Scrutatio

Martedi, 3 dicembre 2024 - San Francesco Saverio ( Letture di oggi)

Libro delle fondazioni

Santa Teresa d'Avila

Libro delle fondazioni
font righe continue visite 756

JHS

 

[PROLOGO]

 

1. So per esperienza, prescindendo da ciò che ne ho letto in molti libri, il grande vantaggio che deriva ad un’anima quando non si allontana dall’obbedienza. So che da ciò dipende il progresso nella virtù e l’acquisto graduale dell’umiltà; nell’obbedienza sta la sicurezza contro il timore di smarrire la strada del cielo, timore che è bene sia sentito da noi mortali finché dura questa vita; nell’obbedienza sta la pace così apprezzata dalle anime che desiderano piacere a Dio. Se infatti con tutta sincerità esse si sottopongono a questa santa obbedienza e vi assoggettano l’intelletto, non volendo ascoltare altro parere che quello del proprio confessore – e se sono anime di religiosi, del proprio superiore – il demonio cessa di assalirle procurando continue cause di agitazione perché sa ormai che ne uscirà con perdita anziché con guadagno. Parimenti cessano i nostri inquieti movimenti volti sempre a farci agire in base alla nostra volontà e ad asservire la ragione a ciò che è di nostra personale soddisfazione, perché ci ricordiamo di aver decisamente sottomesso il nostro volere a quello di Dio, assoggettandoci a chi ne fa le veci. Avendomi Sua Maestà, nella sua bontà, illuminata circa la conoscenza del gran tesoro che è racchiuso in questa preziosa virtù, ho cercato – sia pur debolmente e imperfettamente – di praticarla, ma spesso vi si oppone la consapevolezza della mia scarsa virtù, che sento inadeguata all’esecuzione di alcuni ordini. Provveda la divina Maestà a ciò che mi manca per assolvere il compito del presente lavoro!

2. Mentre ero in San Giuseppe di Avila, nel 1562, che è l’anno in cui si fondò tale monastero, ricevetti dal padre fra García di Toledo, domenicano, allora mio confessore, l’ordine di scrivere la storia di questa fondazione, con molte altre cose che vedrà chi leggerà il mio scritto, se verrà alla luce. Stando ora, nell’anno 1573, cioè undici anni più tardi, a Salamanca, il padre rettore della Compagnia, chiamato maestro Ripalda, dal quale ora mi confesso, dopo aver visto questo libro della prima fondazione, ritenne utile al servizio di nostro Signore che scrivessi la storia degli altri sette monasteri che, a partire da allora, per la bontà del Signore, sono stati fondati, insieme con quella dei primi conventi di padri scalzi della Regola primitiva. Pertanto mi diede l’ordine di farlo. Tale obbedienza mi sembrava impossibile, a causa delle molte incombenze, sia di corrispondenza, sia di altre occupazioni a cui dovevo necessariamente attendere, essendomi state imposte dai superiori. Alquanto angustiata per la mia scarsa capacità e malferma salute, perché anche senza questo sovraccarico, spesso la mia misera natura mi rendeva insostenibile il lavoro, mentre mi raccomandavo a Dio, il Signore mi disse: «Figlia, l’obbedienza dà forza».

3. Piaccia a Sua Maestà che sia così e mi dia grazia di riuscire a raccontare, per la sua gloria, i doni da lui elargiti al nostro Ordine in queste fondazioni. Si può essere certi che lo farò con estrema sincerità, senza alcuna esagerazione, per quanto potrò rendermene conto, in modo del tutto conforme a quel che è avvenuto. Se in cose di scarsa importanza non direi una menzogna per nulla al mondo, molto più me ne farei scrupolo in questo scritto destinato a glorificare Dio: mi sembrerebbe non solo una perdita di tempo, ma un servirmi delle cose sante per ingannare la gente, ragion per cui Dio, anziché esserne lodato, ne rimarrebbe offeso. Sarebbe un gran tradimento! Sua Maestà non voglia ritirare da me la sua mano, perché io non abbia a commetterlo! Tratterò di ogni fondazione singolarmente e cercherò di essere breve, se saprò farlo, perché il mio stile è talmente pesante che, pur con la migliore buona volontà, temo di non riuscire a evitare di stancare gli altri e me stessa. Ma il grande affetto che hanno per me le mie figlie, alle quali dev’essere rimesso questo scritto dopo la mia morte, glielo renderà sopportabile.

4. Piaccia a nostro Signore che, non cercando io mai in nulla il mio vantaggio personale – del resto non avrei motivo di farlo –, ma guardando solo alla sua lode e alla sua gloria – infatti vi si troveranno molte cose che saranno motivo per elargirgliele –, nessuno di coloro che lo leggeranno abbia minimamente l’idea di attribuirmi qualche merito: sarebbe andare contro la verità. Si preghi piuttosto Sua Maestà di perdonarmi il cattivo uso che ho fatto di tante grazie. Le mie figlie, a causa di ciò, hanno ben più ragione di lamentarsi di me che d’essermi grate per l’opera compiuta. Rendiamo tutte, figlie mie, grazie alla bontà di Dio per i molti doni di cui ci ha favorito. In nome del suo amore chiedo a chi leggerà questo scritto un’Ave Maria, affinché mi sia d’aiuto a uscire dal purgatorio e giungere a vedere Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

5. A causa della mia poca memoria credo che ometterò molte cose importantissime, mentre ne dirò altre che avrei potuto tralasciare. In conclusione, il mio scritto risentirà del mio scarso ingegno, della mia ignoranza e anche del poco tempo di cui dispongo per attendervi. Mi è stato ordinato, inoltre, di trattare, qualora se ne presenti l’opportunità, alcune cose circa l’orazione e di segnalare gli errori che potrebbero arrestare il progresso delle anime dedite ad essa.

6. In tutto mi sottometto a ciò che insegna la santa romana Chiesa nostra madre, e voglio, sorelle e figlie mie, che tale scritto non sia rimesso nelle vostre mani prima che lo vedano persone dotte e spirituali. Comincio nel nome del Signore, affidandomi all’aiuto della sua gloriosa Madre, di cui porto l’abito, pur essendone indegna, e del mio glorioso padre e protettore san Giuseppe, che mi ha sempre assistita con la sua intercessione e nella cui casa mi trovo, poiché questo monastero di carmelitane scalze, è dedicato a lui.

24 agosto 1573, festa di san Luigi, re di Francia. Sia lodato Dio!

 

COMINCIA LA FONDAZIONE
DEL MONASTERO DI SAN GIUSEPPE DEL CARMINE

IN MEDINA DEL CAMPO

 

 

CAPITOLO 1

Racconta come si cominciò a trattare di questa ed altre fondazioni.

 

1. Dopo la fondazione del monastero di San Giuseppe di Avila, rimasi in esso cinque anni che – a quanto ora ritengo – saranno forse stati i più tranquilli della mia vita, quelli di cui la mia anima rimpiange spesso profondamente la pace e la quiete. In quel tempo entrarono nel monastero alcune pie ragazze molto giovani, che il mondo – a quel che sembrava, stando ai segni del loro sfoggio ed eleganza – teneva già per sue. Il Signore, strappandole sollecitamente a quelle vanità, le condusse alla sua casa, arricchendole di tanta perfezione da restarne io profondamente confusa. E così arrivammo al numero di tredici, cioè quello che si era stabilito di non oltrepassare.

2. Ero felice di trovarmi fra anime così sante e pure, la cui unica preoccupazione era servire e lodare nostro Signore. Sua Maestà ci mandava lì il necessario senza che lo chiedessimo, e quando ci veniva a mancare, il che accadde ben poche volte, la gioia di tali anime era ancora più grande. Lodavo il Signore alla vista di tante eccelse virtù, soprattutto ammirata nel considerare la noncuranza di queste consorelle per tutto ciò che non fosse il servirlo. Pur stando lì come priora, non ricordo di essermi mai preoccupata del vitto; ritenevo per certo che il Signore non avrebbe deluso quelle anime, di null’altro preoccupate se non di come piacergli. E se, talvolta, non c’era il cibo per tutte, quando dicevo che ciò di cui disponevamo doveva darsi alle più bisognose, ognuna riteneva di non essere ella tale, e così il cibo durava fino a quando Dio non lo mandava per tutte.

3. Quanto alla virtù dell’obbedienza (di cui sono molto rispettosa, sebbene non sapessi praticarla fino a quando queste serve di Dio non m’insegnarono a conoscerla), se ne avessi la capacità, potrei dire molte cose ad essa pertinenti che lì vidi. Me ne viene ora in mente una, ed è che, mentre un giorno stavamo in refettorio, ci furono date certe porzioni di cetrioli. A me toccò un cetriolo molto piccolo e internamente guasto. Come se nulla fosse, chiamai una consorella tra le più dotate d’ingegno e di buon senso ch’erano lì, per mettere alla prova la sua obbedienza, e le dissi di andare a piantare quel cetriolo in un nostro piccolo orticello. Mi chiese se doveva piantarlo diritto o disteso; le risposi di metterlo disteso. Ella andò e lo piantò, senza che le passasse per la mente che si sarebbe certamente seccato: il rispetto dell’obbedienza le accecò la ragione naturale, facendole credere che ciò avrebbe avuto sicuramente esito felice.

4. Mi accadeva qualche volta di affidare a una sola consorella sei o sette incombenze fra loro incompatibili e questa le accettava in silenzio, ritenendo possibile assolverle tutte. Avevamo un pozzo d’acqua assai cattiva, a giudizio di quelli che ne fecero la prova; sembrava impossibile renderla corrente, a causa della profondità del pozzo. Gli operai che avevo chiamato a questo scopo si ridevano di me, ritenendo che volessi buttar via il denaro inutilmente. Richiesi le consorelle del loro parere. Una disse: «Facciamolo; nostro Signore deve pur provvederci di persone che ci portino acqua e fornirci di che mantenerle; è certo più economico per Sua Maestà darci lui acqua in casa; pertanto, non tralascerà di farlo». Io, considerando la grande fede e decisione delle sue parole, mi ritenni sicura del risultato e, contro la volontà del fontaniere – che s’intendeva di acqua –, feci eseguire il lavoro. Piacque al Signore che tirassimo fuori da lì un getto d’acqua potabile largamente sufficiente per noi, e lo abbiamo tuttora.

5. Non lo racconto come un miracolo perché avrei da raccontarne molti altri, ma per la fede che avevano queste sorelle, essendo tutto avvenuto proprio come ho detto. Del resto, il mio intento principale non è lodare le monache di questi monasteri, che, per la bontà del Signore, si comportano tutte così. Di queste, come di altre cose, sarebbe troppo lungo scrivere, anche se non inutile, perché talvolta quelle che vengono dopo sono incitate ad imitare le consorelle. Se al Signore piacerà che queste cose si sappiano, i prelati potranno ordinare alle priore di scriverle.

6. Una così miserabile creatura, dunque, se ne stava tra queste anime angeliche: mi apparivano proprio tali, perché non mi nascondevano nessun difetto, per quanto intimo fosse; le grazie, gli ardenti desideri e il distacco che il Signore dava loro erano grandissimi; la loro consolazione era la solitudine, tanto che mi assicuravano di non stancarsene mai e di provare tormento per le visite, anche dei propri fratelli. Quella che aveva più tempo di starsene in un romitorio si riteneva più felice. Considerando il grande merito di queste anime e il coraggio, non certo femminile, che Dio concedeva loro per patire e servirlo, molte volte mi sembrava che le ricchezze di cui le favoriva il Signore dovessero avere qualche gran finalità. Non già che mi passasse per la mente ciò che poi si è fatto (perché allora sembrava cosa impossibile, non essendovi neppure un principio che potesse darmene un’idea), sebbene, man mano che il tempo passava, fossero molto aumentati i miei desideri di contribuire al bene di qualche anima, e molte volte mi sembrasse di essere come chi ha un grande tesoro da parte e desidera che tutti ne godano, ma si sente le mani legate per distribuirlo. Proprio così mi pareva che fosse legata la mia anima, poiché le grazie che in quegli anni il Signore mi concedeva erano molto grandi e tutto mi sembrava male impiegato in me. Servivo il Signore con le mie povere preghiere; mi adoperavo continuamente perché le consorelle facessero lo stesso e amassero il bene delle anime e lo sviluppo della Chiesa. Chi trattava con esse ne rimaneva sempre edificato e in ciò si appagavano i miei grandi desideri.

7. Dopo quattro anni – mi sembra, anzi, un po’ di più – venne a farmi visita un frate francescano, il cui nome era Alonso Maldonado, gran servo di Dio, che aveva i miei stessi desideri circa il bene delle anime e poteva metterli in pratica, cosa che gli invidiavo molto. Era arrivato recentemente dalle Indie. Cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che lì si perdevano per mancanza di istruzione religiosa, ci fece una predica con un’esortazione che ci animava alla penitenza, e poi se ne andò. Rimasi così afflitta per la perdita di tante anime da sentirmi fuori di me. Me ne andai, sciogliendomi in lacrime, in un romitorio: invocavo nostro Signore supplicandolo di darmi il mezzo per poter far qualcosa per guadagnare anime al suo servizio, poiché tante gliene portava via il demonio, e concedermi di operare un po’ di bene con la preghiera, visto che io non sapevo far altro. Invidiavo molto coloro che per amore di nostro Signore potevano dedicarsi alle missioni, anche a costo di affrontare mille morti: mi accade infatti, quando leggiamo nelle vite dei santi che operarono conversioni, di sentire ben più devozione, commozione e invidia per questo, che per tutti i martìri da essi patiti, essendo tale la vocazione che il Signore mi ha dato. Mi sembra infatti che egli ci apprezzi di più se, mediante la sua misericordia, riusciamo a guadagnargli un’anima con i nostri sforzi e con la nostra preghiera, che non per quanti altri servizi possiamo rendergli.

8. Mentre ero in questa grandissima pena, una notte, stando in orazione, mi si presentò il Signore nella maniera solita e, mostrandomi grande amore, quasi a volermi consolare, mi disse: «Aspetta un poco, figlia, e vedrai grandi cose». Tali parole restarono così impresse nel mio cuore che non potevo dimenticarle. Quantunque non riuscissi a coglierne il significato – per molto che ci pensassi – e non scorgessi la via o il cammino per far qualche supposizione, rimasi assai consolata e con assoluta certezza che tali parole si sarebbero avverate, ma in che modo non riuscii mai a immaginarlo. Così trascorse, mi pare un altro mezzo anno, dopo il quale avvenne ciò che ora dirò.

 

CAPITOLO 2

Come il nostro padre generale venne ad Avila e quali furono le conseguenze della sua visita.

 

1. I nostri padri generali risiedono sempre a Roma. Nessuno di loro era mai venuto in Spagna e sembrava impossibile che venissero proprio allora. Ma, poiché di fronte alla volontà del Signore non c’è nulla d’impossibile, Sua Maestà provvide all’attuazione di quello che non era mai accaduto. Quando io lo seppi, mi parve di provarne dispiacere perché, come già si è detto circa la fondazione di San Giuseppe, tale monastero non era soggetto ai religiosi dell’Ordine, per la ragione lì esposta. Temetti due cose: la prima che egli s’irritasse con me, e a ragione, non sapendo come si erano svolti i fatti; la seconda, che mi ordinasse di tornare al monastero dell’Incarnazione, dove si osserva la Regola mitigata, il che mi avrebbe fatto piombare nella desolazione, per molti motivi che non è necessario specificare. Bastava questo: che là io non avrei potuto osservare il rigore della Regola primitiva, senza dire che le religiose erano più di centocinquanta, mentre dove sono poche c’è sempre più concordia e tranquillità. Ma il Signore aggiustò le cose assai meglio di quanto non immaginassi, perché il generale è un così devoto servo suo e così dotto e prudente che riconobbe la bontà dell’opera e, per il resto, non mi mostrò alcun dissenso. Si chiama fra Giovanni Battista Rossi di Ravenna ed è una persona che, ben a ragione, gode di grande considerazione nell’Ordine.

2. Quando dunque giunse ad Avila, procurai che venisse a San Giuseppe, e il vescovo ritenne giusto che gli si facesse quell’accoglienza che si sarebbe fatta a lui stesso. Lo informai di ogni cosa con assoluta sincerità e franchezza, essendo nella mia indole trattare così con i superiori – qualunque conseguenza possa venirmene, perché adempiono le veci di Dio – e lo stesso faccio con i confessori. Mi sembra che, se mi comportassi altrimenti, la mia anima non potrebbe sentirsi sicura. Gli resi conto pertanto dei miei sentimenti e di quasi tutta la mia vita, benché assai spregevole. Egli mi consolò molto e mi assicurò che non mi avrebbe ordinato di andar via da lì.

3. Si rallegrava di vedere il nostro modo di vivere, che gli sembrava un’immagine, anche se imperfetta, dei primi tempi del nostro Ordine, e di costatare come si osservava in tutto il suo rigore la Regola primitiva che non veniva seguita allora in nessun monastero dell’Ordine, ov’era in vigore quella mitigata. Desideroso com’era che questo principio di riforma progredisse, mi dette le più ampie facoltà per fondare altri monasteri, con censure contro i Provinciali che vi si opponessero. Io non gliele avevo chieste, ma egli aveva capito, dal mio modo di procedere nell’orazione, il mio ardente desiderio di contribuire ad avvicinare maggiormente qualche anima a Dio.

4. Non ero io, ripeto, a cercare di aprirmi tali vie; anzi, il farlo mi sarebbe sembrato una follia, perché mi rendevo ben conto che una donnetta così priva di autorità come me non avrebbe potuto concludere nulla, ma quando l’anima è presa da questi desideri non è in suo potere respingerli. L’ardore di piacere a Dio e la fede rendono possibile ciò che a rigor di logica non lo è. Costatato pertanto il vivo desiderio del nostro reverendissimo padre generale circa la fondazione di altri monasteri, mi parve di vederli già costruiti. Ricordando le parole che nostro Signore mi aveva detto, cominciavo a scorgere qualcosa di ciò che prima mi restava oscuro. Soffrii molto quando vidi il nostro padre generale far ritorno a Roma: mi ero molto affezionata a lui e mi sembrava di restare totalmente priva di appoggio. Egli, nei miei riguardi, era molto affettuoso e pieno di benevolenza: tutte le volte che poteva sottrarsi alle sue occupazioni veniva al monastero per trattare di cose spirituali, e lo faceva come chi è favorito dal Signore di insigni grazie: pertanto ascoltarlo era motivo di gioia. Ancor prima che partisse, il vescovo, don Alvaro de Mendoza, molto propenso ad aiutare coloro che procurano di servire Dio con maggior perfezione, si adoperò perché gli desse l’autorizzazione di fondare nella sua diocesi alcuni conventi di frati scalzi della Regola primitiva, preghiera che gli fu rivolta anche da altre persone. Egli avrebbe voluto acconsentire, ma trovò opposizione nell’Ordine e, per non turbare la provincia, lasciò allora la cosa in sospeso.

5. Trascorsi alcuni giorni considerando quanto sarebbe stato necessario, se si fondavano monasteri di monache, che vi fossero anche frati della stessa Regola. Vedendo come in questa provincia ne esistessero ben pochi, che per giunta mi sembravano sul punto di estinguersi, raccomandata vivamente la cosa a nostro Signore, scrissi al nostro padre generale una lettera, rivolgendogli come meglio potei tale supplica. Gli esposi le ragioni per cui ciò sarebbe riuscito a gran servizio di Dio, e come gli ostacoli che potevano incontrarsi non bastavano a giustificare l’abbandono di un’opera così meritoria; gli prospettai anche il servizio che avrebbe reso a Nostra Signora, di cui era molto devoto. Fu la Vergine, indubbiamente, ad occuparsi della cosa, perché il padre generale, avuta la mia lettera mentre era a Valenza, da lì, come quegli a cui stava molto a cuore la maggior perfezione dell’Ordine, mi inviò l’autorizzazione di fondare due conventi. Per evitare l’insorgere di opposizioni, ne rimise il consenso al provinciale in carica e a quello precedente, cosa che era molto difficile ad ottenersi. Ma, siccome si era raggiunto il più, speravo che il Signore avrebbe fatto il resto. E fu così perché, grazie all’appoggio del vescovo, che aveva preso a cuore questa cosa come sua, i due provinciali diedero entrambi il loro consenso.

6. Se ero dunque ormai riconfortata dalla concessione delle autorizzazioni, vedevo però crescere le mie preoccupazioni non essendoci, a mia conoscenza, alcun frate nella provincia capace di realizzarle, né alcun secolare che volesse dar principio a tale opera. Non facevo che supplicare nostro Signore di suscitarne almeno qualcuno. Non avevo nemmeno casa né mezzi per procurarmela. Ecco qui, dunque, una povera monaca scalza, senza aiuti da nessuno, tranne che dal Signore, carica di autorizzazioni e di buoni desideri, ma impossibilitata ad attuarli. Il coraggio, però, non mi veniva meno: speravo sempre che il Signore, come aveva già dato una cosa, avrebbe dato anche il resto. Ormai tutto mi sembrava molto fattibile, pertanto mi misi all’opera.

7. Oh, grandezza di Dio! Come mostrate la vostra potenza nel concedere questa audacia a una formica! E come, mio Signore, non dipende da voi se coloro che vi amano non compiono grandi opere, ma dalla loro codardia e pusillanimità! Non prendiamo mai una ferma decisione, pieni sempre, come siamo, di mille timori e prudenze umane, e voi, mio Dio, pertanto, non operate le vostre meraviglie e grandezze. Chi più di voi sarebbe amante di dare, se trovasse a chi dare, o di ricevere servizi a proprie spese? Piaccia alla Maestà Vostra che io ve ne abbia reso qualcuno e non debba esservi ancor più debitrice per il molto che ho ricevuto! Amen.

 

CAPITOLO 3

In che modo si cominciarono le trattative circa la fondazione del monastero di San Giuseppe in Medina del Campo.

 

1. Mentre ero dunque fra tante preoccupazioni, mi venne in mente di ricorrere all’aiuto dei padri della Compagnia, che erano assai ben visti in quel luogo, cioè a Medina. Con costoro, come ho già scritto a proposito della prima fondazione, trattai per molti anni delle cose inerenti alla mia anima; ad essi sono particolarmente devota per il gran bene che sempre mi fecero. Scrissi ciò che il nostro padre generale mi aveva ordinato al rettore di quel collegio, il quale per combinazione era proprio quello che mi aveva confessato per molti anni, come ho già detto, senza tuttavia farne il nome. Si chiama Baltasar Alvarez, ed è attualmente provinciale. Egli e gli altri del collegio risposero che avrebbero fatto tutto il possibile per aiutarmi in quella circostanza. Infatti si adoperarono molto per ottenere il permesso dalla città e dal vescovo perché, trattandosi di un monastero senza rendite, è una cosa che presenta ovunque difficoltà: la negoziazione si prolungò quindi alcuni giorni.

2. Allo scopo di affrettarla, si recò lì un sacerdote, gran servo di Dio, profondamente staccato da tutte le cose del mondo e assai dedito all’orazione. Era cappellano del nostro monastero dove mi trovavo io e, poiché il Signore gli ispirava gli stessi miei desideri, mi aiutò molto, come si vedrà in seguito. Si chiama Giuliano d’Avila. Pur avendo ormai il permesso, non aveva però casa e nemmeno un centesimo per comprarla. Quanto al credito necessario per valermi di un prestito, se il Signore non mi aiutava, come poteva ottenerlo una povera pellegrina qual ero io? Per la provvidenza del Signore, una giovane molto virtuosa, che non aveva potuto trovare posto in San Giuseppe, sapendo che si fondava un’altra casa, mi venne a pregare di accoglierla in essa. Aveva un po’ di soldi, ben pochi, che non potevano bastare per comprare una casa, ma solo per prenderla in affitto – ciò che noi facemmo – e per sopperire alle spese del viaggio. Senza alcun’altra risorsa, all’infuori di questa, partimmo da Avila, io, due consorelle di San Giuseppe e quattro dall’Incarnazione, che è un monastero della Regola mitigata dove stavo io prima che si fondasse quello di San Giuseppe. Era con noi il nostro padre cappellano, Giuliano d’Avila.

3. Quando ciò si seppe in città, ci furono grandi mormorazioni: gli uni dicevano che ero pazza, gli altri aspettavano la fine di quella mia insensatezza. Al vescovo – com’ebbe a dirmi poi – tale insensatezza sembrava enorme, anche se allora non me lo fece capire né volle ostacolarmi, perché aveva per me molto affetto e temeva di addolorarmi. I miei amici, sì, mi avevano mosso una quantità di obiezioni, ma io vi facevo poco caso: mi sembrava infatti così facile ciò che essi ritenevano malsicuro, che non potevo convincermi dell’impossibilità di una buona riuscita. Già quando lasciammo Avila avevo scritto a un padre del nostro Ordine, chiamato fra Antonio de Heredia, pregandolo di comprarmi una casa. Egli era allora priore del convento tenuto in quella città dai frati del nostro Ordine, cioè il convento di Sant’Anna. Ne parlò con una signora che gli era devota, la quale ne aveva una che era andata tutta in rovina, tranne un appartamento, ma in ottima posizione. Fu così buona che promise di vendergliela. Pertanto si misero d’accordo, senza che ella esigesse garanzie né altra obbligazione che la sua parola; se avesse richiesto cauzioni, ci saremmo viste perse, ma il Signore andava sistemando tutto. Le mura della casa erano talmente rovinate che per questa ragione ne prendemmo in affitto un’altra, in attesa che si riparasse quella, perché il lavoro da fare non era certo poco.

4. All’arrivo ad Arévalo, la sera del primo giorno di viaggio, stanche per il cattivo equipaggiamento, ci venne incontro un sacerdote nostro amico, che ci aveva preparato un alloggio in casa di alcune pie donne. Mi disse in segreto che eravamo senza casa, perché quella presa in affitto si trovava vicino a un convento di Agostiniani, i quali si opponevano al nostro ingresso lì, ragion per cui bisognava per forza fare una causa. Ma, mio Dio, quanto servono a poco tutte le opposizioni, quando voi vi compiacete di dar coraggio! Mi parve perfino che quella notizia mi rianimasse, ritenendo che, se il demonio cominciava ad agitarsi, voleva dire che in quel monastero si sarebbe servito il Signore. Ciò nonostante pregai quell’ecclesiastico di mantenere la cosa segreta, per non turbare le mie compagne, specialmente le due del monastero dell’Incarnazione, perché le altre avrebbero sofferto per amor mio qualunque difficoltà. Una di esse era allora sottopriora di quel monastero, e l’uscita da esso le era stata assai contrastata; tutt’e due appartenevano a una buona famiglia e venivano contro la volontà dei loro parenti, perché il nostro progetto sembrava a tutti una follia. Vidi io stessa, da quanto seguì, che avevano ragione da vendere, ma allorché piace al Signore che io fondi una di queste case, nessuna ragione mi sembra sufficiente per tralasciare di farlo, per lo meno è così fino ad opera compiuta. Allora mi si presentano tutte insieme le difficoltà, come dirò in seguito.

5. Arrivate al nostro alloggio, seppi che nel paese si trovava un religioso domenicano, esemplare servo di Dio, dal quale mi ero confessata durante la mia permanenza a San Giuseppe. Avendo parlato a lungo della sua virtù a proposito di quella fondazione, qui mi limiterò a dirne il nome: è il maestro fra Domingo Báñez. Ha grande dottrina e discrezione, ragion per cui cercavo di agire secondo il suo parere. Ora, secondo lui, la fondazione non presentava le difficoltà che vi scorgevano tutti gli altri, perché chi più conosce Dio trova più facile le sue opere. Ed egli, conoscendo alcune grazie di cui mi favoriva Sua Maestà e ricordando quanto aveva visto circa la fondazione di San Giuseppe, riteneva il progetto molto fattibile. Mi fu di grande consolazione vederlo perché, forte del suo parere, mi sembrava che tutto sarebbe andato per il meglio. Venuto dunque a farmi visita, gli dissi in segreto ciò che accadeva. Egli ritenne che per la faccenda degli Agostiniani saremmo potute arrivare presto a una conclusione, ma per me ogni ritardo era cosa ben dura, non sapendo che fare di tante religiose. Così tutte passammo quella notte in ansia, perché l’intera casa non tardò ad essere al corrente della situazione.

6. L’indomani mattina, poi, arrivò lì il priore del nostro Ordine, il padre Antonio. Ci disse che la casa di cui aveva concordato l’acquisto era sufficiente per noi e disponeva di un portico dove si poteva fare una cappella, adornandolo con alcuni drappi. Seguimmo il suo consiglio che, almeno a me, pareva il migliore; quello che più ci conveniva era, infatti, agire con la massima celerità possibile, sia perché eravamo fuori dai nostri monasteri, sia anche perché temevo qualche opposizione, avendone fatto l’esperienza a mie spese durante la prima fondazione. Volevo pertanto che, prima della divulgazione di questa notizia, si fosse già preso possesso della casa. Risolvemmo, dunque, di farlo subito. Il padre maestro fra Domingo fu di questo stesso parere.

7. Raggiungemmo Medina del Campo la vigilia dell’Assunzione della Vergine, a mezzanotte. Per non far rumore, scendemmo al convento di Sant’Anna, e a piedi ci recammo alla nostra casa. Fu gran misericordia del Signore che a quell’ora in cui si rinchiudevano i tori destinati a correre l’indomani, non ne incontrassimo nessuno. Assorbite com’eravamo dal nostro intento, dimenticavamo tutto il resto. Ma il Signore, sempre memore di coloro che desiderano servirlo, poiché noi non avevamo altro scopo, ci liberò da questo pericolo.

8. Giunte alla casa, entrammo in un patio. Le mura mi sembrarono alquanto rovinate, ma non come quando le vidi di giorno. Pare che il Signore avesse voluto che quel benedetto padre diventasse cieco per non vedere come lì non si addiceva porre il Santissimo Sacramento. Visto il portico, costatammo che c’era da sgombrarlo di molta terra; il tetto era di tegole senza assito, i muri senza intonaco. Io non sapevo che fare, non sembrandomi quello il posto adatto a porvi un altare. Piacque al Signore, il quale voleva che la cosa avesse subito compimento, che il maggiordomo di quella signora a cui apparteneva la casa tenesse lì molti arazzi suoi, oltre una coltre di damasco azzurro, e ch’ella, buona com’era, gli avesse ordinato di darci quanto avessimo desiderato.

9. Io, quando vidi così bell’arredo, ne lodai Dio, come avranno fatto anche le altre anche se non sapevamo in che modo procurarci i chiodi, perché quella non era ora di comprarli. Si cominciò a cercarli nei muri e, alla fine, non senza sforzo, si riuscì a raccapezzarli. Allora gli uomini si diedero a stendere la tappezzeria, noi a pulire per terra, così di buona lena che, quando albeggiava, l’altare era sistemato, la campanella posta in un corridoio, e subito si celebrò la Messa. Questo era sufficiente per una presa di possesso, ma non avendoci pensato, vi ponemmo anche il santissimo Sacramento, e da certe fessure di una porta che era lì di fronte, non disponendo di altro posto, assistemmo alla Messa.

10. Fin qui io ero molto contenta, perché è per me di grande consolazione vedere una chiesa di più dove sia il santissimo Sacramento. Ma il mio entusiasmo durò poco: finita la Messa, infatti, avvicinatami allo spiraglio di una finestra per vedere il patio, mi accorsi che in certe parti i muri erano completamente a terra e che, per ripararli, sarebbero occorsi molti giorni. Oh, mio Dio! Quando vidi Sua Maestà in mezzo alla strada, in un momento così pericoloso come il nostro a causa di questi malaugurati luterani, quale non fu l’angoscia da cui mi sentii stringere il cuore!

11. Per giunta, mi si presentarono alla mente tutte le difficoltà sollevate da coloro che più mi avevano criticata, e mi resi chiaramente conto che erano obiezioni ragionevoli. Mi sembrava impossibile proseguire il lavoro intrapreso e, come prima tutto mi appariva facile al pensiero che si lavorava per Dio, così ora la tentazione riduceva talmente il suo potere che non ricordavo d’aver ricevuto alcuna grazia da lui; mi erano presenti solo la mia miseria e la mia incapacità. Appoggiata dunque alle mie miserabili forze, che buon esito potevo sperare? Se almeno fossi stata sola, credo che mi sarebbe riuscito più facile sopportare tale delusione; ma mi era estremamente duro pensare che le mie compagne sarebbero dovute tornare al proprio monastero, dal quale erano uscite dopo molti contrasti. Mi sembrava inoltre che, fallito quest’inizio dell’impresa, non sarebbe più avvenuto tutto ciò che io sapevo che il Signore avrebbe fatto in seguito. Per giunta poi c’era il timore che le parole da me udite nell’orazione fossero un’illusione: pena non certo piccola ma più grave di tutte, perché il pensiero che il demonio potesse ingannarmi mi procurava una grande apprensione. Oh, mio Dio! Quale è mai lo stato di un’anima che voi volete lasciare nell’angoscia! Non c’è dubbio che quando ricordo tale afflizione e qualche altra che ho sofferto in queste fondazioni, mi sembra che, al loro confronto, non debba far caso delle sofferenze corporali, anche se sono state molte.

12. Nonostante questa grande angoscia che mi stringeva fortemente il cuore, non lasciavo capire nulla alle mie compagne perché non volevo affliggerle più di quanto già lo fossero. Rimasi con questo tormento fino a sera, quando il rettore della Compagnia mandò a visitarmi uno dei suoi padri, che m’incoraggiò e mi consolò molto. Io non gli raccontai tutte le mie pene, ma solo quella che mi procurava il vederci sulla strada. Cominciai a occuparmi di far cercare, qualunque ne fosse il prezzo, una casa in affitto, dove trasferirci finché si riparasse l’altra. Una prima consolazione fu per me vedere l’affluenza della gente alla nostra cappella. Fu per la misericordia di Dio che nessuno si accorse della nostra imprudenza per quella sistemazione; diversamente sarebbe stato ben fatto toglierci il santissimo Sacramento. Ora io considero la mia idiozia e mi chiedo come nessuno abbia avuto l’idea di consumare le sacre specie. Mi pareva che, se si fosse fatto questo, era bell’e finita per la nostra fondazione.

13. Per quante ricerche si compissero, non si riuscì a trovare in tutta la città una casa da prendere in affitto. Passavo i giorni e le notti in grande angoscia, perché anche se lasciavo sempre alcuni uomini a vegliare il santissimo Sacramento, avevo la preoccupazione che potessero addormentarsi. Per questo motivo mi alzavo di notte, per guardarli da una finestra, essendoci un bel chiaro di luna che permetteva di vedere bene tutto. Frattanto continuava a venire gran folla di gente, che non solo non trovava nulla da criticare, ma si sentiva presa da devozione nel vedere un’altra volta nostro Signore in un portico. E Sua Maestà, da quello che egli è, mai stanco di umiliarsi per noi, sembrava non volesse abbandonarlo.

14. Passati ormai otto giorni, un mercante che abitava in una casa molto buona, vedendo la nostra necessità, ci offrì di andare al piano superiore di essa, dicendo che vi saremmo potute stare come in casa nostra. Disponeva di una grande sala decorata da dorature che ci mise a disposizione per farne la cappella. Inoltre una signora, gran serva di Dio, chiamata donna Elena de Quiroga, che abitava vicino alla casa da noi comprata, mi promise di aiutarmi affinché si cominciasse subito a costruire una cappella ove potesse stare il santissimo Sacramento e anche ove potessimo provvedere alla nostra sistemazione come in clausura. Altre persone ci facevano molte elemosine perché avessimo di che vivere, ma il maggior aiuto mi venne da questa signora.

15. Ciò mi valse a godere subito un po’ di pace, perché lì dove andammo stavamo in stretta clausura, e cominciammo a recitare le Ore. Per la riparazione della casa il buon priore si dava molta fretta ed ebbe a faticare non poco. Malgrado tutto, si dovette aspettare circa due mesi, ma riuscì ad essere sistemata in modo tale che vi potemmo stare discretamente alcuni anni. In seguito, il Signore ha permesso che andasse ancora migliorando.

16. Mentre stavo a Medina continuavo ad avere il pensiero ai conventi dei frati, e poiché non v’era alcun soggetto adatto allo scopo – come ho detto – non sapevo che fare. Mi decisi a parlarne in gran segreto al priore di là, per sentire il suo parere. Lo feci, dunque, ed egli, appena venne a conoscenza del mio disegno, se ne rallegrò molto e promise di esser lui il primo ad aderirvi. Io credetti che scherzasse, e glielo dissi. Infatti, benché sia stato sempre un buon frate, raccolto in se stesso, molto studioso e amante della sua cella, in quanto uomo dotto, non mi sembrava che sarebbe stato adatto per dare inizio a tale opera, né che avesse l’energia sufficiente a promuovere l’austerità necessaria, essendo di salute delicata e non fatto per questo. Egli si sforzava di rassicurarmi, affermando che da molto tempo il Signore lo chiamava a una vita più austera; e che aveva ormai deciso di entrare tra i Certosini i quali gli avevano già promesso di riceverlo. Ciò malgrado, non mi sentivo pienamente soddisfatta, pur ascoltandolo con piacere. Lo pregai, perciò, di attendere qualche tempo e di esercitarsi frattanto a praticare le osservanze cui doveva impegnarsi. Fu deciso così, e passò un anno durante il quale egli ebbe a patire tante prove e persecuzioni, divenuto oggetto di false testimonianze, da far pensare che il Signore volesse provarlo. Il priore sopportava tutto così bene e faceva tali progressi che io ne rendevo lode a nostro Signore, sembrandomi che lo andasse preparando alla realizzazione del nostro disegno.

17. Poco tempo dopo capitò in città un giovane padre, ancora studente a Salamanca; venne come compagno di un altro, il quale mi raccontò cose mirabili del suo genere di vita. Si chiama fra Giovanni della Croce. Io resi lode di ciò a nostro Signore e, dopo avergli parlato, ne rimasi soddisfattissima. Seppi da lui stesso che anch’egli voleva entrare tra i Certosini. Allora gli parlai del mio progetto e lo pregai vivamente di aspettare fino a quando il Signore ci desse un convento. Gli feci osservare quanto meglio sarebbe stato, se voleva condurre una vita più perfetta, che lo facesse nel suo stesso Ordine e quanto avrebbe servito di più il Signore. Egli s’impegnò ad aderire alla mia richiesta, purché non si dovesse tardare troppo. Quando vidi che avevo già due frati con cui cominciare, mi sembrò che la cosa fosse ormai fatta. Non ero però ancora del tutto soddisfatta del priore, pertanto tardavo un po’, anche perché bisognava trovare dove sistemarsi per dare inizio all’opera.

18. Frattanto le monache andavano acquistando ogni giorno di più la fiducia degli abitanti. La gente nutriva per loro grande venerazione e, secondo me, a ragione, perché ognuna di loro non si preoccupava se non di come potesse servire meglio nostro Signore. In tutto si attenevano alla maniera di vivere seguita a San Giuseppe di Avila, essendo una sola la Regola e le Costituzioni. Il Signore cominciò a chiamare alcune a prendere il nostro abito, ed erano tante le grazie di cui le favoriva, ch’io ne rimanevo stupita. Sia per sempre benedetto! Amen. Sembra che per amare non aspetti altro che d’essere amato.

 

CAPITOLO 4

In cui si tratta di alcune grazie elargite dal Signore alle religiose di questi monasteri. Si consigliano le priore suol come debbano comportarsi nei riguardi di tali favori.

 

1. Mi è sembrato opportuno, prima di procedere nella mia narrazione (non sapendo quanto da vivere mi riservi il Signore né se avrò ancora tempo disponibile, mentre in questo momento mi pare di averne un po’), dare alcuni consigli alle priore perché sappiano regolarsi e governino le consorelle ad esse sottoposte, mirando al maggiore profitto delle loro anime, sia pur con il sacrificio dei propri pareri. Occorre far presente che, quando mi hanno ordinato di scrivere di queste fondazioni (senza contare la prima di San Giuseppe di Avila, la cui storia è stata scritta subito), erano già sorti, con l’aiuto del Signore, sette monasteri, compreso quello di Alba de Tormes, che ne è l’ultimo. Ben altri se ne sarebbero fondati, se i miei superiori non mi avessero tenuta occupata in altre cose, come si vedrà più avanti.

