione della fronte col naso erasi disciolta, e così pure quella delle labbra e del mento; da quelle interruzioni poi sgorgava sangue, che spesso le rendeva impossibile il parlare. Siccome poi l'occhio del supremo Pastore non poteva più vegliare su tutto il gregge di Cristo, così pure in Liduina l'occhio destro erasi interamente accecato, ed il sinistro non poteva sopportare nè lo splendore del giorno, nè la luce di una lampada. E siccome il fuoco delle sollevazioni paralizzava la destra del supremo Pastore, dimodochè non poteva nè a tutti comandare, nè estendere la pastorale sua verga sull'intero gregge di Cristo; così il braccio destro di Liduina era talmente abbruciato dal così detto fuoco di sant'Antonio, che intorno all'osso denudato stavano i nervi siccome le corde di una cetra, ed il braccio era soltanto debolmente rilegato da un solo muscolo al resto del corpo. Ella poteva muovere soltanto la mano sinistra ed il capo; del resto ella giaceva senza alcun movimento su pina, e per sette anni interi non potè venire mai rimossa nemmeno con altrui aiuto, poichè era da temersi che quel povero corpo addolorato venisse intieramente a disciogliersi.

Nè sonno nè nutrimento ristorarono più quel misero corpo, simile nella trista sua vegetazione ad un albero già putrido, e verde soltanto ancora nella corteggia; corpo che dalla bocca, dagli occhi, dal naso, dalle orecchie e da ogni altra apertura lasciava sgorgare ogni giorno tanto sangue e tanti umori, che due uomini non avrebbero potuto trasportar via con le loro forze riunite tutto l'efflusso di un mese. Liduina sapeva bene donde le proveniva la soprabbondante rinnovazione de'succhi vitali che ella per deva, appunto come alla vite quando a primavera i suoi tralci troppo rigogliosi vengono dal vignaiuolo recisi. « Di temi (diè ella una volta per risposta quando alcuno pieno di meraviglia le domandava d'onde mai in essa super fluisse cotanta copia d'umori), ditemi donde riceve mai la vite l'abbondante suo succo, mentre nell'inverno ha l'apparenza di essere disseccata e morta? » Ella sentivasi essere un tralcio della vera vite, che a tutti partecipa sì strabocchevolmente la pienezza delle benedizioni, che quel benedetto succo trascorre in torrenti sulla terra quando i tralci si rifiutano a riceverlo. Cotesto sperdimento del succo della vite della Chiesa doveva Liduina espiarlo col sangue versato dal povero suo corpo per ogni apertura; e quel corpo, per non essere da tanta perdita disseccato ed esausto, riceveva in modo soprannaturale un giornaliero rinnovamento dei liquidi perduti; e quindi avveniva che malgrado la putredine ed i vermi dal meraviglioso vaso di quel corpo usciva un grato olezzo, ed era vittima sì gradita agli occhi di Dio, che egli tosto vi impresse il suggello delle sante sue piaghe.

4. Per lo spazio di trentatrè anni fu concessa ai contemporanei di Liduina la contemplazione di quei patimenti, che contraddicevano sì fattamente agli ordini naturali ed alla comune esperienza, e toglievano talmente all'umana sagacia la possibilità di una spiegazione naturale, che gli stessi testimonii di vista assalivano la paziente con simili domande: Come mai puoi tu vivere, giacchè hai vomitato polmoni, fegato ed intestini, e sei quasi interamente corrosa dai vermi? Al che essa soleva umilmente rispondere: Iddio e la mia coscienza mi sono testimonii dell'aver perduto parte a parte ciò che Dio una volta mi dette per mezzo della natura. È agevol cosa il figurarsi che mi sarebbe stato assai difficile il sopportare queste perdite; ma Iddio solo conosce ciò che nella pienezza della sua onnipotenza ha messo in me un compenso del perduto.La sposa fedele non poteva tradire il segreto del Re dei ré, che egli a vergogna della scienza umana ritiene in sè ascoso per manifestarlo per la prima volta in quel giorno, in cui i suoi eletti con lui trionferanno e vedranno in lui siccome egli si è quegli che tutto in tutto compisce. Il venerando scrittore della di lei vita, il provinciale fratello Brugmann cerca rischiarare l'intelligenza di cotesti inesplicabili fatti coll'avvertire che il Signore volle manifestare alla Chiesa ed a ogni epoca futura, con la conserva zione del corpo a mezzo distrutto della detta sua sposa, ciò che egli giorno per giorno fa ed opera, onde sino alla fine dei giorni resti conservata la grazia della redenzione degli uomini, i quali incessantemente maltrattano e perseguitano la sua Chiesa, la sua fede ed i misteri della salute, precisamente come i vermi, la putredine, le febbri e le altre pene malmenavano il corpo di Liduina.

Affinchè per altro niuno dubitar potesse che Liduina soffriva per le ferite ed i patimenti della Chiesa, permise Iddio che prima della di lei morte rifiorisse di nuovo nelle integre forme e nella buona condizione del corpo suo. La Cristianità aveva di nuovo un capo supremo. La missione di Liduina era compiuta, e Dio le diè di bel nuovo ciò che ella in pro della sua Chiesa aveva sacrificato.

5. Mentre poi lo spaventevole di lei stato di patimenti duráva ancora, venne altresì a manifestarsi onde derivasséro quei doni e quei mezzi straordinarii, coi quali veniva sostenuta la vita in un corpo che, secondo l'ordine abituale e naturale, mancava di tutto ciò che è necessario a farlo esistere. In molte circostanze Liduina diè indizio di avere ricevuto nutrimento ed unzione soprannaturale. Ecco come riferisce il di lei biografo: « La curiosità attrasse di molti a visitare quella vergine. Gli uni venivano con buone prevenzioni; gli altri poi a sentenziare e calunniare. Tutti al certo vedevano soltanto un'immagine della morte; ma alcuni scorgevano in quell'infranto vaso il balsamo della santificazione, in quella informe immagine una creatura meravigliosa, e nel quadro della morte onoravano il primo principio della vita più amabile assai di tutti i figli degli uomini. Se alcuno con curiosa ammirazione domandava come mai la febbre trovasse in quel suo corpo nutrimento, poichè ella viveva per certo senza alcun cibo, essa rispondeva così: - Voi vi meravigliate che la febbre trovi in me ancora di che nutrirsi. Io per altro debbo ben più meravigliarmi di ciò che nello spazio di un mese io non abbia ancora raggiunto in volume la grossezza di una gran botte. Voi giudicate soltanto dalla croce che in me esternamente vedete; ma la unzione interna che provo non la capite, poichè non potete scorgerla, ed essa è internamente nascosa! -E quando alcun monaco o sacerdote esprimeva la sua maraviglia, che ella ancora vivesse a malgrado gl'incessanti vomiti, con queste parole: Tu non potresti essere più in vita se Iddio coi suoi doni misericordiosamente non ti conservasse; ella rispondeva: Sì, io devo con ogni semplicità confessare che immeritamente ricevo un interno balsamo, che di tempo in tempo il misericordioso Signore in me versa. Io, povera cagnuola, non potrei più a lungo sussistere con questo corpo mio così disfatto, se in mio pro non cadessero le miche dalla tavola del mio Signore; soltanto non conviene ad una sì miserabile ed indegna cagnuola come me il raccontare quali e di qual sorta sieno i bocconi che in dono ricevo. Anche allorchè certe dame pretendenti allo spirito tormentavano la paziente, domandandole se ella non prendesse davvero più alcun cibo, il che a loro sembrava incredibile perchè impossibile, diè essa con molta dolcezza questa risposta: - Quantunque voi troviate ciò incredibile, di certo non siete per ciò incredule, e non volete sprezzare le opere di Dio, che seppe nutrire nel deserto anche Maria Maddalena e Maria Egiziaca. Ciò che pensar potete di me poco importa; soltanto non togliete, vi prego, onore a Dio.6. Come apparisce da molti fatti, non intendeva Liduina parlare soltanto della unzione spirituale derivante dai doni e dalle consolazioni dello Spirito Santo, ma altresì dei doni e dei mezzi di salute che a lei affluivano dal paradiso terrestre; doni e mezzi di salute, per opera dei quali il di lei corpo martirizzato riceveva forza ed accrescimento onde non soccombere ai vermi ed alla putredine. Secondo la dottrina dei santi Padri il paradiso terrestre è stato fin qui conservato nella intatta bellezza del primo giorno della sua creazione ed immune dal diluvio universale; e vi sono stati collocati Enoch ed Elia, ancor viventi nella carne, onde possano ai tempi dell'Anticristo ricomparire sulla terra e predicare ai giudei la salute. « Enoch ed Elia, scrive anche santa Ildegarda, sono nel paradiso, perchè colà non abbisognano di verun cibo o bevanda terrena. E così pure non abbisogna alcuno, che da Dio venga rapito in seno alle sue meraviglie, per tutto il tempo che vi dimora di alcuno di quei mezzi, dei quali si servono quaggiù i mortali (1). » Il paradiso terrestre non fu creato per gli Angeli, siccome privi di corpo e puri spiriti, ma bensì per la natura umana, formata di corpo e di spirito assieme uniti; dimodochè in esso paradiso trovasi tutto ciò che abbisogna alla vita corporale dell'uomo onde restare elevata al di sopra del dolore, dell'offesa e della dissoluzione, e per conservare in sè quel privilegio dell'incapacità a soffrire e dell'immortalità accordatale da Dio in grazia dell'originale sua santità. È ben vero che tutte le creature, ed anche le piante e gli alberi di quel giardino appartengono ad un più alto ordine, e stanno tanto al disopra delle produzioni di questa terra maledetta a causa del peccato dell'uomo, quanto il corpo del primo uomo scevro di colpa, puro, spiritualizzato, raggiante di luce, stava al di sopra del corpo dell'uomo caduto; pure, siccome veramente e certamente quel corpo di Adamo sì bello, sì incapace di patimenti, ed immortale prima della caduta, era pur corpo e non spirito, così anche il paradiso con tutte le sue crea ture, non è già celeste e puramente spirituale, ma è luogo corporale bensì, assimilato e corrispondente alla natura umana; quindi non è senza avere qualche collegamento e corrispondenza con essa umana natura, come pure colla terra. La corrispondenza nella quale il paradiso sta con la terra, è chiaramente e precisamente indicata dalla santa Scrittura; e nella pioggia della manna fu manifesto all'antica Chiesa qual nutrimento colà fosse conservato pel pellegrino terrestre. Santa Ildegarda nella sua opera Scivias (lib. I, visio II ), si esprime così su questo argomento: « Quando Adamo ed Eva furono scacciati dal paradiso, cotesta regione fu circondata da uno splendore somma mente luminoso; poichè quando essi, a cagione del loro trascorso, dovettero lasciare quel luogo di delizia, la potenza della divina maestà purgò quel luogo da ogni macchia del loro contagioso influsso, e lo fortificò con la sua luce talmente che d'allora in poi rimase per sempre intatto da ogni cosa di contraria natura. Iddio per altro volle con ciò anche mostrare che quel trascorso avvenuto nel paradiso verrebbe a suo tempo purgato per effetto di gratuita misericordia,... ed ancora esiste il paradiso, siccome luogo di delizia, che fiorisce nella prima freschezza dei suoi fiori e delle sue piante, e nella amabilità di tutti i suoi aromi; che è pieno dei più deliziosi olezzi ed oltremodo adorno, a ricreazione degli spiriti beati. Il paradiso fornisce ricchissima fecondità a questo arido globo terrestre; poichè, siccome l'anima fornisce le forze vitali al corpo, così è il paradiso che fornisce alla terra la più alta forza vitale, poichè essa non è già stata resa inoperosa ed inefficace dall'oscuramento e dalla perversione dei peccatori. »

