Tre giudici illustri
I sogni di don Bosco
San Giovanni Bosco

Nelle cronache dell’Oratorio leggiamo: «Nelle tre
notti che precedettero l’ultimo giorno del 1860, Don Bosco fece
tre sogni, come egli li chiama, ma che noi con tutta sicurezza per
ciò che abbiamo veduto, sentito, provato, possiamo chiamare
celesti visioni. Era lo stesso sogno ripetuto tre volte, ma sempre
con circo stanze diverse».
Don Bosco lo raccontò
l’ultima sera dell’anno 1860 a tutti i giovani radunati.
Noi ne riassumiamo le scene più interessanti.
Per tre notti
consecutive Don Bosco si trovò in campagna in compagnia dei
suoi tre grandi amici: San Giuseppe Cafasso, Silvio Pellico e il
Conte Cays, deputato al Parlamento Subalpino.
«La prima
notte — racconta Don Bosco — la passammo discorrendo
sopra vari punti di religione riguardanti specialmente i tempi che
corrono. La seconda si passò in conferenze morali, in cui si
sciolsero casi di coscienza spettanti la direzione dei giovani. La
terza notte furono casi pratici con i quali conobbi l’interno
morale di ciascun giovane in particolare. Nel primo giorno io non
volevo dar retta al sogno perché il Signore ce lo proibisce
nella Sacra Scrittura. Ma in questi giorni scorsi, dopo aver fatto
parecchie esperienze, dopo aver preso parecchi giovani a parte e aver
detto loro le cose tali e quali le avevo viste nel sogno, e che essi
mi assicurarono essere proprio così, allora io non potei più
dubitare che questa sia una grazia straordinaria che il Signore
concede a tutti i figli dell’Oratorio. Io perciò mi
trovo in obbligo di dirvi che il Signore vi fa sentire la sua voce, e
guai a coloro che vi resistono».
In sintesi, Don Bosco aveva
assistito a questa scena. C’era una gran sala. Seduti a un
tavolo c’erano i tre personaggi nominati in veste di giudici.
All’invito di Don Cafasso, Don Bosco fece entrare i giovani.
Uno per uno, i giovani si presentavano con una cartella in mano,
nella quale c’erano molti numeri da addizionare, e la
consegnavano a quei signori. Questi, se la cartella era in regola e
ben fornita di numeri, li addizionavano e la restituivano a ciascuno;
la respingevano se vi erano cifre imbrogliate. I primi uscivano dalla
sala felici e andavano a ricrearsi in cortile; gli altri invece
uscivano tutti mesti e angustiati. Questa funzione durò a
lungo, ma alcuni giovani non vollero entrare nella sala, perché
ave vano la cartella vuota di numeri.
Quando Don Bosco e i tre
personaggi uscirono dalla sala, videro i giovani che avevano la
cartella in regola, che si ricreavano felici. Ne videro altri che
stavano mesti in disparte. Don Bosco li osservò: alcuni
avevano una benda agli occhi, altri erano immersi nella nebbia, altri
avevano il capo attorniato da una nube, altri avevano il cuore pieno
di terra. «Io li vidi — afferma Don Bosco — e li
conobbi molto bene e li ho ancora così presenti alla mente che
potrei nominarli uno per uno dal primo fino all’ultimo».
Intanto
Don Bosco, col suo occhio vigile, notò che in cortile
mancavano molti dei suoi giovani. Dopo varie ricerche, li trovò
in un angolo del cortile.
«— Oh, spettacolo miserando!
— esclamai.
Ne vedo uno coricato per terra, pallido come la
morte; altri seduti sopra un basso e lurido scanno; altri sdraiati
sopra uno sconcio pagliericcio. Giacevano gravemente infermi, chi
nella lingua, chi negli occhi, chi nelle orecchie. Varie malattie
affliggevano altri infelici: chi aveva il cuore tarlato e chi guasto
e già corrotto; chi aveva una piaga e chi un’altra. Ve
n’era persino uno tutto rosicchiato.
Questo spettacolo mi
passava il cuore come un’acutissima spina, che però mi
fu addolcita dalla vista di ciò che sto per raccontare.
Don
Cafasso mi fa cenno di seguirlo e mi introduce in una sala splendida,
tutta ornata d’oro, d’argento e di ogni più
prezioso addobbo, illuminata da migliaia di lampade da cui emanava
una luce che i miei occhi non potevano quasi sopportare. In mezzo a
quella sala regale vi era un’ampia tavola piena di confetture
di ogni specie. Vi erano amaretti quasi grossi come le munizioni dei
soldati, biscotti così lunghi che uno solo sarebbe bastato a
sfamare un giovane. Io mi slanciai subito a invitare i giovani ad
assidersi a quella tavola. Ma Don Cafasso mi fermò gridando:
—
Adagio! Solo quelli che hanno i conti aggiustati possono gustare quei
dolci!
Mi acquietai e intanto mi posi a distribuire quei biscotti
e quegli amaretti a quelli che Don Cafasso mi aveva indicato. Tutti
ne ebbero a sazietà. Io mi compiacevo nel vedere i giovani
mangiare con tanto gusto. Sul loro volto era dipinta la gioia; non
parevano più i giovani dell’Oratorio, tanto erano
trasfigurati ».
Quelli che erano rimasti senza dolci se ne
stavano in un angolo malinconici e mortificati. Don Bosco ne fu
commosso: erano anch’essi suoi figli; supplicò quindi
ripetutamente Don Cafasso che gli permettesse di far parte dei dolci
anche a loro. — No — rispose il Santo —; costoro
non possono gustarli; fateli guarire e poi anch’essi ne
mangeranno.
Don Bosco gli chiese che gli suggerisse il rimedio per
guarire quei poveretti. Don Cafasso, in procinto di allontanarsi, per
ben tre volte, con voce sempre più alta, gridò:
—
State attento! State attento! State attento!
Così dicendo
si dileguò con gli altri due personaggi.
Le parole di Don
Cafasso, che di per sé possono apparire misteriose, dovettero
riuscire evidenti ed eloquenti a Don Bosco, che ha sempre considerato
come elemento essenziale del suo sistema educativo una assistenza
amorevole, ma vigile e continua, che metta i giovani nella morale
impossibilità di commettere mancanze.