2. Considerando le cose di ordine spirituale che sono avvenute in questi anni nei nostri monasteri, ho visto la necessità di quanto ora voglio dire. Piaccia a nostro Signore che riesca a farlo in modo adeguato al bisogno! E perché, come ho detto altrove, lì dove ho scritto alcune piccole cose per le consorelle, quando si procede con coscienza pura e si pratica l’obbedienza, il Signore non permette mai che il demonio abbia il potere d’ingannarci in modo da pregiudicare la nostra anima, anzi, sarà lui a restare ingannato. E siccome lo sa, credo che non ci faccia tanto male lui quanto la nostra immaginazione e i nostri cattivi umori, specialmente se vi è di mezzo la malinconia, perché le donne sono assai deboli per natura e l’amor proprio che regna in esse è sottilissimo. Pertanto in molte persone venute da me – uomini e donne –, senza contare le religiose di questi monasteri, ho visto chiaramente che spesso s’ingannavano da sole senza volerlo. Non c’è dubbio che il demonio ci mette lo zampino per prendersi gioco di noi; ma nel gran numero di persone che, ripeto, ho conosciuto, per la bontà del Signore, non ne ho visto nemmeno una che sia stata da lui abbandonata. Forse vuole permettere questi inganni perché ne escano alquanto sperimentate.

3. A causa dei nostri peccati, ciò che riguarda l’orazione e la perfezione è caduto tanto in ribasso nel mondo, che sono costretta a dare tali chiarimenti. Se si teme di intraprendere questo cammino dell’orazione, pur senza scorgervi alcun pericolo, che sarebbe se dicessimo che ve ne sono? Eppure, in verità, i pericoli non mancano dovunque, e per tutto è necessario, finché viviamo, procedere con timore, chiedendo al Signore di illuminarci e di non abbandonarci mai. Ma, come credo d’aver già detto, se vi sono anime che hanno da temere molto minor pericolo, sono quelle che più si elevano a pensare a Dio e cercano di perfezionare la propria vita.

4. Che cosa è mai questo, mio Signore? Se vediamo che ci liberate così spesso dai pericoli in cui ci mettiamo da noi stessi, perfino opponendoci a voi, come si può credere che non ce ne libererete quando non aspiriamo ad altro che a piacervi e a trovare in voi la nostra gioia? Non riuscirò mai a crederlo. Può darsi che Dio, nei suoi segreti giudizi, permetta certe cose che in tutti i modi sarebbero avvenute, ma il bene non è mai stato fonte di male. Pertanto, ciò serva non già ad abbandonare il cammino, ma a cercare di percorrerlo più speditamente, per meglio accontentare il nostro Sposo e trovarlo più presto; non già a scoraggiarci nella marcia, ma ad animarci a compiere intrepidamente una via così scoscesa, com’è quella della nostra vita. Alla fine, se procediamo con umiltà, dovremo pur giungere, con l’aiuto di Dio, a quella celeste Gerusalemme, dove tutto ciò che avremo sofferto ci sembrerà ben poca cosa, o meglio nulla, in confronto a quanto godremo.

5. Quando, dunque, questi piccoli colombai della Vergine nostra Signora cominciarono a popolarsi, la divina Maestà cominciò a manifestare le sue grandezze in semplici donnicciole, deboli per natura, anche se forti nei desideri e nel distacco da tutto il creato: virtù questa molto utile a unire più strettamente l’anima al suo Creatore, purché si abbia anche una purezza di coscienza. Di tale precisazione, in realtà, non c’era bisogno, perché mi sembra che il vero distacco renda impossibile peccare, allo stesso modo in cui la mancanza di esso fa sì che è impossibile non offendere il Signore. Siccome queste anime non parlano e non si occupano che di lui, Sua Maestà, da parte sua, sembra che non voglia allontanarsi da loro. È quanto ora vedo e quanto posso affermare con tutta verità. Quelle che verranno dopo di noi e leggeranno queste righe, abbiano motivo di temere se non troveranno nei nostri monasteri quello che oggi c’è, e non ne facciano ricadere la colpa sui tempi. Ogni tempo è buono per Dio, quando vuole favorire di grandi grazie coloro che lo servono con impegno: cerchino piuttosto di considerare se ci sia qualche rilassamento in questo impegno e procurino di porvi rimedio.

6. Sento dire, a volte, circa l’origine degli ordini religiosi, che il Signore faceva maggiori grazie a quei santi nostri antecessori, perché dovevano fungere da fondamenta dell’edificio; ed è così, ma dovremmo considerare che siamo tutti fondamenta per quelli che verranno. Se, infatti, noi che viviamo ora mantenessimo la perfezione dei nostri predecessori e se quelli che verranno dopo di noi facessero altrettanto, l’edificio resterebbe sempre saldo. Di quale giovamento è per me che i santi di una volta siano stati tali, se io poi sono così spregevole, che faccio rovinare l’edificio con le mie cattive abitudini? È evidente infatti che i nuovi venuti non hanno tanto in mente coloro che sono morti da molti anni quanto quelli che vedono al presente. Curioso davvero che io faccia ricadere la colpa sul fatto di non essere stata delle prime, e non consideri la differenza che c’è tra la mia vita e le mie virtù e quella di coloro ai quali Dio faceva così grandi grazie!

7. Oh, mio Dio! Che scuse tirate per i capelli e che inganni ben evidenti! Mi addolora, mio Dio, di essere così spregevole e di fare così poco in vostro servizio, ma so bene che la colpa è mia se non mi elargite le grazie di cui avete favorito i miei predecessori. Ho pietà della mia vita, Signore, quando la paragono alla loro, e non posso dirlo senza lacrime. Vedo d’aver mandato in rovina quello che essi avevano edificato con il lavoro, e in nessun modo posso lamentarvi di voi. Né deve farlo alcun’anima religiosa; piuttosto, se vedrà che il suo ordine va decadendo in qualche cosa, cerchi d’essere una pietra tale da poter con essa far rialzare l’edificio: il Signore l’aiuterà a riuscirvi.

8. Tornando, dunque, a ciò che dicevo – poiché me ne sono allontanata parecchio –, sono tante le grazie di cui il Signore favorisce queste case che, se in ogni monastero ci sono una o due religiose condotte attualmente da Dio per la via della meditazione, tutte le altre pervengono alla contemplazione perfetta; alcune vanno tanto avanti da giungere al rapimento. Ve ne sono poi di quelle favorite dal Signore in modo diverso, perché sperimentano rivelazioni e visioni di cui è evidente la provenienza divina. Oggi non v’è monastero dove non si trovino una, due e anche tre religiose così favorite. So bene che la santità non consiste in questo, né il mio intento è solo quello di tributar loro lodi, ma di far capire l’opportunità dei consigli che vi voglio dare.

 

CAPITOLO 5

In cui si danno alcuni consigli sull’orazione e le rivelazioni. È un capitolo molto utile per coloro che si dedicano alla vita attiva.

 

1. Non ho la pretesa – non me lo sogno neppure – che quanto dirò sia così giusto da esser ritenuto regola infallibile: sarebbe un’insensatezza in materia così difficile. Siccome però ci sono molte vie in questo cammino spirituale, può darsi che riesca a dire qualcosa che convenga all’una o all’altra di esse. Se vi sono di quelli che non m’intendono, vuol dire che vanno per diversa strada. E se non dovessi giovare ad alcuno, il Signore accetterà la mia buona intenzione, sapendo che, quand’anche non di tutto abbia fatto esperienza io stessa, l’ho costatato però in altre anime.

2. Anzitutto voglio dire, nei limiti delle mie capacità, in che consista la sostanza della perfetta orazione. Mi sono, in verità, incontrata con alcune persone che credono che la questione consista tutta nell’esercizio dell’intelletto. Se possono applicarlo molto a Dio, sia pure a costo di grandi sforzi, sembra loro subito d’essere spirituali. Se invece sono distratte. loro malgrado, da occupazioni anche buone, eccole in preda a un grande scoraggiamento, convinte d’essere perdute. Non cadranno certo in questi errori dovuti ad ignoranza i dotti, pur avendo io incontrato chi fra essi non ne era esente, ma noi donne conviene che siamo prevenute contro ogni equivoco di tal genere. Non dico che non sia una grazia di Dio potersi applicare continuamente alla meditazione delle sue opere, ed è bene farlo. Bisogna, però, rendersi conto che non tutte le immaginazioni sono adatte per natura a questo esercizio, mentre tutte le anime sono capaci di amare. Ho già scritto altrove quelle che sono, a mio parere, le cause – non tutte, perché è impossibile, ma almeno alcune – di questo andar vagando della nostra immaginazione. Così ora non ne tratterò, ma vorrei far capire che l’anima non è il pensiero, e che la volontà non è diretta da esso, il che sarebbe una vera disdetta. Ne consegue che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare.

3. Ma come si acquisterà quest’amore? Determinandosi ad operare e a patire, per scendere poi alla pratica quando se ne presenta l’occasione. È pur vero che, riflettendo a quanto dobbiamo al Signore, a chi egli sia e a ciò che siamo noi, l’anima acquista la sua determinazione; è cosa molto meritoria e molto utile per i principianti purché, evidentemente, non sia d’intralcio ai doveri imposti dall’obbedienza o dal vantaggio del prossimo. Qualunque di questi due doveri ci si presenti, richiede tempo, a scapito di quello che noi tanto desideriamo consacrare a Dio e che, a nostro modo di vedere, consiste nello stare in solitudine pensando a lui e godendo dei doni che egli ci elargisce. Lasciare questo per attendere all’uno o all’altro di quei doveri è far contento lui, detto dalla sua stessa bocca: ciò che avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatto a me. E per quel che riguarda l’obbedienza, non vorrà certo che un’anima così innamorata di lui vada per una strada diversa da quella seguita da chi fu oboediens usque ad mortem.

4. Se, dunque, ciò è vero, da che proviene quel senso di disagio che generalmente si prova, quando non si è stati in gran parte del giorno in una profonda solitudine e assorti in Dio, anche se siamo occupate in opere di obbedienza e carità? A mio parere, da due ragioni: la prima, e principalissima, è un amor proprio che s’insinua in noi così sottilmente da non farci accorgere di ricercare più la nostra soddisfazione che quella di Dio, perché è evidente che quando si comincia a gustare quanto sia dolce il Signore, si prova più piacere a tenere il corpo in riposo e l’anima nei diletti spirituali anziché impegnarsi in qualche lavoro.

5. Oh, carità di coloro che amano davvero questo Signore e ne conoscono la natura! Il riposo non è loro possibile se vedono di poter contribuire, sia pur in minima parte, al progresso anche di una sola anima e far sì che ami maggiormente Dio, o esserle di aiuto per consolarla nelle sue pene o per liberarla da qualche pericolo. Come, in tal caso, il riposo personale diventa loro insopportabile! Se non possono essere utili con le opere, ricorrono all’orazione, importunando il Signore con preghiere per le molte anime di cui li affligge profondamente costatare la perdita. Essi rinunziano al loro piacere e lo ritengono una felice rinuncia, dimentichi della propria soddisfazione e intenti solo a compiere con maggiore perfezione la volontà di Dio. Altrettanto è per l’obbedienza. Sarebbe grave che, dicendoci Dio chiaramente di andare a fare una cosa che gli sta a cuore, non volessimo ascoltarlo, per rimanere a contemplarlo, perché ciò risponde di più al nostro piacere. Bel modo di progredire nell’amore di Dio! Legargli le mani convinti che non ci può condurre alla perfezione per altre strade!

6. Prescindendo, come ho detto, da ciò che ho sperimentato, conosco alcune persone che mi hanno aiutato a capire questa verità, allorché ero molto afflitta di avere poco tempo disponibile; nel vederle sempre occupate in affari e in numerosi impegni loro imposti dall’obbedienza, pensavo fra me – e lo dicevo anche – che non era possibile in tanta baraonda progredire nello spirito; infatti esse allora non erano molto avanzate. Oh, Signore, quanto sono diverse le vostre strade dalle nostre grossolane immaginazioni! E come da un’anima ormai risoluta ad amarvi e abbandonatasi nelle vostre mani, voi non volete altro se non che obbedisca e che, resa ben edotta di ciò che accresce di più la vostra gloria, desideri solo questo! Non ha bisogno di cercare e di scegliere le strade, visto che ormai la sua volontà è la vostra: Siete voi, mio Signore, a prendervi cura di guidarla attraverso quella che le è di maggior vantaggio. E anche se il superiore non si preoccupa del profitto dell’anima, ma del disbrigo degli affari che gli sembrano utili alla comunità, ve ne preoccupate voi, Dio mio. Andate disponendo le nostre anime e le nostre occupazioni in modo tale che, senza saper come, ci troviamo così avanzati nel cammino spirituale da restarne del tutto meravigliati.

7. Ciò è quanto è avvenuto a una persona con la quale ho parlato pochi giorni fa. L’obbedienza l’aveva talmente occupata per quindici anni in cariche e incombenze, che non si ricordava di aver avuto in tutto questo tempo una sola giornata per sé, anche se cercava di dedicare sempre alcuni momenti all’orazione e di mantener pura la coscienza. È una delle anime più inclini all’obbedienza che io abbia visto, e ne comunica il rispetto a chiunque tratti con lei. Il Signore l’ha ben ricompensata, perché, senza sapere come sia avvenuto, si è accorta di avere quella libertà di spirito così preziosa e così desiderata, patrimonio di chi è perfetto, e nella quale si trova tutta la felicità che si può desiderare in questa vita, perché, non volendo nulla, si possiede tutto. Non si teme né si desidera alcunché della terra, né si è turbati da prove né alterati da gioie; infine, nessuno può togliere a tali anime la pace, perché questa dipende solo da Dio, dalla quale non c’è alcuno che possa strapparle. Solo il timore di perderla può esser causa di pena, essendo tutto il resto del nostro mondo come inesistente ai loro occhi, perché non conta nulla né per far sorgere né per far sparire la loro gioia. Oh, felice obbedienza e felici le distrazioni che essa ha imposto, se ne è derivato un bene così grande!

8. E non è il solo caso, avendo conosciuto altre persone a cui è accaduto lo stesso. Rivedendole dopo qualche anno, e anche di più, chiedendo loro come avessero passato quel tempo, venivo a sapere che lo avevano trascorso interamente in opere di obbedienza e di carità; e, d’altra parte, mi apparivano così progredite nella vita spirituale, che ne rimanevo stupita. Dunque, su, figlie mie! Non vi affliggete quando l’obbedienza vi tenga occupate in cose esteriori: se attendete alla cucina, rendetevi conto che il Signore si aggira fra le pentole, aiutandovi interiormente ed esteriormente.

9. Ricordo che un religioso mi raccontò di essersi fermamente deciso a non rifiutarsi a un ordine del suo superiore, qualunque pena dovesse costargli. Un giorno che si sentiva a pezzi per aver tanto faticato, essendo ormai giunto a sera e non reggendosi in piedi, mentre andava a sedersi per riposare un poco, si imbatté nel superiore il quale gli disse di prendere una grossa zappa e andare a zappare l’orto. Egli tacque, benché fosse così sfinito fisicamente da non stare in piedi; prese la sua grossa zappa e mentre si disponeva a recarsi nell’orto attraverso un passaggio che lì si trovava (e che io vidi molti anni dopo questo suo racconto, perché riuscii a fondare in quella località un monastero), gli apparve nostro Signore con la croce sulle spalle, così stremato e affranto, da fargli ben capire che, in confronto, la sua stanchezza non era niente.

10. Credo che il demonio, sapendo che non vi è cammino che conduca al sommo della perfezione più rapidamente dell’obbedienza, ispira tante inquietudini e frappone tante difficoltà sotto forma di bene. Vi si faccia attenzione e si vedrà chiaramente che dico il vero. È evidente che la somma perfezione non consiste in diletti interiori né in grandi rapimenti né in visioni né in spirito di profezia, ma nella conformità del nostro volere a quello di Dio, in modo tale da non esservi alcuna cosa in cui riconosciamo la sua volontà che non sia da noi voluta risolutamente e della quale non sia accettato con la stessa allegrezza ciò ch’è dolce e ciò che è amaro, nella consapevolezza che tutto è voluto da Sua Maestà. Sembra, questo, assai difficile, non per quanto riguarda il farlo, ma il farlo con gioia, anche se si tratti di cose che ripugnano alla nostra volontà dal punto di vista delle nostre naturali inclinazioni, e realmente è così. L’amore però, se è perfetto, ha tale forza da farci dimenticare ogni nostra soddisfazione per piacere a chi amiamo. E questo è tanto vero che anche le più grandi tribolazioni ci diventano gradite, quando sappiamo di far piacere a Dio. Ecco perché le anime pervenute a tale grado di perfezione amano le persecuzioni, i disonori e gli oltraggi. Questo è così certo, così risaputo e chiaro, che non c’è motivo che io mi ci soffermi più a lungo.

11. Ciò che desidero far capire è il motivo per cui, a mio parere, l’obbedienza è il mezzo più rapido e anche il migliore che esista per arrivare a questo stato così felice. Il fatto è che, siccome non siamo minimamente padroni della nostra volontà, in modo da poter applicarla solamente e chiaramente tutta a servizio di Dio, se non dopo averla assoggettata alla ragione, l’obbedienza è il vero cammino per arrivare a questo. A tal fine non servono infatti le buone ragioni, perché la nostra natura e il nostro amor proprio ne possono opporre tante che non ne verremmo mai a capo. E spesso la cosa più ragionevole, se non ci va, trasforma ai nostri occhi in una pazzia l’avere il desiderio di farla.

12. Ci sarebbe tanto da dire di questa battaglia interiore e degli ostacoli frapposti dal demonio, dal mondo e dai nostri sensi per farci deviare dalla giusta ragione, che non si finirebbe più. Qual è dunque il rimedio? Come quaggiù in una lite molto dubbia le parti, stanche di litigare, prendono un giudice e rimettono la questione nelle sue mani, così la nostra anima se ne scelga uno, sia egli il superiore o il confessore, con il fermo proposito di non trascinare oltre la lite, né pensare più alla sua causa, ma di confidare nelle parole del Signore che dice: Chi ascolta voi, ascolta me e non badare alla propria volontà. Il Signore apprezza tanto questa sottomissione (e giustamente, perché significa renderlo padrone del libero arbitrio datoci da lui) che, esercitandoci in questo, ora fra tribolazioni, ora fra mille lotte dovute all’impressione che il giudizio sulla nostra causa sia un errore, arriviamo a conformarci a quello che ci comandano, sia pure con pena; ma con pena o senza, in conclusione, lo facciamo, e il Signore, da parte sua, ci aiuta tanto che, proprio perché assoggettiamo la nostra volontà e la nostra ragione per amor suo, ci rende padroni di esse. Allora, divenuti padroni di noi stessi, possiamo con perfezione dedicarci a Dio, consegnandogli una volontà pura affinché la unisca alla sua, pregandolo di mandare dal cielo il fuoco del suo amore che consumi questo sacrificio distruggendo tutto quello che può dispiacergli. Così facendo non avremo omesso nulla da parte nostra: sia pure con grandi sacrifici, abbiamo posto la vittima sull’altare e, per quanto è in noi, non tocca più la terra.

13. È chiaro che non si può dare quello che non si ha, e che, per dare, bisogna avere. Ebbene, credetemi: per acquistare questo tesoro non c’è via migliore che scavare e scavare con l’intento di estrarlo dalla miniera dell’obbedienza. Più scaveremo e più troveremo: più ci assoggetteremo agli uomini, non avendo altra volontà che quella dei nostri superiori, più saremo padroni di essa per conformarla a quella di Dio. Vedete un po’, sorelle, se non sarà ben pagata la rinuncia al piacere della solitudine! Vi assicuro che non per mancanza di essa lascerete di disporvi a conseguire questa vera unione di cui ho parlato, che consiste nell’uniformare la nostra volontà a quella di Dio. Ecco l’unione che io desidero e che vorrei vedere in tutte voi, non quei rapimenti così deliziosi a cui si dà il nome di unione, e che lo saranno se preceduti da questa forma di unione ora detta. Ma se dopo tali sospensioni la virtù dell’obbedienza è ancora poca, e molta, invece, la propria volontà, l’unione, a mio avviso, non sarà con la volontà di Dio, ma con l’amor proprio. Piaccia a Sua Maestà che io metta in pratica questi consigli così come li intendo.

14. La seconda causa a cui mi sembra si debba attribuire il disagio precedentemente detto è che l’anima, essendovi nella solitudine meno occasioni di offendere il Signore (giacché qualcuna non può mancare, visto che i demoni stanno dovunque, e anche noi stessi ci troviamo da per tutto), pare che si mantenga più pura e, se è un’anima che teme molto di offendere Dio, assai grande è la sua gioia nel non incontrare pericoli. Certamente, questo mi sembra un motivo sufficiente per rifuggire dal trattare con alcuno, anziché la ricerca di grandi delizie e godimenti divini.

15. Qui è dove, figlie mie, si dimostrerà l’amore, in mezzo alle occasioni, e non nei ritiri della solitudine; credetemi. Anche se si commettono più errori e si subiscono inoltre alcune piccole perdite, il profitto che se ne trae è senza confronto più grande. Badate che parlo sempre nel presupposto di esporsi alle occasioni per obbedienza e carità, altrimenti torno ancora a dire che è preferibile la solitudine, e che dobbiamo proprio desiderarla, pur in mezzo alle nostre occupazioni. In effetti questo desiderio è continuo nelle anime che amano veramente Dio. Quanto al dire che se ne trae un profitto, è perché riusciamo a capire chi siamo, e fin dove arrivi la nostra virtù. Infatti una persona sempre ritirata in solitudine, per santa che le sembri di essere, non sa se possieda pazienza e umiltà. né ha modo di saperlo. Così per il valore di un uomo, come sapere se ne ha, finché non lo si sia visto in battaglia? San Pietro credeva di essere molto coraggioso, ma guardate se fu tale, messo alla prova. Si rialzò, però da quella caduta, privo ormai interamente di fiducia in sé; la ripose quindi tutta in Dio e, infine, sopportò il martirio che sappiamo.

16. Oh, mio Dio, se riconoscessimo quanto è grande la nostra miseria! Senza tale coscienza, ci sono pericoli dovunque; per questo ci è assai utile che ci diano ordini: per sperimentare la nostra pochezza. E io ritengo maggior grazia del Signore un giorno di umile conoscenza di sé, anche se a prezzo di grandi afflizioni e sofferenze, che molti di orazione, tanto più che il vero amante ama ovunque e si ricorda sempre dell’amato. Sarebbe cosa ardua se si potesse fare orazione solo in luoghi appartati. So bene l’impossibilità di dedicare ad essa molte ore. Ma, mio Signore, quanta forza ha presso di Voi anche un solo sospiro venuto su dal profondo delle nostre viscere, per la pena di vedere che non basta l’essere in questo esilio, ma che ci viene tolto anche il tempo in cui avremmo potuto godere di Voi da solo a solo!

17. Allora ci mostriamo davvero schiavi di Gesù Cristo, venduti volontariamente, per amor suo, alla virtù dell’obbedienza, poiché a causa di essa rinunziamo, in qualche modo, a godere di Dio stesso. E non è niente, se pensiamo che egli è venuto, per obbedienza, dal seno del Padre a farsi nostro schiavo. Come si potrà mai pagare o ricambiare questa grazia? È necessario però avere l’avvertenza, anche nelle opere di obbedienza e carità, di sorvegliarsi scrupolosamente per non mancare di ritornare spesso a Dio nel proprio intimo. E, credetemi, non è lo stare a lungo in orazione a far progredire l’anima: quando si impiega una parte del tempo in buone opere, è un grande aiuto per avere assai più presto miglior disposizione ad accendersi d’amore, che in molte ore di meditazione. Ma tutto deve venire dalle mani di Dio. Sia egli per sempre benedetto!

 

CAPITOLO 6

Indica i danni che possono venire alle persone spirituali dal non sapere quando devono resistere ai trasporti di spirito. Tratta dei desideri di comunione da cui è presa l’anima e degli inganni che vi si possono nascondere. Vi sono cose importanti per le priore dei nostri monasteri.

 

1. Io ho posto ogni cura nel cercare di capire da dove provenga quello stato di profonda sospensione in cui ho visto immerse alcune persone favorite molto da Dio nell’orazione, le quali non trascurano nulla per disporsi a ricevere le grazie divine. Ora non parlo di quando la sospensione e il rapimento di un’anima vengono da Sua Maestà, avendone trattato a lungo in altro luogo. Su un tale argomento si può dire ben poco perché, se si tratta di vero rapimento, ci è impossibile qualsiasi resistenza, quali che siano gli sforzi a cui facciamo ricorso. D’altra parte, si deve notare che in questo stato la forza che ci toglie la padronanza di noi stessi dura poco, ma spesso accade di entrare in un’orazione di quiete, simile a un sonno spirituale, capace di assorbire l’anima così profondamente che, se non sappiamo come ci dobbiamo regolare, possiamo perdere molto tempo e sfinirci per colpa nostra e con poco merito.

2. Vorrei sapermi spiegare meglio in proposito, ma l’argomento è così difficile che non so se ci riuscirò; so bene però che le anime soggette a questo inganno m’intenderanno, se vogliono prestarmi fede. Ne conosco alcune – e si tratta di anime di grande virtù – che rimanevano assorte sette o otto ore, e che scambiavano tutto per un rapimento. Qualunque esercizio religioso le assorbiva in modo tale che si abbandonavano subito, persuase che non fosse bene resistere al Signore. Ma così facendo, a poco a poco, se non si cerca di porvi rimedio, si potrà arrivare alla morte o alla idiozia. Io mi spiego la cosa in questo modo: non appena il Signore comincia a favorire l’anima di grazie interiori, la nostra natura, avida com’è di diletti, s’immerge tanto in quel piacere che, per non perderlo, non vorrebbe fare alcun movimento. Siccome in verità è un diletto che sorpassa tutti i piaceri del mondo, se trova una persona dal temperamento debole o il cui intelletto – per meglio dire, l’immaginazione –, lungi dall’essere incostante, se si attacca ad una cosa, vi si fissa senza più divagare, lo stesso avviene a molte persone che, pensando a qualcosa, anche estranea a Dio, restano assorte, o guardando un oggetto non si rendono conto di quello che vedono, persone di natura pigra che, per effetto della distrazione, sembrano dimenticare anche quello che stanno per dire. Così accade qui, a seconda dei caratteri o della complessione o della debolezza fisica. Se poi sono anime inclini alla malinconia, l’immaginazione presenterà loro mille piacevoli illusioni.

3. Di questo umore parlerò più avanti, ma quand’anche non vi sia malinconia, accade quel che ho detto, e perfino a persone stremate dalla penitenza, le quali – ripeto –, appena l’amore comincia a dare un sensibile diletto, vi si abbandonano interamente, come ho già fatto notare. A mio parere il loro amore sarebbe assai più perfetto se non si lasciassero intontire così, perché in questo grado di orazione possono resistere molto bene. In caso contrario avviene come quando per debolezza si avverte uno sfinimento che non permette di parlare né di muoversi; se la natura è debole, la forza dello spirito se ne impadronisce e la domina.

4. Mi si potrà chiedere quale differenza vi sia tra questo stato e il rapimento, perché, almeno in apparenza, sembrano la stessa cosa; ed è giusto, quanto all’apparenza, ma non quanto alla realtà. Il rapimento infatti o l’unione di tutte le potenze – come ho detto – dura poco, produce grandi effetti e lascia una luce profonda nell’anima, con molti altri vantaggi. L’intelletto è del tutto inattivo, solo il Signore opera sulla volontà. Qui la cosa è ben diversa perché, anche se il corpo è come prigioniero, non lo sono la volontà, né la memoria né l’intelletto; solo che agiranno senza regola e, se per caso si concentrano su un oggetto, forse è il momento in cui non daranno pace.

5. Non vedo alcun vantaggio in questa debolezza del corpo – perché d’altro non si tratta – salvo che ha avuto un buon principio; ma bisogna che serva a impiegare bene il tempo, anziché a passarlo in così lungo assorbimento. Si può meritare molto di più con un solo atto e stimolando spesso la volontà ad amare maggiormente Dio, che non lasciandola in questo torpore. Pertanto consiglio alle priore di adoperarsi con ogni cura possibile a sopprimere questi troppo lunghi incantamenti. Questi ultimi, a mio parere, non servono ad altro che a paralizzare le potenze e i sensi, rendendoli incapaci di obbedire all’anima, la quale così perde il vantaggio che le potrebbe derivare procedendo con il dovuto zelo. Se la priora si rende conto che ciò dipende da debolezza, abolisca i digiuni e le discipline (intendo riferirmi a quelli che non sono d’obbligo, e all’occasione si potranno anche sopprimere tutti con tranquilla coscienza), ed impieghi tali religiose in qualche occupazione, per farle distrarre.

6. Ciò è necessario anche con persone che, pur non cadendo in tali stordimenti, lasciano che la loro immaginazione si concentri troppo, sia pure in cose assai elevate di orazione. Accade infatti, a volte, che non siano più padrone di sé: specialmente se hanno ricevuto dal Signore qualche grazia straordinaria o avuto qualche visione, la loro anima ne resta così impressionata che crederanno di vedere sempre quello che hanno visto non più di una volta. Bisogna che chi si accorga d’essere in questo rapimento da più giorni, procuri di cambiare soggetto di meditazione. Purché, infatti, ci si occupi delle cose di Dio, non c’è nulla in contrario che sia di alcune piuttosto che di altre; a patto, ripeto, che si tratti di cose sue: a volte Dio si compiace delle nostre meditazioni sulle sue creature e sulla potenza da lui mostrata nel trarle dal nulla, non meno che delle concentrazioni sullo stesso Creatore.

7. Oh, sventurata miseria umana, così ridotta a causa del peccato, che anche nel bene abbiamo bisogno di regola e misura per non rovinare la nostra salute in modo da non poterne godere! E veramente la moderazione conviene a molte persone, specialmente a quelle che sono deboli di testa o d’immaginazione. È necessario in sommo grado conoscere se stessi per servire meglio il Signore. E quando l’anima si accorge di avere l’immaginazione concentrata su un mistero della passione o sulla beatitudine celeste o su qualunque altra cosa del genere e di restare molti giorni fissa in questo pensiero, tanto che, pur volendolo, non può rivolgerlo ad altro né evitare di restarvi assorta, è conveniente che faccia quanto può per distrarsi. Altrimenti vedrà con il tempo il danno che ne deriva e come l’origine stia in ciò che ho detto: in una grande debolezza fisica, o dell’immaginazione, il che è molto peggio. Infatti, come avviene a un pazzo che si fissa su un’idea, che non è più padrone di sé né può distrarsi e pensare ad altro, né vi sono ragioni per rimuoverlo da essa, perché non ha il dominio della ragione, altrettanto potrebbe accadere qui, anche se si tratta d’una piacevole pazzia. Se poi vi si unisse la malinconia, il danno potrebbe essere molto grave. Io non vedo, insomma, da quale punto di vistala sospensione sia una cosa buona, tenuto conto del fatto che l’anima è capace di godere di Dio stesso. E se non è soggetta ad alcune delle debolezze di cui ho parlato, perché, essendo Dio infinito, dovrebbe farsi schiava d’una sola delle sue grandezze o dei suoi misteri, quando c’è tanto in lui di che occuparsi? Quanto più cercheremo di fermare l’attenzione su ciò che lo riguarda, tanto più si scopriranno ai nostri occhi le sue grandezze.

8. Non dico che in un’ora e neanche in un giorno si debba meditare su molte cose, perché questo equivarrebbe forse a non goder bene di nessuna: trattandosi di materia così delicata, non vorrei che si pensasse quello che neppure mi passa per la mente di dire, e s’intendesse una cosa per un’altra. È davvero così importante capire bene questo capitolo che, anche se ne riuscirà noiosa la lettura, non mi rincresce di averlo scritto, né vorrei che alle persone cui restasse difficile intenderlo a prima vista, rincrescesse tornare a leggerlo più volte. Mi riferisco specialmente alle priore e alle maestre delle novizie, che devono guidare nella preghiera le consorelle. Se, infatti, non procedono con ogni diligenza fin dal principio, vedranno da sé quanto tempo sarà poi loro necessario per rimediare a simili debolezze.

9. Se dovessi descrivere la gravità dei danni di cui sono a conoscenza, si vedrebbe che ho ragione di attribuire a questo argomento tanta importanza. Voglio darne solo un esempio, dal quale si potrà giudicare degli altri. In uno dei nostri monasteri si trovano una monaca e una conversa, entrambe di grandissima orazione, accompagnata da mortificazione, umiltà e altre virtù, essendo molto favorite dal Signore, che comunica loro le sue grandezze; più precisamente sono talmente staccate dal mondo e così piene di amore divino che, anche a seguirle ben da presso, non sembra che tralascino mai di corrispondere, per quanto lo consente l’umana pochezza, alle grazie che ricevono da nostro Signore. Ho insistito sulle loro virtù perché ne traggano motivo di maggior timore quelle che non le possiedono. Cominciarono ad avere così impetuosi desideri di unirsi a Dio che non potevano dominarsi; sembrava loro di calmarsi quando facevano la comunione, pertanto si adoperavano per ottenere dai confessori l’autorizzazione a riceverla spesso. Poiché questo loro tormento andava aumentando, se non ricevevano la comunione tutti i giorni, sembrava che ne morissero. I confessori, vedendo tali anime in preda a così violenti desideri, benché uno fosse molto spirituale, ritennero conveniente questo rimedio al loro male.

10. Ma la cosa non si fermava qui. Una di esse provava tali ansie che, a suo giudizio, per poter vivere aveva bisogno di comunicarsi di buon mattino. Né erano anime capaci minimamente di fingere, e per nulla al mondo avrebbero detto una bugia. Io non mi trovavo lì; pertanto la priora mi scrisse ciò che accadeva, dicendomi che non aveva più autorità su di loro e che i confessori erano del parere di ricorrere a quel rimedio, poiché il loro bisogno era irresistibile. Volle il Signore che io capissi subito di che si trattava: ciò nonostante decisi di tacere fino a che non fossi lì presente, perché temevo d’ingannarmi e perché non era giusto contraddire chi approvava tale modo d’agire, senza prima esporgli le mie ragioni.

11. Uno dei confessori era così umile, che non appena giunsi là e gli parlai, rimase convinto di quanto ebbi a dirgli. L’altro non era altrettanto spirituale, anzi, non lo era quasi affatto in paragone del primo, e non c’era modo di poterlo persuadere. Ma di lui m’importò poco, per il fatto di non essergli molto obbligata. Cominciai a parlare alle religiose, esponendo loro molte ragioni che, secondo me, dovevano essere sufficienti a convincerle che era un parto della fantasia pensare di morire senza quel rimedio. Ma erano talmente fissate in quest’idea che a rimuoverle da essa non fu sufficiente alcun motivo né si sarebbe venuti a capo di nulla per via di ragionamenti. Vedendo ormai che tutto era inutile, dissi loro che anch’io avevo gli stessi desideri e che mi sarei astenuta dal comunicarmi, perché si convincessero che esse non dovevano farlo se non con tutte le altre. Saremmo morte tutt’e tre? Meglio così, piuttosto che introdurre un simile costume nelle nostre case, dove altre anime amavano Dio esattamente come loro e avrebbero potuto desiderare di fare altrettanto.

12. Era giunto a tale estremo il danno causato dall’abitudine, in cui il demonio doveva avere la sua parte, che in realtà, appena furono private della comunione, sembrava che stessero per morire. Io mi dimostrai inflessibile perché, quanto più vedevo che rifuggivano dall’obbedienza (non potendo, a loro parere, fare altrimenti), tanto più riconoscevo chiaramente che si trattava di tentazione. Passarono il primo giorno con gran pena, il secondo soffrirono un po’ meno, e poi a poco a poco sempre meno, in modo che, anche se io facevo la comunione, perché me l’avevano comandato (io, vedendole così deboli, non l’avrei fatta), lo sopportavano senza turbamenti.

13. Di lì a poco esse, con tutte le altre, capirono la tentazione e quanto fosse stato bene porvi rimedio a tempo, perché in breve si ebbero in quella casa alcuni contrasti con i superiori (non per colpa delle monache; più avanti può darsi che ne dica qualcosa), che non avrebbero certo approvato né tollerato una simile abitudine.

14. Oh, quante cose di questo genere potrei dire! Ne riferirò solo un’altra. Il fatto non avvenne in un monastero del nostro Ordine, ma in uno delle religiose di san Bernardo. Ve n’era una non meno virtuosa di quelle anzidette; ella, per effetto di molte discipline e digiuni, era giunta a tale grado di debolezza da cadere subito a terra ogni volta che si comunicava o che aveva motivo d’accendersi di devozione, e così restava otto o nove ore, convinta, come tutte le altre, che si trattasse d’un rapimento. Questo le accadeva tanto spesso che, se non vi si fosse posto rimedio, credo ne sarebbe derivato un gran male. La fama di tali rapimenti si era sparsa in tutta la città; io ne ero afflitta, perché il Signore volle farmi capire, per sua grazia, di che si trattava e mi chiedevo con timore dove ciò sarebbe andato a finire. Il suo confessore, che era come un padre per me, venne a raccontarmi quanto accadeva. Io gli dissi quello che ne pensavo: vale a dire come fosse una perdita di tempo, essendo impossibile che si trattasse di rapimenti, ma solo di effetti della debolezza naturale. Gli consigliai di proibirle i digiuni e le discipline e di obbligarla a distrarsi. Ella era obbediente e adempì i suoi ordini. Dopo breve tempo, man mano che andò riacquistando le forze, non ci fu più alcun segno di rapimenti, mentre se si fosse trattato realmente di essi, nessun rimedio sarebbe stato utile a farli cessare, fino a quando il Signore non avesse voluto porvi termine. La forza dello spirito è, infatti, così grande, che le nostre energie non bastano a opporre una resistenza; inoltre, come ho detto, lascia grandi effetti nell’anima, mentre in caso diverso non ce ne sono altri, proprio come se non fosse avvenuto nulla all’infuori di una grande spossatezza fisica.

15. Da ciò resti dunque inteso che bisogna ritenere per sospetto tutto ciò che ci soggioga al punto da rendere evidente la mancanza dell’uso della ragione, ed essere convinti che mai per questa via si acquisterà la libertà dello spirito, poiché una delle caratteristiche di tale libertà è trovare Dio in tutte le cose e poter pensare alle cose stesse; il resto è schiavitù di spirito e, a prescindere dal danno che arreca al corpo, impedisce all’anima di progredire. Come quando si va per una strada e ci si caccia in un fondo di detriti o in un pantano dal quale non si riesce ad uscire, press’a poco avviene lo stesso nell’anima che, per avanzare, non deve solo camminare, ma volare.

16. Quando poi, come spesso accade, dicono e credono di essere assorte nella divinità e di non potere, in quello stato di sospensione, opporre resistenza né distrarsi, sappiano che torno a dare questo consiglio: per un giorno, o quattro, o anche otto, non c’è ragione di temere, perché non è strano che un temperamento debole resti assorto durante un tale lasso di tempo, ma se si oltrepassa questo limite, bisogna cercare un rimedio. Il lato buono di tutto ciò è che non c’è peccato e che non si lascia di acquistare meriti, ma vi sono gli inconvenienti di cui ho parlato e molti altri ancora. Per quanto riguarda la comunione, sarebbe ben grave se un’anima, quale che sia la forza del suo amore, non si rimettesse anche in questo all’autorità del confessore e della priora; se pur abbia a soffrire la solitudine, deve guardarsi dagli eccessi di non obbedire loro. È necessario anche in questa, come in altre circostanze, esercitare le anime nella mortificazione, facendo loro comprendere che giova più rinunciare alla propria volontà che cercare la propria consolazione.