La spirituale collegazione poi degli uomini col paradiso vien operata dalla grazia della redenzione, che non solo ha reso alla stirpe caduta del primo uomo il più alto dono che Adamo possedesse nel paradiso, ma le ha inoltre accordato una ben più alta dignità e bellezza, un ben più alto grado di valore, che in di lei pro scaturisce dall'infinito merito del sangue di Gesù Cristo. È effetto di cotesto dono della santa innocenza battesimale se in ogni tempo vengono accordate da Dio ad alcune anime elette molti degli speciali ornamenti, privilegi e distinzioni che Adamo aveva ricevute in conseguenza della originaria sua santità, ma che di nuovo aveva perdute a cagione del fallo suo; anzi tutti i battezzati ottengono un certo diritto a quei doni straordinari nel carattere del battesimo, purchè non contaminino cotesta prima loro innocenza, la quale è ben più elevata della innocenza stessa del paradiso. « È piaciuto a Dio (così scrive santa Ildegarda al capitolo metropolitano di Magonza), è piaciuto a Dio ne' suoi consigli, mentre con la luce della verità conserva le anime de' suoi eletti per la felicità antica, di rinnovare in differenti tempi molti cuori, versandovi dentro lo spirito di profezia, onde per mezzo di quella intima luce quei cuori potessero ricuperare molto di quanto andò perduto di quella beatitu dine, che Adamo possedeva prima del castigo della sua disubbidienza. »

7. Apparirà ora molto meno maraviglioso se oltre i doni spirituali, anche le materiali forze salutari del paradiso vengano, come in ricompensa terrena della lor fedeltà, accordate in dono agli eletti della grazia; giacchè cotesti doni corporei debbono essere meritati per mezzo di patimenti e di privazioni, che da Dio sono stimate degne di una ricompensa eterna, e quindi incomparabilmente più alta di qualsiasi godimento o ristoro derivante dalle crea ture del paradiso. Le vie per le quali gli uomini viventi ancora nella carne pervengono in paradiso, o per le quali i doni del paradiso a loro pervengono, sono il dolore e l'astinenza, sono le opere di vittoria sopra le proprie passioni, di mortificazione e di penitenza, che per impulso dello Spirito Santo vengon compiute da quegli esseri puri ed innocenti, che sono ancora circondati dal non conturbato splendore della grazia battesimale. Ma cotesti sentieri che guidano verso l'alto, si schiudono soltanto dinanzi a loro, quando essi abbiano chiuse per sempre e rese impraticabili al loro corpo quelle vie terrene, per le quali lo sospingerebbero le condizioni naturalmente necessarie del suo stato terrestre, e quando esso corpo nell'ardore dei patimenti sopportati per amor di Dio abbia ricevuto quella dose di spiritualità sufficiente a divenire uno strumento affatto ubbidiente all'anima che arde nel fuoco dell'amore. Non è dunque un dono straordinario della natura e molto meno è una non comune forma di malattia, ovvero il disturbato equilibrio delle funzioni corporee o spirituali; ma piuttosto è soltanto il merito di una non comune purità e di un'eroica forza dell'anima quella che apre all'uomo ancora dimorante su questa terra l'ingresso del paradiso.

Siccome presso Iddio la ricompensa ed il castigo sono diretti dalla natura o dall'intimo valore e significazione del merito e della colpa, così per ogni dolore, per ogni privazione ed astinenza fiorisce un dono naturale corrispondente al loro carattere nei campi del paradiso, che sotto la forma di fiore, di frutto, di cibo, di bevanda, di olezzo, di conforto, di ristoro, effettivamente e corporea mente, e non già soltanto spiritualmente, viene, secondo il bisogno, accordato alle anime elette; per mezzo del quale esse aggiungono un supplemento di forza vitale al vivere loro corporeo, che senza di ciò ben presto verrebbe a mancare. Così viene riportato di Liduina ( 1) che una volta una dama d'altronde virtuosa, ma oppressa dalla melanconia, venisse a lei cercando soccorso poichè quasi era giunta sull'orlo della disperazione. Liduina l'accolse con gran compatimento, le inspirò coraggio con benevole parole e le promise guarigione. Dopo pochi giorni essa implorò da Dio per quella povera dama la grazia che potesse con esso lei venir rapita nel paradiso terrestre. Ma anche costì, malgrado quel nuovo e magnifico spettacolo che si offriva a' di lei occhi, non cessarono già i lamenti della disperata. Allora Liduina la condusse in un luogo del paradiso, ove sembrava che fosse riposta la sorgente ed il serbatoio di tutti gli aromi, balsami, sostanze salutari, e dei grati olezzi pel mondo intero; e costì la povera ammalata ritrovò la salute. Ne provò tanto ristoro, che rientrata in sè da quell'estasi non potè per più giorni sopportare nemmeno una sola volta l'odore di alcun cibo, e da quel momento fu resa talmente compenetrabile e dipendente da ogni parola ed esortazione di Liduina, che interamente riuscì guarita da quella sua oppressione di spirito.

8. Nella vita di santa Coletta ( 1), coetanea della beata Liduina, narrasi che durante tutta la Quaresima essa non usasse prendere alcun cibo, o al più alcuni bocconcelli di pane. Ed ecco che una volta, per la solennità di Pasqua, le fu da Dio inviato dal paradiso un grazioso volatile assai simile ad una gallina, da cui ella si ebbe un uovo, che da lei mangiato le diè tale una sazietà che per lungo tempo non potè più prendere cibo alcuno. Onde avesse ristoro dai grandi patimenti sofferti per la Chiesa e dalle pene che le cagionava la riforma a lei commessa dell'ordine di santa Chiara, essa ricevè dal paradiso in ricompensa della di lei impareggiabile purità un animaletto oltremodo grazioso e luminosamente bianco, che era con lei intimamente famigliare e quotidianamente ad ora fissa compariva in nanzi alla porta, o alla piccola finestra della cella e cercava ingresso, e poi dopo di nuovo spariva. Quest'animaletto eccitò nel più alto grado là curiosità e l'interesse delle altre monache, alle quali per altro non riuscì di impadronirsene mai malgrado ogni pena che si dessero; poi chè quando esse lo trovavano sia nella cella di Coletta, sia nelle altre stanze del monistero, esso spariva prima che prenderlo potessero (2 ). Siccome Coletta con alta riverenza onorava le reliquie dei santi e soprattutto la santa Croce, sulla quale morì il figlio di Dio, e spessissimo con alta bramosia internamente sospirava il possesso di una porzioncella di cotesta croce, ella ricevè dal paradiso una piccola croce d'oro non formata da mano d' uomo, ma piuttosto fatta come se fosse vegetando cresciuta, e dentro eravi racchiusa una particella della santa Croce. Da quell'epoca Coletta la portò sempre con sè. Nel modo medesimo ed al principio della sua missione aveva ella ricevuto una cintura luminosamente bianca, che dall'alto erasi abbassata fino sulle sue braccia, mentre si consigliava col confessore sopra i primi passi nella sua grande impresa, che tante cure le cagionava.

9. Liduina, secondo la testimonianza dello scrittore della sua vita, soleva confessare che senza il bastone d'appoggio delle consolazioni del Signore, avrebbe dovuto soccombere agli smisurati suoi patimenti. Ella confessò che cotesta forza nel sopportare le proveniva dalle estasi e dai rapimenti, per mezzo dei quali ella era ogni giorno per un'ora ed anche per lungo tempo trasportata sia nel cielo, cioè nelle abitazioni dei beati, sia anche nel paradiso terrestre; dove provava una tale dolcezza, che coll'aiuto di essa le diveniva sopportabile, anzi piacevole la più amara delle amarezze. Era l'Angelo suo custode, la cui visibile presenza costantemente soleva rallegrarla, quegli che la portava nel paradiso. Abitualmente la portava dapprima innanzi ad un'immagine della Madonna nella chiesa di Schiedam, e di là dopo una corta orazione la guidava con volo rapido, verso oriente, nella regione del paradiso, posta al di sopra della terra. Quando Liduina per la prima volta venne da lui trasportata innanzi alla porta del paradiso, essa per riverenza e meraviglia non osava entrare, e l'Angelo dovè distogliere la timida fanciulla dall'angoscia in cui era, pel timore che il suo piede potesse danneggiare quello spesso e magnifico tappeto di fiori, che il tutto copriva fin dove l'occhio estendevasi. L'Angelo dovette precedere e trarla seco per mano. Se ella meravigliando ed esitando tratteneva i passi, e se sembravale che la grossezza e spessezza degli arbusti fioriti impedissero il cammino, sentivasi tosto rapidamente dall'Angelo sollevata, e trasportata per sopra cotesti ostacoli. La bellezza di quelle sponde inaccessibili al freddo ed al caldo e splendenti di luce meravigliosa, era per lei indescrivibile. Ella gustava dei frutti che l'Angelo le porgeva, o ne aspirava il grato odore. Quando poi dall'Angelo era di nuovo ricondotta a casa, appariva ella non di rado talmente adorna dello splendore ed impregnata dei profumi del paradiso, che i coabitanti della sua casa, pieni di timida riverenza, non osavano accostarsele; poichè il di lei infermo corpo raggiava strali di luce, ed esalava olezzi non comparabili ad alcun profumo dei fiori della terra; e cotesti olezzi derivavano da lei in emanazioni di tanta forza, da abbruciare la lingua dei di lei visitanti come i più acuti e possenti aromi. Il di lei splendore apparve una volta sì veemente, che un suo nipote si diè per paura alla fuga, credendo di veder Liduina in mezzo alle fiamme. Più di ogni altro suo membro, olezzava quella delle di lei mani, per cui prendendola soleva l'Angelo guidarla.

