Scrutatio

Giovedi, 28 marzo 2024 - San Castore di Tarso ( Letture di oggi)

XCIII - Del fructo de le lagrime degli uomini mondani.

Santa Caterina da Siena

XCIII - Del fructo de le lagrime degli uomini mondani.
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— Restoti a dire del fructo che dá la lagrima gictata con desiderio, e quello che adopera ne l’anima. Ma prima ti cominciarò della quinta, della quale al principio ti feci menzione, cioè di coloro che miserabilmente vivono nel mondo, facendosi Dio delle creature e delle cose create e della loro propria sensualità, unde vi viene ogni danno de l’anima e del corpo. Io ti dixi che ogni lagrima procedeva dal cuore, e cosí è la veritá, perché tanto si duole il cuore quanto egli ama. Gli uomini dei mondo piangono quando el cuore sente dolore, cioè quando è privato di quella cosa che egli amava. Ma molto sonno diversi e’ pianti loro: sai quanto? quanto è differente e diverso l’amore. E perché la radice è corrocta del proprio amore sensitivo, ogni cosa n’esce corrocta. Egli è uno arbore che non germina altro che fructi di morte, fiori putridi, foglie macchiate, rami inchinati infino a terra, percossi da diversi venti: questo è l’arbore de l’anima. Perché tucti sète arbori d’amore, e però senza amore non potete vivere, perché sète facti da me per amore. L’anima che virtuosamente vive pone la radice de l’arbore suo nella valle della vera umilità: ma questi che miserabilmente vivono l’hanno posta nel monte della superbia; unde, perché egli è mal piantato, non produce fructo di vita, ma di morte. E’ fructi sonno le loro operazioni, e’ quali sonno tucti avelenati di molti e diversi peccati: e se veruno fructo di buona operazione essi fanno, perché è corrotta la radice, ogni cosa n’esce guasto; cioè che l’anima che è in peccato mortale, neuna buona operazione che faccia, le vale a vita etterna, perché non sonno facte in grazia. Benché non debba lassare però la buona operazione, perché ogni bene è remunerato e ogni colpa punita. El bene che è facto fuore della grazia non è sufficiente né gli vale a vita etterna, come decto è; ma la divina bontá e mia giustizia da remunerazione imperfecta, come ella è data a me l’operazione imperfecta: alcuna volta l’è remunerato in cose temporali, alcuna volta ne gli presto el tempo, si come in un altro luogo, sopra questa materia, di sopra ti narrai, dandoli spazio pure perché egli si possa correggere. Questo anco alcuna volta gli farò: che gli darò vita di grazia con alcuno mezzo de’ servi miei e’ quali sono piacevoli e accepti a me; si come feci al glorioso apostolo Pavolo, che, per l’orazioni di sancto Stefano, si levò da la sua infidelità e persecuzioni che faceva a’ cristiani. Si che vedi bene che, in qualunque stato l’uomo si sia, non debba mai lassare di fare.

Dicevoti che i fiori erano putridi; e cosí è la veritá. E’ fiori sonno le puzzolenti cogitazioni del cuore (le quali sonno spiacevoli a me), e odio e dispiacimento verso el proximo suo. Si come ladro, l’onore ha furato di me, suo Creatore, e datolo a sé. Questo fiore mena puzza di falso e miserabile giudicio, el quale giudicio è in due modi: l’uno verso di me, giudicando gli occulti miei giudici e ogni mio misterio iniquamente, e in odio quello che Io gli ho facto per amore, e in bugia quello che lo gli ho facto per veritá, e in morte quello che Io do per vita. Ogni cosa condannano e giudicano secondo el loro infermo parere, perché si sonno aciecati, col proprio amore sensitivo, l’occhio de l’intelletto e ricoperta la pupilla della sanctissima fede che non lo’ lassa vedere né cognoscere la veritá.

L’altro giudicio ultimo è inverso del proximo suo, unde spesse volte n’esce molto male; ché il misero uomo non cognosce sé, e vuolsi ponere a cognoscere il cuore e l’affecto della creatura che ha in sé ragione, e, per una operazione che vedrà o parola che oda, vorrà giudicare l’affecto del cuore. Ma e’ servi miei sempre giudicano in bene, perché sonno fondati in me, sommo Bene. Ma questi cotali sempre giudicano in male, perché sonno fondati nel miserabile male. De’ quali giudici molte volte ne viene odio, omicidii e dispiacimento verso del proximo suo, e dilungamento da l’amore della virtú de’ servi miei.

Cosí a mano a mano seguitano le foglie, le quali sonno le parole che escono della bocca in vitoperio di me e del sangue de l’unigenito mio Figliuolo e in danno del proximo suo. E non si curano d’altro che di maledire e condepnare l’operazione mie, o di bastemmiare e dire male d’ogni creatura che ha in sé ragione, come facto lo’ viene, secondo che il loro giudicio porta. E non tengono a mente (disaventurati a loro!) che la lingua è facta solo per rendere onore a me e per confessare i difecti loro, e adoperare per amore della virtú e in salute del proximo. Queste sonno le foglie macchiate della miserabile colpa, perché ‘l cuore, unde sonno procedute, non era schiecto, ma molto maculato di doppiezza e di molta miseria. Quanto pericolo (oltre al danpno spirituale della privazione della grazia che ha facta ne l’anima) esce in danno temporale! Ché per le parole avete udito e veduto venire mutazioni di Stati, disfacimento di città e molti omicidii e altri mali: perché la parola intrò nel mezzo del cuore a colui a cui ella fu decta; introe dove non sarebbe passato el coltello colà dove passò e introe la parola.

Dico che l’arbore ha sette rami che chinano infino a terra, de’ quali escono e’ fiori e le foglie per lo modo che decto t’ho. Questi sonno e’ septe peccati mortali, e’ quali sono pieni di diversi e molti peccati, legati nella radice e gambone de l’amore proprio di sé e della superbia. La quale ha facto prima e’ rami e i fiori delle molte cogitazioni; poi procede la foglia delle parole e il fructo di gattive operazioni. Stanno chinati infino a terra, cioè che i rami de’ peccati mortali non si voltano altro che a la terra d’ogni fragile e disordinata sustanz’a de mondo, e in altro modo non mira se none in che modo si possa nutricare della terra insaziabilmente, che mai non si sazia. Insaziabili sonno e incomportabili a loro medesimi; e cosa convenevole è che egli sieno sempre inquieti, ponendosi a desiderare e volere quella cosa che lo’ dá sempre insazietà, si come Io ti dixi. Questa è la cagione perché essi non si possono saziare: Perché sempre apetiscono cosa finita, ed eglino sonno infiniti quanto ad essere, ché l’essere loro non finisce mai (perché finisca a grazia per la colpa del peccato mortale) e perché l’uomo è posto sopra tucte le cose create, e non le cose create sopra lui; e però non si può saziare né stare quieto se none in cosa maggiore di sé. Maggiore di sé non ci è altro che lo, Dio etterno; e però solo lo gli posso saziare. E perché egli n’è privato per la colpa commessa, sta in continuo tormento e pena. Dipo’ la pena gli séguita el pianto; e giognendoli e’ venti, percuotono l’arbore de l’amore della propria sensualità dove egli ha facto ogni suo principio.