17. Anche il nostro amor proprio può intervenire al riguardo. Io ne ho esperienza, perché mi è accaduto a volte che, appena ricevuta la comunione (mentre l’ostia doveva essere pressoché ancora intera in me), vedendo comunicarsi le altre, avrei voluto non essermi comunicata, per farlo di nuovo. Da principio non mi sembrava che fosse cosa da cui stare in guardia, ma dopo che ciò mi avvenne spesso, finii per rendermi conto che era un sentimento dovuto più al mio piacere personale che all’amore di Dio: siccome, infatti, quando ci accostiamo alla comunione, generalmente sentiamo tenerezza e diletto, io mi lasciavo trasportare da questo desiderio, perché, se avessi desiderato di avere Dio nell’anima mia, già lo avevo; se di obbedire al comandamento di accostarmi alla santa comunione, era già cosa fatta; se di ricevere le grazie che si accompagnano al santissimo Sacramento, già le avevo ricevute. Infine, riconobbi chiaramente che non c’era in quel desiderio nulla di più che voler tornare a godere di quel gusto sensibile.

18. Ricordo che in una città dove io fui, in cui avevamo un monastero, conobbi una donna, grandissima serva di Dio, a detta di tutti, e doveva esserlo davvero. Si comunicava ogni giorno, ma si recava una volta in una chiesa e una volta in un’altra per farlo, e non aveva un confessore personale. Io, che notavo questo, avrei preferito vederla obbedire a una sola persona anziché ricevere tante comunioni. Viveva sola in una casa dove faceva, io credo, quel che voleva, senonché, essendo buona, tutto quanto faceva era buono. Io le dicevo qualche volta il mio pensiero, ma ella non vi dava importanza, e con ragione, perché era assai migliore di me; ciò nonostante, se in questo mi avesse ascoltata, credo che non avrebbe sbagliato. Venne lì il santo fra Pietro d’Alcántara; feci in modo che le parlasse, e non rimasi contenta della relazione che ella gli fece. Probabilmente ciò era dovuto solo al fatto che, miserabili come siamo, non riusciamo mai ad essere veramente contenti se non di coloro che vanno per la nostra stessa strada. Credo, infatti, che avesse servito meglio il Signore e fatto più penitenza lei in un anno che io in molti.

19. Le sopravvenne, infine – ed è questo a cui volevo giungere –, la malattia che doveva darle la morte. Ella ebbe cura di fare in modo che ogni giorno le celebrassero la Messa in casa e le somministrassero il santissimo Sacramento. Siccome la malattia si protrasse, un sacerdote, gran servo di Dio, il quale gliela celebrava spesso, ritenne che non si poteva consentirle di ricevere ogni giorno la comunione in casa. Dovette essere certamente una suggestione del demonio, perché quel giorno venne a coincidere con l’ultimo della sua vita. Ella, vedendo che la Messa era finita e che rimaneva senza il Signore, ne fu così contrariata e andò talmente in collera con il sacerdote, che egli venne tutto scandalizzato a raccontarmi l’accaduto. Io me ne afflissi molto, perché non sono certa che abbia potuto riconciliarsi: morì, credo, subito dopo.

20. Compresi da ciò il danno che procura fare la propria volontà in qualunque cosa, soprattutto, poi, se si tratta d’una cosa di tale importanza. L’anima che si accosta al Signore con tanta frequenza dev’essere così compresa della propria indegnità, da non farlo di testa sua, ma in virtù dell’obbedienza a un ordine, che supplirà a quanto ci manca – e sarà inevitabilmente molto – per avvicinarci a un così augusto Signore. Questa benedetta donna aveva avuto l’occasione di umiliarsi profondamente, e se avesse capito che il sacerdote non aveva colpa, ma che era stato il Signore, vedendo la sua miseria e quanto fosse indegna di accoglierlo in una così spregevole dimora, a disporre le cose in questo modo, forse avrebbe meritato di più che comunicandosi. Tale era il pensiero di una persona alla quale prudenti confessori proibivano la comunione, perché troppo frequente. Ella, quantunque ne soffrisse fino alle lacrime, anteponendo, d’altra parte, l’onore di Dio al proprio, non faceva che lodarlo per avere indotto il confessore ad esserne custode, non permettendo che Sua Maestà entrasse in così spregevole dimora. A causa di queste considerazioni obbediva con gran serenità, e se pur sentiva una pena tenera e amorosa, per nessuna cosa al mondo avrebbe contravvenuto a quello che le era stato ordinato.

21. Credetemi: l’amore di Dio (non reale, ma apparente) che eccita le passioni, in modo da condurci a qualche offesa contro di lui o da turbare la pace dell’anima «innamorata» al punto da non farle ascoltare la voce della ragione, è chiaro che altro non è se non una ricerca di noi stessi. Il demonio veglierà, allora, per attaccarci quando ci potrà fare più danno, come fece con questa donna di cui, certo, mi spaventò molto ciò che le accadde, anche se non rinunzio a credere che non sarà stato questo un motivo per impedire la sua salvezza, perché la bontà di Dio è infinita; ma non c’è dubbio che la tentazione l’assalì in un brutto momento.

22. Ne ho parlato qui perché le priore siano messe sull’avviso e le consorelle abbiano il dovuto timore, non tralasciando di considerare ed esaminare il modo con cui si accostano a un così grande sacramento. Se lo fanno per piacere a Dio, sanno bene che lo si accontenta più con l’obbedienza che con il sacrificio. Se, dunque, questo è vero, e se così facendo acquisto maggior merito, perché turbarmi? Non dico che non si possa provarne una certa pena, sia pur accompagnata da umiltà, perché non tutte le anime sono pervenute a tal grado di perfezione da non averla, ed essere soddisfatte di fare solo ciò che sanno maggiormente gradito a Dio. È evidente che se la volontà è del tutto staccata da ogni suo personale interesse, non ci si affliggerà di nulla; anzi, ci si rallegrerà d’avere l’occasione di compiacere il Signore con una privazione così penosa, ci si umilierà e si resterà ugualmente soddisfatte di comunicarsi spiritualmente.

23. Ma, poiché all’inizio sono grazie del Signore questi grandi desideri di accostarsi a lui (e anche alla fine, ma dico «al principio» in quanto allora sono da stimarsi di più) e l’anima non è ancora ben affermata in tutta quella perfezione di cui ho parlato, si può ammettere che provi un dolore fino alle lacrime, quando viene privata della comunione, purché ciò non le tolga la pace interiore e le consenta di trarne motivo per atti di umiltà. Qualora invece ciò avvenisse con qualche turbamento o tormento, se avesse a cimentarsi con la priora o con il confessore, si può essere certi che si tratta di una manifesta tentazione, per non parlare di quando qualcuno s’induce a fare la comunione, nonostante la proibizione del confessore. Io non vorrei davvero il merito di quella comunione; in simili cose non siamo noi a dover essere giudici di noi stessi. Dev’esserlo colui che ha le chiavi per sciogliere e legare. Piaccia al Signore di darci luce per capire come comportarci in questioni di tanta importanza e di assisterci sempre con il suo aiuto, affinché dalle grazie che ci concede non ricaviamo motivo di dispiacergli.

 

CAPITOLO 7

Come bisogna regolarsi con le persone affette da malinconia. È un capitolo necessario per le priore.

 

1. Le mie consorelle del monastero di San Giuseppe di Salamanca – dove mi trovo mentre scrivo queste pagine – mi hanno pregato insistentemente di dire qualcosa su come bisogna comportarsi con le persone affette da malinconia. Malgrado ogni nostra cura per non accettare fra noi quelle che ne sono colpite, questo male è così sottile da apparire morto allorché gli conviene: pertanto non riusciamo a scoprirlo fino a quando non vi è più rimedio. Mi sembra d’averne già un po’ parlato in un mio libricino, ma non ricordo bene; non sarà male, quindi, dirne qualcosa qui, se piacerà al Signore che vi riesca. Potrà ben darsi che mi ripeta – ma sarei pronta a ripetermi cento volte, se pensassi di potere, almeno una volta, riuscire a dare un consiglio utile. Sono tanti gli espedienti a cui ricorre questo umore malinconico per soddisfare i suoi capricci, che è necessario scoprirli per sapere come sopportarlo e come regolarsi affinché chi ne è colpito non sia di danno alle altre.

2. Bisogna notare che non tutte le persone con quest’umore sono ugualmente difficili, perché quando la malinconia assale quelle umili e di carattere mite, esse, pur soffrendo molto nel loro intimo, non nuocciono alle altre, specialmente se sono dotate di buon senso. Inoltre quest’umore ha gradi diversi. Certo, credo che in alcune persone il demonio se ne serva come mezzo per cercare di guadagnarsele, e se non stanno bene in guardia, ci riuscirà. Infatti, poiché l’effetto principale che produce è offuscare la ragione, una volta che essa si sia oscurata, che cosa non faranno le nostre passioni? Pare che il non aver più l’uso della ragione equivalga ad essere pazzi, ed è proprio così. Ma in quelle persone di cui ora parliamo, il male non arriva a tanto, e se pur vi arrivasse sarebbe un male minore, perché il doverle considerare esseri ragionevoli e trattarle come tali, mentre non lo sono, è una fatica intollerabile. Quando cadono totalmente in preda a questa malattia sono degne di pietà, ma non possono nuocere e, se esiste un mezzo per dominarle, è infondere loro paura.

3. In coloro nei quali questo male pernicioso è solo agli inizi, anche se non ha preso ancora troppo piede, viene pur sempre da quell’umore e da quella radice, cioè nasce dalla stessa causa. Perciò, qualora non bastassero altri espedienti, è necessario far ricorso allo stesso rimedio. Le priore si servano quindi, per le religiose che ne sono affette, delle penitenze dell’Ordine e si adoperino a dominarle in modo che capiscano di non poter riuscire né in poco né in molto a fare la propria volontà. Se, infatti, si avvedessero che, talvolta, possono essere sufficienti al proprio scopo le grida di disperazione che il demonio ispira loro per cercare di rovinarle, sarebbero perdute, e una sola basta per mettere in subbuglio un monastero. Siccome l’anima, poverina, non ha in se stessa la forza di difendersi dalle suggestioni del demonio, occorre che la priora agisca con grande avvedutezza nel guidarla, non solo dal punto di vista esteriore, ma anche da quello interiore. Quanto più, infatti, la ragione è oscurata nell’inferma, tanto più dev’essere chiara nella priora, se si vuole evitare che il demonio giunga a impadronirsi di quell’anima, servendosi della sua malattia. Il pericolo sta nel fatto che, siccome gli attacchi violenti di questo male, quelli che tolgono l’uso della ragione, avvengono ad intervalli (e allora chi ne è vittima, per quante insensatezze faccia, non sarà colpevole, come non sono colpevoli i pazzi, mentre qualche colpa esiste nei riguardi di chi si trova in questo stato e ha solo offuscata a tratti la ragione, stando bene in altri momenti), è necessario che tali persone non comincino a prendersi qualche libertà nel periodo in cui sono malate, onde evitare che negli intervalli in cui stanno bene non siano padrone di sé, il che sarebbe un terribile inganno del demonio. Se vi si fa attenzione, ciò a cui esse sono maggiormente portate è fare quello che vogliono, dire tutto quello che viene loro alla bocca, badare ai difetti degli altri per ricoprire con essi i propri, cercare il proprio piacere; infine, comportarsi come chi non ha in sé alcun freno. Con le passioni, dunque, così sbrigliate che ognuna d’esse vorrebbe averla vinta, che avverrà se non c’è chi opponga loro resistenza?

4. Torno a dire, avendo visto e trattato molte persone affette da questo male, che non c’è altro rimedio per combatterlo se non ridurle in soggezione, servendosi di tutte le vie e di tutti i modi possibili. Se non bastassero le parole, si ricorra ai castighi; se non bastassero quelli lievi, ci si valga dei pesanti; se non fosse sufficiente tenerle in carcere un mese, vi si tengano quattro: è il più gran bene che si possa fare alle loro anime. Come ho già detto e ora torno a ripetere (essendo importante per queste persone capirlo bene, anche se qualche volta non riescono a dominarsi), non trattandosi di una pazzia completa, tale da togliere la responsabilità della colpa – lo è a intervalli, non sempre – l’anima corre il gran pericolo, nel tempo in cui l’uso della ragione non è completamente offuscato, d’essere spinta a fare e dire ancora quello che faceva e diceva quando non poteva reagire. È, dunque, una grande misericordia di Dio se le persone affette da questo male si sottomettono a chi le governa, perché in ciò sta tutta la loro salvezza di fronte al pericolo di cui ho parlato. E, per amore di Dio, se una di loro leggerà quanto scrivo, badi che ne va forse della sua salvezza eterna.

5. Conosco alcune persone alle quali manca ben poco per perdere del tutto il giudizio. Ma siccome sono umili e temono di offendere Dio, anche se segretamente si stanno sciogliendo in lacrime, non fanno se non quello ch’è loro comandato e sopportano il loro male come le altre [sopportano] le proprie malattie, sebbene questo sia un martirio più grande: ne avranno pertanto maggior merito e faranno qui il loro purgatorio per non averlo nel mondo di là. Ma, ripeto, quelle che invece non si sottometteranno di buon grado, vi siano costrette dalle priore, le quali non devono lasciarsi trarre in inganno da inopportuni sentimenti di compassione, onde evitare che tutto il monastero sia messo in subbuglio dalle loro intemperanze.

6. Infatti, senza tener conto del pericolo anzidetto, riguardante la religiosa inferma, vi è un altro danno grandissimo: che le altre, vedendola in buona salute – a quanto credono –, poiché non si rendono conto del male che la tormenta interiormente, potranno figurarsi, miserabile com’è la nostra natura, di soffrire anch’esse di malinconia e di dovere, pertanto, essere sopportate. È quanto effettivamente farà loro credere lo stesso demonio, il quale così provocherà una strage a cui, allorché se ne verrà a conoscenza, sarà ben difficile porre rimedio. Ciò è tanto importante, che in nessun modo si può ammettere alcuna negligenza in merito. Se dunque la religiosa affetta da malinconia resiste agli ordini del superiore, ne paghi la pena come una sana, e non le si perdoni nulla. Se dice una parola offensiva a una consorella, lo stesso. Così per ogni altra circostanza del genere.

7. Sembra ingiusto che, se non può agire diversamente, si castighi un’inferma come una sana. Ma allora sarebbe ugualmente un’ingiustizia legare e fustigare i pazzi, e bisognerebbe lasciare che ammazzassero tutti. Mi si creda, perché è una cosa di cui ho fatto esperienza; dopo aver provato molti rimedi, non mi pare che ce ne sia un altro. E la priora la quale per pietà lasciasse che tali religiose cominciassero a prendersi qualche libertà, alla fin fine dovrà ammettere che la situazione è intollerabile; e quando vorrà porvi riparo, già le altre ne avranno ricevuto un gran danno. Se si legano e si puniscono i pazzi per impedir loro di uccidere, ed è bene far così, per quanto possano sembrare degni di una gran pietà, poiché sono incapaci di dominarsi, a maggior ragione bisogna aver cura che queste persone non danneggino le anime con le loro libertà. In verità ritengo che molte volte – come ho detto – ciò provenga da una natura intemperante, poco umile e non domata, pertanto che i loro eccessi siano da mettere più in rapporto con tali cause che con la malinconia. Dico che «per alcune» almeno, è così, perché ho visto che, in presenza di una persona per cui provano timore, hanno la capacità di dominarsi. Allora, perché non ci riusciranno a causa di Dio? Temo che il demonio, sotto il pretesto di quest’umore – come ho detto – cerchi di guadagnarsi molte anime.

8. Oggi, in realtà, questo male è più che mai diffuso, tanto più che con il nome di malinconia si fa passare ogni espressione della propria volontà e di una malintesa libertà. Ritengo pertanto che nei nostri monasteri e in tutte le case religiose non si dovrebbe mai pronunciare la parola malinconia, che sembra avere implicita l’idea di libertà, ma darle il nome di grave malattia – e quanto grave! – e curarla come tale. Di tanto in tanto, infatti, è indispensabile somministrare qualche medicina che lenisca l’umore, per renderlo più sopportabile. L’ammalata sia tenuta in infermeria e sappia che quando ne uscirà per ritornare in comunità dev’essere umile come le altre, obbedire come le altre, e se non lo farà, il pretesto dell’umore non le gioverà a nulla. È opportuno che sia così per le ragioni già dette, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre. È necessario che le priore, senza che esse se ne accorgano, usino verso di loro una grande pietà, comportandosi come vere madri e cerchino tutti i mezzi possibili per guarirle.

9. Sembra che mi contraddica, perché finora ho sostenuto che vanno trattate con rigore. Pertanto, torno a ripetere che esse devono sapere di non poter spuntarla con i loro capricci, né si sopporterà che lo facciano, una volta stabilito che hanno l’obbligo di obbedire, giacché il loro danno consiste nel sentirsi libere. La priora può peraltro non ricorrere ad ordini con quelle che prevede che opporranno resistenza, non avendo in sé la forza di dominarsi. Dovrà allora guidarle, finché sarà necessario, con accortezza e con affetto, cercando, se sarà possibile, d’indurle a sottomettersi per amore. Ciò avverrà facilmente e non è raro che avvenga quando si fa veder loro di amarle molto, convincendole di ciò con opere e con parole. Tengano presente che il miglior rimedio di cui dispongono è di occuparle molto in mansioni domestiche, affinché non abbiano l’opportunità di fantasticare, che è ciò in cui consiste tutto il loro male. Se anche non le disimpegneranno troppo bene, sopportino in esse qualche mancanza di questo genere, per non doverne sopportare di peggiori, se perdessero il senno. Questo è, a mio giudizio, il rimedio più efficace che si possa usare con loro, procurando, insieme, che non stiano molto tempo in orazione, anche se si tratta di orazione ordinaria, perché avendo in generale, tali persone, debolezza d’immaginazione, una lunga orazione potrebbe risultare per loro assai nociva. Senza queste precauzioni avranno capricci improvvisi, inesplicabili tanto per loro quanto per chi ne verrà a conoscenza. Si vigili perché non mangino pese, se non raramente; anche i digiuni bisogna che non siano così frequenti come per le altre.

10. Sembra un’esagerazione dare tanti suggerimenti per questo male e non per alcun altro, pur avendone di così gravi nella nostra misera vita, specialmente noi donne, deboli come siamo. Lo faccio per due motivi: il primo, perché tali persone hanno l’apparenza d’essere sane e non vogliono riconoscere d’avere qualche malattia. Siccome è uno stato, il loro, che non le obbliga a rimanere a letto, perché non hanno febbre, né a chiamare il medico, è necessario che faccia da medico la priora, essendo un male di maggior pregiudizio per tutto l’insieme della perfezione, di quanto non lo sia una malattia che costringe a stare a letto, in pericolo di vita. Il secondo è che di altre malattie, o si guarisce, o si muore; di questa è ben raro che si guarisca, e neanche si muore, ma si viene a perdere del tutto il senno, cioè a morire d’una morte che uccide tutta una comunità. D’altra parte, è nel loro intimo dove tali persone soffrono una morte ben crudele e certo assai meritoria a causa delle afflizioni, delle immaginazioni e degli scrupoli, che scambiano sempre per tentazioni. Se capissero una buona volta che è un effetto del loro male, e non ne facessero alcun caso, si sentirebbero assai sollevate. Certamente io ne ho una gran pietà: ed è giusto che l’abbiano ugualmente tutte le consorelle, considerando che il Signore potrebbe inviare anche a loro la stessa infermità, e che cerchino di sopportarle, senza che esse se ne accorgano, come ho detto. Piaccia al Signore che sia riuscita a suggerire ciò che è opportuno fare riguardo a una così grave malattia!

 

CAPITOLO 8

Offre alcuni consigli circa le rivelazioni e le visioni.

 

1. Sembra che ad alcune persone faccia spavento anche solo udire il nome di visioni o di rivelazioni. Non capisco la causa per cui ritengono pericoloso questo cammino attraverso il quale Dio conduce le anime, né da dove proceda siffatta paura. Non voglio ora dire quali siano le vere visioni e rivelazioni e quali le false, né indicare i segni di cui sono stata informata da persone assai dotte per riconoscerle, ma solo esporre come debba regolarsi un’anima che si vedrà in tale circostanza, perché tra i confessori ai quali si rivolgerà saranno ben pochi quella che non la lasceranno in preda alla paura. Certo, farà loro molto meno impressione sentirsi dire che il demonio presenta all’anima vari generi di tentazioni con suggestioni di spirito blasfemo, intemperanze e disonestà, di quanto non li scandalizzerà sentirsi dire che le apparso o le ha parlato un angelo, o che le si è mostrato Gesù Cristo, nostro Signore.

2. Non voglio neanche parlare, ora, di quando le rivelazioni vengono da Dio (essendo orami chiaro per il grande bene che apportano all’anima), ma di quando si tratta d’immagini che il demonio suscita per ingannarci, servendosi della figura di Cristo, nostro Signore, o dei suoi santi. A questo riguardo sono convinta che Sua Maestà non gli darà il permesso né il potere d’ingannare nessuno con tali immagini, tranne che non sia per colpa della stessa anima; sarà invece lui a restare ingannato. Perciò, non c’è ragione di spaventarsi, ma bisogna confidare nel Signore e far poco conto di queste cose, se non è per lodarlo maggiormente.

3. So di una persona, gettata, a causa dei confessori, in preda a viva angoscia per simili cose, che poi, come fu dato d’intendere dai grandi effetti e dalle buone opere che ne seguirono, provenivano da Dio. E pensare che quando le appariva la sua immagine in qualche visione, doveva farsi segni di croce a non finire e ripetere un gesto volgare perché tale era l’ordine da lei ricevuto. In seguito, parlandone con un grande teologo, il maestro domenicano fra Domingo Báñez, questi le disse che ciò era mal fatto e che nessuno doveva agire così, perché ovunque si veda l’immagine di nostro Signore, bisogna riverirla, quand’anche l’abbia dipinta il demonio. Diceva, infatti, che questi è un gran pittore e quando ci dipinge un Cristo in croce o un’altra immagine così al vivo da lasciarla impressa nel nostro cuore, anziché farci del male ci fa del bene. Questa argomentazione mi piacque molto; infatti, di fronte a un’immagine di grande bellezza, anche se sapessimo che è opera di un uomo malvagio, non lasceremmo di ammirarla né faremmo caso del pittore per abbandonare la devozione. Il bene o il male, di conseguenza, non sta nella visione, ma in colui che la vede e che, per mancanza di umiltà, non se ne giova. Se questa c’è, la visione, pur essendo opera del demonio, non può fare alcun male; se invece manca, pur venendo da Dio, non sarà di alcun profitto. Quando, infatti, ciò che deve servire a rendere umile l’anima nella consapevolezza di non meritare quella grazia la fa, invece, insuperbire, le avverrà come al ragno che cambia in veleno tutto quello che mangia, e non come all’ape che lo converte in miele.

4. Voglio spiegarmi meglio: se nostro Signore, nella sua bontà, vuole mostrarsi a un’anima per essere meglio conosciuto e più amato, o per svelarle qualche suo segreto, o concederle particolari favori e grazie, ed essa – come ho detto – a causa di ciò, mentre dovrebbe sentirsi confusa e riconoscere quanto ne sia indegna la sua pochezza, si ritiene subito santa, persuasa che questa grazia è la ricompensa di qualche servizio da lei reso a Dio, è evidente che, come il ragno, cambia in male il gran bene che poteva trarne. Ora, invece, supponiamo che il demonio, per incitare alla superbia, sia lui l’autore di queste apparizioni: se allora l’anima, credendo che vengano da Dio, si umilia, riconosce di non meritare una grazia così eccelsa e si sforza di servirlo meglio; se, vedendosi ricca e non sentendosi degna neppure di mangiare le briciole che cadono dalla tavola delle altre che ha saputo favorite da Dio della stessa grazia, cioè sentendosi indegna d’essere serva di chiunque fra esse, si umilia e comincia a fare penitenza e a dedicarsi di più all’orazione, ad avere maggior cura di non offendere il Signore, al quale crede di dovere tali grazie, e ad obbedire con più perfezione, io affermo con sicurezza che il demonio, lungi dal tornare, se ne andrà via confuso, senza lasciare nessun nocivo effetto nell’anima.

5. Quando nelle visioni si riceve l’ordine di fare qualcosa, o l’annunzio di avvenimenti futuri, bisogna parlarne con un confessore prudente e dotto, e non fare né credere nulla all’infuori di quanto dirà lui. Una religiosa può renderne partecipe la priora, perché le dia un confessore che abbia le suddette qualità. Ma si tenga presente che se ella non obbedirà agli ordini del confessore e non si lascerà guidare da lui, o si tratta dello spirito maligno, o di una terribile malinconia. Posto infatti che il confessore non vedesse giusto, non s’ingannerà lei nell’obbedirgli, fosse anche a parlarle un angelo del cielo, perché Sua Maestà illuminerà il confessore o disporrà le cose come conviene. Così facendo non c’è alcun pericolo, mentre a fare il contrario i pericoli possono essere molti, con altrettanti danni.

6. Ricordiamoci che la debolezza umana è grandissima, specialmente nelle donne, e che si manifesta di più in questo cammino di orazione. Pertanto, per ogni piccola cosa che si presenti all’immaginazione, non dobbiamo pensare subito che si tratti di visione, perché quando lo è, credetemi, lo si riconosce molto bene. Molto maggiore attenzione bisogna avere nel caso che vi sia di mezzo un po’ di malinconia, perché riguardo a queste illusioni mi è giunta notizia di cose che mi hanno sbalordita: non capisco come si possa credere così fermamente di vedere ciò che non si vede.

7. Una volta venne da me un confessore oltremodo stupito, perché una sua penitente gli asseriva che la Madonna andava spesso a visitarla, si sedeva sul suo letto e si tratteneva a parlare per più di un’ora, dicendole cose che dovevano avvenire e molte altre. Siccome fra tante insensatezze qualcosa si rivelava vera, tutto il resto era ritenuto certo. Io capii subito di che si trattava, anche se non osai dirlo, perché viviamo in un mondo dove è necessario riflettere a quello che si può pensare di noi, se vogliamo che le nostre parole abbiano il loro effetto. Gli dissi pertanto che bisognava aspettare l’adempimento di quelle profezie, interrogarla circa altri effetti di queste visioni e informarsi della vita di tale persona. Infine, alla luce dei fatti, risultò che erano tutte insensatezze.

8. Potrei citare tanti di questi esempi, che servirebbero assai bene a provare l’opportunità del mio discorso: cioè che un’anima non deve credere subito a ciò che sente, ma prendere tempo e cercare di conoscersi bene prima di parlarne, onde evitare di trarre in inganno, senza volerlo, il confessore. Infatti, per dotto che sia questi, se non ha esperienza di tali cose, ciò non sarà sufficiente a fargli riconoscere di che si tratta. Non sono passati molti anni, anzi ben poco tempo, da quando un uomo mise in gran subbuglio alcune persone assai dotte e molto spirituali con simili fantasticherie, fino a che venne a trattarne con una che aveva esperienza di favori divini, la quale vide chiaramente ch’era tutto pazzia e illusione, anche se ciò allora, lungi dall’essere evidente, era molto oscuro. Di lì a poco il Signore mise tutto in chiaro, ma quella persona che aveva visto giusto ebbe prima molto a soffrire per il fatto di non essere creduta.

9. Da questi e altri esempi analoghi si vede quanto convenga che ogni consorella sia molto sincera nel parlare della sua orazione alla priora. Da parte sua questa si adoperi con molta cura a esaminare la complessione e il grado di perfezione della religiosa per informarne il confessore, affinché si renda meglio conto delle cose, e lo scelga adatto al caso, se quello ordinario non fosse idoneo a tale compito. Si ponga molta attenzione a non far parola di nulla con estranei, anche se sono favori indubbiamente divini e grazie chiaramente miracolose, nemmeno con quei confessori che non hanno la prudenza di tacere. Questo è molto importante, più di quanto si possa credere; non se ne parli, inoltre, neanche fra le religiose. La priora si faccia prudentemente vedere più incline a lodare le anime che si distinguono in umiltà, mortificazione e ubbidienza, che non quelle condotte da Dio per tale cammino di orazione del tutto soprannaturale, quand’anche abbiano le stesse virtù. Esse non ne riporteranno alcun danno perché, se ad agire è lo spirito del Signore, trae con sé l’umiltà che fa godere di essere disprezzati, e le altre ne riceveranno un grande vantaggio in quanto, non potendo arrivare a quei doni che Dio concede a chi vuole, correrebbero il rischio di scoraggiarsi circa l’acquisto delle altre virtù. È vero che anche queste sono un dono di Dio, ma ci si può adoperare di più per ottenerle e sono di gran pregio per lo stato religioso. Sua Maestà voglia concedercele! Egli certo non le negherà a nessuna di noi che, confidando nella sua misericordia, si adoperi ad acquistarle con l’esercizio, la vigilanza, l’orazione.

 

CAPITOLO 9

Tratta della sua partenza da Medina del Campo per la fondazione del monastero di San Giuseppe di Malagón.

 

1. Quanto mi sono allontanata dal mio soggetto! Ma può darsi che siano più opportuni alcuni di questi consigli da me dati che il racconto delle fondazioni. Mentre, dunque, mi trovavo a San Giuseppe di Medina del Campo, ero intimamente felice nel vedere come le consorelle di questo monastero seguissero le orme di quelle di San Giuseppe di Avila, per il fervore religioso, la carità fraterna, lo spirito interiore. Nostro Signore provvedeva man mano alla sua casa, sia di quanto era necessario per la chiesa, sia di quanto occorreva al sostentamento delle stesse consorelle. Nel frattempo cominciarono ad entrare alcune novizie, che sembravano scelte dal Signore quali conveniva che fossero per servire di fondamento a tale edificio. Da questi principi infatti ritengo che dipenda tutto il bene dell’avvenire perché, una volta che le prime trovino il cammino, le altre che vengono dopo non fanno che seguirlo.

2. C’era a Toledo una signora, sorella del duce di Medinaceli in casa della quale io ero stata per ordine dei superiori, come ho detto più a lungo trattando della fondazione di San Giuseppe. Ella mi si affezionò moltissimo, e questo affetto, indubbiamente, era un mezzo di cui Dio si servì per stimolarla a fare quanto poi si fece. Sua Maestà infatti spesso si vale, per i suoi fini, di certi mezzi che a noi, ignari del futuro, sembrano di poca importanza. Non appena la signora seppe che avevo il permesso di fondare monasteri, cominciò a chiedermi insistentemente di aprirne uno in un suo feudo che aveva nome Malagón. Io non volevo in alcun modo acconsentirvi per il fatto che si trattava di un villaggio così piccolo che il monastero, per potersi mantenere, aveva bisogno, senza meno, di una rendita, cosa a cui io ero assolutamente contraria.

3. Ne parlai con alcune dotte persone e con il mio confessore e tutti mi dissero che facevo male; poiché il santo Concilio consentiva di aver rendite, non si doveva, per un’opinione personale, tralasciare di fondare un monastero, dove il Signore poteva essere così ben servito. A ciò si aggiunsero le ripetute insistenze di questa signora e mi vidi costretta a consentirvi. Ella diede alla fondazione una rendita conveniente. Amo sempre infatti che i monasteri o siano del tutto poveri o abbiano disponibilità sufficienti onde evitare che le religiose debbano importunare chicchessia per ovviare alle loro necessità.

4. Feci ricorso a tutte le misure possibili perché nessuna possedesse la benché minima cosa e si osservassero integralmente le Costituzioni, come negli altri nostri monasteri improntati a povertà. Fatti tutti i documenti, mandai a chiamare alcune consorelle per provvedere alla fondazione e, insieme con quella signora, ci recammo a Malagón. Ma siccome la casa non era ancora pronta per accoglierci, ci trattenemmo più di otto giorni in un alloggio del castello.

5. La domenica delle Palme dell’anno 1568, essendo venuti a prenderci in processione gli abitanti del luogo, noi, con i veli calati sul viso e tenendo indosso le cappe bianche, andammo nella chiesa del villaggio. Dopo la predica, si portò il santissimo Sacramento nel nostro monastero. Ciò fu motivo di gran devozione per tutti. Lì mi trattenni alcuni giorni. Una mattina, mentre, dopo essermi comunicata, stavo in orazione, udii da nostro Signore ch’egli in quella casa sarebbe stato ben servito. Credo d’esser rimasta in quel luogo neanche due mesi, perché mi sentivo nell’intimo sollecitata a recarmi a fondare la casa di Valladolid, per la ragione che ora dirò.

CAPITOLO 10

In cui si tratta della fondazione del monastero di Valladolid, monastero intitolato alla Concezione di Nostra Signora del Carmine.

1. Quattro o cinque mesi prima che si fondasse questo monastero di San Giuseppe di Malagón, un giovane e illustre cavaliere con cui mi trovai a parlare, mi disse che, se avessi voluto fondare un monastero in Valladolid, egli mi avrebbe dato molto volentieri una sua casa, che disponeva di un orto assai fertile ed esteso con annessa una gran vigna. Voleva cederne subito la proprietà, che era di molto valore. Io accettai, anche se non ero ben decisa a fondare il monastero in quel luogo, perché distava un quarto di lega dalla città. Mi sembrò peraltro che, una volta presone possesso, ci saremmo potute trasferire in città; inoltre, poiché la sua offerta era fatta assai di buon animo, non volli opporre un rifiuto a un’opera così meritoria, né essere di ostacolo alla sua devozione.

2. Di lì a due mesi, più o meno, fu colpito da un male di tale rapido decorso da togliergli l’uso della parola prima che potesse fare una buona confessione, anche se manifestò con molti segni di chiedere perdono al Signore. Morì in brevissimo tempo, molto lontano dal luogo dove io allora mi trovavo. Il Signore mi disse che la sua salvezza era stata molto in pericolo e che aveva avuto misericordia di lui per il servizio reso a sua Madre con il dono di quella casa destinata a un monastero del suo Ordine. Aggiunse che non sarebbe uscito dal purgatorio finché lì non si fosse celebrata la prima Messa; solo allora se ne sarebbe liberato. Io avevo talmente presenti le grandi sofferenze di quest’anima che, sebbene desiderassi fondare un monastero a Toledo, per il momento vi rinunciai e mi adoperai, quanto più in fretta potei, a realizzare, in qualunque modo, la fondazione di Valladolid.

3. Tuttavia la cosa non poté farsi così presto come desideravo, perché mi vidi costretta a fermarmi parecchi giorni a San Giuseppe di Avila, ove ero priora, e in seguito a San Giuseppe di Medina del Campo, trovandomi a passare di là. Un giorno, mentre stavo in orazione in quest’ultimo monastero, il Signore mi disse di affrettarmi, perché quell’anima soffriva molto. Benché mancassi ancora di molte cose, partii subito e il giorno di san Lorenzo entrai a Valladolid. Quando vidi la casa fui presa da grande angoscia perché mi resi conto che era una pazzia per le nostre religiose stabilirsi in quel luogo, senza dover incorrere in ingenti spese. Inoltre, se il posto era molto attraente, grazie a quell’orto così delizioso, non poteva non essere malsano, per la vicinanza del fiume.

4. Pur essendo stanca, dovetti andare a Messa in un monastero del nostro Ordine, che era all’ingresso della città, ma tanto lontano da raddoppiarmi l’angoscia. Tuttavia non dicevo nulla alle mie compagne per non scoraggiarle. Anche se debole, avevo, peraltro, una certa fiducia che il Signore, il quale mi aveva esortato a fare quanto ho detto, mi avrebbe dato il suo aiuto. Feci così venire in gran segretezza alcuni operai per cominciare il lavoro dei muri di cinta della clausura e per quanto altro occorreva. Erano con noi Giuliano d’Avila, il sacerdote di cui ho parlato, e uno dei due frati che, come ho detto, volevano farsi scalzi, per conoscere il nostro modo di vivere in questi monasteri della Riforma. Giuliano d’Avila si occupava di ottenere l’autorizzazione dell’Ordinario che, prima del mio arrivo, aveva già dato buone speranze. Ma non si poté fare tutto tanto presto che, prima di aver ottenuto l’autorizzazione, non sopraggiungesse la domenica. Ci fu permesso tuttavia di far celebrare la Messa nel luogo da noi destinato a servire da cappella e così non mancammo di parteciparvi.

5. Ero molto lontana dal pensare che quanto mi era stato detto di quell’anima dovesse compiersi allora. Mi era stato riferito della «prima Messa» ed io ero persuasa che bisognava riferirsi a quella in cui sarebbe stato posto nella nostra cappella il santissimo Sacramento. Mentre il sacerdote veniva con la santa Eucaristia fra le mani dove noi dovevamo comunicarci e io mi appressavo a riceverla, mi apparve vicino al sacerdote il cavaliere di cui ho parlato, con volto splendente e pieno di gioia. Mi ringraziò a mani giunte di quello che avevo fatto perché uscisse dal purgatorio; poi, la sua anima salì al cielo. Certo, la prima volta che mi fu detto che egli era sulla via della salvezza, ero ben lontana dal pensarlo, anzi, provavo una gran pena, sembrandomi che avrebbe avuto bisogno di un’altra morte, dopo il genere di vita che aveva condotto. Difatti, sebbene non gli mancassero buone qualità, era molto invischiato nelle cose del mondo. Tuttavia, come aveva detto alle mie compagne, aveva sempre presente il pensiero della morte. È davvero una cosa straordinaria quanto riesca gradito a nostro Signore qualunque servizio reso a sua Madre e quanto sia grande la sua misericordia. Sia di tutto lodato e benedetto, egli che ricompensa con la vita eterna e con la gloria del paradiso la pochezza delle nostre opere e le rende grandi, nonostante il loro scarso valore!

6. Giunto dunque il giorno dell’Assunzione di nostra Signora, che cade il 15 agosto, nell’anno 1568, si prese possesso di questo monastero. Ma vi restammo poco, perché ci ammalammo gravemente quasi tutte. Lo seppe una signora del luogo, chiamata donna María de Mendoza, moglie del commendatore Cobos, madre del marchese di Camarasa, profondamente cristiana e di straordinaria carità (come davano a vedere le sue generose elemosine). Avevo sperimentato la sua grande benevolenza prima ancora del nostro incontro, perché sorella del vescovo di Avila, che ci aveva favorito molto nella fondazione del primo monastero e in tutto quello che riguarda il nostro Ordine. Dotata com’è di tanta carità, vedendo che lì non saremmo potute restare senza gravi inconvenienti, sia per l’insalubrità del luogo, sia anche per la distanza che rendeva difficile le elemosine, ci propose di cedere a lei quella casa, in cambio di un’altra. E così fece, dandocene una che valeva molto più della prima, e fornendoci da allora fino ad oggi di tutto il necessario, cosa che farà per l’intero corso della sua vita.

7. Il giorno di san Biagio ci trasferimmo nel nuovo monastero con grande processione e devozione del popolo, devozione tuttora viva, perché il Signore usa grandi misericordie a questa casa, conducendovi anime di cui un giorno sarà messa in luce la santità a lode sua. Egli si compiace con tali mezzi di rendere più grandi le sue opere e concedere grazie alle sue creature. Vi entrò infatti una giovinetta, la quale diede ben a vedere che cosa sia il mondo, con il disprezzo che ella ne fece in così tenera età. Mi è sembrato opportuno parlarne qui, a confusione di coloro che tanto lo amano, e a edificazione delle giovani alle quali il Signore farà dono di buoni desideri e sante ispirazioni, affinché li mettano in pratica.

8. In questa città risiede una signora, chiamata donna María de Acuña, sorella del conte di Buendía. Sposatasi con l’Adelantado di Castiglia, rimase vedova in giovanissima età con un figlio e due figlie. Cominciò a condurre una vita di tale santità e ad educare i figli in tanta virtù, da meritare che il Signore li chiamasse al suo servizio. Mi sono sbagliata circa il numero dei figli: di figlie ne aveva tre. La prima si fece subito religiosa; la seconda non si volle sposare e conduceva con sua madre una vita di grande edificazione; il figlio, fin da piccolo cominciò a capire che cosa fosse il mondo e come Dio lo chiamasse alla vita religiosa con tale invito che nessuno fu in grado d’impedirgli di ascoltarlo. Sua madre ne era tanto contenta che, credo, l’aiutasse con la sua preghiera presso nostro Signore, pur non facendo trapelare nulla, a causa dei parenti. In conclusione, quando Dio vuole per sé un’anima, le creature valgono poco a impedirlo. Fu quanto avvenne qui, perché, dopo tre anni in cui si tentò di bloccare la decisione del giovane con ogni genere di esortazioni, egli entrò nella Compagnia di Gesù. Un confessore di questa signora mi riferì ch’ella gli aveva detto che mai nella sua vita aveva sentito in cuore tanta gioia come il giorno in cui suo figlio fece la sua professione.