10. Liduina soleva usare di un secco stelo di canapa, che quantunque leggero era per altro assai forte onde ella potesse servendosene con la sinistra mano aprire e chiudere il cortinaggio pendente innanzi al suo letto, onde, lasciando penetrare dentro aria fresca, mitigare l'ardore della febbre. Siccome cotesto stelo di canapa in occasione di un incendio scoppiato in Schiedam le andò per colpa altrui perduto, essa, nella notte del 22 al 23 luglio 1428 trovossi fuori di stato di procurarsi aria più fresca, e niuno eravi presente che potesse aiutarla a procacciarsi cotesto necessario ristoro. L'Angelo per altro le promise aiuto, e poco dopo sentì come egli deponesse un baston cello di legno, della lunghezza di un braccio, in traverso della coperta del di lei letto. Ella lo prese, ma sperimentò esser la sua mano troppo debole per levare quel legno, e disse scherzando: « Adesso si, che davvero sto bene a bastone. » Il giorno di poi pregò il confessore di rendere quella verguzza più leggiera, ma fu appena possibile col mezzo di acuti ferri di toglierne alcune schegge, e coteste spandevano un profumo talmente prezioso, che non osò più oltre danneggiare un sì nobile legno. Riportò il bastoncello a Liduina, che seppe dirgli soltanto essere sua credenza averlo ricevuto dall'Angelo suo custode. Quando di poi Liduina, agli 8 di agosto, festa di san Ciriaco, fu di bel nuovo dall'Angelo rapita e portata in paradiso, ei la condusse presso un cedro stante dinanzi la porta del paradiso medesimo, e le indicò il tronco da cui egli aveva tolto un ramoscello per di lei uso, rimproverandola nel tempo stesso di non avere assai onorato un sì prezioso dono, che avea la forza di scacciare i maligni spiriti dagli ossessiò Liduina rimase a lungo in possesso di quel ramoscello, che perdette soltanto il suo buon odore quando fu toccato da mano colpevole. In una visita posteriore del paradiso (6 dicembre, stesso anno) ella si ebbe ristoro da una palma carica in abbondanza dei più bei frutti, il cui nocciolo sembrava a lei rilucere come cristallo.

Degli altri doni che Liduina seco portò dal paradiso sul di lei misero letto di dolori, basti il menzionare ancora il seguente.

11. Quando Liduina fu una volta rapita sino ai cori dei Santi, intese dirsi dalla santissima Vergine le seguenti benevole parole: « Perchè mai, figlia mia, non sei tu entrata col capo adorno fra queste luminose schiere? » Al che ella semplicemente rispose: « Sono venuta siccome la mia guida, cui deggio ubbidire, qui mi ha portata.» Allora ricevette da Maria una corona, che doveva ritenere per sette ore, e quindi rimetterla al confessore, onde ei la sospendesse all'altare della Madre di Dio nella chiesa di Schiedam, da dove di nuovo sarebbe stata ritolta. Liduina rientrata nello stato naturale di veglia, si rammentò bene di coteste parole, ma non osò prenderle secondo la lettera, finchè non si fu accorta di portare effettivamente sul capo una corona di fiori, fuor di modo olezzante. Prima che fosse trascorso lo spazio delle sette ore accordate, pregò sull'alba del mattino il confessore a venir da lei, e gli consegnò quella corona, che egli, a di lei preghiera, sospese all'altare, da dove, ancor prima del giorno chiaro era di nuovo sparita.

12. Ed ora ritorniamo dopo questa apparente digressione di bel nuovo ad Anna Caterina. Noi sappiamo che il di lei stato di patimento era dell'istessa natura e significazione di quello di Liduina. Oltre a pene non interrotte e da non finire che con la morte, profonde e dolorose oltre ogni misura, che avevano sede nel di lei cuore, eravi in lei un continuo scambio delle più molteplici forme di malattia che spesso si succedevano manifestandosi in sintomi affatto opposti; poichè ella non sopportava soltanto il continuo stato di patimento della Chiesa del suo tempo, ma altresì gli immutabili dolori dei singoli di lei membri. Non eravi nell'intero suo corpo particella che sana fosse o libera dal dolore; poichè tutto, ogni nervo, ogni gocciola di sangue, ogni forza, ogni respiro ella aveva donato a Dio, che aveva accettato il di lei dono, ed ora l'avea posta in una situazione secondo l'umano intendimento affatto stravolta e disordinata; situazione nella quale ogni forza ed ogni natural vegetazione apparivano cambiate in malattie e pene, ed in cui la vita futura le pareva consumarsi nei dolori, siccome in una fiamma ardente. Rassomigliava il di lei corpo ad un vaso bollente sopra un fuoco di carbone, in cui il celeste Medico, non già secondo i metodi e l'arte terrena, ma bensì secondo la legge e l'ordine dell'eterno amore e giustizia preparava mezzi di salute per l'intero suo gregge. Ma anche le di lei forze e potenze spirituali erano incessantemente accessibili e soggiacenti a tutte quelle impressioni di patimento, di cui è capace l'anima nel di lei stato di indivisibile collegamento col corpo: paura, angoscia, dolore, oppressione, abbandono, aridità, mancanza di consolazioni fino al completo esaurimento, tutti quei dolori spirituali e quelle offese, che le passioni di un uomo posson cagionare all'altro, o che la malizia e la perfidia del maligno nemico può preparare alle anime, tutto ciò in lei si accumulava. I terribili rimorsi ed i terrori dei moribondi, l'angoscia mortale dei poveri peccatori, l'anima dei quali sta sul punto di separarsi dal corpo per comparire dinanzi al supremo Giudice, tutto ciò era sovraimposto alle di lei spalle, anzi per giunta i più perversi stati dell'animo, le conseguenze delle passioni, della collera, della vendetta, della impazienza, della gola, della curiosità, doveva ella prenderle sopra di sè, doveva combatterle e superarle, per ottenere ai peccatori la grazia della conversione, o quella di una buona morte. Tutto ciò per altro era superato dal martirio dell'amore che Anna Caterina portava al di lei Sposo divino, alla sua Chiesa, e a quelle ricchezze e tesori della sua grazia e misericordia da lui nel seno della sua Chiesa deposti; poichè ella soprattutto vedeva e soffriva per gli indescrivibili avvilimenti ed irriverenze, che il nemico della salute preparava in quei tempi al sacerdozio. Era a quel maligno riuscito di con durre passo passo sino ai sacri ordini alcuni, i quali, a causa della loro incredulità e partecipazione alle sette segrete, erano al suo servizio, e più tardi, sebben divenuti unti del Signore, non inorridirono dinanzi al maggior dei delitti, quello cioè di combattere con aperta ostilità il Capo invisibile della Chiesa ed il di lui visibile Rappresentante.

Ella vide siccome niuno attacco contro la Chiesa, contro il di lei diritto divino, la di lei gerarchia santificata, il di lei servizio divino, i di lei sacramenti e dottrine, era dalle nemiche potenze messo in campo, senza che prima un Giuda non l'avesse meditato, disposto e preparato, e senza che nella esecuzione di cotesto attacco un Giuda non avesse prestato aiuto e cooperazione per miserabile lucro di danaro. Siccome poi il tradimento del suo apostolo riuscì al Salvatore la più grave di tutte le pene che dovette provare sulla via della croce, così anche nel corpo della Chiesa le ferite le più profonde e le più dolorosamente sensibili son quelle che arrecate gli vengono da alcuno, che insignito sia del carattere sacerdotale. Ciò che accadeva fuor del grembo della Chiesa, gli attacchi contro la verità rivelata ed il mistero della redenzione, per parte di coloro che son separati dalla Chiesa medesima, e nemmeno la più avventata negazione della divina Incarnazione fra gli uomini, non ferirono mai Anna Caterina tanto immediatamente e dolorosamente, quanto i delitti osati contro Dio e contro la Chiesa da ecclesiastici colpevoli; poichè da ciò ella vedeva scaturire conseguenze ben più spaventose di quel che nol fossero gli sforzi di coloro, che figli erano di congreghe già separate dalla Chiesa medesima,

Se anche i di lei dolori corporali non apparivano esternamente tanto possenti e terribili siccome sul corpo di Liduina, non erano già per questo meno profondi o meno acuti e durevoli. Bene spesso avvenne che Anna Caterina contemplò sè stessa ed il suo stato di patimenti subbietti vamente, e come se quello stato fosse quello di un'altra persona; ed allora per quella involontaria partecipazione, prorompeva in queste parole: « Ecco, vedo di nuovo quella monachella dal cuore spezzato. Deve essere mia contemporanea, ma prova ben altre pene che le mie, e quindi non devo più lagnarmi. »

