La fede: nostro scudo e nostra vittoria.
San Giovanni Bosco

Cerca nella documentazione. Scegli una categoria e compila la form cliccando sul pulsante Cerca.
Leggi la Bibbia. Scegli un versetto utilizzando la form qui sotto.
Nel raccontare questo sogno Don Bosco s’introdusse così: «Era da molto
tempo che pregavo il Signore affinché mi facesse conoscere lo stato
dell’anima dei miei figliuoli. Specialmente in questi Esercizi
Spirituali io ero soprappensiero per tal motivo... E il Signore volle
favorirmi in modo che io potessi leggere nelle coscienze dei giovani
proprio come se leggessi in un libro; e quello che è più mirabile, vidi
non solo lo stato presente di ciascuno, ma le cose che a ciascuno
sarebbero accadute nell’avvenire. E ciò in modo proprio anche per me
straordinario, perché non mi avveniva mai che vedessi così bene, così
chiaro, così svelatamene nelle cose fu ture e nelle coscienze dei
giovani ».
Questa premessa sull’elemento soprannaturale del sogno acquista risalto
quando si tenga presente la grande umiltà di Don Bosco e l’abituale
senso di misurata semplicità con cui era solito pesare le sue parole.
Nel sogno Don Bosco cita il fratello Giuseppe, fratel Michele Romano,
direttore della Casa di noviziato dei Fratelli delle Scuole Cristiane di
Torino, e due sacerdoti, Don Alasonatti e Don Ruffino, che erano stati
tra i suoi primi e più devoti figli e collaboratori. Presentiamo il
racconto di Don Bosco, ridotto qua e là.
«Mi parve di trovarmi nell’Oratorio sull’imbrunire. Un numero immenso di
giovani mi circondava, come voi siete soliti fare, perché siamo amici.
Ero giunto in mezzo al cortile quando sento alte grida e urla feroci che
venivano dalla parte della portineria. I giovani fuggono a precipizio
gridando e correndo verso di noi. Io mi volsi da quella parte e vidi un
mostro che mi parve un gigantesco leone. Enorme era la sua testa, e la
bocca così smisurata e aperta, che sembrava fatta per divorare la gente
in un boccone. Da questa sporgevano fuori due grossi, acuti, lunghissimi
denti, a guisa di spade taglienti».
Don Bosco continua dicendo che i giovani gli si erano stretti attorno, ansiosi di sapere che cosa fare per salvarsi.
— Voltiamoci — rispose Don Bosco — verso il fondo dei portici,
all’immagine della Madonna, mettiamoci in ginocchio, preghiamola
fervorosamente perché venga in nostro aiuto e ci faccia conoscere chi
sia questo mostro: se è un animale feroce, tra tutti lo uccideremo; se è
un demonio, non temete, Maria ci salverà».
Intanto il mostro continuava ad avvicinarsi lentamente, quasi
strisciando per terra in atto di prendere Io slancio per avventarsi.
«Trascorsero pochi minuti di preghiera. La belva era giunta così vicino
da potere, con uno slancio, piombarci addosso. Quand’ecco, non so come,
ci vedemmo trasportati tutti nel refettorio attiguo. Al centro di esso
si vedeva la Madonna che, tutta raggiante di vivissima luce, come un
sole in pieno meriggio, illuminava tutto il refettorio, ampliato in
vastità e altezza cento volte tanto. Era attorniata da santi e da
angeli, sicché quella sala sembrava un paradiso.
Nei nostri cuori, allo spavento, sottentrò lo stupore. Gli occhi di
tutti erano intenti alla Madonna, la quale con voce dolcissima ci
rassicurò:
— Non temete — disse —; abbiate fede; questa è solo una prova che vuol fare di voi il mio divin Figlio.
Osservai allora attentamente quelli che, folgoranti di gloria, facevano
corona alla Santa Vergine e riconobbi Don Alasonatti, Don Ruffino,
Fratel Michele delle Scuole Cristiane e mio fratello Giuseppe; e altri i
quali furono anticamente nel nostro Oratorio e ora sono in paradiso.
Quand’ecco uno di coloro che facevano corteggio alla Vergine disse ad alta voce:
— Surgamus! (Sorgiamo).
— Ma come sorgiamo, se siamo già tutti in piedi!
— Surgamus! — ripeté più forte la stessa voce.
Io non sapevo rendermi ragione di questo comando. Allora un altro di
quelli che erano con la Beata Vergine s’indirizzò a me, che stavo sopra
un tavolo per dominare tutta la moltitudine, e così prese a dire con
voce mirabilmente robusta, mentre i giovani stavano attenti:
— Tu che sei prete, dovresti intendere questo Surgamus.
Quando celebri la santa Messa non dici tutti i giorni Sursum cor da (in
alto i cuori)? Intendi forse con ciò di innalzarti materialmente, oppure
di innalzare gli affetti del cuore a Dio?
Io tosto gridai ai giovani:
— Su, su, figliuoli, ravviviamo la nostra fede, innalziamo i nostri cuori a Dio.
E tutti ci inginocchiammo. E mentre noi pregavamo con slancio pieno di
fiducia, ci sentimmo sollevare sensibilmente da terra per una forza
soprannaturale e salimmo molto in alto. Tutti era vamo sollevati in aria
e io ero stupito che non cadessimo per ter ra. Ed ecco che il mostro
che avevamo veduto nel cortile, entra nella sala, seguito da
innumerevoli bestie di varia specie, ma tutte feroci. Scorrazzavano qua e
là per il refettorio, mandavano urli orribili, sembrava che ad ogni
momento fossero per slanciarsi con un salto contro di noi. Noi dall’alto
stavamo osservandole.