9. Oh, Signore! Di quale insigne grazia voi favorite coloro cui date tali genitori, che amano i propri figli di un amore così vero da non volere per loro possessi, maggioraschi e ricchezze se non in quella beatitudine che non avrà fine! Che pena vedere oggi il mondo in tanta miseria e cecità da far sì che i genitori fanno consistere il loro onore nell’aver sempre presente questo sterco dei beni terreni senza ricordarsi che, presto o tardi, devono tutti finire! No, tutto ciò che ha fine non merita stima perché, per quanto possa durare, un giorno finirà. Ma certi genitori, a spese dei loro poveri figli, vogliono mantenere le loro vanità ed hanno la gran temerità di togliere a Dio le anime che egli vuole per sé, privando esse stesse di un così grande bene. Infatti, a prescindere dal fatto che sarà una felicità eterna quella a cui Dio li invita con lo stato religioso, non è forse un vantaggio inestimabile vedersi liberi dagli affanni e dalle leggi del mondo, peso tanto più grave quanto maggiori sono i beni mondani posseduti? Aprite loro gli occhi, mio Dio; fate loro intendere quale sia l’amore a cui sono tenuti verso i propri figli, per non recare ad essi un così gran male e non dover udire le loro lagnanze alla vostra presenza, nel giorno del giudizio finale in cui, pur controvoglia, comprenderanno il valore di ogni cosa.

10. Quando, dunque, la misericordia di Dio fece lasciare il mondo a questo cavaliere, figli di donna María de Acuña (egli si chiama don Antonio de Padilla), all’età, più o meno, di diciassette anni, tutti i beni e i titoli restarono alla figlia maggiore, donna Luisa de Padilla, perché il conte di Buendía non ebbe figli e chi ereditava la contea e il titolo di Adelantado di Castiglia era don Antonio. Siccome non riguarda il mio argomento, non dico quanto ebbe a soffrire da parte dei suoi parenti per riuscire nel suo scopo. Potrà bene immaginarlo chi sa quanto la gente del mondo desideri che non manchi discendenza al proprio casato.

11. Oh, Figlio dell’Eterno Padre, Gesù Cristo, nostro Signore, vero Re dell’universo! Che cosa avete lasciato voi nel mondo? Che cosa hanno potuto ereditare da voi i vostri discendenti? Che cosa avete posseduto voi, mio Signore, se non sofferenze, dolore, ignominia, fino ad avere solo l’aiuto di un tronco d’albero per inghiottire l’amaro calice della morte? Infine, mio Dio, se vogliamo essere vostri figli legittimi e non rinunziare alla vostra eredità, non dobbiamo rifuggire dalla sofferenza. Il vostro stemma è fatto di cinque piaghe. Su, dunque, figlie mie, questa deve essere la nostra insegna, se dobbiamo ereditare il suo regno: non con il riposo, non con i piaceri, non con gli onori, non con le ricchezze si deve guadagnare ciò ch’egli ha acquistato a prezzo di tanto sangue. Oh, gente illustre, per amor di Dio, aprite gli occhi! Considerate che i veri cavalieri di Gesù Cristo e i principi della sua Chiesa, un san Pietro, un san Paolo, non hanno seguito il cammino che seguite voi. Credete forse che per voi il cammino debba essere un altro? Non pensatelo davvero. Osservate come il Signore cominci ad indicarvelo con l’esempio di persone così giovani come quelle di cui ora parliamo.

12. Ho visto qualche volta questo don Antonio e ho parlato con lui; avrebbe voluto possedere molto di più allo scopo di abbandonare tutto. Fortunato giovane e fortunata giovinetta, per aver così ben meritato presso Dio, che nell’età in cui il mondo, generalmente, domina chi vi ha la sua dimora, essi lo hanno calpestato. Benedetto sia colui che si è mostrato con loro tanto generoso!

13. Quando la sorella maggiore si vide in possesso di tutti gli averi, li disprezzò come aveva fatto suo fratello, perché fin da bambina si era dedicata tanto all’orazione – proprio dove il Signore dà luce per intendere la verità – da non averne, come lui, alcuna stima. Oh, Dio mio, a quante fatiche, tormenti, processi e anche con quale rischio della vita e dell’onore, si sarebbero esposti molti per assicurarsi quest’eredità! Essi, invece, ebbero a soffrire non poco per ottenere di spogliarsene. Così va il mondo, le cui follie ci sarebbero bene evidenti se non fossimo ciechi. Di tutto cuore, per liberarsi di quest’eredità la giovinetta ne fece rinuncia in favore di sua sorella, l’ultima che restasse in casa, dell’età di dieci o undici anni. Subito, perché non si estinguesse la miserabile gloria del casato, i parenti stabilirono di far sposare questa fanciulla con uno zio, fratello di suo padre. Ottenuta la dispensa dal Papa, si celebrarono gli sponsali.

14. Ma il Signore non volle che la figlia di una tale madre e la sorella di tali fratelli avesse, diversamente da loro, gli occhi chiusi alla verità. Avvenne, pertanto, quello che ora dirò. Quando la ragazza cominciava a disporre di vestiti e di ornamenti mondani che, adeguati al suo rango, avrebbero dovuto allettare una fanciulla di tenera età come la sua, e non erano trascorsi ancora due mesi dal suo fidanzamento, il Signore prese ad illuminarla, pur senza che allora ella se ne accorgesse. Dopo aver trascorso una giornata molto felice con il suo promesso sposo, che ella amava con un trasporto superiore a quanto comportasse la sua età, si sentiva presa da una gran tristezza costatando come quel giorno fosse ormai passato e pensando che così sarebbero passati anche tutti gli altri. Oh, grandezza di Dio! Dalla stessa gioia provata nei piaceri fugaci di questo mondo fu tratta a detestarli. La sua tristezza era così profonda che non riusciva a nasconderla al suo fidanzato, né sapeva quale ne fosse la causa né cosa dirgli, quando gliene chiedeva il motivo.

15.Nel frattempo al fidanzato capitò di essere obbligato a fare un viaggio per recarsi assai lontano dalla città. Ella ne soffrì molto, perché lo amava profondamente. Ma subito il Signore le scoprì la causa della sua pena: cioè la sua anima cominciava a propendere per ciò che non avrà fine. Prese infatti a considerare come i suoi fratelli si fossero aggrappati al partito più sicuro, lasciando lei fra i pericoli del mondo. Questo, da una parte; dall’altra l’affliggeva il pensiero che la sua situazione era senza rimedio, non essendo venuto ancora a sua conoscenza – come poi seppe, dietro sua richiesta – che, pur essendo fidanzata, poteva ugualmente abbracciare la vita religiosa. Ma, soprattutto, l’amore che aveva per il suo promesso sposo le impediva di prendere una tale decisione, ragion per cui viveva in grande angoscia.

16. Siccome però il Signore la voleva per sé, le tolse a poco a poco questo amore e le fece crescere il desiderio di abbandonare tutto. In quel tempo era animata solo dal desiderio di salvarsi e di cercare i mezzi migliori a tal fine. Le sembrava infatti che, invischiata di più nelle cose del mondo, si sarebbe dimenticata di adoperarsi per quelle eterne. Questa la saggezza che Dio le infondeva nell’anima per la quale, pur in così tenera età, si sentiva spinta a cercare il modo d’impossessarsi di ciò che è eterno. Anima felice che così presto si liberò della cecità nella quale muoiono tanti vecchi! Non appena si sentì padrona del suo volere, decise di impiegarlo tutto al servizio di Dio. Fino a quel momento aveva taciuto; da allora cominciò a parlarne con sua sorella. Questa, credendola una fanciullaggine, cercava di dissuaderla dicendole, fra l’altro, che si poteva salvare anche nello stato matrimoniale. Per tutta risposta la giovinetta le chiese perché lei vi avesse rinunciato. Così passarono alcuni giorni, durante i quali il suo desiderio non faceva che aumentare. A sua madre, tuttavia, non osava dire nulla, e forse era proprio lei, con le sue sante preghiere, a suscitarle quelle lotte.

 

CAPITOLO 11

Prosegue sull’argomento iniziato, raccontando gli espedienti a cui donna Casilda de Padilla fece ricorso per realizzare i suoi santi desideri d’essere religiosa.

 

1. In questo tempo avvenne che prendesse l’abito nel nostro monastero della Concezione una sorella conversa, della quale forse racconterò la vocazione perché, sebbene di diversa condizione, essendo un’umile contadina, per le insigni grazie di cui Dio l’ha favorita è stata da lui elevata talmente da meritare, a lode di Sua Maestà, che se ne faccia speciale menzione. Donna Casilda (si chiamava così questa prediletta di Dio), recatasi ad assistere alla vestizione con la nonna, che era la madre del suo promesso sposo, si affezionò molto a questo monastero, sembrandole che in esso le religiose, essendo in poche e povere, potessero servire meglio il Signore. Pur tuttavia non era decisa a lasciare il suo sposo, giacché era questo – come ho detto – il legame più forte che ancora la trattenesse.

2. Considerava che, prima di fidanzarsi, era solita dedicare un po’ di tempo all’orazione, abitudine in cui era cresciuta con i fratelli, per la bontà e la santità di sua madre. Infatti questa, sin dall’età di sette anni, li conduceva di tanto in tanto in un oratorio, insegnava loro a meditare sulla passione del Signore e li faceva confessare spesso; per questo ha assistito al pieno successo dei suoi desideri, che erano di vederli consacrati a Dio. Ella mi ha detto che glieli offriva di continuo e lo supplicava di tirarli fuori dal mondo, essendo ormai consapevole del poco conto che si deve farne. Penso, a volte, quanto questi figli dovranno ringraziare una tale madre, una volta in possesso dei beni eterni, nel riconoscere che la madre è stata per loro il mezzo per conseguirli, e quale sarà la gioia di questa madre nel vedere i suoi figli in paradiso. Al contrario, quanto diversa la sorte di coloro che, per non aver cresciuto i propri figli come figli di Dio (di cui sono più figli, che non di loro stessi), si vedranno con essi nell’inferno! Quali maledizioni si scaglieranno e quale disperazione li tormenterà!

3. Tornando dunque a quello che dicevo, Casilda, vedendo che attendeva di malavoglia anche alla recita del rosario, temette molto di dover andare sempre peggio, e le sembrò evidente che, entrando in questo monastero, si sarebbe assicurata la salvezza. Prese pertanto la sua risoluta decisione. Una mattina, essendo venuta qui con sua sorella e sua madre, si diede loro l’occasione di entrare in monastero, senza il minimo sospetto da parte di alcuno che ella facesse ciò che fece. Non appena si vide lì dentro, non ci fu verso di mandarla fuori. Versava tali fiumi di lacrime perché ve la lasciassero e diceva tali cose commoventi, da far restare tutte le religiose sbigottite. Sua madre, benché nel suo intimo ne godesse, temeva dei parenti e non voleva che rimanesse lì in quel modo, onde evitare di essere accusata d’averla indotta lei a fare quel passo. Anche la priora era della stessa opinione: riteneva la fanciulla troppo giovane e pensava che fosse necessario provarla più a lungo. Questo accadeva al mattino; dovettero restare lì fino a sera; fu mandato a chiamare il suo confessore, come anche il padre maestro fra Domingo, domenicano, di cui ho fatto menzione all’inizio, che era il mio confessore. In quel momento non mi trovavo in tale monastero. Questo padre riconobbe subito che si trattava dello spirito del Signore e aiutò molto Casilda, sopportando ben ardue difficoltà da parte dei suoi parenti (così dovrebbero fare tutti coloro che pretendono di servire il Signore, quando vedono che un’anima è chiamata da Dio, e non badare tanto a considerazioni umane!). Egli promise di aiutarla a rientrare nel monastero un altro giorno.

4. Dopo una lunga opera di persuasione e soprattutto affinché la colpa non dovesse ricadere su sua madre, per questa volta ella se ne andò via da lì. Ma i suoi desideri non facevano che aumentare. La madre, allora, cominciò a parlarne segretamente con i suoi parenti, e la ragione di questa segretezza stava nella speranza che, così facendo, il fidanzato non venisse a saperlo. Essi dissero che era una bambinata e che Casilda doveva aspettare d’avere un’età conveniente, visto che non aveva compiuto dodici anni. Ella rispondeva che se l’avevano trovata di un’età adatta per sposarla e lasciarla nel mondo, come mai non la trovavano matura per darsi a Dio? Diceva cose che davano ben a vedere come non fosse lei a parlare a questo riguardo.

5. La cosa, tuttavia, non poté restare così segreta, che non ne fosse informato il fidanzato. Quando ella lo seppe, non le sembrò opportuno attendere il suo ritorno, e il giorno della festa della Concezione, trovandosi in casa di sua nonna, che era anche la sua futura suocera e che non sapeva nulla di questo, la pregò caldamente di lasciarla andare in campagna con la governante, a ricrearsi un poco. La nonna vi acconsentì per farle piacere, dandole una carrozza con vari suoi servitori. Casilda diede a uno di essi un po’ di denaro, pregandolo di aspettarla alla porta del monastero con alcuni fasci di sarmenti, mentre ella faceva girare la carrozza in modo da essere condotta davanti a questa casa. Appena giunta alla porta, fece chiedere alla ruota una brocca d’acqua, raccomandando di non dire per chi servisse, e scese in gran fretta dalla vettura. Le dissero che gliel’avrebbero portata dov’era, ma ella non volle. Già i fasci erano là. Fece allora pregare le suore di venire alla porta per prenderli, ed ella vi rimase accanto. Apertasi la porta, si precipitò dentro, corse ad abbracciare una statua della Madonna, piangendo e supplicando la priora di non cacciarla. Frattanto i servi lanciavano alte grida e bussavano con violenza alla porta. Casilda si recò alla grata per parlare con essi: disse loro che in nessun modo sarebbe uscita di là e li incaricò di riferirlo a sua madre. Le donne che l’avevano accompagnata emettevano grandi lamenti, ma a lei importava poco di tutto questo. La nonna, non appena ebbe la notizia di quanto era avvenuto, volle subito andare lì.

6. In conclusione, né lei né lo zio né il fidanzato che, al suo ritorno, si diede molto da fare per convincerla attraverso la grata, riuscirono ad altro che a tormentarla con la loro presenza, e lasciarla poi più radicata nella sua decisione. Il fidanzato le diceva, dopo molti lamenti, che avrebbe potuto servir meglio il Signore facendo elemosine. Ella gli rispondeva che le facesse lui; alle altre sue argomentazioni replicava che soprattutto doveva pensare alla propria salvezza, che si sentiva debole e che vedeva di non potersi salvare fra i pericoli del mondo; dopo tutto egli non aveva motivo di lamentarsi di lei, perché non l’aveva lasciato se non per Dio, pertanto non gli recava offesa alcuna. Ma, vedendo che nulla riusciva a persuaderlo, si alzò e lo lasciò solo.

7. Le sue parole non la turbarono minimamente; anzi, restò del tutto sdegnata con lui perché, quando Dio dà a un’anima la luce della verità, le tentazioni e gli ostacoli frapposti dal demonio le sono di maggior aiuto, perché allora è Sua Maestà a combattere per lei; questo appariva chiaro in Casilda, essendo evidente che non era lei a parlare.

8. Quando il suo fidanzato e i suoi parenti videro che, a volerla far uscire di buon grado, non si ricavava nulla, cercarono di ricorrere alla forza. Presentarono, così, un provvedimento reale che ordinava di metterla fuori del monastero e di lasciarla libera. In tutto questo intervallo di tempo, cioè dalla festa della Concezione a quella degli Innocenti in cui la fecero uscire, nel monastero non le fu dato l’abito, ma ella attese a tutte le pratiche religiose come se lo avesse, e con grande gioia. Nel giorno stabilito venne a prenderla la giustizia e fu portata in casa di un gentiluomo. La condussero via mentre, sciogliendosi in lacrime, continuava a dire che non v’era ragione di tormentarla, poiché non avrebbe loro giovato a nulla. In questa casa dovette subire un’insistente opera di persuasione, tanto da parte di religiosi come di altre persone: gli uni, infatti, vedevano nel suo comportamento una fanciullaggine, le altre desideravano che godesse del suo stato. Sarebbe dilungarmi molto se dicessi le dispute che dovette sostenere e il modo in cui si liberava da tutte le argomentazioni. Le sue risposte lasciavano tutti sbalorditi.

9. Quando videro l’inutilità dei loro sforzi, la riportarono a casa di sua madre per trattenervela un po’ di tempo. La madre, stanca ormai di tante agitazioni, non l’aiutava minimamente, anzi, a quanto sembrava, le era ostile. Può darsi che lo facesse per provarla maggiormente; perlomeno così poi mi ha detto: è così santa che si deve assolutamente credere alle sue parole. Ma la giovinetta non si rendeva conto di questo modo di agire. Anche un sacerdote dal quale si confessava le era oltremodo contrario. Così non trovava altra consolazione che in Dio e in una damigella di sua madre. In queste lotte ed angosce trascorse il tempo che le restava per compiere dodici anni, quando scoprì che, non potendo impedirle di essere religiosa, cercavano di farla entrare nel monastero in cui stava sua sorella, perché vi si praticava minore austerità.

10. Appena si rese conto di questo, decise di adoperarsi con tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere l’agognata felicità, portando avanti il suo disegno. Un giorno andò con sua madre a Messa. Mentre erano in chiesa, sua madre entrò in un confessionale. A quel punto, Casilda pregò la sua governante di andare a chiedere a uno dei padri di celebrare una Messa per lei; appena la vide allontanarsi, si mise le scarpette nella manica, si alzò la gonna e corse quanto più celermente poté verso il monastero, che era molto distante. La sua governante, non trovandola più, si mise a inseguirla e, quando era già vicina a raggiungerla, pregò un uomo di fermarla. Ma questi la lasciò andare perché, come ebbe poi a raccontare, si sentì nell’impossibilità di muoversi. Casilda, dopo aver varcato la prima porta del monastero, la chiuse e cominciò a chiamare. Quando giunse la governante, già era dentro. Le diedero subito l’abito, e così poté appagare i santi desideri che il Signore le aveva messo nel cuore. Sua Maestà prese a ricompensarla assai presto con grazie spirituali ed ella, da parte sua, a servirlo con grandissima gioia, profonda umiltà e completo distacco.

11. Sia benedetto per sempre, egli che rende felice, sotto povere vesti di bigello, colei che era prima così attaccata a quelle eleganti e ricche. Tali povere vesti peraltro non riuscivano a nascondere la sua bellezza, giacché il Signore le aveva concesso insieme alle grazie spirituali anche quelle naturali. Ella è dotata infatti di un carattere e di un ingegno così piacevoli che le consorelle lodano il Signore. Piaccia a Sua Maestà che siano in molte a rispondere come lei alla sua chiamata.

 

CAPITOLO 12

Vi si tratta della vita e della morte di una religiosa condotta da nostro Signore in questo stesso monastero, chiamata Beatriz de la Encarnación, di tale perfezione nella sua vita e di tale santità nella morte, che è giusto se ne faccia memoria.

 

1. Una giovinetta che si chiamava donna Beatriz Oñez, lontana parente di donna Casilda, entrò qualche anno prima di lei in questo monastero per farsi monaca. Le rare virtù di cui il Signore l’arricchiva riempivano tutte d’ammirazione. Sia le consorelle, sia la priora affermavano che in tutto il tempo della sua vita non scoprirono mai in lei nulla che si potesse ritenere un’imperfezione, né mai, per nessuna ragione, la videro mutarsi d’aspetto, ma sempre mantenere un’espressione di riservata letizia, segno evidente dell’intima gioia di cui godeva la sua anima. Il suo silenzio era tale che, lungi dal pesare ad alcuno, pur essendo assai rigoroso, non evidenziava nulla di particolare. Non risulta che abbia mai pronunziato una parola meritevole di rimprovero, né la si vide mai ostinarsi a discutere né scusarsi, sebbene la priora, per metterla alla prova, l’incolpasse di ciò che non aveva fatto, come si usa nelle nostre case per esercitare alla mortificazione. Non si lamentò mai di nulla né di nessuna consorella. Qualunque ufficio adempisse, né con l’espressione del suo viso né con le sue parole procurò il minimo dispiacere ad alcuna, né diede motivo di pensare che ci fosse in lei un’imperfezione. Non si è trovato nessun punto d’accusa a suo riguardo nel Capitolo, ove pur le zelatrici rivelano le più lievi mancanze da loro notate. In ogni cosa era straordinario l’ordine che regolava i suoi atti interiori ed esteriori: ciò nasceva dal pensiero sempre presente dell’eternità e del fine per cui siamo stati creati. Aveva continuamente sulle labbra le lodi di Dio e gli accenti della più profonda gratitudine: la sua vita, in conclusione, era una perenne preghiera.

2. Riguardo all’obbedienza, non commise mai una mancanza, pronta com’era ad eseguire con sollecitudine, perfezione e gioia tutto ciò che le veniva ordinato. Grandissima era la sua carità verso il prossimo, tanto da farle dire d’essere disposta a lasciarsi ridurre a pezzi per chiunque, in cambio della salvezza della sua anima e della possibilità di far godere a tutti di suo «fratello Gesù Cristo», come soleva chiamare nostro Signore. Sopportava le sue sofferenze, pur essendo dure, a causa di terribili malattie – come dirò in seguito – e i suoi tremendi dolori così di buon animo e con tanto piacere, come se fossero grandi favori e delizie. Certamente nostro Signore doveva fargliene dono nell’anima, non essendo altrimenti possibile spiegarsi la gioia con cui sopportava i suoi mali.

3. Avvenne che in questa città di Valladolid si portassero al rogo alcuni individui, colpevoli di gravi delitti. Ella, avendo certo saputo che andavano a morte senza quella buona disposizione che era loro necessaria, ne provò profonda afflizione. Si recò con grande pena ai piedi di nostro Signore e lo supplicò ardentemente per la salvezza di quelle anime, chiedendogli in cambio di quanto esse meritavano, o per rendersi ella stessa meritevole di ottenere questa grazia – non ricordo in modo preciso le parole a cui fece ricorso –, di darle nell’intero corso della sua vita tutte le tribolazioni e le sofferenze che ella potesse sopportare. Quella stessa notte ebbe il primo attacco di febbre, e fino alla morte non fece che soffrire. Quei condannati morirono bene e ciò fa pensare che Dio avesse ascoltato la sua preghiera.

4. Le venne, poi, un ascesso intestinale con così atroci dolori, che era proprio necessario, per sopportarli pazientemente, la grazia di cui il Signore aveva arricchito la sua anima. Si trattava di un ascesso interno, contro cui tutti i rimedi della medicina non giovavano a nulla, finché il Signore permise che si aprisse e gettasse fuori l’infezione; così cominciò a star meglio a questo riguardo. Ma, desiderosa com’era di patire, non si contentava di poco; pertanto il giorno della festa della Croce, nell’ascoltare la predica, il suo desiderio crebbe tanto che, finita la cerimonia, scoppiata in lacrime, andò a gettarsi sul letto. Interrogata su che cosa avesse, rispose che pregassero Dio di mandarle molte sofferenze, perché solo con esse sarebbe stata felice.

5. Parlava con la priora di tutto ciò che avveniva nel suo intimo, e questo le era di conforto. Per l’intera durata della sua malattia non diede mai a nessuno il minimo fastidio, né si discostava dalle prescrizioni dell’infermiera, si trattasse anche solo di bere un po’ d’acqua. Per le anime dedite all’orazione, desiderare sofferenze, quando non si hanno, è cosa assai consueta, ma rallegrarsi, stando tra le pene, di soffrirle, non è di molte. Ella, invece, mentre il male aumentava di violenza, tanto che durò ancor poco in vita, con dolori terribili e un ascesso alla gola che le impediva di inghiottire, alla presenza di alcune consorelle disse alla priora (la quale cercava certo di confortarla e incoraggiarla a sopportare così gran male) che non avvertiva alcuna afflizione, né avrebbe cambiato il suo stato con nessuna delle consorelle che stavano in perfetta salute. Aveva talmente presente quel Signore per il quale pativa, che ricorreva a tutti i mezzi possibili perché non si capisse quanto grande fosse la sua sofferenza. Pertanto, tranne quando il dolore aumentava notevolmente d’intensità, si lamentava pochissimo.

6. Le sembrava che non ci fosse sulla terra creatura più miserabile di lei, e così, da tutto quel che il suo comportamento rivelava, era grande la sua umiltà. Si compiaceva moltissimo di parlare delle virtù di altre persone; in materia di mortificazione era perfino esagerata. Riusciva con così abile dissimulazione a sottrarsi ad ogni specie di sollievo che, se non la si osservava attentamente, non si poteva rendersene conto. Sembrava che non trattasse né vivesse più sulla terra, indifferente com’era a tutto. In qualunque modo andassero le cose, le sopportava talmente in pace da apparire sempre inalterata, tanto che una volta una consorella le disse che somigliava a certe persone così gelose del loro onore da preferire, pur morendo di fame, di sopportarlo in silenzio, piuttosto che renderne consapevoli gli estranei. E ciò perché nessuna poteva credere che ella fosse insensibile a certe cose di cui non sembrava minimamente risentire.

7. In tutto quello che faceva, sia nei riguardi del lavoro, sia delle sue occupazioni, aveva un fine così alto da non perderne alcun merito. E diceva alle consorelle: «La più piccola cosa che si faccia, se è fatta per amor di Dio, è di un valore inestimabile. Non dovremmo neppure muovere gli occhi, sorelle, se non in vista di questo fine e di piacere a Dio». Non s’intrometteva mai in cose di cui non avesse avuto l’incarico; così non vedeva i difetti altrui, ma solo i propri. Soffriva tanto per il minimo elogio che le venisse fatto che stava attenta a non lodare le altre in loro presenza, per non procurare ad esse ugual dispiacere. Non cercava mai alcun conforto, sia recandosi in giardino sia in ogni altra cosa creata, perché, a quanto diceva, sarebbe stato indelicato cercare sollievo ai dolori che le mandava nostro Signore. Per questo motivo non chiedeva mai nulla, contenta di ciò che le veniva dato. Diceva anche che per lei sarebbe stata una croce ogni consolazione attinta fuori di Dio. Sta di fatto che io, informatami presso le religiose del monastero, non ne ho trovata alcuna la quale avesse visto in lei la minima cosa che non denotasse un’anima di grande perfezione.

8. Giunto ormai il momento in cui nostro Signore aveva deciso di toglierla da questa vita, aumentarono i suoi dolori e i suoi mali si complicarono: per costatare la gioia con cui li sopportava e lodarne nostro Signore, le consorelle andavano talvolta a vederla. Specialmente il cappellano, gran servo di Dio, confessore di quel monastero, ebbe un vivo desiderio di trovarsi presente alla sua morte perché, confessandola, la riteneva una santa. Piacque a Dio esaudire il suo desiderio. Infatti, benché avesse ricevuto l’unzione degli infermi ed ella fosse ancora presente a se stessa, chiamarono ugualmente il cappellano perché, se quella notte ce ne fosse stato bisogno, la confessasse o almeno l’aiutasse a morire. Un po’ prima delle nove, mentre tutte le consorelle erano da lei insieme con il cappellano, le scomparve ogni dolore: con un’espressione di profonda pace, alzò gli occhi al cielo e le si dipinse in volto una gioia tale che parve illuminarla di una luce splendente. Se ne stava nell’atteggiamento di chi contempla qualcosa che è causa di grande letizia, perché sorrise due volte. Tutte le religiose presenti e lo stesso sacerdote sperimentarono una gioia e un’allegrezza spirituale così intense da non saper dire altro se non che sembrava loro di stare in paradiso. Con questa letizia che ho detto e con gli occhi levati al cielo, spirò, restando lì come un angelo. E possiamo ben credere, in base alla nostra fede e alla sua vita, che Dio l’abbia condotta all’eterno riposo, in ricompensa di quanto aveva desiderato di patire per lui.

9. Il cappellano afferma – e l’ha detto a molte persone – che nel momento in cui si calava il corpo nella sepoltura, egli sentì esalarne un acuto e soavissimo profumo. La sagrestana, inoltre, asserisce di non aver trovato nessuna diminuzione nella cera che bruciò durante gli onori funebri e il seppellimento. Tutto ciò è assai credibile per la misericordia di Dio. Avendo io parlato di queste cose con una padre della Compagnia di Gesù, che ella aveva avuto come confessore e direttore spirituale per molti anni, mi disse che non v’era in questo nulla di straordinario, né egli se ne meravigliava, conoscendo quanto il Signore si comunicasse al suo spirito.

10. Piaccia a Sua Maestà, figlie mie, che noi sappiamo trarre profitto dagli esempi di una così eccellente compagna e di molte altre che nostro Signore manda alle nostre case. Forse ne dirò ancora qualche cosa, affinché quelle che procedono con alquanta tiepidezza si sforzino di imitarle, e affinché tutte insieme lodino il Signore che fa risplendere così le sue grandezze in così deboli donnicciole.

 

CAPITOLO 13

In cui si racconta come e da chi fu dato avvio al primo convento dei carmelitani scalzi della Regola primitiva. Anno 1568.

 

1. Prima della mia partenza per la fondazione di Valladolid, si era convenuto con il padre fra Antonio de Jesús, allora priore di Sant’Anna di Medina, convento appartenente all’Ordine del Carmine, e con fra Giovanni della Croce – come ho già detto – che qualora si fosse fondato un monastero della Regola primitiva degli scalzi, essi sarebbero stati i primi ad entrarvi. Ma, non trovando il modo di procurarmi una casa, non facevo che supplicare di questa grazia nostro Signore, perché – ripeto – di questi due padri ero già soddisfatta. Il padre fra Antonio de Jesús, nell’anno trascorso dopo che io avevo trattato di ciò con lui, era stato sottoposto a dura prova dal Signore, per gravi sofferenze che aveva sopportato in modo esemplare. Per il padre fra Giovanni della Croce non c’era bisogno di alcuna prova perché, sebbene fosse fra quelli del panno, cioè fra i calzati, aveva sempre condotto una vita di grande perfezione e di piena osservanza degli obblighi religiosi, Piacque, infine, al Signore, dopo avermi dato il più, vale a dire frati adatti a cominciare l’opera, di provvedere anche al resto.

2. Un cavaliere di Avila, chiamato don Rafael, con il quale non avevo mai avuto rapporti, venne a sapere, non so come – perché la memoria mi fallisce –, della nostra intenzione di fondare un convento di scalzi. Venne a offrirmi una casa di sua proprietà in un piccolo villaggio di pochissime famiglie, mi pare neanche venti – perché ora non me ne ricordo bene –, che serviva a un fittavolo incaricato di raccogliere il grano prodotto dalla proprietà. Io, anche se capii subito quale genere di casa dovesse essere, resi lode a nostro Signore e ringraziai molto il cavaliere. Egli mi disse che era sulla strada di Medina del Campo, proprio quella che dovevo fare per recarmi alla fondazione di Valladolid, essendo quella la via più diretta, e che potevo vederla. Gli risposi che l’avrei fatto e mantenni la parola. Partii infatti da Avila nel mese di giugno con una compagna e con il padre Giuliano d’Avila, che era il sacerdote cappellano di San Giuseppe di Avila il quale, come ho detto, mi assisteva nei miei viaggi.

3. Pur essendo partiti di mattina, siccome non conoscevamo la strada, ci smarrimmo e, poiché il villaggio era poco noto, non si riusciva a saperne molto. Pertanto ci aggirammo tutto quel giorno con molta fatica, perché il sole scottava. Quando credevamo di essere vicini alla meta, c’era altrettanta strada da fare. Non dimenticherò mai la stanchezza e le giravolte di quel viaggio. Arrivammo, così, poco prima di notte. Entrati nella casa, la trovammo in tale stato che non ci arrischiammo a pernottare lì a causa della eccessiva sporcizia che vi regnava e della gran quantità di parassiti estivi. Aveva un ingresso discreto, una camera divisa in due con il suo soppalco, e una piccola cucina: ecco tutto l’edificio del nostro monastero! Considerai che nell’ingresso si poteva fare la cappella, che nel soppalco stava bene il coro e nella camera il dormitorio. La mia compagna, benché assai migliore di me e molto amante della penitenza, non poteva sopportare l’idea che io pensassi di far lì un monastero e mi disse: «Vi assicuro, madre, che non ci sarà nessuna anima, per buona che sia, capace di sopportare questo. Non parlatene più». Il padre che mi accompagnava, sebbene fosse dello stesso parere della mia compagna, quando gli ebbi esposto i miei disegni, non mi fece opposizione. Ci recammo a passar la notte in chiesa, giacché, a causa della grande stanchezza che avevamo, non avremmo voluto passarla vegliando.

4. Giunti a Medina, parlai subito con il padre fra Antonio: gli dissi quale fosse la situazione e che se gli bastato il coraggio di stare lì qualche tempo, poteva esser certo che Dio avrebbe presto sistemato tutto; che l’essenziale era cominciare. (Mi sembrava di aver avuto così presente ciò che il Signore ha poi fatto e che ne fossi così sicura – in certo modo – come lo sono ora che ne vedo la realizzazione, e anche più di quanto finora abbia visto, benché nel momento in cui scrivo, per la bontà di Dio, siano stati fondati dieci monasteri di scalzi). Dissi inoltre al padre Antonio che né il provinciale passato, né il presente (il cui consenso, come ho detto al principio, era indispensabile) ci avrebbero dato la loro autorizzazione se ci avessero visto in una casa assai migliore, prescindendo dal fatto che non avevamo modo di procurarcela, mentre in quel piccolo borgo e in quella misera casa, non vi avrebbero fatto caso. Dio aveva dato a lui più coraggio che a me, e pertanto mi rispose che era disposto a stare non solo lì, ma anche in un porcile. Fra Giovanni della Croce era del medesimo parere.

5. Ora ci restava di ottenere il consenso dei due padri di cui ho parlato, perché era questa la condizione con la quale il nostro padre generale ci aveva dato la sua autorizzazione. Io speravo in nostro Signore di riuscire ad averla, e così, raccomandato al padre fra Antonio di adoperarsi a far tutto ciò che potesse per raccogliere qualche cosa per la nuova fondazione, partii con fra Giovanni della Croce per la fondazione già descritta di Valladolid. Siccome restammo alcuni giorni senza clausura a causa degli operai che lavoravano per adattare al bisogno la casa, ebbi l’opportunità d’informare il padre Giovanni della Croce di tutto il nostro sistema di vita, in modo che conoscesse a fondo ogni nostra pratica, sia riguardo alla mortificazione, sia alla forma di fratellanza e di ricreazione che abbiamo in comune. Questa procede con tanta moderazione, che serve solo a farci conoscere i nostri difetti e a darci un po’ di svago per sopportare meglio il rigore della Regola. Quel padre era così buono che avrei potuto, da parte mia, imparare da lui molto più di quel che egli apprendeva da me. Ma non era questo ciò che io facevo; pensavo solo a informarlo del modo di vivere di noi consorelle.

6. Piacque a Dio che si trovasse lì il provinciale del nostro Ordine, dal quale dovevo avere il permesso. Si chiamava fra Alonso González. Era vecchio, d’indole assai buona e privo di malizia. Nel presentargli la mia richiesta gli addussi tante ragioni, senza escludergli il conto che avrebbe dovuto rendere a Dio se avesse ostacolato una così santa opera. Il Signore, che voleva si facesse quella fondazione, gli toccò il cuore ed egli si mostrò favorevole. Venuti poi la signora donna María de Mendoza e il vescovo di Avila, suo fratello, che è quegli che ci ha sempre appoggiate e protette, sistemarono la cosa con lui e con il padre fra Angel de Salazar, l’ex provinciale, del quale io più temevo. Ma si diede l’occasione che egli avesse bisogno, per un certo affare, dell’aiuto della signora donna María de Mendoza, e credo che questo ci abbia molto giovato; prescindendo dal fatto che, anche se non ci fosse stata questa occasione, nostro Signore lo avrebbe ispirato in nostro favore, come aveva fatto col padre generale, quando era ben lontano dall’aiutarci.

7. Oh, quante cose ho visto, in queste trattative, mio Dio, che sembravano impossibili e che Sua Maestà ha appianato con estrema facilità! E quale confusione è per me, avendo visto quello che ho visto, non essere migliore! Ora che son qui a scriverne, resto sbigottita e vorrei che nostro Signore facesse conoscere a tutti come in queste fondazioni noi, sue creature, non abbiamo fatto quasi nulla. Tutto è stato disposto dal Signore, e l’edificio ha avuto così umili basi che solo Sua Maestà poteva elevarlo all’altezza in cui ora lo vediamo. Sia per sempre benedetto! Amen.

 

CAPITOLO 14

Continua a parlare della fondazione della prima casa dei carmelitani scalzi. Dice qualcosa della vita che lì essi conducevano e del bene che per loro mezzo Nostro Signore cominciò a operare in quei luoghi, tutto a onore e gloria di Dio.

 

1. Avuti questi due consensi, mi parve che ormai non mi mancasse nulla. Stabilimmo che il padre fra Giovanni della Croce andasse nella nuova casa e la sistemasse in modo che si potesse abitarla, comunque fosse. Tutto il mio desiderio era che si cominciasse presto, perché temevo molto che sopravvenisse qualche ostacolo. E così si fece. Il padre fra Antonio aveva già raccolto qualcosa di quel che era necessario. Noi l’aiutavamo come potevamo, ma si trattava di poca cosa. Venne a trovarmi a Valladolid, pieno di gioia, e mi elencò quel che aveva raccolto, che era quasi niente. Era provvisto solo di orologi, perché ne aveva cinque, il che mi divertì molto. Mi disse che per avere le ore ben regolate, non voleva esserne sfornito. Credo che ancora non disponesse di qualcosa per dormire.

2. Si tardò poco a preparare la casa perché, pur essendoci il desiderio di far di più, mancava il denaro. Finito il lavoro, il padre fra Antonio rinunziò con ferma decisione al suo priorato e promise di osservare la Regola primitiva. Sebbene gli dicessero di farne prima la prova, non volle acconsentirvi. Se ne andò alla sua casetta con la più grande allegria del mondo. Fra Giovanni era già là.

3. Il padre fra Antonio mi ha detto che, quando arrivò in vista del piccolo villaggio, provò una straordinaria gioia interiore e gli parve di averla finita con il mondo, abbandonando tutto per seppellirsi nella solitudine di quella casa che, sia all’uno sia all’altro, lungi dall’apparire disagiata, sembrava che offrisse grandi diletti.

4. Oh, mio Dio! Come servono a poco gli edifici e gli agi esteriori per l’appagamento dell’anima! Per amor suo io vi supplico, sorelle e padri miei, di andarci piano in fatto di case grandi e sontuose. Teniamo presenti i nostri veri fondatori, che sono quei santi Padri dai quali discendiamo, e che sappiamo essere pervenuti al godimento di Dio attraverso il cammino della povertà e dell’umiltà.

5. Ho proprio costatato, del resto, che vi è più spirito e anche maggiore gioia interiore quando sembra che il corpo non si trovi a suo agio che quando si disponga di un’ampia e comoda casa. Per quanto grande essa sia, che vantaggio ci procura, visto che solo una cella è ciò di cui facciamo uso continuamente? Che essa sia spaziosa e ben costruita, che c’importa? Non dobbiamo certo starvi a contemplare le pareti. Se considereremo che non è la casa in cui abiteremo per sempre, ma il breve tempo com’è quello della nostra vita, per quanto grande essa sia, tutto ci diventerà dolcemente grato, pensando che quanto meno avremo avuto quaggiù, tanto più godremo in quell’eternità dove sono le dimore corrispondenti all’amore con cui avremo imitato la vita del nostro buon Gesù. Se diciamo che son questi i principi per rinnovare la Regola della Vergine, Madre sua, nostra Signora e patrona, non facciamole l’affronto – a lei come ai nostri antichi santi Padri – di non curarci di adeguare la nostra vita alla loro. Se per la nostra debolezza non ci è possibile farlo in ogni cosa, per lo meno dovremmo avere molta cura d’imitarli quando non ne va di mezzo la salute. Infine, tutto si riduce a un po’ di gradevole fatica, qual era questa di questi due padri; e nella ferma determinazione di sopportarla sparisce la difficoltà, perché tutta la sofferenza è solo un po’ al principio.