13. I di lei patimenti per la Chiesa avevano sorgente e sede nel cuore, e poi dai membri per non interrotto giro circolare ivi ritornavano; così dal di lei cuore sgorgavano e dilatavansi a tutti i membri del corpo i di lei patimenti, e quindi tornavano alla prima sorgente, cioè nel cuore, quasi volessero acquistare nuove forze a continuare l'infinita loro circolazione. Il cuore è la sede dell'amor divino, nel cuore infondesi lo Spirito Santo, e quindi nel cuore ha radice quel gran legame, che collega tutti i membri della Chiesa in un solo amore. Niun altro tempo avea mai tanto parlato di amore, quanto quell'epoca, che non possedeva omai più alcun amore ed alcuna fede, ed in cui ogni vita regolata secondo la fede e le sue prescrizioni o secondo la cristiana pietà minacciava di estinguersi affatto, poichè le venivano impediti tutti gli esercizi e manifestazioni, annodate strettamente le arterie vitali, ed ingombrate e chiuse quelle vie, per le quali necessariamente devono progredire e soddisfarsi le sue esigenze, e svilupparsi il prospero suo successo. Era quell'epoca in cui la più perversa ed ipocrita delle sette che mai abbiano corroso il cuore della Chiesa, protetta e favorita dalle congreghe segrete, i capi delle quali e i più zelanti servitori sedevano anche nei consigli dei principi spirituali, aveva rotto ogni argine ed era straripata al pari di un torrente devastatore nella vigna della Chiesa. Intendiamo parlare dell'illuminismo giausenistico. L'impuro spirito di cotesta setta, tanto fra le altre distinta pel di lei cieco odio contro la santissima Vergine e contro il Capo della Chiesa, era quello che tentava di recidere una parte dopo l'altra ed un membro dopo l'altro dal punto centrale, cioè dal cuore della Chiesa, e di rendere inoltre coteste recisioni insanabili, facendovi filtrare frammezzo estranei elementi; chè appunto col veleno del suo preteso « amore e miglioramento » perseguitava quelli fra i principii della fede, fra gli esercizi di pietà, fra le abitudini e gli usi ecclesiastici, con l'offesa e il danno dei quali era sicura di arrecare alla vita cristiana le ferite le più mortali. Tutto sembrava riunito per assicurare un pieno trionfo a questa pericolosissima persecuzione della fede; poichè l'esterno ordine ecclesiastico era stato ridotto in frammenti dalla potenza secolare; saccheggiati erano i beni della Chiesa; vedove le cattedre di pastori; di spersi gli ordini monastici; il Capo della Chiesa prima paralizzato dalle arti e dai maneggi, e poi finalmente tra scinato in prigione dagli sgherri di quel prepotente, che bene spesso venne mostrato in visione ad Anna Caterina siccome un oppressore della Chiesa.

« Mentre io una volta (raccontò Anna Caterina) pre gava dinanzi al santissimo Sacramento per la salvezza della Chiesa, venni ad un tratto trasportata in una chiesa grande e splendidamente ornata. Colà vidi come il Vicario di Cristo, il Papa, ungesse re un uomo piccolo, giallastro e cupo. Era una solennità, ma io fui presa da angoscia e cordoglio a quella vista, e sentii che il santo Padre avrebbe dovuto anche con più seria fermezza a ciò rifiutarsi. Mi fu mostrato quali patimenti quel Capo e dominatore di popoli cagionerebbe al santo Padre, e quale spaventosa quantità di sangue egli farebbe ancora versare. Parlai di quella vista e del mio terrore all'abate Lambert, che dichiarò il tutto pura immaginazione. Ma quando si seppe la notizia della consacrazione di Napoleone per mano di Pio VII, disse l'abate Lambert: Ma soeur doit prier et se taire.

14. In quel tempo Anna Caterina portò sopra di sè i patimenti della Chiesa, e quindi è ben concepibile che il di lei cuore dovesse essere preparato a quello scopo. Quei patimenti sopravvenivano in lei non già in forma di un dolore universale o come un malessere non preciso, che si diffonde in tutte le parti del corpo, ma le venivano piuttosto imposti da Dio come missioni precise e accurata mente circoscritte in parti o periodi di tempo determinato; e coteste limitate missioni di dolore e di espiazione ella doveva perfettamente adempirle per poi passare senza in tervallo di tempo ad altre nuove. Ognuna di coteste missioni a lei imposte le veniva specialmente dimostrata in visione sotto forme simboliche, affinchè l'accettazione di quei dolori divenisse un merito del di lei amore; ed ogni giorno accadeva in lei ciò che nella parabola fece il padrone della vigna nel trascorso di lunghi periodi di tempo; poichè da quel padrone a lei era stato affidato il lavoro in cotesta sua vigna. Gli avvisi del da farsi li riceveva in visioni, ma il lavoro stesso doveva essere compiuto secondo l'ordine e le circostanze della vita esterna.

Nelle visioni vedeva e capiva Anna Caterina perfetta mente l'intima significazione e la correlazione dei suoi patimenti con lo stato della Chiesa; ma la vita quotidiana si frammezzava a tutto ciò con sì crude contraddizioni che talvolta le pesavano assai più le circostanze esterne, di quel che nol fossero gli stessi suoi patimenti spirituali. Nondimeno erano quei primi patimenti l'inevitabile integrazione degli ultimi, ed erano sino nella più piccola circostanza e nelle accidentalità apparentemente le più insignificanti, da Dio calcolati e compresi nella totalità della di lei missione; dimodochè questa sua missione potea soltanto valere e contarsi come compiuta, quando realmente compiuta veniva durante e frammezzo i disturbi, le interruzioni, le contraddizioni, le angustie, gli scoraggiamenti preveduti da Dio. Precisamente nel sopportare paziente mente e nel superare costantemente tutti gli avvenimenti esterni, nell'adempire con ogni coscienza tutte le esigenze ed i doveri che seco traeva l'esterna di lei posizione, o che le imponevano i circostanti, e coi patimenti interni i più gravi, ed altri affatto incomprensibili ed ascosi, doveva la virtù di Anna Caterina conservarsi e confermarsi, e da ciò derivava la vera sorgente dei suoi meriti e l'aroma ed il buon odore della vita sua dinanzi a Dio. Tutta la di lei vita in convento e sino alla morte resterebbe per noi un incomprensibile enigma, ovvero un fatto insignificante, ove perdessimo d'occhio cotesta disposizione di Dio nella direzione imposta a simili anime elette. Anche durante il tempo della di lei vita sentironsi varie persone commosse dalla vista di Anna Caterina, e dierono involontariamente testi monianza dell'alta chiarezza e purità di anima che in lei riconobbero, ma in qualche guisa riuscivano per loro d'intoppo e di scandalo quelle basse ed apparentemente disordinate giornaliere relazioni, nelle quali la monachella, scacciata dalle mura del suo convento, viver doveva. Coteste persone si scandalizzarono di quanto la circondava, dell'affollarsi dei poveri, dai quali non poteva schermirsi, e del di lei stato privo di ogni protezione e soccorso, mentre non riconobbero punto che quel povero strumento di espiazione, che era Anna Caterina, non poteva nè doveva rallegrarsi di miglior sorte di quella che sopportava la Chiesa medesima, affollata allora da angustie quotidiane e posta come nel centro della distruzione di ogni ordine divino ed umano sopra la terra.

15. Anna Caterina non avrebbe potuto sopportare il miserabile stato della Chiesa, se della Chiesa non avesse vissuto ad un tempo la soprannaturale, luminosa, celeste vita. Siccome la Chiesa va pellegrinando sulla terra, e nel medesimo tempo è in commercio col cielo; siccome ella sospira nelle angustie dell'evo presente, e ciò nondimeno porta in sè vivente la salute di tutti i tempi; siccome ella si addolora per la lontananza del divino suo Sposo elevato alla diritta del Padre, e nondimeno ogni giorno nel modo più intimo con lui vivente si riunisce: così pure Anna Caterina non dovea soltanto condolersi con la sposa che si lamenta nella valle delle lagrime, ma per mezzo del dono di visione con lei si sollevava altresì al di sopra della volubilità del tempo e della distanza dello spazio. L'intero ciclo festivo della Chiesa era per un tempo presente vivo ed effettivo in tutta la sua verità e senza alcun velo; ed ella compariva ed entrava, partecipandovi come una con vivente nelle giornaliere solennità ecclesiastiche dei misteri e dei fatti della fede più prossimi e trasparenti a ' di lei occhi spirituali, di quel che nol fossero ai di lei occhi corporei gli oggetti del mondo esteriore. La vivacità poi della sua fede e la forza del suo amore la rendevano capace non solo di contemplare semplicemente l'attuale presenza della Redenzione compiuta, senza alcun velo od oscurità cagionata dalla lunghezza del tempo trascorso, ma le permetteva di più di venire con quei misteri in una relazione di vita meravigliosamente intima e troppo al di sopra dei sensi. Durante cotesto di lei concorso a quelle sacre solennità essa riceveva dal suo Sposo celeste non soltanto le missioni che in pro della sua Chiesa e secondo l'ordine ecclesiastico ella doveva compire nella sua vita esterna, ma altresì la forza e la consolazione dello spirito e la non turbabile serena pace del cuore, onde ciò non venisse a mancarle in mezzo a martirii senza fine. Per quanto potesse comparir semplice e chiara ad Anna Caterina la correlazione dei patimenti corporei con la missione espiatoria a lei imposta, pure le sarebbe stato impossibile, in mezzo all'affollamento molteplice delle circostanze esterne che l'assediavano e nello stato di vita naturale, di poter rendere conto di tutto ciò, quand'anche ne avesse avuto occasione o le fosse stato imposto di parteciparlo ad altri. Dinanzi poi alle monache ed al medico non avrebbe mai arrischiato di parlarne, poichè sarebbe stata ritenuta per istupida o per pazza. Quindi si sottomise di buona voglia a tutte le erdinanze del medico, e sopportò pazientemente tutti i tentativi della sua scienza, affatto estranea ed ignara di cotesta alta regione, e che pure pretendeva guarire in lei quei mali, per soffrire i quali ella appunto viveva.

« Io ho (confessò essa una volta) ed in convento ed anche dopo infinitamente sofferto a causa delle medicine.