— Se cadessi — dicevo tra me — quale orribile strazio farebbe ro della mia persona!
Mentre eravamo in quella strana posizione, udimmo la voce della Madonna
che cantava le parole di San Paolo: Sumite ergo scutum fidei
inexpugnabile (imbracciate lo scudo inespugnabile della fede).
Era un canto così armonioso, che noi eravamo come in estasi. Stavamo
ascoltando quel canto di paradiso, quando vedemmo partire dai fianchi
della Madonna molti leggiadrissimi giovanetti forniti di ali e discesi
dal cielo. Si avvicinarono a noi portando degli scudi in mano e ne
ponevano uno sul cuore di ciascuno dei nostri giovani. Erano scudi
grandi, belli, risplendenti; si rifletteva in essi la luce che veniva
dalla Madonna. Ogni scudo pareva di ferro con un gran cerchio di
diamante e un orlo d’oro purissimo. Questo scudo rappresentava la fede.
Quando tutti fummo così armati, coloro che erano intorno alla Beata
Vergine intonarono un canto così armonioso che non trovo parole per
descriverlo.
Mentre io contemplavo quello spettacolo e mi deliziavo di quel la musica, fui scosso da una voce potente che gridava:
— Ad pugnam! (alla battaglia).
Tutte quelle belve presero ad agitarsi furiosamente. Improvvisamente
noi cademmo al suolo restando in piedi ed eccoci in lotta con le fiere,
protetti dallo scudo divino. Quei mostri, con i vapori che uscivano
dalle loro fauci, lanciavano contro di noi palle di piombo, saette e
proiettili di ogni genere; ma queste armi colpivano i nostri scudi e
rimbalzavano indietro.
Lunga fu la battaglia. Finalmente si udì la voce della Madonna:
— Haec est victoria vestra, quae vincit mundum, fides vestra (Questa è la vostra vittoria che vince il mondo: la vostra fede).
A questa voce quella moltitudine di belve, spaventata, si diede a
precipitosa fuga e scomparve; noi restammo salvi e vincitori in quella
sala immensa, sempre illuminata dalla viva luce che si dif fondeva dalla
Madonna.
Ma la nostra gioia venne turbata all’improvviso da grida e gemiti
strazianti, misti a urla feroci. Sembrava che i nostri giovani fossero
dilaniati da quelle belve, fuggite poco prima dalla sala. Io volevo
uscire fuori per portare soccorso ai miei figli, ma i giovani si erano
messi alla porta per impedirmelo. Io facevo ogni sforzo per liberarmi e
dicevo loro:
— Ma lasciatemi andare: voglio aiutare i miei giovani e se tocca loro danno o morte, voglio morire con loro!
E strappatomi dalle loro mani, fui sotto i portici, e oh! quale
spettacolo! Il cortile era sparso di morti, di moribondi e di feriti. I
giovani tentavano di fuggire, ma i mostri li inseguivano, si gettavano
loro addosso e li dilaniavano. Ma chi più di tutti faceva spaventevoli
macelli era il mostro che era comparso il primo nel cortile. Con quei
due denti simili a spade trapassava il petto dei giovani da destra a
sinistra e da sinistra a destra, e quelli con doppia ferita nel cuore
cadevano miseramente morti.
Io risolutamente mi posi a gridare:
— Coraggio, miei cari giovani!
Molti si rifugiavano vicino a me. Ma il mostro, al mio apparire, mi
corse incontro. Io, facendomi coraggio, feci qualche passo verso di lui.
Intanto alcuni giovani che avevano già vinto le bestie, uscirono dalla
sala e si unirono a me. Quel principe dei demòni si avventò contro di me
e contro di essi, ma non ci poté ferire perché eravamo difesi dagli
scudi; anzi, alla vista di questi, spaventato e quasi riverente,
indietreggiava. Fu allora che, guardando fisso quei suoi lunghi denti in
forma di spade, vi lessi due parole scritte a grossi caratteri.
Sull’uno era scritto: Otium; sull’altro: Gula.
Possibile, andavo pensando tra me, che nella nostra casa, dove c’è tanto
lavoro, ci sia chi pecchi di ozio? E di gola poi? Tra noi, anche
volendolo, non si possono commettere molte golosità».
Don Bosco continua dicendo che si rivolse a Fratel Michele per avere qualche chiarimento.
— Eh, mio caro — rispose il sant’uomo — in questo sei ancora novizio.
Riguardo alla gola devi sapere che si può peccare di intemperanza anche
quando si mangia o si bene più del bisogno, anche quando si eccede nel
dormire e nelle cure del corpo. Riguardo all’ozio, si può peccare anche
quando si lascia libera l’immaginazione nel pensare a cose che sono
pericolose.
Don Bosco conclude: «Allora volli appressarmi alla Madonna che pareva
avesse ancora qualche cosa da dirmi. Ero quasi vicino a lei, quando dal
di fuori mi pervennero all’orecchio nuove e alte grida. Subito volli
uscire per la seconda volta, ma, nell’uscire, mi svegliai» .
Oggi ancora, come sempre, brillano invincibili le quattro armi che Don
Bosco vide e insegnò a brandire contro le insidie del nemico: la fede
viva, la filiale devozione a Maria, il lavoro assiduo e la temperanza.
Don Bosco che si lancia al salvataggio dei suoi figliuoli, «pronto anche
a morire con loro», ci stimola e ci incoraggia con la sua paterna
assistenza.