6. La prima o la seconda domenica dell’Avvento di quell’anno 1568 (non ricordo quale sia stata delle due), si celebrò la prima Messa in quel piccolo andito che posso chiamare di Betlemme, perché non credo fosse migliore della stalla dove nacque Gesù. La Quaresima successiva, recandomi alla fondazione di Toledo, passai di là. Arrivai di mattina. Il padre fra Antonio de Jesús stava scopando davanti alla porta della cappella, con quel viso allegro che egli ha sempre. Io gli chiesi: «Che cos’è questo, padre mio? Dov’è andato a finire l’onore?». Mi rispose con queste parole che esprimevano tutta la sua gioia: «Maledetto sia il tempo in cui vi feci caso!». Entrata nella piccola cappella, rimasi sbalordita costatando lo spirito di devozione che il Signore vi aveva fatto fiorire. E non ero io sola ad esserne impressionata, perché due mercanti miei amici, che erano venuti fin lì da Medina con me, non facevano che piangere. C’erano tante croci e tante teste da morto! Non ho mai dimenticato una piccola croce di legno posta sull’acquasantiera, alla quale era attaccata un’immagine in carta di Gesù Crocifisso che mi pareva ispirare maggiore devozione di qualunque raffinata opera d’arte.

7. Il coro stava nel soppalco che, verso il centro, era un po’ elevato, in modo che i padri vi potevano dire le ore e ascoltare la Messa. Ma, per entrarvi, dovevano abbassarsi molto. Nei due angoli che davano sulla cappella si trovavano due piccoli romitori, dove non potevano stare che stesi a terra o seduti e, ciò malgrado, con la testa toccavano quasi il tetto. Li avevano riempiti di fieno perché il luogo era estremamente freddo. Due finestrelle davano sull’altare, due pietre servivano da guanciali, e ogni religioso aveva lì la sua croce e la sua testa da morto. Seppi che, dopo aver finito il Mattutino, fino a Prima, non si ritiravano in cella, ma restavano là in orazione, ed essa era così profonda che accadeva loro di trovarsi con gli abiti pieni di neve quando andavano a Prima, senza che se ne fossero accorti. Recitavano le Ore con un padre di quelli del panno, che andò a stare con loro, pur non mutando abito, perché era molto malato, e con un altro giovane frate, il quale non aveva preso ancora gli ordini e stava lì anche lui.

8. Andavano a predicare in molti villaggi vicini, i cui abitanti non avevano alcuna istruzione religiosa. Anche per questo mi ero rallegrata che si fondasse lì la casa: mi avevano detto, infatti, che non c’era vicino alcun monastero e che la gente pertanto non aveva modo d’istruirsi, cosa che non poteva non dare una gran pena. In breve tempo si erano acquistati tanta stima che, quando lo seppi, il cuore mi si riempì di gioia. Come dicevo, andavano dunque a predicare a una lega e mezzo o due di distanza, scalzi (perché allora non portavano alpargatas che in seguito fu loro imposto di avere), con la neve alta e il freddo intenso. Dopo aver predicato e confessato, ritornavano assai tardi al convento per prendere i pasti, ma con la gioia che sentivano in sé non vi facevano alcun caso.

9. Quanto al cibo, ne avevano a sufficienza perché gli abitanti dei villaggi vicini li provvedevano di più del necessario. Andavano là a confessarsi alcuni cavalieri dei dintorni, e già offrivano loro posti e case migliori nei luoghi in cui essi abitavano. Fra questi fu un certo don Luis, signore delle «Cinque Ville», che aveva fatto costruire una chiesa per collocarvi un’immagine di Nostra Signora, in verità ben degna d’essere esposta alla venerazione dei fedeli. Suo padre l’aveva inviata dalla Fiandre a sua nonna o a sua madre (non ricordo a quale delle due), per mezzo di un mercante a cui piacque tanto, che se la tenne per molti anni e poi, giunta l’ora della morte, la fece consegnare a chi spettava. È un quadro grande, più bello del quale io non ho visto mai nulla in vita mia, e molte altre persone dicono altrettanto. Il padre fra Antonio de Jesús, recatosi in quel luogo su richiesta di questo cavaliere, vista l’immagine, se ne innamorò a tal punto, e ben a ragione, che accettò di trasferire il monastero. Mancera è il nome del villaggio. Benché non vi fosse acqua di pozzo, e sembrasse che in nessun modo si potesse averne lì, il cavaliere fece costruire per essi un convento piccolo, in conformità della loro professione, li fornì di arredi sacri e regolò tutto assai bene.

10. Non voglio omettere di dire in che modo il Signore li provvide di acqua, che fu un fatto ritenuto come qualcosa di miracoloso. Mentre una sera, dopo cena, il padre fra Antonio, che era priore, stava nel chiostro con i suoi frati parlando della necessità che si aveva dell’acqua, a un tratto si alzò, prese il bastone che aveva in mano e fece in un punto del chiostro, mi pare, il segno della croce, benché non mi ricordi bene se facesse proprio il segno della croce. Comunque, indicò il posto col bastone e disse: «Ora scavate qui». Avevano appena cominciato a scavare, allorché uscì tanta acqua che, ancora oggi, quando si vuol pulire il pozzo, è faticoso vuotarlo. L’acqua è assai buona da bere; è stata adoperata per tutti i lavori del convento e – ripeto – non si esaurisce mai. In seguito i frati, recinto un tratto di terreno per farvi un orto, hanno cercato d’immettervi acqua, costruendo una noria e spendendo molto denaro, ma finora non hanno ottenuto il benché minimo risultato.

11. Ritornando ora a quel che dicevo prima, quando io vidi quella piccola casa, che poco prima era inabitabile, animata da uno spirito tale di devozione che, dovunque mi volgessi, trovavo – mi pare – di che restare edificata, e seppi del modo di vivere di quei padri, della mortificazione e dell’orazione che praticavano e del buon esempio che davano – perché vennero a trovarmi lì un cavaliere di mia conoscenza, che abitava in un villaggio vicino, con sua moglie ed entrambi non finivano di parlarmi della santità dei due padri e del gran bene che facevano lì intorno – non finivo di ringraziare nostro Signore, con una grande felicità interiore, sembrandomi di vedere dato inizio ad un’opera che avrebbe apportato gran profitto al nostro Ordine e reso il dovuto servizio a Dio. Piaccia a Sua Maestà di farli proseguire nella via che seguono ora e le mie speranze si effettueranno. I mercanti che mi avevano accompagnata mi dicevano che per tutto l’oro del mondo non avrebbero non essere venuti lì. Che gran cosa è la virtù, e quanto quella povertà piacque loro più di tutte le ricchezze che possedevano, tanto da restarne con l’anima pienamente soddisfatta e consolata!

12. Ci trattenemmo, quei padri e io, a parlare di alcune cose: in particolare – essendo io debole e dappoco – li pregai molto di non fare pratiche di penitenza troppo rigorose, perché la loro austerità era eccessiva. Siccome mi era costato tanto, di desideri e orazione, ottenere che il Signore mi mandasse persone adatte a dar principio all’opera e vedevo così felici inizi, temevo che il demonio cercasse il modo di troncare i loro giorni prima che si effettuassero le mie speranze. Imperfetta e di poca fede com’ero, non consideravo che era opera di Dio e che Sua Maestà l’avrebbe condotta innanzi. Essi, avendo le virtù che mancavano a me, fecero poco caso al mio invito di tralasciare le loro pratiche. E così me ne andai con l’anima ripiena di consolazione, anche se non rendevo a Dio le lodi che avrebbe meritate per così somma grazia. Piaccia a Sua Maestà, nella sua bontà, che io sia degna di servirlo in qualcosa per il moltissimo che gli devo! Amen. Capivo bene, infatti, che questa era una grazia ben più grande di quella che mi faceva concedendomi di fondare monasteri di religiose.

 

CAPITOLO 15

In cui si tratta della fondazione del monastero del glorioso San Giuseppe nella città di Toledo, avvenuta nell’anno 1569.

 

1. C’era nella città di Toledo un mercante, uomo onorato e vero servo di Dio, il quale non aveva mai voluto sposarsi; conduceva una vita di buon cattolico, si mostrava molto leale ed era di sani costumi. Con un commercio onesto aumentava i suoi beni nell’intento di servirsene per qualche opera che fosse particolarmente gradita al Signore. Ma fu colpito dal male che doveva condurlo alla morte. Si chiamava Martín Ramírez. Un padre della Compagnia di Gesù, Pablo Hernández, dal quale mi ero confessata quando a Toledo preparavo la fondazione di Malagón, saputo lo stato in cui si trovava, siccome desiderava molto che si fondasse un monastero del nostro Ordine a Toledo, andò a fargli visita. Gli disse, in quell’occasione, quale gran servizio avrebbe reso al Signore con quest’opera: avrebbe potuto assegnare le Messe e le cappellanie, che desiderava istituire, a quel monastero nel quale si sarebbero celebrate certe feste e si sarebbero fatte le altre opere pie che egli aveva deciso di affidare a una parrocchia della città.

2. Stava già così male che, vedendo di non aver tempo per concordare la cosa, rimise tutto nelle mani di un fratello di nome Alonso Alvarez Ramírez e, fatto questo, rese l’anima a Dio. Scelse bene, perché questo Alonso Alvarez è un uomo assai prudente e timorato di Dio, veritiero, caritatevole e dotato di raro buon senso. Avendolo trattato molto, posso affermarlo, quale testimone oculare, con assoluta verità.

3. Quando Martín Ramírez morì, io mi trovavo ancora alla fondazione di Valladolid, dove mi scrissero il padre Pablo Hernández della Compagnia di Gesù e lo stesso Alonso Alvarez, informandomi di quanto accadeva e dicendomi che, se volevo accettare questa fondazione, mi affrettassi ad andare lì. Così partii poco dopo che si finì di sistemare la casa. Arrivai a Toledo la vigilia dell’Annunciazione e andai a casa della signora donna Luisa, fondatrice del monastero di Malagón, presso la quale ero stata altre volte. Mi accolse con gran gioia, perché mi vuole molto bene. Avevo con me due compagne di San Giuseppe di Avila, gran serve di Dio. Ci diedero subito, secondo il solito, un appartamento, dove stavamo così ritirate come in un monastero.

4. Mi misi senza indugio a trattare la faccenda con Alonso Alvarez e con un suo genero chiamato Diego Ortiz il quale, benché fosse assai buono e avesse studiato teologia, era più ostinato nelle sue opinioni di Alonso Alvarez e non si arrendeva tanto facilmente alle ragioni altrui. Cominciarono entrambi a pormi molte condizioni che a me non sembrava conveniente accettare. Mentre proseguivano le trattative, si cercava una casa in affitto per la presa di possesso, ma, per quante richieste si facessero, non se ne poté trovare una che fosse adatta a noi. Io, da parte mia, non riuscivo ad ottenere l’autorizzazione dell’amministratore della diocesi (poiché allora non c’era arcivescovo), benché la signora presso cui stavo si adoperasse molto per ottenerla, e altrettanto faceva un gentiluomo, canonico della cattedrale, chiamato don Pedro Manrique, figlio dell’Adelantado di Castiglia, il quale era ed è – perché ancora vive – un gran servo di Dio: pur avendo ben poca salute, qualche anno dopo la fondazione del nostro monastero, entrò nella Compagnia di Gesù, dove si trova tuttora. Era molto stimato in Toledo per la sua notevole intelligenza e i suoi meriti; ciò nonostante non riusciva a ottenere che mi dessero quest’autorizzazione, perché quando il governatore cominciava a cedere, i membri del Consiglio ecclesiastico tenevano duro. D’altra parte, Alonso Alvarez ed io non riuscivamo a metterci d’accordo, a causa di suo genero, al quale egli dava mano libera. Infine, rompemmo ogni trattativa.

5. Io non sapevo che fare, perché, non essendo venuta per altro che per la fondazione, capivo che ripartirmene senza aver fatto nulla, poteva dar luogo a molti spiacevoli commenti. Ciò malgrado, mi rincresceva di più il rifiuto dell’autorizzazione che tutto il resto, perché ero convinta che, avvenuta la presa di possesso, il Signore avrebbe provveduto a ogni cosa, come aveva fatto in altri luoghi. Così mi decisi a parlare con l’amministratore; andai in una chiesa, che si trova vicino alla sua casa, e mandai a supplicarlo di degnarsi d’accordarmi un colloquio. Già da più di due mesi si cercava di ottenere il permesso e ogni giorno era peggio. Quando fui alla sua presenza, gli dissi che era cosa ben strana che, essendoci donne le quali volevano vivere con grande rigore, perfezione e in clausura, coloro che, lungi dal sottoporsi ad alcuna esperienza di tal genere, vivevano fra gli agi, volessero ostacolare opere volte a così gran servizio di Dio. Queste e altre cose gli dissi con la ferma determinazione che m’ispirava il Signore. La sua grazia gli toccò talmente il cuore che, prima di congedarmi da lui, ricevetti l’autorizzazione.

6. Me ne andai piena di gioia, perché mi sembrava d’aver già tutto, pur senza aver nulla. quello che possedevo infatti dovevano esser tre o quattro ducati con i quali comprai due tele dipinte (mancando di qualunque immagine da porre sull’altare), due pagliericci e una coperta. Di casa non c’era idea, poiché ero in disaccordo con Alonso Alvarez. Un mercante mio amico, di quella stessa città, che non si è mai voluto sposare e che si occupa solo di fare il bene, assistendo i carcerati, per esempio, e attendendo a molte altre opere di pietà, mi aveva detto di non darmi pena, perché egli me ne avrebbe cercata una (si chiamava Alonso de Avila), ma si ammalò. Poco prima era venuto a Toledo un frate francescano molto santo, chiamato fra Martín de la Cruz. Si trattenne alcuni giorni e, quando ripartì, mi mandò un giovane che egli confessava, di nome Andrada, per nulla ricco, anzi assai povero, raccomandandogli di fare tutto ciò che io gli dicessi. Questi, mentre un giorno assistevo in chiesa alla Messa, venne a parlarmi e a riferirmi la raccomandazione di quel sant’uomo, esortandomi ad essere certa che egli avrebbe fatto per me tutto quello che avesse potuto, pur non potendomi aiutare con null’altro che con la sua persona. Io lo ringraziai, e mi divertì molto – ancor più poi, divertì le mie compagne – vedere l’aiuto che quel santo ci inviava, perché Andrada non ci sembrava adatto, giudicandolo dall’apparenza, a trattare con carmelitane scalze.

7. Avuta, dunque, l’autorizzazione, ma senza nessuno che mi aiutasse, non sapevo che cosa fare né a chi raccomandare che mi cercasse una casa da prendere in affitto. Mi ricordai allora del giovane mandatomi da fra Martín de la Cruz e ne parlai alle mie compagne. Esse risero molto di me e mi dissero di non pensare di rivolgermi a lui, perché non sarebbe servito ad altro che a rendere pubblico il piano della fondazione. Io non volli ascoltarle perché, essendomi stato inviato da quel servo di Dio, pensavo che ciò non fosse avvenuto senza una ragione segreta e nutrivo la speranza che avrebbe fatto qualcosa. Così lo mandai a chiamare e, dopo avergli raccomandato il più assoluto segreto, gli esposi la situazione, pregandolo di cercarmi una casa adatta al mio scopo e assicurandolo che c’era chi si sarebbe fatto garante dell’affitto. Questi era il buon Alonso de Avila di cui ho detto che si era ammalato. Ad Andrada la cosa parve assai facile e mi disse che l’avrebbe cercata. Subito, il mattino seguente, mentre ascoltavo la Messa nella chiesa della Compagnia di Gesù, venne a parlarmi e mi disse che la casa era pronta, che ne aveva le chiavi, che era lì vicino e che andassimo a vederla. Vi andammo e ci parve così buona che vi rimanemmo quasi un anno.

8. Spesso, quando penso a questa fondazione, resto sbalordita dei mezzi di cui si serve Dio. Da circa tre mesi – per lo meno da più di due, perché non ricordo bene – persone ricche erano andate in giro per tutta Toledo a cercarci una casa e, come se case lì non ve ne fossero, non erano riuscite a trovarla, finché venuto questo giovane, che ricco non è, anzi assai povero, il Signore volle che la trovasse subito. Inoltre, poiché se mi fossi accordata con Alonso Alvarez, la fondazione si sarebbe fatta senza fatica, il Signore permise che, lungi dall’accordarmi con lui, le trattative si rompessero, affinché il monastero si fondasse in povertà e fra tribolazioni.

9. Siccome dunque la casa ci piacque, disposi subito le cose perché se ne prendesse il possesso prima che vi si facesse alcun lavoro, a scanso di qualunque difficoltà. Quasi subito il suddetto Andrada venne a dirmi che quel giorno stesso la casa sarebbe stata libera e che vi portassimo i nostri mobili. Gli risposi che sarebbe stato fatto, poiché non avevamo altro che due pagliericci e una coperta. Dovette restarne sbalordito. Alle mie compagne dispiacque che gli avessi detto questo e me lo rimproverarono, temendo che, vedendoci così povere, non volesse più aiutarci. Io non ci avevo pensato, ma egli non vi diede importanza, poiché chi gli ispirava quel buon volere gliel’avrebbe mantenuto fino al compimento della sua opera. Infatti lo zelo da lui manifestato nel dare assetto alla casa e far venire operai, non credo che fosse da meno del nostro. Chiesto in prestito quanto era necessario per celebrare la Messa, ci recammo nella nuova casa con un operaio sul far della notte, portando, per la presa di possesso, uno di quei campanelli che si suonano durante l’elevazione, non avendone altro. Passammo tutta la notte a disporre ogni cosa, con mio grande timore che fossimo scoperte. Non c’era, per la cappella, altro luogo che una stanza alla quale si accedeva attraverso una piccola casa attigua alla prima, che il proprietario ci aveva ugualmente dato in affitto, anche se ancora abitata da alcune donne.

10. Non appena tutto fu pronto e stava già per spuntare il giorno, senza che fino a questo momento avessimo osato dir nulla a quelle donne nel timore che svelassero tutto, cominciammo ad aprire una porta, chiusa con un tramezzo di mattoni, che dava in un cortiletto assai piccolo. All’udire i colpi, esse, che erano ancora a letto, si alzarono impaurite. Dovemmo faticare non poco per calmarle, ma era ormai giunta l’ora della Messa che fu celebrata subito; così, anche se si fossero ostinate nel loro atteggiamento, non ci avrebbero potuto nuocere. Quando videro a che uso era destinata la casa, il Signore le calmò.

11. Mi resi conto dopo di quanto avessimo fatto male le cose, perché sul momento, con l’esaltazione che Dio ispira per la realizzazione di un’opera, gli inconvenienti sfuggono. Quando, infatti, la padrona della casa seppe che vi si era eretta una cappella, cominciarono i guai, giacché, essendo moglie dell’erede di un maggiorasco, ci faceva grande opposizione. Finalmente, ritenendo che, se ci lasciava contente, gliela avremmo comprata a buon prezzo, piacque a Dio che si calmasse. Quando, poi, quelli del Consiglio seppero che si era aperto il monastero, per il quale essi non avevano mai voluto dare l’autorizzazione, montarono su tutte le furie. Si recarono subito a casa di un dignitario della cattedrale (che io avevo messo al corrente di tutto in segreto), dicendogli che avrebbero fatto fuoco e fiamme. Erano andati a raccontare ogni cosa a lui, perché il governatore, avendo dovuto fare un viaggio, dopo avermi dato l’autorizzazione, non si trovava sul posto; si mostrarono sbalorditi della temerità con cui una donnicciola, contro la loro volontà, impiantasse lì un monastero. Egli finse di non sapere nulla e cercò di calmarli come meglio poté, dicendo loro che li avevo fondati in altre città e che senza dubbio avevo proceduto con la dovuta autorizzazione.

12. Ma essi, dopo non so quanti giorni, ci mandarono l’intimazione di non far celebrare la Messa, sotto pena di scomunica, fino a che io non avessi mostrato le autorizzazioni in base alle quali si era fondato il monastero. Io risposi con molta dolcezza che avrei fatto ciò che m’imponevano, benché non fossi obbligata a obbedir loro a questo riguardo. Pregai, così, don Pedro Manrique, il gentiluomo sopra menzionato, di andare a parlare con tali signori e di mostrar loro come avessimo le carte in regola. Egli riuscì a pacificarli, trattandosi di cosa fatta, altrimenti avremmo dovuto penare non poco.

13. Passammo alcuni giorni disponendo di pagliericci e di una coperta. Il primo giorno non avevamo neanche qualche truciolo di legno per arrostire una sardina, e non so a chi il Signore ispirò di mettercene in chiesa un fascetto con cui salvammo la situazione. Di notte si soffriva un po’ il freddo perché il tempo era rigido, anche se cercavamo di ripararci da esso con la coperta e le cappe di bigello che portiamo addosso e che molte volte ci sono assai utili. Sembrerà impossibile che essendo state in casa di quella signora che mi voleva tanto bene, fossimo entrate lì in così estrema povertà. Non so vedervi altra ragione se non che Dio volle farci sperimentare il bene di questa virtù. Io non le avevo chiesto nulla perché non voglio essere importuna, e lei, forse, non se ne rese conto; d’altronde, ciò di cui le sono debitrice supera quello che ci avrebbe potuto dare.

14. La povertà fu per noi un gran bene, perché ne avevamo così grande gioia e consolazione interiore che spesso, pensandovi, ammiro le ricchezze che il Signore racchiude nelle virtù. L’essere prive di ogni cosa mi sembrava procurarci una soave contemplazione, anche se durò poco, perché subito Alonso Alvarez e altri ancora ci provvidero man mano di più di quel che avremmo voluto. Ne provavo sinceramente una grande tristezza, perché mi pareva proprio di essere come una persona che, ricca di molti gioielli d’oro, se li vedesse portar via e fosse lasciata nell’indigenza. Pertanto mi affliggeva che la nostra povertà avesse fine, e altrettanto afflitte erano le mie compagne. Vedendole infatti malinconiche e chiedendo loro che cosa avessero, mi risposero: «Che dobbiamo avere, Madre? Ci sembra di non esser più povere».

15. D’allora in poi mi crebbe il desiderio di esserlo in sommo grado: mi rimase il senso di una specie di sovranità, che m’induce a non curarmi di cose che costituiscono beni temporali, perché la loro mancanza fa aumentare i beni interiori, dai quali l’anima trae certo ben altra pace e sazietà. Nei giorni in cui trattavo della fondazione con Alonso Alvarez, erano molte le persone alle quali ciò pareva biasimevole. Me lo dicevano anche per il fatto che tanto lui quanto i suoi parenti non avevano né casato né cavalierato, benché nella loro condizione fossero – come ho detto – assai rispettabili, e che in una città come Toledo non mi sarebbe mancata la possibilità di scegliere a mio agio. Io non ci badavo molto perché, grazie a Dio, ho sempre stimato più la virtù che la discendenza. Purtroppo però erano arrivate tante chiacchiere all’amministratore, che egli mi aveva dato l’autorizzazione a patto che fondassi il monastero alle stesse condizioni stabilite per quelli fondati in altri luoghi.

16. Io non sapevo che fare, perché, fondato il monastero, le persone di cui ho parlato all’inizio vollero riprendere le trattative. Ma, siccome la fondazione era già fatta, mi appigliai alla soluzione di dar loro la cappella maggiore, a patto che nei riguardi del monastero non pretendessero nulla, e così stanno ora le cose. C’era già chi avrebbe voluto la cappella maggiore, persona assai ragguardevole, e i pareri erano tanti che non sapevo quale decisione prendere. Nostro Signore si degnò d’illuminarmi in tale circostanza. Così, un giorno mi disse quanto sarebbero stati fuor di luogo davanti a Dio, nel giorno del giudizio, questi titoli nobiliari e queste dignità. Per questo motivo, mi rimproverò severamente per aver prestato ascolto a coloro che mi parlavano di queste cose, indegne di tutti noi che abbiamo ormai disprezzato il mondo.

17. Queste e altre ragioni mi riempirono di tale confusione che decisi di concludere l’accordo avviato per dare ad Alvarez e al genero la cappella. Non me ne sono mai pentita perché abbiamo visto chiaramente in quali difficoltà ci saremmo trovate, altrimenti, per l’acquisto della casa. Infatti, con il loro aiuto abbiamo comprato quella in cui stanno oggi le consorelle, che è una delle migliori di Toledo, del costo di dodicimila ducati. Poiché vi si celebrano tante Messe e tante feste, tale casa è di grande consolazione alle religiose e agli abitanti della città. Se avessi badato alle vane opinioni del mondo, per quanto ci è dato di capire, sarebbe stato impossibile avere un tale beneficio. Avremmo inoltre recato offesa a chi ci faceva questa carità tanto di buon cuore.

 

CAPITOLO 16

In cui si trattano, a onore e gloria di Dio, alcuni fatti avvenuti in questo monastero di San Giuseppe di Toledo.

 

1. Ho creduto opportuno narrare qui qualche atto di virtù praticato da alcune religiose in servizio di nostro Signore, affinché quelle che verranno dopo cerchino sempre d’imitare questi buoni esempi iniziali. Prima dell’acquisto della casa, entrò nel nostro monastero una novizia, di nome Ana de la Madre de Dios, dell’età di quarant’anni, che aveva dedicato tutta la sua esistenza al servizio di Sua Maestà. Quantunque nel suo tenore di vita e nella sua casa non le mancasse il benessere, perché era sola e disponeva di molta ricchezza, preferì scegliere la povertà e la sottomissione al nostro Ordine, e mi venne a parlare. Aveva pochissima salute, ma io, riconoscendo in lei un’anima assai virtuosa e risoluta, la giudicai adatta per gli inizi di una fondazione, così l’accettai. Piacque a Dio di darle molto maggior salute nell’austerità e nella sottomissione di quanta ne avesse nella libertà e nel benessere.

2. Fu per me di grande edificazione, ed è per questo motivo che ne parlo qui: prima di pronunciare i voti si spogliò di tutto quel che aveva, che era una ricchezza considerevole, facendone dono alla casa. A me questo dispiacque e non glielo volevo permettere, dicendole che poteva darsi o che ella se ne pentisse o che noi non l’ammettessimo alla professione, e che era, la sua, una decisione ben grave. È vero che in questo caso non l’avremmo lasciata andar via senza restituirle ciò di cui ci faceva dono. Ma io volli gravare molto la mano, anzitutto per toglierle ogni motivo di tentazione, e poi per meglio provare il suo spirito. Mi rispose che, qualora così fosse, sarebbe andata a mendicare per amor di Dio, e non riuscii ad ottenere altro da lei. Visse assai felice e in ottime condizioni di salute.

3. Era davvero notevole in questo monastero l’esercizio della mortificazione e dell’obbedienza, tanto che, nel breve tempo in cui soggiornai lì, notai che la priora doveva stare molto attenta a quanto diceva, perché, anche se parlava distrattamente, le altre eseguivano subito tutto come fosse un ordine. Un giorno, mentre la comunità stava guardando una pozza d’acqua nell’orto, la priora disse a una religiosa che le era vicino: «Che farebbe se le dicessi di gettarsi qui?». Non aveva finito di parlare, che quella era già dentro, bagnandosi in modo tale che fu necessario cambiarla da capo a piedi. Un’altra volta, essendo io lì presente, la comunità si stava confessando, e la consorella che aspettava il suo turno si avvicinò alla priora per parlarle, ma questa le chiese come mai s’inducesse a fare ciò, se le sembrava che il suo fosse un buon modo di raccogliersi e che piuttosto mettesse la testa nel pozzo vicino e pensasse lì ai suoi peccati. L’altra credette che le avesse ordinato di gettarsi nel pozzo e si recò a farlo con tanta fretta che, se le consorelle non fossero accorse prontamente, vi si sarebbe gettata, pensando di rendere a Dio il più gran servizio del mondo. Altre cose del genere e di estrema mortificazione facevano queste religiose, al punto da rendere necessario che uomini dotti chiarissero loro i casi in cui dovevano obbedire e svolgessero opera di moderazione, perché a volte si lasciavano andare a tali eccessi, che se la loro intenzione non le avesse salvate, sarebbero stati più causa di demerito che di merito. Ciò non avviene solo in questo monastero (ho riferito fatti che lo riguardano, perché mi si è presentata l’occasione di parlarne), ma in tutti, e le cose a cui si assiste sono tante, che io vorrei non averci preso parte, per dirne alcune e far così lodare nostro Signore nelle sue serve.

4. Mentre io stavo qui, accadde che morisse una consorella. Quando ebbe ricevuto i sacramenti e le fu amministrata l’unzione degli infermi, furono tali la sua gioia e la sua allegrezza che la si poteva incaricare di raccomandarci in cielo a Dio e ai santi di cui siamo devote, come se facesse un viaggio ordinario per un altro paese. Poco prima che spirasse io rientrai da lei, essendomene allontanata per recarmi davanti al santissimo Sacramento a supplicare il Signore di concederle una buona morte. Entrando, vidi Sua Maestà al suo capezzale, verso la metà del letto. Teneva le braccia un po’ aperte come se la stesse proteggendo e mi esortò a ritenere per certo che egli avrebbe protetto allo stesso modo tutte le religiose che morissero in questi monasteri e che pertanto non dovevano temere tentazioni nell’ora della morte. Io rimasi assai consolata e in gran raccoglimento. Di lì a poco mi avvicinai per parlarle, ed ella ridisse: «Oh, Madre, che grandi cose sto per vedere!». Detto questo, morì come un angelo.

5. Ho visto anche in varie altre religiose morte in seguito una così grande pace e tranquillità, come se fossero in estasi o nella quiete dell’orazione, senza il segno di alcuna tentazione. Spero pertanto nella bontà di Dio, per i meriti di suo Figlio e della gloriosa Madre sua, di cui portiamo l’abito, che ci farà la stessa grazia. Per questo, figlie mie, sforziamoci di essere vere carmelitane, perché presto la nostra giornata avrà fine. E se conoscessimo le afflizioni che molti soffrono nel momento della morte e le astuzie e gli inganni con cui il demonio li tenta, stimeremmo molto questa grazia.

6. Mi viene in mente ora un esempio di tali tentazioni, che vi voglio raccontare, perché si tratta di una persona che ho conosciuto e che era anche un po’ imparentato con i miei parenti. Gran giocatore, aveva ricevuto però una certa istruzione. Proprio di questa si servì il demonio per ingannarlo col fargli credere che il ravvedersi nel momento della morte non aveva alcun valore. Era così fisso in quest’idea, che in nessun modo si poteva indurlo a confessarsi; tutto era inutile. Il poveretto era, sì, estremamente afflitto e pentito della sua vita colpevole, ma continuava a dire che non v’era una ragione per confessarsi, perché vedeva d’essere condannato. Un frate domenicano, suo confessore e uomo dotto, non faceva che contraddirlo, ma il demonio gli suggeriva tanti cavilli che le sue argomentazioni erano inutili. Rimase in questa ostinazione alcuni giorni tanto che il confessore non sapeva più cosa fare; senza dubbio egli ed altre persone dovettero raccomandarlo molto al Signore, poiché ebbe pietà di lui.

7. Essendosi ormai aggravata la malattia, che gli causava un violento dolore al fianco, il confessore ritornò da lui, e doveva, forse, recare nuovi argomenti da opporgli, ma sarebbe servito a poco, se il Signore, avendone pietà, non gli avesse toccato il cuore. Infatti, appena il confessore prese a parlargli e ad esporgli le sue argomentazioni, egli si sedette sul letto come se non fosse malato, e gli disse: «Allora voi dite, insomma, che la confessione mi può giovare? Ebbene, io la voglio fare». E, mandato a chiamare uno scrivano o un notaio, perché di questo non mi ricordo, giurò solennemente, prendendoli a testimoni, di non giocare più e di cambiar vita. Si confessò molto bene e ricevette i sacramenti con tale devozione che, giudicando in base ai dettami della nostra fede, possiamo credere che si sia salvato. Piaccia al Signore, sorelle, di farci trascorrere la vita come vere figlie della Vergine, osservanti dei doveri della nostra professione, affinché egli ci conceda la grazia che ci ha promesso! Amen.

 

CAPITOLO 17

Racconta della fondazione dei monasteri di Pastrana, uno per i frati l’altro per le monache, aperti ambedue nell’anno 1570, voglio dire nel 1569.

 

1. Nei quindici giorni trascorsi dalla fondazione della casa di Toledo fino alla vigilia di Pentecoste, si era dovuta sistemare la piccola cappella, mettere le grate e provvedere ad altro, il che ci aveva procurato molto da fare (perché, come ho detto, restammo in questa casa quasi un anno). Ero molto stanca per essere stata con gli operai, ma finalmente tutto era ormai terminato. Quella mattina, mentre eravamo nel refettorio per il pranzo, fui presa da così grande gioia al pensiero che ormai non avevo più nulla da fare e che in quella festa avrei potuto gioire qualche momento con nostro Signore, che quasi non potevo mangiare per la felicità di cui l’anima si sentiva piena.

2. Ma non mi fu possibile di goderne a lungo, perché in quello stesso momento vennero a dirmi che chiedeva di me un servo della principessa di Eboli, moglie di Ruy Gómez de Silva. Andai da lui: lo mandava la principessa a prendermi perché da molto tempo avevamo convenuto insieme di fondare un monastero a Pastrana, ma non pensavo che si dovesse fare così in fretta. Ne rimasi afflitta, essendo molto pericoloso lasciare un monastero fondato così di recente fra tante opposizioni: pertanto decisi subito di non andare e lo dissi al servo. Egli mi rispose che non era possibile, perché la principessa stava già là ove si era recata per questo solo motivo, e che sarebbe stato da parte mia un affronto non andarvi. Ciò nonostante decisi di non partire. Gli dissi perciò di andare a mangiare: nel frattempo avrei scritto alla principessa ed egli sarebbe poi ripartito con la mia lettera. Era un uomo assai dabbene, e quando gli ebbi spiegato le mie ragioni, nonostante la sua riluttanza, finì per cedere.

3. Le religiose che dovevano stare nel monastero erano appena arrivate; non vedevo proprio come avrei potuto lasciarle così presto. Andai davanti al santissimo Sacramento per chiedere al Signore la grazia di farmi scrivere alla principessa in modo da non irritarla. Ciò poteva arrecarci molto danno per il fatto che si cominciava allora la riforma dei frati ed era utile, per ogni nostra occorrenza, avere il favore di Ruy Gómez, che godeva di tanta influenza presso il re e presso tutti. Non mi ricordo, in verità, se pensavo a questo, ma so bene che non volevo dispiacerle. Mentre riflettevo sul da farsi, mi fu detto da parte di nostro Signore di recarmi a Pastrana, perché vi sarei andata per qualcosa di più importante della stessa fondazione e che portassi con me la Regola e le Costituzioni.

4. Udito questo, nonostante vedessi che vi erano motivi fondati per non farlo, non osai sottrarmi ad agire come sono solita fare in simili circostanze, cioè attenermi al consiglio del confessore. Così, lo mandai a chiamare, ma non gli dissi nulla di quello che avevo udito nell’orazione, perché in questo modo resto sempre più tranquilla. Supplico solo il Signore d’illuminare i miei confessori conformemente a quel che possono capire in virtù di lumi naturali, e Sua Maestà, quando vuole che la cosa si faccia, gliela pone in cuore. Questo mi è accaduto spesso e così avvenne anche questa volta. Egli, dopo aver considerato attentamente tutto, fu del parere che partissi e pertanto mi decisi ad andare.

5. Lasciai Toledo il secondo giorno di Pentecoste. Dovendo passare per Madrid, le mie compagne e io prendemmo alloggio in un monastero di francescane ove si trovava la signora fondatrice del monastero stesso, che aveva stabilito ivi la sua dimora. Era donna Leonor Mascareñas, ex governante del re, gran serva di Dio, presso la quale io avevo alloggiato altre volte quando mi si era offerta l’occasione di passare da lì, e mi aveva sempre trattato con molta benevolenza.

6. Questa signora mi disse che si rallegrava di vedermi capitare in quel momento, perché v’era là un eremita che desiderava vivamente conoscermi, e la cui vita, come quella dei suoi compagni, le sembrava concordare molto con la nostra Regola. Siccome io allora non avevo che due frati, mi venne in mente che se avessi potuto indurre quest’eremita ad aggiungersi a loro, sarebbe stata un’ottima cosa. La supplicai pertanto di procurarmi un incontro con lui. Egli viveva in un alloggio datogli da questa signora, con un giovane frate chiamato fra Giovanni della Miseria, molto semplice nei riguardi delle cose del mondo, ma gran servo di Dio. Durante il nostro incontro venni a sapere che voleva recarsi a Roma.

7. Prima di proseguire, voglio dire quanto so di questo padre, il cui nome è Mariano de san Benito. Era italiano di nascita, dottore e uomo di grande ingegno e abilità. Mentre stava presso la regina di Polonia, preposto al governo di tutta la sua casa, senza essersi mai voluto sposare, provvisto di una commenda dell’Ordine di San Giovanni, nostro Signore gli ispirò di abbandonare ogni cosa per meglio provvedere alla sua salvezza. Ebbe a soffrire non poche tribolazioni, perché fu accusato ingiustamente d’aver preso parte a un omicidio. Per questo motivo fu tenuto due anni in carcere, senza che volesse né un avvocato né alcun altro che lo difendesse, rimettendosi solo a Dio e al suo buon diritto. Ci furono falsi testimoni che affermarono d’essere stati incitati da lui a compiere il delitto, ma accadde loro come ai vecchi di santa Susanna. Interrogati, infatti, separatamente circa il luogo ove l’accusato allora si trovasse, uno disse che era seduto sul letto, l’altro che stava presso una finestra. In conclusione, finirono col confessare d’averlo calunniato. Egli mi rivelò che gli era poi costato molto denaro sottrarli al meritato castigo, e che quello stesso che gli faceva la guerra era finito nelle sue mani, a causa di una circostanza in cui egli avrebbe potuto dare un’informazione contro di lui, ma che anche allora si era prodigato in tutti i modi a non nuocergli.

8. Questo e altre virtù – essendo egli un uomo integro e casto, contrario ad ogni contatto con le donne – dovettero meritargli da nostro Signore la grazia di conoscere cosa è il mondo, affinché cercasse di liberarsene. Cominciò pertanto a chiedersi quale Ordine avrebbe potuto scegliere ma, esaminando gli uni e gli altri, in tutti ebbe a trovare qualcosa che non conveniva al suo modo di essere, a quanto mi disse. Venne a sapere che presso Siviglia, in un deserto chiamato el Tardón, vivevano insieme alcuni eremiti, sotto la guida di un grande santo conosciuto con il nome di padre Mateo. Abitavano in celle separate. Non recitavano l’Ufficio divino, ma disponevano di un oratorio dove si riunivano per la Messa. Non avevano rendite, non chiedevano né ricevevano elemosine, ma si mantenevano con il lavoro delle loro mani, e ognuno mangiava da solo, assai poveramente. Mi parve, nell’udirlo, di veder rivivere i nostri santi Padri. In questo genere di vita egli trascorse otto anni. Ma, avendo poi il Concilio di Trento ingiunto di aggregarsi a qualche Ordine religioso, aveva deciso di andare a Roma per ottenere un’eccezione in favore dei suoi compagni. Tali erano i suoi propositi, quando avvenne il nostro incontro.

9. Avendomi egli descritto il suo modo di vivere, gli mostrai la nostra Regola primitiva e gli feci osservare che, senza tanta fatica, avrebbe potuto con essa adempiere tutte le sue pratiche, perché erano ugualmente a base della nostra vita, specialmente quella di mantenersi con il lavoro delle proprie mani, che era ciò a cui più teneva. Mi diceva che è la cupidigia a far perdere il mondo e a far disprezzare i religiosi. Siccome ero dello stesso parere, su questo punto fummo subito d’accordo e anche su tutto il resto. Dopo che gli ebbi spiegato quale servizio avrebbe potuto rendere a Dio col vestire il nostro abito, mi disse che ci avrebbe pensato quella notte. Accorgendomi che era quasi deciso, capii che quanto mi era stato detto nell’orazione, «che sarei andata per qualcosa di più importante della fondazione di un monastero di religiose», si riferiva proprio a questo. Ne provai una gran gioia, sembrandomi che, se egli fosse entrato nell’Ordine, si sarebbe reso un gran servizio al Signore. Sua Maestà, che lo voleva tra noi, quella notte gli toccò talmente il cuore, che l’indomani mi fece chiamare, ormai fermamente deciso e, inoltre, stupito del cambiamento improvviso operatosi in lui, tanto più – anche ora a volte me lo ripete – a causa di una donna, come se ciò fosse dipeso da me, e non dal Signore che il potere di mutare i cuori.