Spesso ne venni condotta in punto di morte, poichè sempre mi si davano medicine troppo forti e troppo violentemente operanti. Quantunque io anticipatamente sapessi quanto mi riuscirebbero dannose, nondimeno l'obbedienza esigeva che le sorbissi. Se alcuna volta lo tralasciava a causa del trovarmi assente in ispirito, tosto nasceva il sospetto che io lo facessi avvedutamente, e che le mie malattie fossero finzioni. Inoltre quei medicinali erano molto cari, e spesso un fiaschetto comprato a caro prezzo non era ancora mezzo vuoto, che già un secondo me ne veniva prescritto. Io stessa doveva sopportare le spese di tutto ciò, e nondimeno tutto fu pagato. Non posso comprendere da dove mi venisse tanto danaro. È vero ch'io lavorava molto in cucito, ma tutto il guadagno lo consegnava al convento. Verso la fine poi la comunità pagò la metà dei miei conti.

« Spesso mi trovava in tale stato di patimento, che davvero più non sapeva come aiutare me stessa; ma se allora io veniva dimenticata anche dalle mie consorelle, Iddio esercitava la sua misericordia sopra di me in qualche altro modo. Io mi giaceva un'altra volta immersa nel freddo sudore di una mortale debolezza, ed ecco che vedo venire a me due monache, che dispongono il mio letto in modo comodo e con nettezza, mi sollevano adagio e mi vi collocano di nuovo, dimodochè io mi sentii intieramente ristorata. Dopo qualche tempo entrò nella mia cella la reverenda madre con una consorella ed ambedue meravigliate mi domandarono chi mi avesse sì bene acconciato il letto. A questa dimanda io mi pensai che loro stesse avessero ciò fatto, e le ringraziai per cotanta carità. Esse dichiararono per altro decisamente che nè alcuna di loro, nè altre delle consorelle erano entrate nella mia cella, e ritennero per un sogno quel che io narrava di due monache del nostro ordine, che aveva vedute occupate d'intorno a me; ma intanto il mio letto era rifatto ed io mi sentiva ristorata. Dopo ebbi luogo di conoscere chi fossero le due monache, che tanta carità e benevolenza mi avevano dimostrata. Erano anime sante di monache, che altra volta avevano vissuto nel nostro monistero.

16. Sopra questo fatto posteriormente depose Chiara Söntgen dinanzi all'autorità ecclesiastica la seguente testimonianza:

« Siccome la Emmerich era molto ammalata, andai una mattina nella di lei cella per vedere come si trovasse. Le dimandai chi mai sì di buon'ora le avesse rifatto il letto, e se avesse potuto sopportarlo senza troppo soffrire. A ciò ella rispose che la reverenda madre ed io eravamo già state da lei e le avevamo racconciato il letto in sì buon ordine, e che avevamo fatto prestissimo. Ma il fatto si è che nè la reverenda madre nè io eravamo state da lei. »

17. « Trovandomi in simile necessità (raccontò Anna Caterina) fui di bel nuovo da due monache sollevata dal letto e dolcemente collocata in mezzo alla cella. In quel momento entrò all'improvviso una delle mie consorelle, e siccome mi vide sollevata dal suolo senza verun appoggio sotto il dorso, gittò un tal grido che io per lo spavento caddi dolorosamente a terra. Da ciò ne nacque una quantità di discorsi in convento, ed io fui per lungo tempo tormentata dalle domande delle vecchie consorelle, che volevano sapere come mai potessi stare così distesa per aria; ma non potei appagarle in verun modo, poichè non faceva veruna speciale attenzione a simili cose, e tutto ciò sembravami affatto naturale. »

18. Quanto oltre ciò abbisognava a sostenere il debole vaso del suo corpo, onde non si dissolvesse nel fuoco dei dolori, le era inviato dal celeste suo Sposo dalle regioni dell'Eden, rimase intatte dagli effetti della colpa e della pena; regioni, i di cui prodotti in sè contengono sì meravigliose benedizioni, che tutte le miserie e le pene della terra devono cadere e dileguarsi dinanzi a loro. La cognizione di cotesti ascosi andamenti la dobbiamo alle dirette partecipazioni di Anna Caterina, la quale negli ultimi anni del viver suo ed in alcune circostanze apparentemente accidentali dovette rivelarle per comando della di lei guida celeste, come pure per esigenza del di lei confessore. Coteste rivelazioni sono sicuramente brevi ed incomplete, pur nondimeno contengono assai per poterne con certezza conchiudere che a lei succedeva lo stesso che successe altre volte alla beata Liduina.

19. « Ogni medicamento (così raccontò essa) che mi rendeva salute, era soprannaturale. Ogni rimedio del medico quasi mi uccideva, e ciò non ostante io lo doveva prendere e pagare carissimo; ma Iddio mi dava il danaro e lo moltiplicava nelle mie mani. Tutto quanto io domandava mentre trovavami in convento, Iddio me lo concedeva; ed ho ottenuto anche molto in pro del monastero. Anche più tardi, dopo che ebbi lasciato il chiostro, mi è avvenuto lo stesso. Dopo che una volta ebbi ottenuto una assai buona somma e l'ebbi spesa, lo raccontai al signor decano Rensing. Mi disse che era bene che glielo avessi raccontato; quando però ciò succedesse di nuovo, che glielo dovessi mostrare. Da quel tempo in poi la cosa cessò.

20. « Durante il mio secondo esame del processo inquisitorio detti alla mia assistente due talleri, perchè in pro mio facesse il pellegrinaggio di Telgt, e colà facesse celebrare delle Messe per me. La serva di casa mi prestò quei due talleri, ed io li diedi alla mia assistente. Subito dopo trovai due talleri nel mio letto. Rimasi molto sorpresa di ciò, e mi feci mostrare dalla assistente i due talleri che le aveva dati. Quando riconobbi quei talleri per quelli che le aveva consegnati, allora mi accorsi chiaramente che Iddio aveva rinnovato in mio favore una grazia già fattami altre volte; ed in conseguenza consegnai i due talleri trovati nel letto alla serva in estinzione del mio debito.

21. « I rimedii li riceveva dalla mia guida celeste, ed anche dal divino mio Sposo, da Maria e dai cari Santi. Li riceveva talvolta in caraffe luminosamente trasparenti, talora in forma di fiori, o di bottoni di fiori, o di erbe, od anche di piccoli bocconi. A capo del mio letto era situato un piccolo sostegno di tavola, sul quale tanto in visione, quanto anche in istato di vita naturale, trovava depositati quei meravigliosi rimedi. Spesso ancora trovava accanto a me nel letto quei mazzetti di erbe indescrivibilmente fine, gentili ed odorose; o quando rientrava in me stessa, mi accorgeva di averli in mano. Toccava quelle delicate e verdi foglie, e sapeva benissimo come usarne. Esse mi fortificavano col loro grato olezzo, o pure io doveva masticarle, o infonderle nell'acqua e poi berla. Sempre ne riusciva molto ristorata, e mi sentiva talmente guarita da poter intraprendere ogni opera per più corto o per più lungo tempo.

22. Io riceveva ancora da alcune apparizioni immagini o figure o pietre, e quelle apparizioni a me si accostavano e m'insegnavano come io dovessi usare di quei loro doni. Talvolta simili regali mi venivano posati o in mano o sul petto, e mi davano forza e ristoro. Varii di quei doni io poteva per assai lungo tempo conservarli, e con quelli guarire anche altre persone; io li impiegava qua e là, od anco li regalava; ma non ho mai detto da dove li avessi ricevuti. Tutti cotesti regali sono per me reali e sicuri eventi della mia vita; ma come ciò mi avvenisse, non lo posso spiegare. Ciò succedeva in verità ed usava di tutte coteste cose in ispirito di verità e ad onore di Colui, che per misericordia me le mandava.

23. « Essendo ancora novizia, una volta era genuflessa di nanzi al santissimo Sacramento ed orava a braccia aperte; ed ecco che mi fu posta in mano una bella immagine di santa Caterina, che pareva dipinta come sulla pergamena.

L'ho posseduta per lungo tempo, finchè la regalai ad una buona fanciulla, che mi aveva pregata di un mio ricordo, e che anche volentieri sarebbe stata monaca, ma che non potè pervenirvi. Quando quella povera creatura venne a morire, ordinò che quella immaginetta fosse deposta nel feretro sul di lei petto.

24. In una posteriore malattia ricevei dal mio Sposo celeste una pietra formata a foggia di cuore, chiara, trasparente, più grossa di un tallero, e in cui appariva l'immagine della Madre di Dio col Bambino, in color d'oro, rosso e celeste. La pietra era liscia e dura, l'immagine per altro finissima, e il di lei aspetto mi ristorava talmente che ne guarii affatto. La racchiusi in una borsetta di pelle e la portai lungo tempo sopra di me, finchè mi fu ritolta. In tempi posteriori ricevei dal mio Sposo celeste un anello, che egli mi pose in dito; eravi dentro una pietra preziosa con l'immagine scolpita della sua santissima Madre. Potei ritenerla lungo tempo, finchè mi fu da lui stesso ritolta dal dito.

25. Anche dal santo fondatore del mio ordine ho ricevuto un dono consimile. Ciò accadde in occasione della sua festa, mentre io giaceva in letto oppressa da gravi dolori. Accostavasi l'ora in cui tutta la comunità doveva andare alla santa Comunione. Niuno immaginavasi che io potessi prendervi parte. A me per altro sembrava come se fossi chiamata; andai in chiesa e ricevetti con le altre il santissimo Sacramento. Ritornata di chiesa caddi svenuta e fui non so da chi sollevata e posta sul mio letto vestita come mi trovava. Allora mi apparve sant'Agostino e mi diè una pietra trasparente e luminosa, formata a guisa di una fava, da cui siccome germoglio scaturiva un cuore rosso con una piccola croce sovrapposta. Inoltre ebbi per ammonimento che il mio cuore avrebbe dovuto divenire luminoso al pari di quella rifulgente pietra. Quando mi destai rientrando in me mi trovai avere in mano cotesta pietruzza. La deposi nel mio bicchiere d'acqua e ne bevvi per lungo tempo, cosicchè ne fui guarita. In seguito cotesta piccola pietra mi fu di bel nuovo ritolta.