10. Quanto sono grandi le sue determinazioni! Questo padre aveva passato tanti anni senza riuscire a decidersi per uno stato fisso (perché quello in cui si trovava non era tale: non vi si pronunciavano, infatti, voti, né si avevano altri obblighi se non di vivere lì in solitudine). Ed ecco che d’un colpo Dio gli toccò il cuore e gli fece comprendere quanto lo avrebbe servito in questo stato, e come egli ne avesse bisogno per proseguire nell’opera intrapresa, cui, infatti, è stato di grande aiuto. Finora tale opera gli è costata ben dure sofferenze e più gliene costerà prima che si sia del tutto affermata (a quanto è dato d’intendere dai contrasti che deve sostenere questo ritorno alla Regola primitiva), poiché a causa della sua abilità, del suo ingegno e della sua santa vita ha influenza presso molte persone che ci favoriscono e ci proteggono.

11. Mi disse, inoltre, che Ruy Gómez gli aveva dato a Pastrana, che era proprio il luogo dove io andavo, un buon romitaggio e un terreno per stabilirvi una comunità di eremiti, e che egli voleva destinarlo a un convento di quest’Ordine e prendervi l’abito. Io gliene fui assai grata e resi lode a nostro Signore, perché dei due monasteri per i quali il nostro reverendissimo padre generale mi aveva inviato la sua autorizzazione, non ne era stato fatto che uno. Da lì inviai allora un messaggero ai due padri di cui ho parlato, l’attuale provinciale e quello che lo era stato prima, pregandoli caldamente di darmi il loro consenso, senza il quale non si poteva far nulla. Scrissi anche al vescovo di Avila, che era don Alvaro de Mendoza, il quale ci aiutava molto, affinché riuscisse a convincerli.

12. Piacque a Dio che dessero il proprio consenso, ritenendo, certamente, che una fondazione in un luogo così appartato non potesse essere loro di alcun danno. Il padre mi promise di recarsi a Pastrana non appena fosse giunta l’autorizzazione. Così me ne partii piena di gioia. Trovai lì la principessa e il principe Ruy Gómez, che mi fecero una grande accoglienza. Ci diedero un appartamento isolato dove restammo più a lungo di quanto pensassi, perché la casa che ci avevano destinato era troppo piccola e la principessa aveva ordinato di demolirne e ricostruirne una gran parte, conservando, sì, le mura, ma rifacendo molte cose.

13. Rimasi lì circa tre mesi, durante i quali ebbi a soffrire molto, per il fatto che la principessa mi chiedeva certe concessioni non rispondenti allo spirito del nostro Ordine. Ero decisa pertanto a venirmene via senza realizzare la fondazione piuttosto che cedere. Il principe Ruy Gómez, avveduto com’era, convinto delle mie ragioni, indusse la moglie a rinunziare alle sue esigenze. Da parte mia permisi alcune cose, perché tenevo di più alla fondazione del convento dei frati che a quello delle monache, rendendomi conto della sua importanza, in seguito rivelatasi chiaramente.

14. Intanto, arrivarono Mariano e i suoi compagni, gli eremiti di cui ho parlato. Ottenuta l’autorizzazione, quei signori acconsentirono che si facesse del luogo da essi destinato ad eremiti un convento di carmelitani scalzi. Mandai a chiamare, perché desse inizio a questa fondazione, il padre fra Antonio de Jesús, il primo dei nostri religiosi, che si trovava allora a Mancera. Io confezionai per i nuovi venuti abiti e cappe, e feci quanto mi era possibile perché la vestizione avvenisse al più presto.

15. In questa circostanza avevo mandato a chiedere altre religiose al monastero di Medina del Campo, perché io ne avevo con me soltanto due. C’era lì un padre, già avanti negli anni – pur non essendo infatti molto vecchio, non era certo giovane – assai buon predicatore, il quale si chiamava fra Baltasar de Jesús. Appena seppe che si faceva quella fondazione, si unì alle monache con il proposito di diventare scalzo, ciò che fece subito dopo. Quando me lo disse, ne resi lode a Dio. egli diede l’abito al padre Mariano e al suo compagno, accolti entrambi come conversi, perché nemmeno il padre Mariano volle essere ordinato sacerdote, protestando di entrare fra noi per essere l’ultimo di tutti, né riuscii a rimuoverlo da questo proposito. In seguito, per ingiunzione del nostro reverendissimo padre generale, gli furono conferiti gli ordini sacri. Fondati, dunque, entrambi i monasteri e venutoli padre Antonio de Jesús, cominciarono a entrare in quello dei frati vari novizi, di alcuni dei quali si riferirà più avanti il merito. Servivano nostro Signore con tale fervore, come – se così vorrà – potrà scriverne chi sappia dirlo meglio di me, certamente poco adatta a questo compito.

16. Per quanto riguarda le religiose, il loro monastero, lì, fu assai favorito dal principe e dalla principessa che aveva una cura estrema di farle star bene e di trattarle con affetto, finché, morto il principe Ruy Gómez o per suggestione del demonio, o forse perché il Signore così permise, - e lui solo ne sa il motivo – sconvolta dal dolore di quella morte, la principessa entrò come suora nel monastero. A causa della sua grande sofferenza, non potevano riuscirle molto gradite le regole della clausura a cui non era abituata. D’altra parte, la priora, in base alle disposizioni del santo Concilio, non poteva darle la libertà che ella desiderava.

17. La principessa finì con l’avere per lei e per tutte le consorelle una tale avversione che, anche dopo aver lasciato l’abito, quando stava ormai di nuovo nel suo palazzo, non cessava di dar loro fastidio. Le povere monache erano in preda a un tale turbamento che io mi adoperai con tutti i mezzi possibili, supplicandone i Superiori, perché si sopprimesse il monastero. Se ne stava fondando uno a Segovia, come più avanti si dirà, dove esse si trasferirono, lasciando tutto quello che la principessa aveva loro dato e conducendo con sé alcune consorelle che ella aveva imposto di accettare senza dote. Presero, andando via, soltanto i letti e certe piccole cose che esse stesse avevano portato lì, lasciando molto afflitti gli abitanti del luogo. Io provavo la più gran gioia del mondo nel vederle in pace, tanto più che sapevo bene come esse non erano in alcun modo responsabili dello sdegno della principessa; anzi, nel tempo in cui vestì l’abito, la servivano come avevano fatto prima. Solo quanto ho detto e lo stesso dolore che la opprimeva ne furono la causa, oltre una serva che aveva portato con sé, sulla quale, a quel che sembra, ricade tutta la colpa. Infine, ne fu causa anche il Signore, che lo permise. Doveva certo vedere che lì quel monastero non era utile: i suoi giudizi sono assai profondi e spesso del tutto contrari ai nostri criteri. Del resto, io non avrei mai osato far questo di mia iniziativa: l’ho fatto in base al parere di uomini santi e dotti.

 

CAPITOLO 18

Racconta della fondazione del monastero di San Giuseppe di Salamanca, avvenuta nell’anno 1570. Dà alcuni consigli importanti alle priore.

 

1. Ultimate queste due fondazioni, tornai a Toledo, dove rimasi alcuni mesi, per comprare la casa di cui ho parlato e lasciare tutto in ordine. Mentre ero impegnata in questa faccenda, mi scrisse il rettore della Compagnia di Gesù di Salamanca per dirmi che lì sarebbe stato assai utile un monastero di queste nostre religiose, e me ne esponeva le ragioni. Quel che mi aveva trattenuto fino allora dal fondare là un monastero senza rendite era la povertà del luogo. Ma, considerando che anche Avila è assai povera e che mai le vien meno l’aiuto di Dio, né credo che verrà mai meno a coloro che lo servono, essendoci inoltre nei nostri monasteri una situazione assai tranquilla e ordinata, dato il numero esiguo delle religiose, che si aiutano col lavoro delle loro mani, decisi di accettare. E, recatami da Toledo ad Avila, mi adoperai da lì per ottenere l’autorizzazione del vescovo di Salamanca il quale, informato dal padre rettore del nostro Ordine e saputo che la fondazione sarebbe stata a gloria di Dio, ebbe la bontà di darcela subito.

2. A me sembrava che, ormai in possesso dell’autorizzazione dell’Ordinario, il monastero fosse fatto, tanto la cosa mi pareva facile. Così provvidi subito a prendere in affitto una casa procuratami da una signora di mia conoscenza. C’era qualche difficoltà da superare, perché quello non era il tempo degli affitti e perché era occupata da alcuni studenti, dai quali si riuscì ad ottenere che l’avrebbero lasciata libera, quando si fosse presentato chi doveva entrarvi. Essi ignoravano a che cosa sarebbe servita, perché io avevo una enorme cura di non far trapelare nulla fino alla presa di possesso. Conosco infatti per esperienza i mezzi a cui ricorre il demonio per impedire la fondazione d’uno solo dei nostri monasteri. E sebbene in questo Dio non gli abbia permesso in principio di ostacolarci, perché voleva che si fondasse, dopo sono state tante le difficoltà e così vari i contrasti sofferti, che ancora non sono del tutto rimossi, nonostante siano trascorsi vari anni dalla fondazione mentre scrivo queste cose. Credo, pertanto, che Dio vi sia assai ben servito, se il demonio non lo può soffrire.

3. Munita dunque dell’autorizzazione e sicura della casa, fiduciosa nella misericordia di Dio, non avendo lì nessuno che potesse darmi alcun aiuto in tutto quel che occorreva fare – ed era molto – per sistemare la casa, partii alla volta di Salamanca, portando con me, per maggiore segretezza, una sola compagna. Ritenevo che il meglio da farsi fosse questo: non far venire le consorelle fino alla presa di possesso. Era stata una buona lezione quello che mi era accaduto a Medina del Campo, ove mi ero vista in gran difficoltà. Così, se fosse sorto qualche ostacolo, ne avrei sofferto da sola, con quell’unica compagna che non potevo evitare di prendere con me. Arrivammo la vigilia di Tutti i Santi, dopo aver viaggiato gran parte della notte precedente con un freddo intenso e dormito in un villaggio, ove mi ero sentita assai male.

4. Nel parlare di queste fondazioni, tralascio gli enormi disagi dei viaggi, per il freddo, il sole, la neve che a volte non cessava di cadere tutto il giorno. Di quando in quando ci smarrivamo, oppure mi accadeva di essere colpita da forti mali con attacchi di febbre, perché – gloria a Dio! – è cosa consueta per me avere ben poca salute. Ma vedevo chiaramente che nostro Signore mi dava forza. Infatti a volte, nel momento d’intraprendere una fondazione, mi è accaduto di sentirmi in preda a tanti mali e dolori, da affliggermene molto perché mi sembrava di non essere in grado neanche di stare in cella, se non coricata. Mi volgevo, allora, a nostro Signore, lamentandomi di lui e chiedendogli come voleva che facessi ciò che non potevo fare; in seguito Sua Maestà mi faceva riprendere le forze, pur a fatica, e con l’ardore e lo zelo che egli m’ispirava, sembrava che io mi dimenticassi di me.

5. Per quel che ora ricordo, non ho mai rinunciato ad una fondazione nel timore della sofferenza, anche se ero assai restia ad affrontare viaggi, specialmente lunghi. Ma appena mi mettevo in cammino, la fatica mi sembrava poca, pensando chi fosse colui a servizio del quale si faceva il viaggio e considerando che nella nuova casa si sarebbe lodato il Signore e vi sarebbe stato riposto il santissimo Sacramento. È infatti di una particolare consolazione per me vedere una chiesa di più, specialmente se penso al gran numero di quelle che i luterani distruggono. Non so quali tribolazioni, per grandi che siano, si debbano temere quando a prezzo di esse si procura tanto bene alla cristianità. Se anche molti non tengono presente che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, si trova in tanti luoghi nel santissimo Sacramento, ciò non toglie che tale verità dovrebbe essere per noi motivo di gran conforto. Non c’è dubbio che io lo provi assai vivo molte volte quando, nel coro, vedo queste anime così pure attendere alle lodi di Dio. E la loro virtù si dà a conoscere in mille modi, sia nell’obbedienza, sia nella gioia che procura loro una così stretta clausura e solitudine, sia nella letizia che provano quando si offre ad esse un motivo di mortificazione. Più il Signore dà grazia alle priore per metterle alla prova, più sono contente, al punto che si stancano con maggiore facilità le priore di esercitarle in ciò, che non esse d’obbedire. A questo riguardo i loro desideri sono insaziabili.

6. Mi vengono in mente ora alcune cose in fatto di mortificazione, che forse, figlie mie, potranno servire alle priore, e delle quali parlerò subito, ad evitare di dimenticarle, sia pure allontanandomi dall’argomento della fondazione che avevo cominciato a trattare. Le priore infatti, avendo attitudini e virtù differenti, tendono a condurre le loro religiose per il cammino a cui esse inclinano. Quella che ha grande spirito di mortificazione ritiene facile, come lo sarebbe per lei, qualunque fatica ella imponga per piegare la volontà, pratica che, di fatto, forse anche a lei costerebbe un grande sforzo. Dobbiamo badare molto a questo e non imporre alle altre quello che sarebbe gravoso per noi. La discrezione è molto importante per governare. Nei nostri monasteri è estremamente necessaria, starei quasi per dire «più necessaria che altrove», perché si deve avere maggior cura delle religiose sottoposte alla nostra autorità, sia dal punto di vista interiore, sia da quello esteriore. Altre priore, dotate di grande pietà, vorrebbero che si stesse sempre a pregare. Il Signore, però, in fin dei conti, conduce le anime per vie diverse, e le priore devono considerare che non sono state elette a questa carica per scegliere il cammino delle altre a proprio gusto, ma per guidarle secondo la Regola e le Costituzioni, malgrado i loro personali desideri e la ripugnanza che ne avvertissero.

7. Sono stata una volta in uno dei nostri monasteri con una priora molto amante della penitenza: conduceva tutte per questa strada. Accadeva, talvolta, che l’intera comunità si sottoponesse ininterrottamente alla disciplina per la durata dei sette salmi penitenziali, con orazioni e altre simili austerità. Lo stesso avviene se la priora è molto dedita all’orazione: benché non sia l’ora di attendervi, dopo il Mattutino trattiene lì l’intera comunità, mentre sarebbe assai meglio che tutte andassero a dormire. Se poi – come ho detto – è amante della mortificazione, non concederà alle altre un momento di tregua, e queste pecorelle della Vergine son lì, sempre zitte, come docili agnellini. Non c’è dubbio che ciò m’ispiri una profonda devozione e confusione ma, a volte, mi è anche causa di grande tentazione. Assorte tutte in Dio, le sorelle non se ne rendono conto, ma io temo per la loro salute. Vorrei che osservassero la Regola, cosa che dà già molto da fare, e che attendessero al resto con moderazione. Ciò è assai importante, specialmente per quanto riguarda la mortificazione. Vi facciano attenzione le priore, per amore di nostro Signore, essendo molto importante la discrezione nelle nostre case. Si adoperino a conoscere le varie attitudini delle consorelle perché, se in questo non si comportano con molta prudenza, nuoceranno alle loro religiose e le getteranno nell’inquietudine.

8. Devono, innanzitutto, aver presente che quanto riguarda la mortificazione non costituisce un obbligo: questo è ciò che in primo luogo devono considerare. Anche se l’anima ne abbia un gran bisogno per acquistare la libertà e un alto grado di perfezione, non è cosa da farsi in poco tempo. Le priore, pertanto, devono aiutare progressivamente ogni religiosa, secondo la capacità intellettiva che Dio ha dato a ciascuna, e secondo la sua disposizione spirituale. Sembrerà forse alle priore che qui la capacità intellettiva non abbia nulla a che vedere. Ma s’ingannano, perché vi sono certe anime che prima di arrivare a capire cos’è la perfezione e anche lo spirito della nostra Regola, durano fatica. Forse proprio tali religiose saranno inseguito le più sante, ma intanto non sapranno neppure quando debbano scusarsi e quando no, né conoscono il rispetto di altre piccole osservanze che, una volta comprese, sarebbero forse praticate da loro facilmente. Ma esse non arrivano a comprenderle e, quel che è peggio, non le ritengono neanche un motivo di perfezione.

9. C’è una religiosa, in uno dei nostri monasteri, che, per quanto io posso giudicare, è una delle più grandi serve di Dio che si trovino in essi, sia per il suo spirito interiore e per le grazie di cui la favorisce Sua Maestà, sia per penitenza e umiltà. Eppure non riesce a capire alcuni punti delle Costituzioni. Denunziare le colpe altrui in Capitolo le sembra una mancanza di carità e si chiede come si possa dire qualcosa delle consorelle. Potrei menzionare altre cose dello stesso genere da parte di alcune che sono grandi serve di Dio e che sotto certi aspetti si rivelano evidentemente superiori a quelle che conoscono bene le regole. La priora non deve credere di poter conoscere subito le anime. Lasci questo a Dio, che è il solo a poterlo fare, e cerchi di condurre ognuna dove Sua Maestà la fa andare, supposto, beninteso, che non manchi all’obbedienza né ai punti essenziali della Regola e delle Costituzioni. Quella delle undicimila vergini che si nascose non per questo fu meno santa e martire. Anzi, presentandosi sola al martirio, forse soffrì più delle altre.

10. Orbene, tornando alla mortificazione, per esercitare in essa una monaca, la priora le ordina una cosa che, benché leggera, a lei sembra assai ardua, e pur eseguendo l’ordine, resta così inquieta e provata, che sarebbe stato meglio non avergliela ingiunta. Lo si vede in seguito. Pertanto la priora stia attenta a non volerla perfezionare a forza di braccia, ma proceda con pazienza e per gradi fino a quando non operi in lei il Signore. In caso contrario, ciò che si fa per avvantaggiarla nella perfezione – senza la quale sarebbe ugualmente un’ottima religiosa – non servirebbe ad altro che ad agitarla e ad abbatterla, il che è una cosa terribile. Vedendo quel che fanno le altre, a poco a poco ne seguirà l’esempio, come spesso noi abbiamo visto, e quand’anche ciò non avvenga, si salverà ugualmente senza questa virtù. Io ne conosco una che tutta la vita l’ha posseduta in grande misura e serve il Signore già da lunghi anni in molti modi. Ciò malgrado, presenta certe imperfezioni e spesso prova certi sentimenti che non riesce a dominare: ella lo riconosce e se ne affligge con me. Credo che Dio la lasci in questi difetti senza peccato, non essendovene in essi alcuno, affinché si umili e abbia motivo di vedere che non è del tutto perfetta. Così, alcune saranno capaci di sopportare grandi mortificazioni, e quanto più quelle che vengono loro imposte riusciranno gravose, tanto più ne godranno, perché il Signore ha dato ormai loro interiormente la forza di dominare la propria volontà; altre, invece, non le sopporteranno neppure piccole, e imporgliele sarà come caricare di due staia di grano un bambino, il quale non solo non ne sopporterà il peso, ma ne sarà schiacciato e stramazzerà a terra. Così, figlie mie – parlo alle priore –, vogliate perdonarmi se le cose che ho visto in alcune di voi mi hanno fatto dilungare tanto a questo riguardo.

11. Eccovi un altro consiglio molto importante: quand’anche sia per provare l’obbedienza, non ordinate mai cose che, una volta fatte, possano costituire peccato, sia pur veniale. Ho saputo di alcune che, se fossero state fatte, avrebbero costituito un peccato mortale. Le religiose, almeno, potranno forse salvarsi a causa dell’innocenza, ma non la priora alla quale nessuno può assicurare che i suoi ordini non saranno immediatamente eseguiti. Siccome infatti le consorelle leggono e sentono raccontare ciò che facevano i santi eremiti, sembra loro buono qualunque ordine o, almeno, buona l’esecuzione di esso da parte loro. Ma le religiose devono pur sapere che non possono fare una cosa che è per se stessa un peccato mortale, per il fatto che viene loro comandata, tranne che non si tratti di lasciare la Messa o i digiuni della Chiesa, o altri obblighi di questo genere, dai quali la priora potrebbe aver motivo di ordinare la dispensa. Ma gettarsi in un pozzo o fare altre cose del genere, sarebbe colpevole, perché nessuna deve aspettarsi che Dio opererà per lei un miracolo, come li operava con i santi: ci sono molti altri modi per esercitare la perfetta obbedienza.

12. Tutto ciò che sia esente da questi pericoli è da me approvato. Una volta una consorella di Malagón chiese alla priora il permesso di darsi una disciplina. La priora, alla quale doveva averlo chiesto altre volte, le rispose: «Mi lasci stare». Ma siccome insisteva, riprese: «Se ne vada a fare una passeggiata; mi lasci stare». L’altra, con grande semplicità, passeggiò per alcune ore, finché una consorella le chiese perché passeggiava tanto o qualcosa di simile. Ella rispose che le era stato comandato di farlo. Frattanto suonò il Mattutino, e chiedendo la priora perché quella religiosa non fosse presente, l’altra le disse ciò che accadeva.

13. È necessario, perciò, come ho detto altre volte, che le priore abbiano l’avvertenza, con le anime di cui conoscono la grande obbedienza, di badare a quel che fanno. Un’altra religiosa infatti mostrò un giorno alla priora uno di quei vermi assai grossi, invitandola a vedere quanto fosse bello. La priora le rispose, scherzando: «Ebbene, se lo mangi». Se ne andò e lo fece friggere con ogni cura. La cuoca le chiese perché lo friggesse ed ella rispose: «Per mangiarlo», e così avrebbe fatto, senza che la priora lo sospettasse lontanamente, con grave danno, probabilmente, della sua salute. Godo molto, lo ammetto, quando vedo eccedere le mie figlie nell’obbedienza, perché ho un particolare rispetto di questa virtù, e ho fatto quanto mi era possibile perché l’abbiano anche loro. Ma tutto ciò mi sarebbe servito a poco se il Signore, nella sua immensa misericordia, non avesse concesso a tutte, in generale, la grazia di praticarla. Piaccia a Sua Maestà di far sì che sia sempre più perfetta tale obbedienza fra noi! Amen.

 

CAPITOLO 19

Si continua a parlare della fondazione di San Giuseppe nella città di Salamanca.

 

1. Mi sono allontanata molto dall’argomento. Quando mi viene in mente una cosa che il Signore si è degnato di farmi intendere con l’esperienza, mi par male non renderla oggetto di raccomandazione: potrà darsi che quel che giudico buono sia tale davvero. Voi, figlie mie, informatevi sempre di ogni cosa presso persone dotte: esse v’insegneranno con prudenza e verità il cammino della perfezione. Ecco di che cosa hanno soprattutto bisogno le priore, se vogliono adempiere bene il loro ufficio: avere un confessore dotto, altrimenti cadranno in molti errori, prendendoli per atti di santità, e procurare anche che le loro religiose si confessino da persone dotte.

2. Arrivammo, dunque, alla città di Salamanca, la vigilia di Tutti i Santi dell’anno che ho detto. Giunti all’alloggio, cercai di un brav’uomo di lì chiamato Nicolás Gutiérrez, gran servo di Dio, che avevo incaricato di farmi trovar libera la casa. In ricompensa della sua santa vita aveva ottenuto da Sua Maestà una straordinaria pace e serenità nelle molte tribolazioni che aveva sofferto; vistosi infatti cadere in estrema miseria dopo aver goduto di una grande prosperità, la sopportava con la stessa letizia che può dare la ricchezza. Egli lavorò molto in questa fondazione, con singolare impegno e devozione. Quando venne, mi annunziò che la casa non era libera, non essendo riuscito a mandar via gli studenti. Gli dissi di quale importanza fosse per noi che ce la dessero subito, prima che si sapesse che ero in città, poiché – ripeto – temevo sempre qualche nuova difficoltà. Egli allora andò dal proprietario della casa e si diede tanto da fare, che gli studenti la sgombrarono quella sera stessa. Era quasi notte quando vi entrammo.

3. Fu la prima volta che io fondai un monastero senza porvi il santissimo Sacramento. Prima credevo che non potesse esserci presa di possesso, se non a questa condizione, ma avevo ormai saputo che ciò non era necessario, e me ne rallegrai molto quando vidi il cattivo stato in cui gli studenti avevano lasciato la casa. Poiché, a quanto sembra, essi non hanno cura della pulizia, era tutta in tali condizioni che avemmo da lavorare non poco quella notte. La mattina seguente si celebrò la prima Messa, e io mandai a chiamare altre religiose che dovevano venire da Medina del Campo. Passammo sole, la mia compagna ed io, la notte di Tutti i Santi. Vi assicuro, figlie mie, che quando ripenso alla paura di questa consorella, che era María del Sacramento, una religiosa più anziana di me e gran serva di Dio, mi viene ancora voglia di ridere.

4. La casa era molto grande, in estremo disordine, piena di soffitte. La mia compagna non poteva dimenticare gli studenti, avendo l’impressione che, siccome si erano fortemente irritati di dover sloggiare, qualcuno fosse rimasto nascosto in casa; lo avrebbero potuto fare assai facilmente, con lo spazio che c’era. Ci chiudemmo in una stanza dove stava la paglia, che era ciò di cui io anzitutto mi provvedevo nelle mie fondazioni, perché così non ci mancava un letto. La notte dormimmo su questa paglia con due coperte avute in prestito. L’indomani, certe religiose che abitavano vicino a noi, di cui avevamo pensato che la nostra presenza in quel luogo riuscisse loro molesta, ci prestarono un po’ di roba per le compagne che dovevano venire e ci mandarono qualche elemosina. Erano le suore del monastero intitolato a santa Elisabetta e per tutto il tempo che siamo rimaste in quella casa ci hanno beneficato molto e fatto continue elemosine.

5. Quando la mia compagna si vide chiusa in quella stanza, parve acquietarsi un po’ dalla paura degli studenti, anche se non faceva che guardare da una parte all’altra, ancora in preda a timori. Il demonio doveva certo alimentarglieli, presentandole pericoli immaginari, allo scopo di turbare anche me giacché, debole di cuore come sono, di solito bastava poco. Le chiesi cosa guardasse, visto che lì non poteva entrare nessuno. Mi rispose: «Madre, sto chiedendomi che cosa fareste voi, sola, qui, se io ora morissi». Questo, davvero, se fosse avvenuto, mi sembrava difficile da sopportare; cominciai a pensarci un po’ su e, insieme, ad aver paura, perché la vista dei cadaveri, sebbene non mi spaventi, mi produce un certo cedimento di cuore anche se non sono sola. E siccome i rintocchi delle campane – essendo, come ho detto, la notte dei Morti – aumentavano le mie apprensioni, il demonio aveva buon gioco per farci perdere la testa con timori puerili; quando, infatti, vede che non si ha paura di lui, ricorre ad altre astuzie. Risposi alla mia compagna: «Sorella, quando ciò avverrà, penserò a quello che devo fare; ora mi lasci dormire». Siccome avevamo passato due cattive notti, il sonno ci tolse presto le paure. L’indomani arrivarono le altre religiose e i timori scomparvero del tutto.

6. La comunità rimase in questa casa circa tre anni, e forse anche quattro, perché non lo ricordo di preciso, essendomi stato ordinato di andare all’Incarnazione di Avila. Di mia iniziativa, io non lascerei né ho mai lasciato alcun monastero prima che le religiose abbiano una casa propria, raccolta e sistemata secondo i miei desideri. Dio mi faceva a questo riguardo la grazia straordinaria di godere d’essere la prima nella fatica e di adoperarmi a procurare tutte le cose che potevano servire al loro riposo e alla loro comodità, perfino le più piccole, come se dovessi vivere tutta la vita in quella casa. E la mia gioia era grande quando le lasciavo ben sistemate. Soffrii molto, quindi, pensando a ciò che le consorelle pativano qui, se non per mancanza di vitto (perché di questo io avevo gran cura di provvederle dal luogo dove mi trovavo, sapendo quanto la casa fosse fuor di mano per ricevere elemosine), per la loro cattiva salute, essendo la casa assai umida e fredda e troppo grande per poterla riparare. E il peggio era la mancanza del santissimo Sacramento il che, in così stretta clausura, è molto sconfortante. Eppure esse non si sentivano infelici, ma sopportavano tutto con una letizia che era motivo per lodarne il signore: alcune mi dicevano che sembrava loro imperfezione desiderare un’altra casa, e che lì si sarebbero sentite felicissime, se avessero avuto il santissimo Sacramento.

7. Il prelato, vedendo la loro virtù e le sofferenze che pativano, mosso da compassione, mi fece venire dall’Incarnazione. Esse si erano già messe d’accordo con un cavaliere della città perché desse loro una casa, ma era in tale stato che fu necessario spendere più di mille ducati per entrarvi. Benché facesse parte d’un maggiorasco, il proprietario ci permise di entrarvi prima ancora che fosse giunta l’autorizzazione del re, e, insieme, di elevare le mura. Mi feci accompagnare dal padre Giuliano d’Avila, cioè il padre che, come ho detto, veniva sempre con me in queste fondazioni e che mi aveva seguito a Salamanca; così visitammo la casa per decidere quello che vi fosse da fare: l’esperienza mi dava una buona competenza in materia.

8. Eravamo allora in agosto e, pur con tutta la fretta possibile, i lavori si protrassero fino a san Michele, che è il tempo in cui lì si affittano le case. Ma mancava ancora molto per ultimare i lavori; d’altra parte, non avendo rinnovato per l’anno seguente l’affitto di quella in cui eravamo, essa apparteneva già ad un altro inquilino, ed eravamo pertanto sollecitate ad andarcene. Si era quasi terminato d’intonacare la cappella, e il cavaliere che ci aveva venduto la casa era assente. Alcune persone amiche dicevano che facevamo male ad andare lì così presto, ma quando urge la necessità, i consigli non servono a nulla, se non si ha la possibilità di metterli in pratica.

9. Facemmo il trasloco la vigilia di san Michele, poco prima dell’alba. Si era già reso noto che si sarebbe posto il santissimo Sacramento proprio in quel giorno e dato l’annuncio del sermone che si doveva tenere. Ma fu volere di nostro Signore che la sera del nostro trasloco venisse giù un acquazzone così violento da rendere assai difficile il trasporto delle cose necessarie. La cappella era del tutto nuova e le tegole così mal connesse, che vi pioveva dentro quasi dovunque. Vi assicuro, figlie mie, che quel giorno costatai la mia grande imperfezione. Siccome ormai la notizia della cerimonia era di dominio pubblico, non sapevo cosa fare e mi sentivo struggere di pena, finché dissi a nostro Signore – quasi lamentandomi – o di non comandarmi più d’occuparmi di queste opere, o di sopperire a quella necessità. Il buon Nicolás Gutiérrez, mantenendo la sua imperturbabilità, come se nulla fosse, mi diceva con gran calma di non aver pena, perché Dio vi avrebbe posto rimedio. E fu così: il giorno di san Michele, nell’ora in cui doveva venire la gente, cominciò a splendere il sole. Ciò m’ispirò una profonda devozione e vidi quanto avesse fatto meglio quel sant’uomo a confidare in nostro Signore che non io a logorarmi di pena.

10. Ci fu un gran concorso di popolo, esecuzione di musica, e si pose il santissimo Sacramento con grande solennità. Essendo situato in un buon posto, il monastero cominciò ad essere conosciuto e a ispirare devozione. Ci furono di molto aiuto specialmente la contessa di Monterrey, donna María Pimentel, e un’altra signora che si chiamava donna Mariana, il cui marito era Corregidor della città. Ecco, però, che subito l’indomani, a gettare acqua sul fuoco della gioia di avere il santissimo Sacramento, comparve il cavaliere a cui apparteneva la casa, così infuriato, che non sapevo come regolarmi a suo riguardo; era certamente il demonio a impedirgli di sentire ragioni, perché noi avevamo soddisfatto tutti gli impegni convenuti con lui. Ma era tempo perso insistere a dirglielo. Dopo che gli ebbero parlato alcune persone, parve placarsi un po’, ma poi cominciò a cambiare idea. Io ero già decisa a lasciargli la casa; neanche questo valeva, perché quanto pretendeva era che gliela pagassimo interamente subito. Sua moglie, a cui la casa apparteneva, aveva voluto venderla per mettere a posto due figlie: a questo titolo si era chiesta l’autorizzazione e si era depositato il denaro presso la persona da lui designata.

11. Fatto sta che, nonostante siano passati da tale vicenda più di tre anni, la vendita non si è conclusa, né so come si andrà a finire e se il monastero resterà là, cioè in tale casa, giacché tutto quello che ho detto era per arrivare a questa conclusione.

12. Ciò che so è che in nessun monastero di quelli che il Signore ha finora fondato della Regola primitiva, le religiose hanno passato, senza paragone possibile, tribolazioni tanto grandi. Ma per la misericordia di Dio ci sono in esso così eccellenti religiose che sopportano tutto con letizia. Piaccia a Sua Maestà che ciò le aiuti a progredire! Che una casa sia comoda o no, importa poco; anzi, è una grande gioia per noi trovarci in una dimora dalla quale ci possono mandar via, ricordandoci come il Signore del mondo non ne ebbe alcuna. Il fatto di alloggiare in case non nostre, come si vede dal racconto di queste fondazioni, ci è accaduto varie volte, ed è certo che non ho mai visto alcuna religiosa soffrirne. Piaccia alla divina Maestà, per la sua infinita bontà e misericordia, che non ci manchino le eterne dimore! Amen.

 

CAPITOLO 20

Si tratta della fondazione di Nostra Signora dell’Annunciazione in Alba de Tormes, l’anno 1571.

 

1. Non erano ancora passati due mesi dalla presa di possesso, nel giorno di Tutti i Santi, della casa di Salamanca, quando da parte dell’amministrazione del duca d’Alba e di sua moglie fui richiesta con insistenza di fare in quella cittadina la fondazione di un monastero. Io non ne avevo molta voglia perché, trattandosi di un luogo piccolo, bisognava che il monastero avesse rendita e io propendevo ad abolire le rendite. Il padre domenicano fra Domingo Báñez, che era il mio confessore, del quale ho parlato al principio delle Fondazioni, si trovava per caso a Salamanca. Egli mi rimproverò e mi disse che, poiché il Concilio autorizzava le rendite, non sarebbe stato opportuno rinunciare alla fondazione di un monastero per questo motivo, che io non me ne intendevo, che nulla poteva impedire alle religiose d’essere povere e assai perfette. Ma prima d’andare avanti, voglio dire chi era la fondatrice e come il Signore l’abbia indotta a realizzare quest’opera.

2. Fondatrice del monastero dell’Annunciazione di Nostra Signora in Alba de Tormes fu Teresa Layz, nata da genitori nobili, perfetti gentiluomini e di puro sangue. Ma, non essendo così ricchi come richiedeva la nobiltà della famiglia, risiedevano in un villaggio chiamato Tordillos, a due leghe dalla suddetta cittadina di Alba. Fa proprio pena che, a causa dell’eccesso di vanità cui obbediscono le cose del mondo, si preferisca vivere nella solitudine di questi piccoli luoghi, privi d’istruzione e di molte altre risorse di luce per le anime, piuttosto che venir meno a una sola delle regole imposte da quello che si chiama punto d’onore. I genitori di Teresa avevano già avuto quattro figlie quando nacque lei e si rattristarono molto per la nascita di un’altra figlia.

3. È davvero assai deplorevole che i mortali, ignari di quello che sia il meglio per loro, in quanto ignorano del tutto i giudizi di Dio, non conoscendo né i grandi beni che possono venir loro dalle figlie né i grandi mali di cui i figli possono essere causa, lungi dal rimettersi a colui che tutto sa e tutto crea, muoiono di pena per ciò di cui si dovrebbero rallegrare. Come gente dalla fede addormentata, non spingono lontano lo sguardo nelle loro riflessioni, non ricordano che è Dio a disporre così le cose e che, pertanto essi devono abbandonarsi nelle sue mani. E se sono così ciechi da non farlo, è anche prova di grande ignoranza non capire l’inutilità di tali angustie. Oh, mio Dio! Come ci appariranno chiari questi errori nel giorno in cui ci verrà svelata la verità di tutte le cose! E quanti padri si vedranno precipitati nell’inferno per aver avuto figli, e quante madri si vedranno, invece, in paradiso per l’aiuto delle loro figlie!

4. Ritornando dunque a quel che dicevo, le cose giunsero a tale estremo, che i genitori, comportandosi in modo da rendere evidente quanto poco loro importasse della vita della bambina, il terzo giorno dalla sua nascita la lasciarono sola dalla mattina alla sera, senza che nessuno si prendesse cura di lei. L’unica cosa buona da loro fatta era di aver procurato che un sacerdote la battezzasse appena nata. Quando la sera venne la donna che doveva occuparsene e seppe ciò che accadeva, si precipitò di corsa a vedere se era morta, seguita da varie persone che erano andate a visitare la madre e che furono testimoni di quanto ora dirò. La donna, piangendo, la prese fra le braccia e le disse: «E che, figlia mia, non siete voi dunque cristiana?», volendo con ciò far capire che quell’abbandono era stato una crudeltà. La piccina alzò la testa e rispose: «Sì, lo sono», e dopo questo non parlò più fino all’età in cui tutti i bambini cominciano di solito a parlare. Quelli che la udirono rimasero sbigottiti, e la madre da quel momento cominciò ad amarla e a vezzeggiarla; diceva sempre che avrebbe voluto vivere fino a quando avesse potuto vedere ciò che Dio avrebbe fatto di questa bambina. La educò cristianamente, formandola alla virtù.

5. Giunto il tempo in cui volevano sposarla, ella vi si rifiutava non avendone il desiderio; ma, quando seppe di essere stata chiesta in sposa da Francisco Velázquez, attualmente suo marito e confondatore di questa casa, appena ne udì il nome, si decise a sposarlo, sebbene non lo avesse mai visto in vita sua. Il Signore, infatti, sapeva che questo matrimonio sarebbe stato utile ai fini della buona opera compiuta da entrambi a gloria di Sua Maestà. Il Velázquez, oltre ad essere ricco e virtuoso, ama sua moglie e a buon ragione la compiace in tutto, perché ella ha ricevuto in modo perfetto dal Signore tutte le qualità che si possono esigere da una donna sposata. Questa infatti, insieme a una cura estrema della casa, possiede una così gran virtù che, avendola suo marito condotta ad Alba, di cui è nativo, ed essendo accaduto che gli ufficiali del duca facessero prendere alloggio nella loro casa a un giovane gentiluomo, ne soffrì tanto, che cominciò ad avere in odio quel posto. Infatti, giovane com’era e di bell’aspetto, senza una ben salda virtù avrebbe potuto incorrere in qualche pericolo, per i cattivi pensieri che il demonio cominciò a far nascere in quel giovane.

6. Ella, appena se ne accorse, pregò il marito, tacendogliene il motivo, di farla andar via da lì. Quest’ultimo l’accontentò e la condusse a Salamanca, dove entrambi stavano assai bene e godevano di molti vantaggi, occupando Velázquez una carica che gli procurava, da parte di tutti, il desiderio di compiacerlo e il tributo di attenzioni particolari. L’unica loro pena era che nostro Signore non dava loro figli e, per averli, ella praticava grandi devozioni e attendeva a ferventi orazioni: non supplicava d’altro il Signore se non di darle una discendenza in modo che, morta lei, ci fosse chi potesse lodare Sua Maestà. Le sembrava infatti assai spiacevole il pensiero che la famiglia si estinguesse con lei e non ci fosse chi, dopo la sua morte, benedicesse Sua Maestà. Mi diceva che i suoi desideri non avevano mai avuto altro scopo. È una donna di grande sincerità e di tanta pietà e virtù, come ho detto, che spesso, vedendo le opere da lei compiute e la sua anima così desiderosa di contentare sempre Dio e di non tralasciare mai d’impiegare bene il tempo, mi sento spinta a lodare il Signore.

7. Perdurandole, dunque, già da molti anni questo desiderio e raccomandandone ella l’esaudimento a sant’Andrea, di cui le avevano detto che era un valido intercessore a tal fine, oltre ad aver praticato molte altre devozioni, una notte, mentre era a letto, udì rivolgersi queste parole: «Non desiderare figli, perché ti danneresti». Ne restò piena di stupore e di sgomento, ma non per questo le cessò tale desiderio, ritenendo ella che non ci fosse ragione di dannarsi nel perseguire un fine così santo. pertanto continuava a chiedere questa grazia a nostro Signore, facendo speciali preghiere a sant’Andrea. Un giorno, mentre accarezzava il suo desiderio – non sa dire se era sveglia o addormentata, ma comunque fosse, dagli effetti si vide che la visione veniva da Dio –, le sembrò di trovarsi in una casa nel cui cortile, sotto la galleria, vi era un pozzo, e vide in quel luogo un prato verde smaltato di fiori bianchi di una tale bellezza da non saperne fare adeguata descrizione. Vicino al pozzo le apparve sant’Andrea con un aspetto così bello e venerando da infondere gioia a guardarlo. Le disse: «Eccoti qui figli diversi da quelli che tu desideri». Ella avrebbe voluto che non fosse mai cessata la felicità di cui godeva in quel luogo, ma presto la visione scomparve. Capì chiaramente, senza che alcuno glielo dicesse, che quel santo era sant’Andrea e anche che era volontà di nostro Signore che ella fondasse un monastero. Da qui è facile dedurre che questa visione fu al tempo stesso intellettuale e immaginaria, e che non fu una fantasia né un’illusione del demonio.

8. La prova essenziale che non fu una fantasia è il grande effetto che ne seguì, perché da quel momento non desiderò mai più figli e le restò in cuore tale radicata convinzione che era questa la volontà di Dio, da cessare di chiederglieli e anche di augurarseli. Cominciò così a pensare come avrebbe potuto fare per adempiere la volontà del Signore. L’effetto che ne seguì mostra anche chiaramente che non era opera del demonio, perché ciò di cui egli è l’autore non può apportare alcun bene, come il fatto che il monastero è ormai fondato, e vi si serve con grande perfezione nostro Signore. Inoltre, la visione ebbe luogo più di sei anni prima della fondazione del monastero, e il demonio non può conoscere il futuro.

9. Assai impressionata da ciò che aveva visto, disse al marito che, poiché Dio non aveva voluto dar loro figli, avrebbero fatto bene a fondare un monastero di religiose. Egli, buono com’era e molto affezionato alla moglie, gioì della proposta. Insieme, allora, cominciarono a cercar di vedere in che luogo avrebbero potuto farlo sorgere. Ella avrebbe voluto che fosse quello dov’era nata, ma egli le oppose giuste obiezioni perché si rendesse conto che non era il posto adatto.

10. Mentre trattavano di questo, la duchessa d’Alba fece chiamare il marito. Quando questi fu da lei, gli propose di tornare ad Alba per ricoprire una carica e adempiere certe funzioni nella sua casa. Egli, chiesto e saputo di che si trattava, accettò, quantunque tale carica comportasse assai minor profitto di quella che egli aveva avuto a Salamanca. Sua moglie, appena lo seppe, se ne afflisse molto, perché, come ho detto, aveva in odio quel luogo. Dopo che egli le ebbe assicurato che nessuno avrebbe più alloggiato in casa loro, si calmò alquanto, nonostante continuasse a sentire un grande dispiacere, perché a Salamanca si trovava a suo gusto. Il marito comprò la casa e mandò a prendere la moglie. Questa arrivò tutta agitata, e lo divenne molto di più quando vide la casa, perché quantunque fosse ben situata e grande, non aveva stanze a sufficienza. Trascorse, così, tutta la notte in grande costernazione. L’indomani mattina, appena entrò nel cortile, vide, dalla stessa parte dove l’aveva visto nella visione, il pozzo presso cui le era apparso sant’Andrea e tutto il resto, né più né meno come allora. Parlo soltanto del luogo, perché non vide né il santo, né il prato, né i fiori, benché avesse ed abbia ancora tutto ben fisso nella mente.

11. Ciò visto, restò impressionata e determinata a fondare lì il monastero. Si sentì ormai consolata e tranquilla, tanto da non pensare più di andare altrove. Cominciarono ad acquistare altre case attigue, fino ad avere sufficiente spazio. Ella si preoccupava molto della scelta dell’Ordine, perché desiderava che le suore fossero poche e di stretta clausura. Interpellati due religiosi di Ordini diversi, uomini di gran dottrina e virtù, entrambi le dissero che sarebbe stato meglio fare altre opere, perché le monache per la maggior parte erano scontente del loro stato, e aggiunsero molte altre ragioni, in quanto il demonio, a cui la fondazione dispiaceva, voleva impedirla. Così faceva loro credere che le argomentazioni da essi addotte fossero assai giuste. La loro insistenza nel biasimare l’iniziativa, e quella ancor più grande del demonio a intralciarne l’esecuzione, le furono causa di timore e di turbamento e la indussero a decidere di non farne nulla. Ne parlò allora a suo marito. Entrambi ritennero di doverci rinunciare, visto che persone tali li biasimavano, mentre il loro intento non era se non quello di servire nostro Signore. Così rimasero d’accordo di far sposare un nipote di lei, figlio d’una sua sorella, che ella amava molto, con una nipote di lui, e cedere loro molta parte del patrimonio, impiegando il resto per il bene della propria anima. Il nipote era assai giovane e di esemplare virtù. Presa questa decisione, restarono saldi in essa, senza darsi più pensiero d’altro.

12. Ma, siccome Dio aveva disposto diversamente, quanto avevano concordato non ebbe alcun esito: prima, infatti, che fossero trascorsi quindici giorni, il nipote fu colto da una così grave malattia, che in pochissimo tempo nostro Signore lo chiamò a sé. Teresa rimase talmente convinta che la causa della morte era stata la determinazione da loro presa di rinunziare all’opera voluta da Dio, per cedere i beni a lui, che nacque in lei una grande paura. Ricordandosi di quel che era accaduto al profeta Giona per non aver voluto obbedire a Dio, le sembrava che la morte di quel nipote da lei tanto amato fosse un castigo della sua colpa. Da quel giorno si decise a non rinunziare per nulla al mondo a fondare il monastero, e suo marito fu d’accordo con lei: solo che non sapevano in che modo riuscirvi. Dio infatti sembrava metterle in cuore l’ispirazione di fare come ora si è fatto, ma coloro ai quali ne parlava delineando il quadro del monastero da lei vagheggiato, ridevano, convinti che fosse un’utopia. Così pensava soprattutto un suo confessore frate francescano, uomo dotto e ragguardevole. Ella ne era desolata.

13. Nel frattempo avvenne che quel religioso andasse in una certa località, dove gli giunse notizia dei monasteri di nostra Signora del Carmine che allora si fondavano. Egli, prese tutte le informazioni necessarie, tornò da lei e le disse che aveva ormai trovato ciò che ella cercava, e che poteva fondare il monastero in base ai suoi desideri; la mise al corrente di tutto e le disse di affrettarsi a trattarne con me. Ed ella così fece. Stentammo a metterci d’accordo, in quanto la mia esigenza nel fondare monasteri con rendita è stata sempre che essi ne avessero a sufficienza, affinché le religiose non dovessero ricorrere ai loro parenti né ad altre persone. Il convento deve provvederle di cibo, vestiario e di tutto quello di cui hanno bisogno, e deve garantire la scrupolosa cura delle malate, perché quando manca loro il necessario, nascono molti inconvenienti. Se si tratta di fondare monasteri poveri, senza rendite, per molti che siano, non mi manca mai il coraggio né la fiducia di farlo, nella certezza che Dio non verrà loro meno; ma se il progetto riguarda monasteri con rendite e questa è scarsa, mi manca tutto, e preferisco non fondarli.

14. Finalmente quei signori giunsero a un accordo con me e assegnarono al monastero una rendita proporzionata al numero delle religiose. Ciò che mi fece nutrire una grande stima nei loro confronti fu il fatto che essi lasciarono la propria casa per cederla a noi e se ne andarono in un’altra molto scomoda. Si pose il santissimo Sacramento e s’inaugurò la fondazione il giorno della conversione di san Paolo dell’anno 1571, a onore e gloria di Dio, che credo vi sia ben servito. Piaccia a Sua Maestà che vada sempre più progredendo!

15. Avevo cominciato a dire certe cose particolari riguardanti alcune religiose di questi nostri monasteri pensando che, quando queste pagine avrebbero visto la luce, esse non sarebbero state più in vita. Mi parve che un tale racconto sarebbe servito d’incoraggiamento ai posteri per mettere in pratica buoni principi. Ma poi mi è sembrato che altri avrebbero potuto farlo meglio, con maggiori particolari e senza il timore che ho avuto io di essere accusata di parzialità. Pertanto ho tralasciato molte cose che, essendo soprannaturali, sono considerate miracolose da coloro che le hanno viste o ne hanno avuto notizia. Non ho voluto parlare né di alcune di queste né delle grazie accordate manifestamente da nostro Signore per le preghiere delle consorelle. Nella data delle fondazioni, nonostante che faccia ricorso a tutta la diligenza possibile, temo di essere caduta in qualche errore. Siccome ciò è di poca importanza, potendosi sempre fare in seguito una rettifica, le indico come me le suggerisce la memoria; se c’è qualche errore, la differenza non sarà grande.

 

CAPITOLO 21

In cui si tratta della fondazione del glorioso San Giuseppe del Carmine in Segovia, avvenuta lo stesso giorno di San Giuseppe, l’anno 1574.

 

1. Ho già detto come, dopo aver fondato il monastero di Salamanca e quello di Alba, e prima che quello di Salamanca disponesse di una casa propria, il padre maestro fra Pedro Fernández, allora commissario apostolico, mi avesse ordinato di recarmi per tre anni all’Incarnazione di Avila. Vedendo, poi, le necessità della casa di Salamanca, mi ordinò di tornare là, perché le religiose potessero trasferirsi in una casa propria. Mentre un giorno stavo qui in orazione, nostro Signore mi disse di andare a fondare un monastero a Segovia. A me parve impossibile farlo, perché non potevo recarmici senza riceverne l’ordine. Sapevo del resto che il padre commissario apostolico, il maestro fra Pedro Fernández, non voleva che continuassi a fare fondazioni. D’altronde capivo che, non essendo ancora trascorsi i tre anni in cui dovevo stare all’Incarnazione, aveva tutte le ragioni di non volerlo. Mentre riflettevo su queste cose, il Signore mi esortò a fargliene richiesta, giacché avrebbe provveduto a tutto lui stesso.

2. IL maestro si trovava allora a Salamanca. Gli scrissi pertanto ricordandogli come avessi ordine dal nostro reverendissimo generale di non rifiutare alcuna fondazione, quando vedessi una buona occasione per farla, dicendogli anche che in Segovia sia i cittadini sia il vescovo avrebbero visto volentieri la fondazione di uno di questi monasteri: se sua paternità me l’ordinasse, avrei potuto fondarlo; gliene parlavo per scrupolo di coscienza, ma qualunque cosa decidesse, sarei rimasta tranquilla e contenta. Credo che fossero queste, più o meno, le mie parole, con l’aggiunta che mi sembrava così di rendere onore a Dio. È evidente che Sua Maestà lo voleva, perché il padre mi rispose subito di provvedere alla fondazione, rilasciandomi per essa l’autorizzazione, cosa di cui rimasi assai stupita, sapendo ciò che pensava a questo riguardo. Da Salamanca procurai che mi affittassero una casa, perché in seguito alle fondazioni di Toledo e di Valladolid avevo visto che era meglio comprarne una dopo la presa di possesso, per molte ragioni: la principale era che non avevo lì per lì neppure un centesimo per acquistarla, ma, una volta costruito il monastero, il Signore avrebbe provveduto subito a farmi avere il denaro; così si poteva anche scegliere il posto più conveniente.

3. C’era lì una signora, vedova del titolare di un maggiorasco, chiamata donna Ana de Jimena. Era venuta una volta a trovarmi ad Avila ed era una gran serva di Dio che aveva avuto sempre la vocazione per la vita monastica. Infatti, una volta costruito il monastero, vi entrò con una sua figlia esemplarmente virtuosa, e il Signore le mutò il malcontento, che aveva avuto da maritata e da vedova, in gioia raddoppiata dal fatto di vedersi nello stato religioso. Madre e figlia erano sempre vissute in gran raccoglimento e nel servizio di Dio.

4. Questa brava signora prese la casa e la provvide di tutto ciò che le sembrò necessario, sia per la chiesa, sia per noi. Così, a questo riguardo, ebbi poco da fare. Ma affinché nessuna fondazione fosse esente da difficoltà, oltre alle pene interiori dovute all’aridità e all’oscurità spirituale in cui ero, al momento di andarvi fui presa da una forte febbre, da una gran nausea e da ogni sorta di mali fisici che, in forma acuta, mi saranno durati tre mesi; insomma, quel mezzo anno trascorso lì fui sempre malata.

5. Ponemmo il santissimo Sacramento il giorno di san Giuseppe e, nonostante l’autorizzazione del vescovo e della città, volli che la nostra entrata, la vigilia, avvenisse segretamente, di notte. Tale autorizzazione risaliva a molto tempo addietro, e non avevo potuto giovarmene prima perché stavo nel convento dell’Incarnazione e avevo per superiore una persona che non era il nostro padre generale. Inoltre l’autorizzazione del vescovo che si trovava a Segovia quando la città chiese il monastero, era stata data a voce a un gentiluomo chiamato Andrés de Jimena, incaricato dei nostri affari, al quale non sembrò necessario averla per iscritto. Neanche a me parve che la cosa rivestisse importanza, e m’ingannai, perché non appena il vicario generale ebbe notizia della fondazione del monastero, venne subito da noi molto irritato e ci proibì di continuare a celebrare Messa. Voleva far mettere in prigione chi l’aveva celebrata, che era un frate dei carmelitani scalzi, il quale era venuto insieme col padre Giuliano d’Avila e con un altro servo di Dio che mi accompagnava, di nome Antonio Gaytán.

6. Questi era un cavaliere di Alba, che nostro Signore aveva chiamato al suo servizio alcuni anni prima, mentre era ingolfato nelle cose del mondo, ora da lui tenute talmente sotto i piedi, da non occuparsi d’altro che di servire quanto più possibile il Signore. Siccome nelle fondazioni seguenti si parlerà di lui, che mi ha molto aiutata e molto ha lavorato per noi, ho detto chi egli sia, e se dovessi enumerare le sue virtù, non la finirei tanto presto. Quella da cui abbiamo tratto più vantaggio è la sua grande abnegazione: tra i servi che ci accompagnavano non ce n’era nessuno che facesse come lui qualunque cosa fosse necessaria. È un uomo di grande orazione. Dio lo ha favorito di tante grazie da rendergli piacevole e facile tutto quello che gli altri avrebbero respinto. Gli sembravano poca cosa le sofferenze subite per queste fondazioni. Si vede bene che Dio ha chiamato in nostro aiuto sia lui, sia il padre Giuliano d’Avila, il quale, particolarmente, ci ha assistito fin dalla fondazione del primo monastero. Grazie a loro il Signore dovette certo volere che tutto mi andasse bene. Durante il viaggio non parlavano che di Dio; istruivano di cose attinenti a lui le persone che venivano con noi o che incontravano per via, e così si adoperavano in tutti i modi a servire Sua Maestà.

7. È bene, figlie mie, che leggerete la storia di queste fondazioni, che sappiate quanto dobbiamo loro, affinché, avendo essi, senza alcun interesse, lavorato tanto per il conseguimento del bene di cui godete, di stare in questi monasteri, li raccomandiate a nostro Signore e siate loro di qualche vantaggio con le vostre orazioni. Se voi sapeste quante notti cattive, quanti giorni faticosi e quante tribolazioni hanno sofferto in questi viaggi, lo fareste di gran cuore.

8. Il vicario generale non volle abbandonare la nostra chiesa senza lasciare una guardia alla porta, non so a quale scopo; ciò servì a spaventare un po’ le persone che stavano lì. Quanto a me, io non davo mai molta importanza a quel che poteva accadere dopo la presa di possesso: solo prima ero stata assalita dai timori. Mandai a chiamare alcune persone ragguardevoli della città, parenti di una delle consorelle che avevo condotte con me affinché parlassero al vicario e lo assicurassero che avevo l’autorizzazione del vescovo. Egli lo sapeva benissimo, a quanto poi ebbe a dire, solo che avrebbe voluto che lo avessimo preavvisato, mentre credo che sarebbe stato assai peggio. Infine, riuscirono a ottenere che ci lasciasse il monastero, ma ci tolse il santissimo Sacramento, cosa di cui non ci demmo troppa pena. Passammo così alcuni mesi, fino a quando si comprò una casa. Ma con essa ci caddero addosso molte liti. Ne avevamo già avute molte con i frati francescani per un’altra casa, vicina alla loro, che volevamo comprare. Per questa qui dovemmo sostenere discussioni con i Mercedari e con il Capitolo. Quest’ultimo vantava dei diritti su di essa.

9. Oh, Gesù! Che fatica è quella di trovarsi fra tante contestazioni! Quando già sembrava che si fosse concluso tutto, si era da capo; non bastava dar loro quanto chiedevano; subito sorgeva un’altra difficoltà. Detto così, sembra nulla, ma farne la prova fu cosa dura.

10. Un nipote del vescovo, che era priore e canonico di quella chiesa, faceva tutto quello che poteva per noi, e così anche il licenziato in teologia Herrera, gran servo di Dio. Alla fine, dopo che sborsammo molto denaro, la questione ebbe termine. Restava la lite con i Mercedari, a causa della quale fummo costrette a far ricorso a una gran segretezza per trasferirci nella nuova casa. Quando ci videro insediate in essa, dove ci trasferimmo uno o due giorni prima di san Michele, ritennero opportuno accordarsi con noi dietro compenso di denaro. Il maggior assillo di queste difficoltà era che non mancavano se non sette o otto giorni alla scadenza dei miei tre anni di priorato all’Incarnazione, e io dovevo assolutamente trovarmi lì al termine di essi.

11. Piacque al Signore che tutto si risolvesse così bene da non lasciare strascico di nessuna contesa, e di lì a due o tre giorni partii per l’Incarnazione. Sia benedetto per sempre il suo nome per le molte grazie di cui mi ha continuamente favorita, e lo lodino tutte le sue creature! Amen.

CAPITOLO 22

In cui si tratta della fondazione del glorioso San Giuseppe del Salvatore nel borgo di Beas, che ebbe inizio il giorno di san Mattia dell’anno 1575.

 

1. Al tempo in cui, come ho detto, mi fecero andare a Salamanca dal convento dell’Incarnazione, mentre ero lì, venne un messo dal borgo di Beas, con lettere per me di una signora di quel luogo, del parroco e di altre persone, che mi pregavano di recarmi in tale borgo, a fondare un monastero; avevano già pronta la casa per esso; non mancava se non provvedere alla fondazione.

2. Chiesi alcune informazioni al messo. Mi disse ogni sorta di bene di quella terra, e a ragione, perché è un paese incantevole e gode di un’ottima temperatura. Ma, considerando la grande distanza che separa Beas da Salamanca, accettare la proposta mi parve una pazzia, tanto più che occorreva l’ordine del commissario apostolico, il quale – come ho detto – era contrario o, per lo meno, poco favorevole a nuove fondazioni. In un primo momento pensavo perciò, senza neanche parlargliene, di rispondere con un rifiuto. Poi, trovandosi egli allora a Salamanca, ritenni che non era bene farlo senza sentire il suo parere, perché il nostro reverendissimo padre generale mi aveva ordinato di non rifiutare alcuna fondazione.

3. Quando il commissario vide le lettere, mi fece dire che non gli sembrava il caso di deludere quelle persone, la cui pietà l’aveva edificato: dovevo dunque scrivere loro che avrei provveduto alla fondazione, non appena avessero ottenuto l’autorizzazione del loro Ordine. Potevo però, aggiungeva, essere ben sicura che non l’avrebbero avuta, perché egli sapeva di altri luoghi che in molti anni non erano riusciti a ottenerla dai commendatori di quell’Ordine; comunque, non dovevo risponder loro male. A volte, ripensandoci, vedo come – quando nostro Signore vuole una cosa – noi, anche se non la vogliamo, diventiamo, senza saperlo, lo strumento perché si realizzi, come lo fu in questo caso il padre maestro fra Pedro Fernández, cioè il commissario di cui parlo. Difatti, avendo le persone suddette ottenuto l’autorizzazione, non poté rifiutare la sua, e la fondazione avvenne come segue.

4. Il monastero del beato Giuseppe nel borgo di Beas ebbe inizio il giorno di san Mattia dell’anno 1575, nel modo che sto per dire, a onore e gloria di Dio. C’era in quel luogo una cavaliere di nobile famiglia, fornito di molti beni di questo mondo. Aveva sposato una donna di nome donna Catalina Godínez. Fra gli altri figli che nostro Signore diede loro, vi furono due figlie, che sono state le fondatrici di questo monastero: la maggiore si chiamava donna Catalina Godínez e la minore donna María de Sandoval. La prima poteva avere quattordici anni, quando nostro Signore le fece sentire la sua chiamata. Fino a tale età era molto lontana dal pensare di lasciare il mondo, anzi aveva tanta stima di sé che riteneva sempre inadeguate le esigenze del padre circa i matrimoni che le venivano proposti.

5. Un giorno, trovandosi in una stanza attigua a quella in cui stava suo padre, non ancora alzatosi, per caso le capitò di leggere su un crocifisso lì appeso la scritta che sormonta la croce. D’improvviso, a quella lettura, il Signore operò in lei una completa trasformazione. Stava infatti pensando a un matrimonio molto vantaggioso che le era stato proposto e diceva fra sé: orgoglio. Ma seppe il Signore come porvi rimedio. Sia benedetta la sua misericordia!

6. Appena dunque lesse la scritta, le parve che una luce avesse rischiarato la sua anima, svelandole la verità, come se in una stanza oscura penetrasse all’improvviso un raggio di sole. Illuminata da questa luce, fissò gli occhi sul Signore posto in croce, con il sangue che gli scorreva dalle ferite. Pensando ai maltrattamenti da lui subiti e alla profonda umiltà con cui li aveva sopportati, capì quanto fosse diverso il suo cammino, che era quello della superbia. Dovette restare in questo stato d’animo un po’ di tempo, perché il Signore le sospese le facoltà. A questo punto le diede una chiara conoscenza della sua miseria, che ella avrebbe voluto fosse nota a tutti, un così ardente desiderio di soffrire per Dio, che avrebbe voluto patire, tutti insieme, i tormenti sofferti dai martiri, e una così profonda umiliazione che, se non fosse stato per evitare d’offendere Dio, avrebbe voluto essere una gran peccatrice, perché tutti la disprezzassero. Cominciò pertanto a detestarsi e a nutrire quei grandi desideri di penitenza che poi mise in pratica. Promise subito in quel momento castità e povertà, e avrebbe voluto vedersi in tale stato di sottomissione che, per diventare schiava, sarebbe stata felice d’essere allora portata tra i Mori. Tutte queste virtù si sono conservate in lei in modo tale da rendere evidente che si era trattato di una grazia soprannaturale di nostro Signore, come più avanti si dirà affinché tutti lo lodino.

7. Siate benedetto, Dio mio, per sempre nei secoli, voi che in un momento distruggete un’anima e la rialzate! Che è mai ciò, Signore? A questo punto io vorrei farvi una domanda analoga a quella che vi fecero gli apostoli quando guariste il cieco, se, cioè, avessero peccato i suoi genitori. Vi chiedo chi avesse meritato a quest’anima una grazia così grande. Ella no, perché si è detto da quali pensieri l’avete tirata fuori quando gliel’avete fatta. Oh, come sono profondi i vostri giudizi, Signore! Voi sapete quello che fate, e io non so quello che dico, perché le vostre opere, al pari dei vostri giudizi, sono imperscrutabili. Siate per sempre glorificato, estendendosi la vostra potenza a opere ancora più grandi! Che sarebbe di me se non fosse così? Ma… non vi avrà, per caso, avuto parte sua madre? Era così grande il suo spirito cristiano che sarebbe possibile vi foste compiaciuto, nella vostra bontà e nella vostra misericordia, di farle vedere, mentre era in vita, tante virtù nelle figlie. A volte penso che voi elargite simili grazie a coloro che vi amano, dando loro così il grande vantaggio di glorificarvi anche per mezzo dei loro figli.

8. Mentre Catalina era in questo stato, sopravvenne un così tremendo rumore nella parte superiore della stanza, che pareva crollasse tutta. Il rumore sembrava provenire da quell’angolo dove ella si trovava; udì al tempo stesso alcuni forti ruggiti, che si protrassero per un po’, tanto che suo padre, il quale – come ho detto – non si era ancora alzato, ne ebbe così grande paura, che cominciò a tremare. Come fuori di sé, buttandosi addosso una veste, prese la spada ed entrò lì, domandando tutto alterato che cosa accadesse. Ella rispose di non aver visto niente. Egli guardò in un’altra stanza più interna e, non scorgendovi nulla, le disse di andare dalla madre, alla quale raccomandò di non lasciarla sola, dopo averle raccontato quello che aveva udito.

9. Da ciò si può ben capire quale sia la rabbia del demonio quando si vede sfuggire di tra le mani un’anima che riteneva già sua. Nemico com’è del nostro bene, non mi stupisco che, vedendo il nostro misericordioso Signore favorire un’anima di tante grazie insieme, se ne spaventasse e facesse così strepitosa mostra del suo risentimento. Soprattutto si rese conto che la ricchezza acquistata da quell’anima a lui sarebbe servita a perdere il possesso di altre che già riteneva per sue. Sono infatti sicura che mai nostro Signore concede a un’anima così grandi favori senza che non vi prendano parte anche tante altre. Ella non disse mai nulla di ciò, ma rimase con un grandissimo desiderio di farsi religiosa e ne chiese insistentemente il permesso ai genitori. Ma questi non glielo accordarono mai.

10. Dopo tre anni di continue insistenze, visto che i genitori non ne volevano sapere, il giorno di san Giuseppe indossò un abito assai modesto. Dopo averne informato soltanto la madre – dalla quale sarebbe stato più facile ottenere il permesso di farsi religiosa, mentre con il padre non osava dir nulla –, andò così vestita in chiesa, sperando che, dopo essersi fatta vedere in paese con quell’abito, non le avrebbero più imposto di toglierselo. E così avvenne; suo padre la lasciò fare. In quei tre anni faceva le sue ore di orazione e cercava di mortificarsi quanto poteva, avendo in ciò per guida il Signore. Se ne andava continuamente in un cortile dove, bagnatosi il viso, si esponeva poi al sole, nella speranza che, una volta divenuta brutta, avessero fine le proposte di matrimonio da cui era ancora importunata.

11. Era così decisa a non voler comandare che, avendo il governo della casa di suo padre, se le accadeva di costatare d’aver dato ordini alle domestiche – com’era inevitabile –, aspettava che si fossero addormentate e baciava loro i piedi, tanto l’affliggeva dover essere servita da persone che riteneva assai migliori di lei. Siccome di giorno era occupata con i suoi genitori, quando avrebbe dovuto dormire trascorreva tutta la notte in orazione. Per molto tempo continuò ad andare avanti concedendosi così poco sonno che le sarebbe stato impossibile sopportarlo senza un intervento soprannaturale. Le penitenze e le discipline erano molte, perché non aveva chi la dirigesse né parlava di queste cose con alcuno. Fra le altre, quella di portare per tutta una quaresima sulle nude carni una cotta di maglia di suo padre. Per pregare andava in un luogo appartato dove il demonio la disturbava con grandi insidie. Spesso cominciava a stare in orazione alle dieci di sera e non si riaveva da tale stato fino a che non facesse giorno.

12. In questi esercizi trascorse circa quattro anni, dopo i quali il Signore, affinché lo servisse in prove più difficili, cominciò a mandarle gravissime e penosissime malattie, come una febbre continua, idropisia, mal di cuore e un cancro al petto, con l’asportazione della mammella. Infine, le sue malattie durarono quasi diciassette anni, durante i quali pochi furono i giorni in cui si sentiva bene. Passati cinque anni dalla grazia che Dio le aveva fatto, le morì il padre. Sua sorella, all’età di quattordici anni (cioè uno dopo che in Catalina si era operata questa trasformazione), indossò anche lei un abito dimesso, pur avendo amato molto quelli di lusso e cominciò anche lei a dedicarsi all’orazione. La madre, che le assecondava in tutti i loro desideri e nelle loro sante pratiche, permise che si dedicassero a un’occupazione molto meritoria, benché assai lontana dall’essere conforme al loro rango: quella di insegnare a leggere e a cucire alle bambine, senza riceverne alcun compenso, ma soltanto per avere l’occasione di far loro imparare le preghiere e la dottrina cristiana. Il risultato fu assai soddisfacente, perché le bambine accorrevano in gran numero e ancora oggi rendono testimonianza delle buone abitudini contratte quand’erano piccine. La cosa non durò a lungo: infatti, il demonio, a cui la buona opera riusciva molesta, fece sì che i genitori si vergognassero di far istruire le figlie gratuitamente. Questo, insieme alle malattie da cui Catalina cominciava ad essere tormentata, fece interrompere quell’iniziativa.

13. Cinque anni dopo la morte del padre, morì anche la madre e, poiché Catalina aveva sempre avuto la vocazione di farsi suora, ma non era mai riuscita a vincere l’opposizione dei genitori, decise subito di soddisfarla ora. Siccome a Beas non c’era un monastero, i suoi parenti le consigliarono – visto che loro due avevano sufficienti beni per fondarne uno convenientemente – di adoperarsi a fondarlo nel proprio paese, rendendo con ciò un maggior servizio a nostro Signore. Ma, poiché Beas dipende dalla commenda di San Giacomo, era necessaria l’autorizzazione del Consiglio degli Ordini, pertanto Catalina cominciò a darsi da fare per ottenerla.

14. Fu così difficile ottenerla che passarono quattro anni, durante i quali ebbero a soffrire molte tribolazioni e forti spese, e tutto invano, finché non fu presentata una supplica al re in persona. Fu così che, essendovi tanta difficoltà, i suoi parenti le dicevano che era una follia persistere in ciò e che doveva rinunziarvi. Aggiungevano che, costretta quasi sempre a letto per le gravi malattie di cui si è parlato, nessun monastero l’avrebbe accettata come monaca. Ella rispose che se entro un mese nostro Signore le avesse ridato la salute essi avrebbero dovuto rendersi conto che si compiaceva di questa fondazione, e allora sarebbe andata lei stessa alla Corte per cercare di avere l’autorizzazione. Quando si pronunziò in tal modo, da più di sei mesi non si alzava dal letto e quasi da otto anni, si può dire, non riusciva a lasciarlo del tutto. In questo lasso di tempo soffrì d’una febbre continua che la consumava, colpita come fu, da tisi, idropisia e col fegato infiammato da un tal fuoco che si sentiva ardere tutta: fuoco che si diffondeva sulle vesti e le bruciava la camicia. Sembra incredibile, eppure io stessa mi sono informata delle sue malattie dal medico che allora l’aveva in cura e che ne era anche lui sbalordito. Inoltre soffriva di gotta e di sciatica.

15. La vigilia di san Sebastiano, che cadeva di sabato, nostro Signore le restituì così interamente la salute, che ella non sapeva come dissimulare la cosa, onde evitare di rendere noto il miracolo. Racconta lei stessa che, quando nostro Signore stava per guarirla, le diede un tremito interiore così violento, che la sorella pensò stesse per morire. Ella peraltro avvertì in sé una completa trasformazione, e nell’anima si sentì un’altra: tale fu il profitto spirituale che l’arricchiva. Tutta la gioia di riavere la salute consisteva nel fatto di potersi così dedicare alle trattative del monastero. Non le importava nulla che cessassero le sofferenze, perché dal giorno in cui Dio l’aveva chiamata al suo servizio le era nato un tale odio di se stessa, da renderla indifferente a tutto. Ella dice che le era rimasto un così intenso desiderio di patimento che supplicava Dio dal profondo del cuore di metterla alla prova con ogni sorta di sofferenze.

16. Sua Maestà non tralasciò di esaudire il suo desiderio, perché in quegli otto anni subì più di cinquecento salassi, senza contare le molte ventose applicate sulla pelle scarnificata, di cui le sono rimasti segni evidenti in tutto il corpo. Più di venti volte le fu iniettato sale nelle piaghe, perché un medico disse che era un buon rimedio per estrarre le sostanze tossiche di una pleurite. Ciò che desta maggiore meraviglia è che, non appena il medico le prescriveva uno di questi rimedi, attendeva con grande desiderio l’ora in cui dovevano porli in atto, senza alcuna paura. Ella stessa incoraggiava i medici nelle cauterizzazioni, che furono molte, a causa del cancro e altri mali ancora per i quali furono necessarie. Dice che il motivo per cui desiderava questi tormenti era il voler provare se i suoi desideri di martirio erano veri.

17. Sentendosi improvvisamente bene, cercò d’indurre il confessore e il medico a farla trasportare in un altro paese, affinché la sua guarigione si potesse attribuire al cambiamento d’aria. Essi non vollero acconsentirvi, anzi i primi a divulgare la notizia furono i medici, i quali l’avevano giudicata ormai incurabile, versando ella sangue dalla bocca così corrotto che vedevano ormai in esso i polmoni in decomposizione. Rimase tre giorni a letto, non osando alzarsi per timore che si vedesse la sua guarigione, ma poiché la salute non si può nascondere né più né meno della malattia, le giovò a poco.

18. Mi raccontò che nell’agosto precedente, mentre un giorno supplicava nostro Signore di toglierle quell’ardente desiderio d’essere religiosa e di fondare il monastero, o di darle i mezzi per riuscirvi, le fu assicurato con assoluta certezza che avrebbe ricuperato la salute in tempo utile per potersi recare, nella quaresima, a sollecitare l’autorizzazione. Afferma pertanto che da allora, anche se le sue malattie aumentarono d’intensità, non perdette mai la speranza che il Signore le avrebbe fatto questa grazia. E perfino le due volte in cui le diedero l’unzione degli infermi – una volta lei era in condizioni tali che il medico diceva che era inutile andare a prendere l’olio santo, perché sarebbe morta prima – non cessava di confidare nella grazia del Signore per poter morire monaca. Non voglio dire, con ciò, che ricevette due volte l’unzione degli infermi nel periodo che corre tra l’agosto e la festa di san Sebastiano, ma prima. I suoi fratelli e parenti, vedendo la grazia miracolosa di cui il Signore l’aveva favorita, dandole così improvvisamente la salute, non osarono opporsi alla sua partenza, pur ritenendo il suo progetto una pazzia. Rimase tre mesi a Corte e ancora non le davano l’autorizzazione. Non appena presentò la sua petizione al re ed egli seppe che si trattava d’un monastero delle carmelitane scalze, ordinò subito che l’autorizzazione fosse data.

19. Allorché si venne alla fondazione del monastero, fu evidente che Catalina ne aveva trattato con Dio, perché i superiori vi acconsentirono subito, malgrado la distanza del luogo e la povertà delle rendite. Quando Sua Maestà vuole una cosa, essa si realizza sempre. Le religiose arrivarono a Beas all’inizio della quaresima dell’anno 1575. gli abitanti le ricevettero in processione con grande solennità e gioia. Vi fu, in generale, molta soddisfazione; perfino i bambini dimostravano, a loro modo, che quell’opera era gradita al Signore. Il monastero fu fondato, col nome di San Giuseppe del Salvatore, in questa stessa quaresima, il giorno di san Mattia.

20. Lo stesso giorno presero l’abito le due sorelle, con grande letizia. La salute di donna Catalina andava meglio. La sua umiltà, la sua obbedienza, la sete di essere disprezzata mostrano oggi come i suoi desideri di darsi interamente al servizio di nostro Signore fossero sinceri. Sia egli per sempre glorificato!

21. Fra le altre cose, questa sorella mi ha raccontato che una sera, circa venti anni fa, andata a letto tutta presa dal desiderio di trovare l’Ordine religioso più perfetto che esistesse sulla terra per farsi monaca in esso, cominciò a sognare, e le era sembrato di camminare per una strada assai stretta e angusta, col tremendo pericolo di cadere nei profondi burroni che la fiancheggiavano e di vedere un frate scalzo che più tardi le parve di riconoscere in fra Giovanni della Miseria, un fraticello converso del nostro Ordine, quando questi andò a Beas, mentre ero lì. Egli le disse: «Vieni con me, sorella», e la condusse in una casa ove era un gran numero di religiose, senz’altra luce che quella di certe candele accese che esse tenevano in mano. Chiese che Ordine fosse; tutte tacquero ma, alzati i veli, mostrarono visi lieti e sorridenti. E afferma di aver visto i volti delle stesse sorelle che ora sono venute qui. La priora la prese per mano e le disse: «Figlia mia, io vi voglio qui», mostrandole poi le Costituzioni e la Regola. Quando si svegliò da questo sogno era così piena di gioia che le sembrava di essere stata in cielo. Scrisse ciò che si ricordava della Regola, e passò gran tempo senza che ne parlasse ad alcun confessore né ad altri; nessuno, del resto, poteva darle informazioni su quest’Ordine.

22. Infine, venne lì un padre della Compagnia, che era al corrente dei suoi desideri. Ella gli mostrò il foglio del suo scritto, dicendogli che se avesse potuto trovare quell’Ordine sarebbe stata felice, perché vi sarebbe entrata subito. Il padre conosceva i nostri monasteri e le disse che quella era la Regola dell’Ordine di Nostra Signora del Carmine o, meglio, senza spiegarsi con questa chiarezza, che era di quei monasteri che fondavo. Ella allora mi mandò il messo che ho detto.

23. Quando le diedero la mia risposta, stava ormai così male che il suo confessore la esortò a darsi pace, perché in quelle condizioni, anche se si fosse già trovata in un monastero, l’avrebbero fatta uscire, tanto più si sarebbero guardati dall’accogliervela. Ella se ne afflisse molto e, volgendosi a nostro Signore con un desiderio angoscioso nel cuore, gli disse: «Signor mio e Dio mio, io so per fede che voi siete onnipotente; allora, vita dell’anima mia, o fate che questi desideri mi si tolgano dal cuore, o datemi i mezzi per adempierli». Diceva questo con un’immensa fiducia, supplicando nostra Signora, per il dolore che provò quando vide suo Figlio morto fra le sue braccia, di farle da mediatrice. Udì, nell’intimo, una voce dirle: «Credi e spera, perché io sono l’Onnipotente: tu riavrai la salute. A colui che ha avuto il potere d’impedire a tante malattie, tutte mortali per se stesse, di produrre il loro effetto letale, sarà più facile farle scomparire». Queste parole, racconta, furono pronunziate con tanta forza e sicurezza, da renderle impossibile dubitare che il suo desiderio sarebbe stato esaudito. Nonostante la recrudescenza delle sue malattie, il Signore, come abbiamo detto, le restituì la salute. Sembra davvero incredibile quello che ha sofferto. Se non mi fossi io stessa informata dal medico, dalle persone di casa e da altre ancora, così miserabile come sono, avrei potuto facilmente pensare che ci fosse alquanta esagerazione.

24. Anche se è tuttora debole, ha ormai salute sufficiente per osservare la Regola, ed è un’ottima religiosa; mostra una grande gioia, e in ogni circostanza una così profonda umiltà, come ho detto, che induce noi tutte a rendere lode a nostro Signore. Entrambe le sorelle diedero all’Ordine tutti i loro averi senza alcuna condizione: se non si fosse voluto più riceverle come religiose, non avrebbero reclamato nulla. Grande è il distacco di Catalina dai suoi parenti e dal suo paese: desidera sempre andarsene lontano, insistendo molto a tal fine con i superiori, ma è pur così obbediente che è contenta anche di stare lì. In virtù di questa stessa obbedienza prese il velo nero. Non c’era verso di persuaderla a far parte del coro: voleva essere conversa, finché le scrissi a lungo, rimproverandola di non sottomettersi alla volontà del padre provinciale. Le scrissi, fra l’altro, che quello non era il modo di aumentare i suoi meriti e la trattai duramente. Ma ella è felicissima quando le si parla così. In tal modo si riuscì a convincerla, benché si arrendesse molto a malincuore. Non vedo nulla in quest’anima che non sia di tal natura da renderla gradita a Dio e a tutte. Si degni Sua Maestà di assisterla con la sua mano e di accrescere in lei le virtù e la grazia che le ha dato a sua maggior gloria e onore! Amen.