26. « Un altro dono potei conservarlo durante sette mesi, cioè finchè durarono certi gravi patimenti che m'impedivano di uscire dal letto. Durante tutto quel tempo mi fu talmente impossibile il prendere alcun cibo, che le monache non potevano capire di che mai io campassi. Ogni giorno la sorella infermiera mi portava da mangiare, ma io non poteva farne alcun uso. Aveva per altro ricevuto un altro cibo dall'apparizione della Madre di Dio; cibo che, al mio destarmi dalla visione, mi trovai stringere in mano. Era simile ad una grossa ostia luminosamente bianca, ma assai più densa e molle di un'ostia comune, e mostrava impressa l'immagine della beatissima Vergine con anche alcune lettere. Io ne provai grande riverenza, siccome per reliquia od altra cosa molto santa. Era piacevolmente odorosa oltre ogni modo, e durante la notte io la vedeva risplendere. La tenni ascosa presso di me in letto, e durante sette mesi ne mangiai giornalmente alcuni frammenti, che sempre moltissimo mi ristoravano. Alla fine disparve, ed io ne fui molto angustiata come se avessi perduto cotesta manna. Era dolce al gusto, ma non avea già la dolcezza del santissimo Sacramento.

27. Mentre una volta di notte genuflessa dinanzi la piccola tavola della mia cella pregava Maria, vidi una donna altamente luminosa penetrare per la porta, quantunque chiusa, e senza toccare il suolo venire come per aria a posarsi sul più stretto lato della tavola, ed ivi genuflettersi come ad orare. Ne fui spaventata, e nondimeno rimasi tranquillamente in orazione. Allora quell'apparizione genuflessa posò dinanzi a me un'immagine della Madre di Dio, alta circa un palmo, bianca e rilucente, e quindi posò per alcun tempo la mano aperta sulla mia tavola, e precisamente dietro a quella immagine. Io mi ritrassi timidamente alquanto indietro, ma allora quella mano spinse l'immagine finchè mi fu vicina, ed io allora con tutta l'intima forza del cuore la venerai. Quell'apparizione svanì, ma il quadro rimase. Era una Vergine col Bambino, stante in piedi, delicatamente ed ineffabilmente bella, e lavorata come in avorio. L'ho per lungo tempo portata sopra di me con gran riverenza, e poi secondo un interno avviso l'ho donata ad un sacerdote straniero, al quale fu poi ritolta al momento della sua morte.

28. Ricevetti una volta da Maria un meraviglioso fiore, che si apriva quando stava nell ' acqua. Chiuso, rassomigliava ad un bottone di rosa; aperto poi mostrava i più delicati petali di molteplici colori, significanti i differenti effetti spirituali che cotesto fiore in me doveva produrre, e spirava un olezzo ineffabile. Io doveva deporlo nel mio bicchiere e bere l'acqua in cui si bagnava, durante un mese. Alla fine mi nacque grave preoccupazione intorno al dove porrei cotesto dono risanante, onde non venisse profanato; e ricevei in visione l'ammonimento di far preparare una nuova corona per la statua della Madre di Dio nella chiesa del nostro convento, e d'intrecciare quel fiore in quel nuovo serto. Allorchè parlai di ciò colla superiora e col confessore, vollero che risparmiassi il mio danaro, e che ritardassi l'adempimento di quella idea. Mi fu per altro di nuovo comandato di non tardare, ed allora il confessore lo permise. Feci fare quella corona nel convento delle clarisse in Münster, e poi vi attaccai da me stessa quel fiore. Siccome tutto il vestiario di quella statua di Maria non era con assai cura conservato dalle mie consorelle, così io stessa teneva sempre in cura presso di me la corona. Mi accorsi sempre della presenza del fiore in quella corona sino alla soppressione del convento; allora per altro disparve, e mi fu mostrato in visione essere stato trasportato in altro luogo.

29. Mi rammento che ricevetti una volta dalla mia guida un vasetto pieno di balsamo. Era biancastro e somigliava ad un olio denso. Mi fu di giovamento in una grave contusione cagionatami da una cesta piena di umida biancheria, che venne a cadere sopra di me, e potei con questo giovare anche ad altri poveri ammalati. Quel vaso era di una forma a guisa di pera, e con un collo svelto e sottile; di grossezza poi come una media caraffa da medicine; era molto chiaro e trasparente, e lo conservai per lungo tempo nel mio armadio. Anche certi piccoli bocconcelli ebbi per lungo tempo presso di me per usarne, e con cotesti poteva anche giovare e guarire molti poveri. Allorchè la superiora li trovò presso di me, me ne fece rimprovero, poichè non seppi dirle donde mi erano venuti. »

30. Nell'ottobre dell'anno 1805 dovette Anna Caterina aiutare una consorella ( 1) nel sollevare l'umida biancheria del convento distesa ad asciugare sul suolo; essa stava in alto all'abbaino del soffitto per ricevere la cesta, che dalla consorella veniva innalzata. Colei che stava di sotto e che doveva sollevare in alto la cesta ripiena, lasciò per inavvertenza sfuggirsi di mano la corda nel momento in cui Anna Caterina su in alto stava per ricevere quel peso e deporlo in soffitta. Fu quindi in grave pericolo di cadere con quel peso, ben superiore alle sue forze, addosso alla con sorella che era di sotto, ma ne fu liberata dall'Angelo, che immediatamente afferrò la fune ondeggiante. Per altro, causa il potente sforzo da lei fatto, cadde all'indietro sul suolo, e la cesta le si rovesciò sul femore sinistro. Da ciò ne provenne una contusione estesissima non solo dell'osso del femore, ma altresì di altre parti del di lei corpo; contusione, che avrebbe potuto divenire mortale, se Iddio non avesse voluto conservarla in vita malgrado sì grave lesione. Bentosto divenne chiaro e visibile che cotesto avvenimento, apparentemente accidentale, era stato disposto da Dio come cosa d'importanza nella di lei vita, e appunto come lo fu per la beata Liduina la sua caduta sul mucchio di ghiaccio; giacchè non soltanto dall'aumento di quelle pene corporee ne venne accrescimento straordinariamente maggiore ai di lei patimenti espiatorii; ma le conseguenze non guaribili di coteste contusioni le arrecarono inoltre ogni giorno nuove occasioni di sopportare per amor di Dio umiliazioni della più sensibile natura. Così, d'allora innanzi nella sua qualità di aiuto alla sagrestana del monastero non potè più suonare le campane se non che con la maggiore difficoltà. Anzi talvolta le diveniva impossibile di prestare cotesto servizio, e ciò allora le veniva imputato a colpa d'orgoglio o di negligenza; ma effettivamente le riusciva a gran privazione quando non poteva suonare; giacchè cotesto impiego era per lei una sì grave e degna preghiera in azione, che mentre vi era occupata pareva dimenticare tutti i suoi gravi dolori.

« Io provava sempre (confessò ella una volta) un senso di felicità ogni qual volta suonava la campana consacrata, come se spandessi all'intorno benedizioni e chiamassi ad alta voce gli uomini tutti anche da gran distanza alle lodi del Signore. Io univa i miei sospiri e le mie preci ad ogni squillo della campana, onde quel suono scacciasse dal cuore di tutti coloro che l'udivano ogni rea cosa, e vi destasse invece la lode di Dio. Volentierissimo avrei io suonato molto più a lungo di quel che l'osassi e che fosse prescritto. »

E chi non riconosce che la dolce pietà di cotesta monachella, suorante la campana in mezzo a tanti dolori, esser doveva innanzi a Dio un' espiazione del selvaggio modo di agire di quell'epoca priva di fede, che con una rabbia affatto inesplicabile perseguitava e proibiva l'uso delle campane consacrate?

31. Nel modo stesso divenne per lei dolorosissimo e talvolta quasi impossibile il lavoro di coltivazione del giardino, come pure il lavare, lo stirare, l'increspare ed acconciare la biancheria dell'altare e degli ornamenti sacerdotali; Iddio solo conosce a quali sforzi ella si sottomise onde, malgrado ogni dolore, potere aver cura dei pannilini della chiesa. Come poi cotesto suo zelo fosse da lui ricompensato, apparisce luminosamente dal fatto seguente. Mentre Anna Caterina una volta con alcuna delle sue con sorelle era intenta a stirare i camici, le scivolò il ferro rovente dalla guaina sopra uno di quei camiei stesi. Nella più grande angoscia, pel timore che ne venisse abbruciato, con interna giaculatoria a Dio, piena di coraggio afferrò quel ferro rovente, e sollevandolo dal camice lo depose con la stessa sua mano sul suolo, dove tosto produsse con l'eccessivo suo ardore un forame. Ma nè quel camice, nè • la di lei mano ne rimasero punto offesi; e nondimeno ambe le di lei mani erano tanto delicate e tanto consunte dai continui dolori che in esse soffriva, che una volta le venne detto:

« Mentre io era ancora in convento, le mani mi facevano sempre tanto male. Le teneva incontro al sole ed erano divenute sì magre, che i raggi solari siccome dardi trapassandole rilucevano al di fuori. »

32. Anche la preparazione delle ostie le divenne, a cagione del peso della forma di ferro, infinitamente penosa. Questo era per lei affare talmente importante, anzi santo, che soleva attendervi con riverenza e continua orazione.

Una volta, al tempo in cui doveano prepararsi nuove ostie, ella giaceva in letto gravemente ammalata, ed era conturbatissima per la di lei impotenza ad occuparsi in quel lavoro. Quindi implorò aiuto da Dio, raccolse a grande stento le forze, si trascinò in chiesa, rinnovò le sue preci dinanzi al santissimo Sacramento onde ottenere forze bastanti a preparare le ostie. Ben tosto ella sentissi come in un bagno di sudore, ma pure resa abbastanza forte a far quel lavoro. Non era per altro sola nell'opera, giacchè l'Angelo suo l'aiutava. Appena ebbe finito, che di nuovo sentissi ammalata come prima, e solo a grande stento potè rientrare in cella.

33. Dopo la caduta con la cesta dei pannilini dovette Anna Caterina, a causa delle conseguenze che ne deriva rono, restare in letto sino al febbraio 1806. In quell'epoca i dolori alla cavità dello stomaco aumentarono talmente che ella dovette vomitare molto sangue. Se a ciò si frapponeva una corta interruzione, pure il fenomeno si rinno vava di tempo in tempo sì potentemente, che in ogni la voro un sangue fluido e chiaro le sgorgava dalla bocca e talvolta con tal forza, da far temere alle consorelle che ella affatto rimanesse dissanguata.

34. Poichè coteste consorelle sì di frequente dovettero convincersi del come Anna Caterina rapidamente guarisse da mortali debolezze che non si potevano disconoscere, e riguadagnasse forze sufficienti a ritornare con una rapidità inaspettata ai suoi lavori, così nacque in esse ferma la convinzione che in tutte le di lei malattie non vi era alla fin fine nulla di veramente grave, e che verun male, per quanto anche ella paresse soffrirne, poteva apportarle danni particolari.

Da ciò si può ben desumere come, in conseguenza di cotesta convinzione, le cose fossero disposte per la cura di quella povera paziente. Le monache si abituarono a por mente appena se Anna Caterina era in grado o no di uscir dalla cella ovvero anche dal letto; e così ne avveniva che nel più freddo tempo d'inverno ella poteva a tutt' agio gelare sulla paglia del suo letto posto accanto all'umido muro della cella, o languente nel più vivido della febbre sospirare invano per un bicchier d'acqua fresca. Un'anima compassionevole della piccola città di Dülmen sentì una volta parlare di tanta miseria e ne diè cognizione al duca di Croy, il quale allora fece accomodare in convento una camera d'infermeria con la sua stufa, onde Anna Caterina potesse esservi trasportata.

35. Il medico del monistero dichiarò nell'anno 1813 di nanzi all'autorità ecclesiastica quanto segue: « Il trattamento della Emmerich ammalata in convento non fu sempre quello che avrebbe dovuto essere. Una volta la trovai dopo un potentissimo sudore, tutta tremante pel freddo nel suo letticciuolo. Non avea biancheria da cambiarsi, e camicie e lenzuola prima interamente inzuppate nel sudore, erano divenute affatto rigide pel gelo. Varie monache si sono spesso lagnate dell'aggravio che la Emmerich con le sue frequenti malattie cagionava al convento, ed hanno con ciò talvolta disanimato ed ammutito la infermiera, la reverenda superiora ed alcune delle con sorelle, meglio disposte di animo verso la inferma.

« Al primo del mese di maggio dell'anno 1810 venne ella affetta da una potente febbre nervosa. Durante cotesta seria infermità che si prolungò per più di due mesi e che ella per tutto quel tempo sopportò nella sua fredda cella, ha dovuto spaventosamente soffrire. Abbondantissimi su dori, lunghi svenimenti, dolori e convulsioni più o meno alternandosi l' hanno oppressa. »

36. Quando Anna Caterina stessa fu obbligata per ubbidienza a dare conto delle cure ricevute in monastero durante le di lei malattie, si espresse nella guisa seguente: « Sul principio, quando entrai in monastero, la cura degli ammalati principalmente sembrava non essere in buon ordine. Non vi era precisamente alcuna stanza d'infermeria, e non vi fu finchè il duca di Croy non riseppe che le inferme dovevano nell' inverno restare nelle loro proprie celle non riscaldate, e che erano male assistite; quindi egli non solo ebbe cura che fosse acconciata una stanza ad uso delle ammalate, ma a questo effetto fece regalo di una stufa. Sono stata ammalata un paio di volte, e fui assistita dalla mia consorella Söntgen per quanto a lei lo permettevano le cure della scuola; un'altra volta, la mia consorella Neuhaus mi ha usato questo servigio di carità durante la mia malattia. Per tutto il tempo che da queste due sorelle sono stata assistita, non ho avuto motivo di fondate lagnanze, nè per dispiaceri ricevuti, nè per mancanza di conveniente cura; quantunque ambedue, a causa del servigio di carità che mi rendevano, abbian dovuto sopportare alcune spiacevolezze da varie nostre consorelle, che non erano verso di me bene inclinate. Dopo quel tempo la monaca E.... fu destinata ad infermiera, e costei a cagione dei suoi straordinari capricci e delle sue negligenze nell'esercizio delle sue funzioni mi ha dato occasione durante la malattia a molte lagnanze. Spesso mentre avrebbe dovuto venire presso di me, se ne andava nella sua cella a lavorare per conto suo; spesso mi lasciava sul mattino per sì lungo tempo, senza curarsi punto di me, che io tremava dal freddo, giacendo involta in una camicia affatto intrisa di sudore; ed inoltre, non potendomi aiutar da me stessa, doveva soffrire la più penosa sete ed altri incomodi dolorosi. Bene spesso mi lagnai con la reverenda madre non solo del modo di condursi della E.... verso di me, ma altresì per la mancanza delle necessarie cure, e ciò lo feci sul consiglio del mio confessore; ma questo poco giovò, perchè la reverenda madre non era troppo inclinata a mio favore. Talvolta ha ella rimediato alle cause delle mie lagnanze; talvolta mi ha risposto essere il monistero troppo povero per potere tutto procurar alle ammalate come avrebbe dovuto essere, e d'altronde non essere io mai contenta. Devo inoltre dire a sua discolpa che ella aveva sì poca compassione per me nella mia malattia perchè non mi credeva cotanto ammalata come lo era realmente, e che ella ha avuto a suo tempo miglior cura delle inferme di quello che, come dicevano le più anziane delle mie consorelle, se ne fosse avuta nel passato; ed a cagion di ciò potrebbe essere che dalle une o dalle altre ne abbia raccolto qualche dispiacenza. »

Cotesta sopramenzionata infermiera era appunto quella che ricevè da Anna Caterina i più caritatevoli servigi, quando presa da male che cagionava nausea e disgusto, ed a cagione del di lei burbero carattere veniva nel monistero evitata da tutte. Ed in questo si presentò ad Anna Caterina la sempre ben grata occasione non solo di compensare con la più commovente bontà le male azioni ricevute, ma inoltre in grazia di cotesto compenso di sopportare con sempre maggiore carità nuove offese.

37. L'unica sostanza terrena di nutrimento di cui Anna Caterina provasse bisogno, allorchè lasciando il letto, poteva tornare in coro ed al lavoro, era il thè ovvero un leggero caffè.

« Io ho (confessò ella al decano Rensing) spesso passato successivamente più notti senza dormire; di rado ma molto, ho potuto dormire un poco; il più delle volte il mio sonno era soltanto un sopore leggero, e spesso interrotto. Quindi ne succedeva, specialmente quando aveva anche abbondanti sudori, che sul mattino mi sentissi male assai, talmentechè non poteva alzarmi ed andare al mattutino, che solo dopo aver bevuto un poco di caffè; e quindi ascoltata la Messa, mi sentiva di nuovo in grado di occuparmi dei miei affari e dei lavori. A causa di ciò le mie consorelle si spesso si burlavano delle mie malattie, e le chiamavano finzioni, immaginazioni ed esagerazioni. »

Era uso nel convento che le monache dovesser pensare da loro stesse alla colazione. Siccome Anna Caterina non possedeva nè danaro, nè provvista di caffè, così soleva andare sul mattino col di lei piccolo vaso in cucina, ove raccoglieva la fecula ed i fondi del caffè gettati come inservibili dalle consorelle, e se ne preparava una bevanda che sorbiva senza zucchero. La Chiara Söntgen, cui dobbiamo la cognizione di questi fatti, ne aveva talvolta misericordia e spartiva con lei la propria colazione; con ciò, per altro, non andò molto a lungo, poichè, secondo la propria sua confessione, si lasciò indurre dalle chiacchiere delle consorelle a non usar più cotesta carità verso Anna Caterina. Ma qui sopravvenne un altro aiuto; poichè mentre Anna Caterina una volta dal coro ritornava nella cella che aveva lasciata ben chiusa, trovò sulla pietra d'appoggio della finestra due talleri, che ella tosto portò alla superiora, la quale le permise di comprare con quel denaro del caffè che le servì per lungo tempo.

38. La stessa Chiara Söntgen nell'anno 1813 fece testi monianza dinanzi all'autorità ecclesiastica di altro caso di un simile aiuto:

« Per tutto il tempo che ho conosciuto la Emmerich, ho sempre osservato aver dessa provato gran gioia quando poteva dividere alcunchè coi poveri. Prima che entrasse in monistero aveva già dato via tutto; lo stesso fece anche quando fu nel chiostro. Le domandai una volta perchè ciò facesse, poichè ella stessa era tanto bisognosa? Ah! disse ella, io ricupero sempre più di quanto do. L'ho spesso provato con mia gran meraviglia.

Un giorno si alzò, e non aveva punto caffè e punto danaro per comprarsene. Se ne va in coro, chiude la cella, e quando vi rientra vede danaro sull'appoggio della fine stra. Presa dal più gran stupore venne a cercarmi. Dovetti andar con lei e veder anch' io la cosa. Quel danaro stava lì ben contato, e vi erano anche alcune larghe monete da due grossi. Ciò le avvenne anche un'altra volta.

« Riuscivale di grandissima gioia quando potea render un caritatevole servigio alle sue consorelle. Potevasi domandarle quel che volevasi; lo dava sempre con piacere, per quanto ne avesse bisogno ella medesima. Principalmente ella faceva ogni buona azione a coloro che sapeva esserle contrarie. »

39. In seguito ella ebbe in dono da una benefattrice due libbre di caffè nel suo giorno onomastico. Con quelle essa si preparò la colazione per un anno intero, senza che la provvista ne rimanesse punto diminuita; dimodochè spesso se ne rallegrava di cuore. Quando poi cadde in una più lunga infermità, durante la quale ricevè ben più atte e salutari bevande sanatorie, cessò cotesto dono terreno.

40. Una volta (così raccontò Anna Caterina) il vecchio conte Galen mi costrinse a prendere due monete di oro, ch'io doveva in pro dell'anima sua distribuire ai poveri. Feci cambiare quell'oro in minore moneta, ne comprai vesti e scarpe, e distribuii coteste cose. Una meravigliosa benedizione di Dio posava su quel danaro, poichè ogni qual volta io lo dava fuori in moneta, aveva sempre di bel nuovo le due monete d'oro nella mia tasca, e quindi le faceva di nuovo spesso cambiare. Ho avuto di quel danaro al certo per un anno intero, e ne ho aiutato gran numero di poveri. Generalmente coteste grazie cessavano col sopravvenirmi di una malattia, durante la quale io giaceva in letto per tre mesi immobile e per lo più fuori di ogni cognizione; e siccome tutte le altre monache a piacere guardavano e cercavano fra le cose mie, così il Signore nella sua bontà toglieva via ciò che avrebbe potuto dare scandalo o sospetto. »

41. Era veramente una speciale disposizione quella che, malgrado gl'infiniti patimenti sofferti da Anna Caterina in monistero, spingeva nondimeno le più svariate persone a venir da lei onde implorarne aiuto nei bisogni e nei fatti.

Quanto più alcuno era abbandonato ed infermo, quanto più desolante ed infermo era il suo stato, tanto più poteva esser sicuro di ricevere da lei i più commoventi servigi di carità. Per la maggior parte era povera gente di basso stato quella che veniva a cercare aiuto presso la povera monaca ammalata; ma anche le altre monache ben conoscevano su qual carità potevano contare, allorchè desideravano qualche servizio, chè ben conoscevano che non avrebbero avuto un rifiuto; di modo che Anna Caterina non mancava mai d'occasione di servire al divino suo Sposo negli ammalati, negli inquieti per difetti o per colpe, pei bisognosi di aiuto. La grandezza dei suoi propri dolori pareva che aumentasse infinitamente la di lei delicata compassione pei minori patimenti degli altri, giacchè la gioiosa bramosia di servire e di aiutare la rendeva forte e robusta, quantunque fosse precisamente allora tanto ammalata e miserabile. Ed ella che era abituata ad esser priva d'ogni cura e della benchè minima attenzione, non sapeva metter confine al suo zelo caritatevole, quando trattavasi di mitigare l'altrui bisogno.

Sentiva in sè e capiva ciò che poteva far bene altrui scorgeva la natura la sede del male, sapeva quali mezzi di salute fossero i più adatti, e spirava benedizione su tutto ciò che pregando curava, o toccava con le salutari sue mani. Ella era piena di sì benevola pazienza, di sì serena e rasserenante dolcezza, di sì ingegnosa cura anche presso gli ammalati più irritabili, arcigni ed impazienti, che tutti dimenticavano davvero troppo facilmente che essa stessa non godeva nella sua vita un solo momento libero da dolore. Essa poteva con irresistibile impressione nascente dalla sempre allegra bontà del suo cuore, sormontare le contraddizioni e le resistenze delle più stitiche ammalate, presso le quali la chiamava lo stesso medico del convento, quando ad altri non riusciva di vincere il cattivo umore di quelle inferme.

42. Fra quelle che venivano a dozzina nel convento trovavasi la fanciulla H..... di M....., debole di mente, cui sopravvenne una volta un tumore nella nuca. Essa sfuggì alle mani del chirurgo quando voleva fasciarla, e rigettò inoltre ogni suo mezzo di cura. Tosto la superiora chiamò Anna Caterina, e la ammalata la seguì di buona voglia. Essa da Anna Caterina accettò i rimedii e si lasciò fa sciare, ed allorchè scoppiò il tumore, Anna Caterina ne succhiò la ferita, e questa guarì senza lasciar cicatrice.

43. Una serva del monistero che aveva un tumcre sotto l'ascella, si trascinò di notte al letto di Anna Caterina, la pregò di curarglielo, e ne ricevè per amor di Gesù Cristo cotesto servigio di carità.

Un'altra fanciulla di Amsterdam era di un umore in sopportabile, e litigava con tutti nel convento; solo Anna Caterina seppe trovar la via di migliorarne il carattere, e cotesta fanciulla si affezionò a lei di un amore inesplicabile per le altre.

44. Di un caso simile così raccontò essa una volta: « Il medico del monistero, che era alquanto burbero, aveva fortemente sgridata una povera signora, che aveva un dito molto ammalato e gravemente enfiato, ed il braccio affatto nero per avere negletto quel male. Egli l'aveva di più minacciata di dovere amputare quel dito. Spaventatissima di ciò, venne quella povera dama a lamentarsene con me e ad implorare aiuto. Pregai per lei, e ad un tratto mi venne un pensiero circa il mezzo di guarigione. Lo raccontai alla reverenda madre, ed essa mi permise di poter medicare il dito di quella signora nella stanza dell'abate Lambert. Presi della salvia, della mirra ( 1 ) e dell' erba S. Maria (2), e le feci bollire nell'acqua con un poco di vino; poi vi aggiunsi un poco di acqua santa, e ne feci un impiastro intorno al braccio di quella signora. Iddio stesso doveva avermelo ispirato, poichè il giorno susseguente il braccio era tornato ad essere affatto sottile, il dito per altro che era ancora molto ammalato lo feci stare immerso in ranno caldo misto con olio; poco dopo si aprì, ed io ne trassi fuori una grossa spina. Prestissimo quella signora fu interamente guarita.


45. Sulla natura della di lei compassione circa i malati ed i moribondi ella manifestò le idee seguenti: « Io non posso provar compassione per una persona che annoia tranquillamente, come neppure per niun fanciullo che soffra con pazienza, poichè il soffrire pazientemente è stato il più incredibile per questo nostro corpo rivestito di peccati. Rare volte la nostra compassione è affatto pura; bene spesso vi si mescola una repugnanza propria verso i dolori, e una certa effeminata paura del turbamento che proviamo nel nostro benessere, vedendo i patimenti altrui. La sola compassione veramente pura fu quella del Signore verso noi altri uomini; e niuna compassione umana può esser pura, ove non sia in istretta unione con la compassione. Ho soltanto compassione verso i peccatori, verso i ciechi di spirito, verso gli abbandonati alla disperazione. Ed ahimè! con me stessa ho pure spesso troppa compassione. »

46. Le benedizioni dalle quali erano accompagnate le di lei preghiere in pro dei malati e degli afflitti appariscono chiaramente dai seguenti fatti:

« Una contadina (così narrava essa) a me ben nota andava sempre soggetta a gravi pene, ed anche a pericolo di morte in ogni suo parto. Essa mi voleva molto bene e con me si sfogava su queste sue miserie, ed io pregava di cuore per lei. Ed ecco che mentre mi stava in orazione ricevei una striscia di pergamena, sulla quale eravi alcunchè di scritto. Ebbi pure l'avviso che cotesta povera donna dovesse portare sul suo corpo quel frammento di pergamena. Ella ne usò siccome io le avea prescritto e partorì d'allora in poi facilmente. Quando morì, secondo l'uso dei nostri contadini portò seco nella tomba quella pergamena.
47. Una volta essendovi gran mortalità di bestiame in questa piccola città, la gente dovea condurre le sue bestie ammalate in un certo locale, dove venivan curate; ma la maggior parte vi moriva. Una certa massara piangeva dirottamente presso di me e mi pregava di orare in di lei pro ed anche per tutta quella gente. Mentre io dunque stava in orazione, vidi le differenti stalle di quei contadini e riconobbi le bestie ammalate e le sane; riconobbi anche la cagione del male e l'azione benefica della preghiera per guarirlo. Ne vidi molte ammalate per castigo di Dio sull'orgoglio e falsa sicurezza di molti individui, che non sapevano che Dio può dare e può riprendere, nè conoscevano la ragione del perdere; e ciò avveniva per punirli ed ammonirli. Supplicai il Signore a degnarsi richiamare quella gente sulla buona via in qualche altro modo.

Vidi anche molte di quelle bestie ammalate a cagione della maledizione e dell'invidia dei malevoli; e ciò specialmente presso quelle persone, le quali ritardano e tralasciano di ringraziare da buoni figli Iddio per quello che posseggono, e d'implorarne la benedizione su di quanto loro appartiene. Vidi coteste bestie avviluppate da una grande oscurità, e un aggirarsi a loro d' intorno di ombre nere e maligne. La benedizione non è soltanto il modo di attirare la grazia di Dio, ma altresì quello di allontanare o rimuovere i cattivi effetti della maledizione. Le vacche che, grazie alla preghiera, vidi esser risparmiate, mi apparivano se parate dalle altre per mezzo di qualche cosa di luminoso. Da quelle poi che guarivano, ne vedeva uscire, alzandosi in aria, un nero vapore. Così pure io vedeva intorno a quelle che anche a molta distanza venivano benedette per mezzo delle preci, aggirarsi un lucido barlume. Vidi una subitanea tregua della malattia; il bestiame di quella massara rimase interamente risparmiato dal male. »
48. Le frequenti malattie di sopra accennate ebbero in conseguenza per Anna Caterina che non le venisse mai nel monistero affidata alcuna speciale amministrazione, ma che fosse piuttosto subordinata come aiuto ora all'una, ora all'altra consorella. Così quel di lei desiderio, manifestato fin dall'ingresso in convento, di venir trattata come l'ultima della comunità, ebbe un adempimento non interrotto, e che si estendeva sopra di tutto. Non avverossi mai che ella venisse posta al di sopra di un' altra consorella, ma piuttosto ella dovè sempre (come Chiara Söntgen ha testi moniato) servire come vera fantesca, senza mai mormorare di ciò o venirne in cattivo umore. Inoltre era sempre piena di cure pel bene del convento; sempre disposta a servire, e diligente nelle opere sue; e non solo discretissima verso le fantesche ed i lavoranti, ma altresì veramente amabile e caritatevole, mentre dava loro parecchi buoni ammaestramenti. »

Anche la reverenda madre testimoniò nell'anno 1813 dinanzi all'autorità ecclesiastica nel modo seguente: « Anna Caterina in tutti i lavori del monastero ed in tutte le commissioni che le ho imposte ed in ogni altra cosa si è ben condotta sempre in tal guisa che io ho dovuto esser contentissima di lei; e dappoichè le fu affidata la cura delle fabbriche e degli orti, ella procurò talmente il vantaggio del convento, che tutte dovettero lodarla. »

Verso le fantesche ed i lavoranti essa era (secondo le asserzioni della maestra delle novizie) buona e benevola; ma voleva per altro che anch'essi ben adempissero il loro dovere. Verso tutti i bisognosi è stata in ogni tempo piena di compassione. So di più che con varie vecchie ed inservibili stoffe di chiesa essa ha fabbricato dei berretti pei poveri fanciulli. »