 

CAPITOLO 23

In cui si tratta della fondazione del monastero del glorioso San Giuseppe del Carmine nella città di Siviglia. Vi si celebrò la prima Messa nel giorno della Santissima Trinità dell’anno 1575.

 

1. Mentre dunque stavo nel borgo di Beas aspettando l’autorizzazione del Consiglio degli Ordini per la fondazione di Caravaca, venne lì a farmi visita un padre del nostro Ordine degli scalzi. Era il maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio, il quale aveva preso l’abito da pochi anni in Alcalá, uomo di grande dottrina, intelligenza e modestia, la cui vita è tutta improntata a rare virtù, e che nostra Signora sembra aver scelto per il bene del nostro Ordine primitivo. Mentre si trovava in Alcalá, era ben lontano dall’idea di prendere il nostro abito, anche se non da quella di farsi religioso. Infatti egli non condivideva in nessun modo i progetti dei suoi genitori che godevano del gran favore del re e vedevano in lui grandi capacità. Dall’inizio dei suoi studi suo padre lo aveva destinato a seguire i corsi di giurisprudenza. Egli, benché ancora giovanissimo, ne soffrì tanto che, a forza di lacrime, ottenne da lui il permesso di seguire quelli di teologia.

2. Poiché aveva il titolo di Maestro, cercò di entrare nella Compagnia di Gesù, e quei padri lo avevano già accolto, quando, a causa del sopravvenire di una circostanza, lo pregarono di aspettare qualche giorno. Egli mi raccontò che tutto il benessere di cui godeva gli procurava tormento, poiché gli sembrava che quello non fosse un buon cammino per il cielo. Faceva sempre le sue ore di orazione. Il suo raccoglimento e la sua illibatezza erano grandissimi.

3. Aveva preso allora l’abito del nostro Ordine, nel monastero di Pastrana, un suo grande amico, fra Juan de Jesús, anch’egli maestro. Non so se fu per una lettera che questi gli scrisse sull’eccellenza e l’antichità del nostro Ordine, o per qualche altro motivo, fatto sta che s’interessò a tutto quello che riguardava quest’Ordine. Provò piacere nel costatarne la comprovata eccellenza attraverso grandi autori che – com’egli racconta – spesso temeva di trascurare gli altri  suoi studi per queste letture. Vi si dedicava anche nelle sue ore di ricreazione. Oh, sapienza e potenza di Dio! Come non è possibile per noi sottrarci alla sua volontà! Nostro Signore vedeva bene quanto bisogno ci fosse in quest’opera, da lui stesso cominciata, di un tale uomo. Io lo lodo spesso per averci accordato una grazia così grande: se, infatti, avessi voluto chiedere a Sua Maestà una persona capace di sistemare tutte le cose riguardanti l’Ordine in questi inizi, non avrei potuto chiedergli tanto quanto ci ha dato con quest’uomo. Sia egli benedetto per sempre!

4. Mentre, dunque, era ben lontano dal pensare di prendere il nostro abito, lo pregarono di recarsi a Pastrana per trattare con la priora di quel monastero – che non era stato ancora trasferito – della accettazione di una postulante. Di quali mezzi si serve la Maestà divina! Se egli avesse voluto lasciare Alcalá per andare lì a prender l’abito, avrebbe probabilmente incontrato l’opposizione di tante persone e forse non l’avrebbe fatto. Ma la Vergine nostra Signora, di cui è molto devoto, volle ricompensarlo della sua venerazione dandogli il suo abito. Penso pertanto che fu lei la mediatrice per ottenergli da Dio questa grazia. Se egli prese l’abito e si affezionò tanto al nostro Ordine è perché questa gloriosa Vergine non volle che, a chi desiderava così vivamente di servirla, mancasse l’occasione per farlo, adoperandosi ella sempre a favorire coloro che si pongono sotto la sua protezione.

5. A Madrid, quand’era ragazzo, pregava spesso davanti a un’immagine di nostra Signora – non ricordo dove –, della quale era molto devoto. La chiamava la sua «innamorata» e le faceva visite assai di frequente. Fu indubbiamente lei ad ottenergli dal Figlio la purezza in cui è sempre vissuto. Egli racconta che a volte gli sembrava di vederle gli occhi gonfi di lacrime per le molte offese arrecate a suo Figlio. Da qui gli nasceva in cuore un vivo slancio e un ardente desiderio di darsi alla salvezza delle anime, insieme con un immenso dolore alla vista delle offese commesse contro Dio. Questo desiderio di fare del bene alle anime è la sua inclinazione particolare. Quando crede di poterne trarre qualche frutto, gli sembra leggera ogni possibile sofferenza. L’ho visto io stessa per esperienza nelle molte prove che ha sofferto.

6. Si recava dunque a Pastrana, guidato da un artifizio della Vergine: egli credeva di andarvi per trattare della vestizione d’una postulante e Dio ve lo conduceva per dare a lui stesso l’abito. Oh, segreti di Dio! Com’egli, senza che noi lo vogliamo, ci va disponendo a ricevere le sue grazie! E quale ricompensa seppe elargire a quest’anima per le buone opere compiute, per il buon esempio che aveva sempre dato e per l’ardente desiderio di servire la sua gloriosa Madre! Tutto ciò è sempre ricompensato da Sua Maestà con grandi premi.

7. Giunto dunque a Pastrana, andò a parlare alla priora per pregarla di accettare quella postulante,e fu come se le avesse parlato per ottenere da nostro Signore che vi fosse accettato lui stesso. Non appena la priora lo vide, ne fu conquistata; in realtà, il suo tratto è così dolce che quasi tutti coloro che l’avvicinano ne restano rapiti: è una grazia di cui nostro Signore lo favorisce. È parimenti amato moltissimo dai religiosi e dalle religiose sottoposti alla sua autorità perché, anche se non perdona alcuna mancanza, avendo estrema cura della perfezione monastica, lo fa con una dolcezza così grande che nessuno, sembra, ha motivo di lamentarsi di lui.

8. Quando la priora lo vide le accadde quello che accadeva agli altri: fu presa dal più vivo desiderio che entrasse nell’Ordine. Ne parlò alle consorelle, facendo loro considerare tutto il vantaggio che ne avrebbero avuto, perché allora erano ben pochi, anzi quasi nessuno, quelli che potessero paragonarsi a lui. Pertanto le esortò a pregare tutte nostro Signore di non lasciarlo partire, ma di fargli prendere il nostro abito. Questa priora è una grande serva di Dio e credo che, quand’anche fosse stata la sola a pregarlo di ciò, sarebbe stata esaudita da Sua Maestà. A più forte ragione egli avrebbe ascoltato le preghiere di tante anime buone com’erano quelle che stavano lì. Tutte infatti presero la cosa molto a cuore, supplicando di ciò incessantemente Sua Maestà con digiuni, discipline, orazioni. E piacque a Dio di concederci questa grazia. Quando, infatti, il padre Graziano si recò al convento dei frati e vide una così perfetta osservanza religiosa e disposizione nel servire nostro Signore, e soprattutto che l’Ordine era della gloriosa Madre di Dio che egli desiderava tanto onorare, cominciò a sentire in cuore il desiderio di non tornare più nel mondo. Il demonio gli mise innanzi molte difficoltà, soprattutto il dolore dei suoi genitori, che lo amavano teneramente e nutrivano grande speranza di essere aiutati da lui a provvedere ai loro molti figli, sia maschi che femmine. Ma egli, rimettendone la cura a Dio, per amore del quale abbandonava tutto, si decise ad esser suddito della Vergine e a prendere il suo abito. E così esso gli fu dato con grande gioia di tutti, specialmente delle monache e della priora, che ne rendevano grandi lodi a nostro Signore, ritenendo che Sua Maestà avesse operato questa grazia per le loro preghiere.

9. Passò l’anno di prova con l’umiltà di uno dei più modesti novizi. La sua virtù si manifestò specialmente quando, essendo da lì assente il priore, rimase come capo, in sua vece, un frate molto giovane, privo d’istruzione e di scarsissimo talento e prudenza per governare una comunità. Non aveva neanche esperienza, essendo entrato da poco. Era di un’esigenza esagerata nel guidare i suoi confratelli, con le mortificazioni che imponeva loro. Tutte le volte che ci penso mi stupisco nel vedere come gli altri potessero sopportarlo, specialmente persone di tal merito; per riuscirvi, ci voleva proprio lo spirito di cui Dio li favoriva. Si è poi visto chiaramente che era affetto da una grande malinconia, e non se ne libera ovunque si trova, così da essere causa di sofferenza anche come semplice religioso; tanto più, poi, come superiore, dominato in tal modo dal suo umore. D’altra parte, è un buon religioso. Dio permette a volte questi errori per perfezionare la virtù dell’obbedienza in coloro che ama.

10. Senza dubbio fu così anche in questo caso, perché in premio di ciò ha dato al padre fra Girolamo della Madre di Dio una straordinaria luce in materia di obbedienza al fine che la insegni ai suoi sudditi, come chi ha avuto, sin dall’inizio, ottima occasione di praticarla. Affinché, inoltre, non gli mancasse l’esperienza di tutto quello di cui abbiamo bisogno, tre mesi prima della professione fu soggetto a gravissime tentazioni. Ma egli, chiamato a essere un buon capitano dei figli della Vergine, si difendeva bene da esse: quando il demonio insisteva di più per indurlo a lasciare l’abito, gli resisteva promettendo a Dio di non spogliarsene mai e di impegnarsi a ciò con i voti. Mi ha dato un’opera scritta da lui mentre era nel vivo di quelle tentazioni, che mi ha ispirato molta devozione e dalla quale si vede chiaramente la forza che il Signore gli dava.

11. Sembrerà fuori luogo, da parte sua, avermi comunicato tanti particolari della sua anima. Può darsi che il Signore l’abbia permesso perché io li scriva qui e lo si lodi nelle sue creature. So infatti che non si è mai aperto tanto né con il confessore né con qualsiasi altra persona. Talvolta, forse, lo induceva a tali confidenze il credere che, data la mia età e quello che udiva di me, io dovessi avere una certa esperienza. Accadeva che mi dicesse queste e altre cose, che non è il caso di scrivere, perché mi farebbero divagare troppo.

12. Mi sono, certo, moderata molto nel parlare di ciò, per non dargli un dispiacere, nel caso che un giorno questo scritto finisse fra le sue mani. Non ho potuto però tacere tutto, né mi è sembrato bene (del resto, se lo vedrà, sarà in un tempo ben lontano) tralasciare di far menzione di chi ha operato tanto per la restaurazione della Regola primitiva. Sebbene non fosse stato lui il primo a propugnarla, giunse in un momento in cui a volte mi sarei pentita di aver dato inizio alla Riforma, se non avessi avuto una somma fiducia nella misericordia di Dio. Mi riferisco ai conventi dei frati, perché quelli delle monache, per la sua bontà, sono sempre andati bene. Non che quelli dei frati andassero male, ma recavano il segno di una prossima fine perché, non formando una provincia a parte, venivano governati dai calzati. C’era ben, fra gli scalzi, chi avrebbe potuto esercitare il governo, come il padre fra Antonio de Jesús, che aveva dato inizio alla Riforma, ma non gli concedevano tale autorità. Inoltre essi non avevano ancora Costituzioni proprie, date dal nostro reverendissimo padre generale. In ogni casa si regolavano come credevano. Se si fossero dovute aspettare le Costituzioni o un governo autonomo, si sarebbero avute gravi difficoltà, perché gli uni la pensavano in un modo gli altri in un altro. A volte la situazione mi procurava una grande sofferenza.

13. Nostro Signore vi pose rimedio mediante il padre maestro fra Girolamo della Madre di Dio, perché lo nominarono commissario apostolico e gli diedero autorità e governo sugli scalzi e sulle scalze. Redasse le Costituzioni per i frati. Quanto a noi, già le avevamo, dateci dal nostro reverendissimo padre generale. Non le scrisse, quindi, per noi, ma solo per loro, servendosi del potere apostolico che aveva e delle eccellenti qualità di cui – ripeto – il Signore lo aveva dotato. La prima volta che li visitò sistemò tutto in modo così perfetto che ben si vide come fosse aiutato dalla divina Maestà e come nostra Signora lo avesse scelto per la salvezza del suo Ordine. Io la supplico con tutto il cuore di ottenere da suo Figlio che lo protegga sempre e gli dia la grazia di progredire nel suo servizio. Amen.

 

CAPITOLO 24

Prosegue nel racconto della fondazione di San Giuseppe del Carmine a Siviglia.

 

1. Ho detto che il padre maestro fra Girolamo Graziano venne a trovarmi a Beas. Prima d’allora non ci eravamo mai visti, anche se io lo avessi molto desiderato; avevamo avuto solo qualche scambio epistolare. Quando seppi del suo arrivo me ne rallegrai moltissimo, perché il bene che mi avevano detto di lui mi faceva desiderare di conoscerlo; ma molto più mi rallegrai quando cominciai a trattarlo: mi piacque tanto infatti da farmi ritenere che quanti me lo avevano lodato non lo avessero apprezzato abbastanza.

2. Quando venne, ero molto afflitta, ma, appena lo vidi, mi parve che il Signore mi mettesse davanti agli occhi il bene che per mezzo suo ci sarebbe venuto. Mi sentivo in quei giorni così piena di consolazione e di gioia, che io stessa restavo sinceramente stupita di me. In quel momento la sua autorità era ancora limitata all’Andalusia, ma mentre era a Beas il Nunzio lo mandò a chiamare e gliela affidò anche sugli scalzi e le scalze della provincia di Castiglia. Era tale la felicità di cui mi sentivo inondare il cuore che non finivo mai, in quei giorni, di rendere grazie a nostro Signore, né avrei voluto far altro.

3. Intanto arrivò l’autorizzazione per la fondazione di Caravaca, ma di un tenore diverso da quello che doveva servire al mio scopo. Pertanto fu necessario mandarla di nuovo alla Corte, perché scrissi alle fondatrici che in nessun modo si sarebbe fatta la fondazione se non si esigeva una condizione che mancava. Dunque, si doveva tornare alla Corte. A me riusciva gravosa quella lunga attesa a Beas. Avrei voluto ritornare in Castiglia, ma siccome si trovava lì il padre fra Girolamo che, essendo commissario di tutta la provincia di Castiglia, era anche superiore di Beas, non potevo fare nulla senza la sua approvazione: perciò gliene parlai.

4. Gli parve che, una volta partita io, la fondazione di Caravaca non si sarebbe più fatta. Inoltre gli sembrava che farne una a Siviglia sarebbe stato rendere un grande servizio a Dio, ed era cosa assai facile, essendone stato richiesto da alcune persone influenti e abbastanza ricche da offrire subito una casa. L’arcivescovo di Siviglia, poi, favoriva tanto l’Ordine che egli era convinto di rendergli, con quest’iniziativa, un gran piacere. Si convenne dunque che la priora e le religiose che avevo con me per la fondazione di Caravaca venissero destinate a Siviglia. Io, sebbene per vari motivi mi fossi sempre energicamente rifiutata di fondare monasteri riformati in Andalusia (quando partii per Beas, se avessi saputo che apparteneva alla provincia dell’Andalusia, non vi sarei andata in alcun modo; mi trasse in inganno il fatto che il borgo non fa ancora parte dell’Andalusia, il cui confine credo sia quattro o cinque leghe dopo, ma la provincia sì), vedendo che era tale la decisione del mio superiore, mi arresi subito. Nostro Signore, infatti, mi dà la grazia di ritenere che i superiori vedano sempre giusto. E così fu in questa circostanza, pur avendo il fermo proposito di attendere a un’altra fondazione e vari motivi ben gravi per non andare a Siviglia.

5. Ebbero subito inizio i preparativi del viaggio, perché il caldo cominciava ad essere intenso. Il padre commissario apostolico Graziano andò dal Nunzio, che l’aveva chiamato, e noi a Siviglia, con i miei buoni compagni di viaggio, il padre Giuliano d’Avila, Antonio Gaytán e un frate scalzo. Andavamo in carri ben coperti, essendo questo, sempre, il nostro modo di viaggiare. Arrivate alla locanda, prendevamo una stanza – buona o cattiva, come si trovava – e una consorella riceveva alla porta ciò di cui avevamo bisogno, essendo vietato l’accesso in quella stanza anche a coloro che ci accompagnavano.

6. Per quanto ci affrettassimo, non arrivammo a Siviglia che il giovedì precedente alla festa della Santissima Trinità, dopo aver sofferto nel viaggio un caldo tremendo. Difatti, anche se s’interrompeva il cammino durante la siesta, vi assicuro, sorelle, che avendo il sole dardeggiato in pieno sui carri, rientrare in essi era come entrare in una specie di purgatorio. Le mie consorelle, però, ora pensando all’inferno, ora considerando di fare e di patire qualcosa per Dio, viaggiavano piene di gioia e d’allegria. Le sei religiose che venivano con me erano infatti tali anime che io credo che con loro avrei avuto il coraggio di andare anche in terra di Turchi: non sarebbe loro mancata la forza di patire per nostro Signore, o, meglio, gliel’avrebbe data lui, poiché a questo erano rivolti i loro desideri e i loro discorsi, ben esercitate com’erano sia all’orazione sia alla mortificazione. Dovendo rimanere in una regione così lontana, cercai di sceglierle fra quelle che mi sembravano più adatte, precauzione necessaria, con tutte le sofferenze che si dovettero sopportare. Di alcune – e le più gravi – non parlerò, perché potrebbero compromettere qualche persona.

7. La vigilia della Pentecoste, Dio le sottopose a una ben dura prova, mandandomi una fortissima febbre. Credo che le loro pietose voci di supplica a Dio bastarono ad evitare che il male aumentasse, perché mai, nella mia vita, sono stata colpita da una febbre così violenta, senza che durasse ben più a lungo. Fu tale che sembrava che fossi caduta in letargo, tanto ero fuori dei sensi. Esse mi spruzzavano acqua sul viso, ma il sole la rendeva così calda che offriva poco refrigerio.

8. Non tralascerò di dirvi il cattivo alloggio che incontrammo in quella circostanza. Ci fu data una piccola camera, sotto un tetto di tegole, senza assito. Non aveva finestre, e se si apriva la porta, il sole la inondava tutta. Dovete considerare che da quelle parti il sole non è come in Castiglia, ma molto più molesto. Mi fecero coricare su un letto tale che avrei preferito sdraiarmi per terra, perché era tanto alto da una parte e tanto basso dall’altra, che non sapevo come starci: mi sembrava fatto di pietre aguzze. Cos’è mai la malattia! Quando c’è la salute, per lo meno, tutto si sopporta facilmente. In conclusione, ritenni preferibile alzarmi e andarmene da lì con le mie compagne, perché mi sembrava più tollerabile il sole della campagna che il caldo di quello stanzino.

9. Che sarà degli infelici condannati all’inferno, che eternamente non potranno cambiar luogo! Un cambiamento, anche se si passa da una sofferenza a un’altra, sembra sempre essere di un qualche sollievo. A me è accaduto di avere un dolore assai forte in una parte del corpo, e benché poi venissi attaccata da un altro non meno forte in un’altra parte, il cambiamento mi sembrava un sollievo. Così avvenne in questa circostanza. Per quanto mi ricordi, a me non dava alcuna pena vedermi malata; le consorelle ne soffrivano più di me. Piacque al Signore che il male durasse solo quel giorno in tutta la sua violenza.

10. Poco prima – forse due giorni prima – ci era accaduto un altro incidente che ci procurò una certa tensione, mentre attraversavamo su una chiatta il Guadalquivir. Quando si trattò del trasporto dei carri, non fu possibile farlo dov’era teso il cavo, ma si dovette prendere la corrente di traverso, nonostante che il cavo, manovrato anch’esso di traverso, ci desse un po’ d’aiuto. Ma, o perché quelli che lo tenevano se lo lasciarono sfuggire, o non so per quale altro motivo, avvenne che la chiatta andava col carro alla deriva senza cavo né remi. La vista del barcaiolo pieno d’affanno mi affliggeva molto più del pericolo che correvamo. Noi ci mettemmo a pregare, tutti gli altri a lanciare alte grida d’aiuto.

11. Da un castello vicino ci stava guardando un cavaliere il quale, mosso a compassione, ci inviò prontamente soccorso. In quel momento non si era ancora abbandonato il cavo: i nostri compagni lo trattenevano aggrappandovisi con tutte le loro forze, ma la violenza della corrente era tale da trascinarli tutti e darne perfino stramazzare a terra qualcuno. In questa circostanza mi destò davvero profonda commozione un figlio del barcaiolo, che ho sempre presente alla memoria. Poteva avere, mi pare, dieci o undici anni, e quel che egli soffriva nel vedere il dolore del padre mi faceva render lode al Signore. Ma poiché sempre Sua Maestà alle sofferenze unisce la clemenza, ne diede prova anche qui. La chiatta andò a fermarsi su un banco di sabbia, ove l’acqua da una parte era abbastanza bassa, e così fu possibile portarci aiuto. Ci saremmo trovati a mal partito nel rintracciare la strada, se l’uomo accorso dal castello non ci avesse fatto da guida. Non avevo intenzione di entrare in questi particolari, di così poca importanza; avrei avuto molto da dire se avessi dovuto raccontare le disavventure dei miei viaggi. Mi sono dilungata di più in questa perché me ne è stata fatta insistente richiesta.

12. Assai più penoso fu per me il contrattempo che avemmo l’ultimo giorno della Pentecoste. Ci affrettammo di buona lena per arrivare a Cordova la mattina presto e ascoltare la Messa senza che alcuno ci vedesse. Venivamo condotte ad una chiesa posta al di là del ponte per sicurezza di maggiore solitudine. Già stavamo per attraversarlo, quando ci fu detto che non avevamo l’autorizzazione per far passare di lì i carri, autorizzazione che è rilasciata dal governatore. Da allora a quando ci pervenne trascorsero più di due ore, perché la gente era ancora a letto. Frattanto una quantità di persone si avvicinava per cercare di sapere chi fossero quei viaggiatori. Di questo non ci importava molto, perché non potevano vederci, essendo i carri ben coperti. Venuto ormai il permesso, ecco che i carri, risultando più larghi della porta del ponte, non vi entravano. Fu necessario segarli, o non so a quale altro espediente ricorrere, perdendo così altro tempo. Infine, quando giungemmo alla chiesa, dove il padre Giuliano d’Avila doveva celebrare la Messa, la trovammo piena di gente, perché, essendo dedicata allo Spirito Santo – ciò che noi ignoravamo – v’era gran festa con un discorso.

13. A quella vista provai una grande pena; a mio parere era meglio andarcene senza ascoltare la Messa che entrare in quella baraonda. Il padre Giuliano d’Avila non la pensò allo stesso modo, e siccome egli è teologo, dovemmo aderire al suo parere. Gli altri compagni, forse, avrebbero seguito il mio, e avremmo sbagliato in pieno. Tuttavia, non so se mi sarei fidata solo di me. Scendemmo vicino alla chiesa; anche se nessuno poteva vederci in viso, perché portiamo sempre grandi veli calati davanti, bastava la vista di tali veli, delle cappe bianche di bigello, quali sono le nostre, dei nostri poveri sandali ai piedi per mettere in subbuglio tutti. E così infatti fu. Grazie a quell’apprensione, senza dubbio, mi andò via del tutto la febbre, perché fu certamente grande per me e per tutti.

14. Appena entrammo nella chiesa mi si avvicinò un uomo dabbene, per farci largo tra la gente. Lo supplicai di condurci in qualche cappella. Lo fece, ne chiuse l’entrata e non ci lasciò finché non ci ebbe ricondotte fuori della chiesa. Pochi giorni dopo venne a Siviglia e disse a un padre del nostro Ordine che in premi di quella sua buona opera egli pensava di aver avuto da Dio la grazia di ricevere in eredità o in dono una considerevole ricchezza, che non si aspettava davvero. Vi assicuro, figlie mie, che anche se ciò vi sembrerà nulla, fu per me uno dei peggiori momenti della mia vita, perché il subbuglio che faceva quella gente era tale che sembrava stessero per entrare i tori. Pertanto, non vedevo l’ora di lasciare quel luogo; non essendoci nei dintorni un angolo per passare la siesta, la trascorremmo sotto un ponte.

15. Giunte a Siviglia e preso alloggio in una casa che il padre fra Mariano, avvisato del nostro arrivo, aveva affittato per noi, mi pareva che ormai tutto fosse fatto, perché – ripeto – era grande il favore dato agli scalzi dall’arcivescovo, il quale mi aveva scritto qualche volta dimostrandomi molto affetto. Questo non bastò a risparmiarmi grandi sofferenze perché il Signore così permetteva. L’arcivescovo era molto contrario a monasteri di religiose senza rendite, e a ragione. Il male, o per meglio dire, il vantaggio per la riuscita di quell’opera, fu non averlo avvisato. Se glielo avessero detto prima che io mi mettessi in viaggio, sono certa che non avrebbe dato il suo consenso. Ma sia il padre commissario sia il padre Mariano – il quale era assai contento anche lui della mia venuta –, essendo certissimi che con la sorpresa del mio arrivo gli avrebbero procurato una grandissima gioia, non lo avevano preavvisato. Se, pensando di far bene, avessero agito diversamente, avrebbero forse commesso – ripeto – un grande errore. Nelle fondazioni degli altri monasteri quello a cui anzitutto provvedevo era l’autorizzazione dell’Ordinario, come prescrive il sacro Concilio. Qui non solo la consideravamo per data, ma – ripeto – credevamo di rendere una grande servizio all’arcivescovo, ciò che in fondo era vero, come egli stesso ha poi costatato. Ma Dio ha voluto che nessuna fondazione si facesse senza che in un modo o in un altro io non dovessi molto soffrire.

16. Giunte dunque alla casa che, come ho detto, era stata affittata per noi, pensai di prenderne subito possesso, secondo il solito, per poter dire l’Ufficio divino. Senonché il padre Mariano, che risiedeva a Siviglia, cominciò a trovare scuse per ritardare la fondazione. Egli, per non affliggermi, non voleva dirmi tutta la verità. Ma non essendo, le sue, ragioni plausibili, capii dove stava la difficoltà: nella mancanza d’autorizzazione. Egli mi consigliò di accettare la fondazione di un monastero con rendita, o altra cosa del genere, di cui non mi ricordo. Infine, mi disse che l’arcivescovo non aveva piacere che si fondassero monasteri di monache con la sua autorizzazione, né, in tanti anni di episcopato a Siviglia e a Cordova, l’aveva mai concesso ad alcuno, benché gran servo di Dio. Molto meno si sarebbe indotto a concederla per un monastero senza rendite.

17. Questo era come dirmi di rinunziare al monastero, anzitutto perché, anche se avessi potuto fondarlo con rendite, l’avrei fatto molto a malincuore in una città come Siviglia: infatti, dove li avevo fondati con rendite era in piccole località nelle quali o non si fanno fondazioni, o devono essere fatte così, mancandovi qualunque risorsa. In secondo luogo perché dalle spese di viaggio ci era rimasta solo una blanca né avevamo portato altro con noi eccetto i vestiti che indossavamo, qualche tunica, qualche cuffia e la tela che era servita a coprire bene i carri. Per il ritorno di quelli che ci avevano accompagnato si dovette ricorrere a un prestito: ce lo fece un amico che Antonio Gaytán aveva a Siviglia; quanto al denaro che occorreva per sistemare la casa, lo cercò il padre Mariano. La casa, inoltre, non era nostra: la fondazione di un tale monastero era, quindi, impossibile.

18. Cedendo certamente alle vive insistenze di questo padre, l’arcivescovo ci permise di celebrare la Messa il giorno della Santissima Trinità, e fu la nostra prima Messa a Siviglia. Ci fece anche dire di non suonare campane e neppure di metterne, ma era cosa già fatta. Trascorsi così più di quindici giorni in cui mi sentivo decisa, se non fosse stato per un riguardo verso il padre commissario e il padre Mariano, a tornarmene con le mie monache, senza grande rincrescimento, a Beas, per la fondazione di Caravaca. Molto più ebbi a soffrire durante il protrarsi di questa situazione, che non so bene quanto durò, perché ho cattiva memoria, ma credo più di un mese. Dopo, infatti, la partenza era ben più difficile che nel primo momento, perché la notizia del monastero si era ormai divulgata. Il padre Mariano non mi permise mai di scrivere all’arcivescovo: cercava di addolcirlo a poco a poco e gli faceva inviare lettere da Madrid dal padre commissario.

19. Una cosa calmava i miei scrupoli: il fatto che la Messa si era celebrata con il suo permesso e che sempre, nel coro, recitavamo l’Ufficio divino. Non tralasciava di farmi avere visite da parte sua e i farmi sapere che egli sarebbe venuto presto di persona. Ci aveva mandato un sacerdote della sua curia a celebrare la prima Messa. Da ciò capivo bene che quanto accadeva serviva evidentemente solo a procurarmi l’occasione di soffrire. Io, poi, se soffrivo, non era per me né per le mie monache, ma per il padre commissario, il quale era molto addolorato, perché mi aveva ordinato quel viaggio. E lo sarebbe stato ben più ancora, nel caso di un completo fallimento del nostro progetto, come tutto faceva prevedere.

20. Nel frattempo vennero da me anche i padri calzati per sapere attraverso quali vie si fosse fatta la fondazione. Mostrai loro le patenti, che avevo con me, del nostro reverendissimo padre generale. Questo bastò a tranquillizzarli, ma se avessero saputo quale fosse l’atteggiamento dell’arcivescovo, non credo che ciò sarebbe stato sufficiente. Nessuno però ne era al corrente, anzi tutti credevano che la cosa fosse di suo assoluto piacere e gradimento. Finalmente piacque a Dio che l’arcivescovo venisse a vederci. Io gli mostrai quale torto ci arrecasse. Infine mi disse di fare quel che volessi e come volessi. D’allora in poi non ha cessato, in ogni occasione, di beneficiarci e favorirci.

 

CAPITOLO 25

Si continua a parlare della fondazione del glorioso San Giuseppe in Siviglia e di quanto si dovette soffrire per avere una casa propria.

 

1. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che in una città così fiorente come Siviglia, popolata di gente così ricca, ci sarebbero state minori possibilità ai fini di una fondazione, che ovunque io fossi stata. Erano talmente pochi gli aiuti che, a volte, pensavo che non fosse conveniente fondare un monastero in quel luogo. Non so se dipendesse dallo stesso clima del paese, avendo sempre udito dire che i demoni là riescono meglio a operare le loro tentazioni, certamente perché Dio lo permette. Fatto sta che in questo paese io ne fui così assillata che mai in vita mia mi sono sentita più vile e pusillanime di allora, al punto da non riconoscermi io stessa. Anche se non perdevo la fiducia abituale in nostro Signore, la disposizione del mio spirito era così diversa da quella che sono solita avere da quando mi occupo di queste cose, che capivo come Dio avesse ritirato un po’ da me la sua mano per lasciarmi a me stessa e farmi rendere conto che, se avevo coraggio, non veniva da me.

2. Rimasta dunque a Siviglia da quando ho detto fino a poco prima della quaresima, senza che si facesse parola d’acquistare la casa, mancandoci sia il denaro sia qualcuno che garantisse per noi, come altrove (le aspiranti che avevano più volte promesso al padre visitatore apostolico di entrare nel nostro Ordine e che lo avevano pregato di far venire lì le monache, in seguito dovettero, probabilmente, avere l’impressione che il rigore della Regola fosse eccessivo e che non avrebbero potuto sopportarlo, perché ne entrò una sola di cui parlerò più avanti), era ormai giunto il tempo in cui mi ordinarono di lasciare l’Andalusia, dovendo badare ad altri affari da queste parti. A me dispiaceva molto lasciare le mie consorelle senza casa, pur rendendomi ben conto che la mia presenza lì non serviva a nulla, non potendo disporre in tal luogo della grazia che il Signore mi fa qui, di avere qualcuno che aiuti queste opere.

3. Piacque a Dio che arrivasse allora dalle Indie uno dei miei fratelli che era stato là più di trentaquattro anni, il cui nome è Lorenzo de Cepeda. Affliggendosi ancor più di me del fatto che le monache rimanessero senza una casa propria, ci fu di grande aiuto soprattutto nell’adoperarsi a farci comprare quella in cui ora esse si trovano. Io allora rivolgevo già vive istanze a nostro Signore, supplicandolo di non lasciarmi partire senza prima procurar loro una casa ed esortavo le consorelle a chiederlo tanto a lui, quanto al glorioso san Giuseppe. Inoltre facevamo molte processioni e preghiere a nostra Signora. Confidando in tutto questo e vedendo mio fratello deciso ad aiutarci, cominciai le trattative per l’acquisto di alcune case. Ma, quando sembrava che si venisse ad un accordo, tutto andava all’aria.

4. Mentre un giorno, stando in orazione, chiedevo a Dio, visto che si trattava delle sue spose così vivamente desiderose di compiacerlo, di dar loro una casa, mi disse: Vi ho già esaudite, lascia fare a me. Rimasi piena di gioia, sembrandomi ormai di averla, e così fu. Sua Maestà cominciò infatti con l’impedirci di comprarne una che piaceva a tutti per la posizione in cui si trovava, ma era così vecchia e in così cattivo stato che non avremmo comprato altro all’infuori del posto per poco meno di quanto si è pagata la casa che oggi abbiamo. Pur essendone già stato convenuto l’acquisto e mancando solo la stesura del contratto, non ero affatto contenta. Mi sembrava che ciò non rispondesse alle ultime parole da me udite nell’orazione perché, a quanto mi era parso, esse alludevano a una buona casa. Per grazia di Dio, colui che la vendeva, pur guadagnando molto in quell’affare, sollevò qualche difficoltà circa il tempo convenuto per la stesura del contratto. Potemmo così, senza mancare da parte nostra di parola, rompere l’accordo. Ciò avvenne per la grande bontà di nostro Signore, perché alle religiose di quella casa non sarebbe bastata la vita per vedere la fine dei lavori e avrebbero avuto grandi difficoltà e pochi mezzi per venirne a capo.

5. Contribuì molto a questa soluzione un buon servo di Dio che, quasi subito dopo il nostro arrivo, avendo saputo che eravamo senza Messa, veniva a celebrarcela tutti i giorni, nonostante la grande lontananza dalla sua casa e l’enorme caldo. Si chiama Garciálvarez, persona molto dabbene e stimata nella città per le buone opere che faceva, non occupandosi d’altro. Se egli fosse stato ricco, non ci sarebbe mancato nulla. Conoscendo bene la casa, riteneva una vera pazzia pagarla così cara, e ce lo ripeteva ogni giorno, si può dire, finché ottenne che non se ne parlasse più. Andarono, lui e mio fratello, a vedere quella dove stanno oggi le nostre consorelle. Tornarono così entusiasti, e a ragione, che in due o tre giorni, con l’aiuto del Signore che ne voleva l’acquisto, fu steso il contratto.

6. Ma il trasferirci in essa non ci costò poche difficoltà, sia perché la persona che l’occupava non voleva uscirne, sia perché i frati francescani, che abitavano lì vicino, vennero subito a intimarci di non entrarvi in nessun modo. Se il contratto non fosse stato regolarmente stipulato, avrei ringraziato il Signore di poterlo annullare, perché ci vedemmo esposte al pericolo di dover pagare seimila ducati, cioè il prezzo della casa, senza poterla abitare. La priora, peraltro, non era del mio parere e rendeva lode a Dio della mancata possibilità di rescindere il contratto. Sua Maestà le dava certo maggior fede e coraggio che a me nei riguardi di quella casa, e ne deve avere così per tutto il resto, essendo assai più virtuosa di quanto non lo sia io.

7. Restammo più di un mese con questa pena. Alla fine, piacque a Dio che la priora, io e altre due monache riuscissimo a trasferirci lì di notte, perché i frati non se ne accorgessero fino alla presa di possesso, con molta paura. Quelli che ci accompagnavano dicevano che sembrava loro di veder frati in ogni ombra. Allo spuntar del giorno il buon Garciálvarez, che era venuto con noi, vi celebrò la prima Messa. Così la nostra paura scomparve.

8. Oh, Gesù! Quante paure ho avuto in queste prese di possesso! Mi vien fatto di pensare che se si trema tanto, quando, lungi dal fare il male, ci si dedica al servizio di Dio, che sarà delle persone che hanno di mira il male, essendo contro Dio e contro il prossimo? Non so che guadagno possano averne né che piacere trovarci con un tal contrappeso.

9. Mio fratello non era a Siviglia, essendosi rifugiato in un luogo santo, perché, nella fretta di stendere il contratto, era sfuggito un errore assai pregiudizievole per il monastero. Siccome egli garantiva per noi, volevano metterlo in prigione, senza poi dire che la sua qualità di straniero avrebbe potuto farci avere molte noie. Malgrado tutto, ne dovemmo subire parecchie, finché non diede una certa somma che servì di garanzia. Così, la vendita andò bene benché, per nostra maggiore sofferenza, per qualche tempo si dovesse far fronte a una causa. Restammo chiuse in alcune stanze a pianterreno, mentre mio fratello stava tutto il giorno con gli operai e provvedeva al nostro mantenimento già da molto tempo: siccome non tutti sapevano che lì vi fosse un monastero, per il fatto che stavamo in una casa privata, le elemosine erano poche. L’unica assistenza ci veniva da un santo vecchio, priore della Certosa de las Cuevas, gran servo di Dio. Originario di Avila, apparteneva alla famiglia dei Pantoja. Dio gli ispirò così vivo affetto per noi che da quando arrivammo è sempre stato – e credo che non cesserà di esserlo finché avrà vita – il nostro benefattore in tutti i modi possibili. Siccome è giusto che, leggendo questo scritto, raccomandiate a Dio, sorelle, coloro che ci hanno aiutato con tanta carità, siano vivi o morti, ne parlo qui. A questo sant’uomo dobbiamo molto.

10. Passammo così più di un mese, a quanto credo, perché in fatto di date ho una cattiva memoria, pertanto potrei sbagliare; dovete sempre ritenere approssimativa la mia indicazione; il che, del resto, ha poca importanza. Per un mese dunque mio fratello si adoperò molto ad adattare alcune stanze a cappella e a sistemare ogni cosa in modo che noi non dovevamo occuparci di nulla.

11. Finito tutto, avrei voluto che il santissimo Sacramento si ponesse nella cappella senza richiamare l’attenzione, ripugnandomi molto contristare chiunque, quando è possibile evitarlo. Pertanto lo dissi al padre Garciálvarez, ed egli ne parlò con il padre priore de las Cuevas. Se si fosse trattato dei loro propri interessi, non ne avrebbero avuto maggior cura di quanta ne avevano per i nostri. A loro giudizio, perché il monastero godesse di notorietà in Siviglia, bisognava che la cerimonia avesse la dovuta solennità. Andarono, così, a consultarsi con l’arcivescovo e decisero di comune accordo di portare al monastero da una parrocchia il santissimo Sacramento con grande solennità. L’arcivescovo ordinò che vi partecipasse il clero con varie confraternite e che si ornassero le strade.

12. Il buon Garciálvarez decorò il nostro chiostro che – come ho detto – allora serviva da passaggio esterno, e la cappella con estrema cura; fece erigere bellissimi altari e ricorse a ingegnose invenzioni. Fra le altre sue trovate c’era una fontana da cui sgorgava acqua di fiori d’arancio, senza che noi vi intervenissimo per nulla e neanche ne avessimo espresso il desiderio, anche se poi c’ispirò molta devozione. Ci fu motivo di grande conforto l’organizzazione così solenne della festa, con tale splendido addobbo delle strade, con tanta musica e tanti suonatori, che il santo priore de las Cuevas mi disse di non aver mai visto in Siviglia nulla di simile; da ciò fu evidente che era opera di Dio. Egli, contrariamente alla sua abitudine, prese parte alla processione. L’arcivescovo attese personalmente a collocare il santissimo Sacramento nel ciborio. Vedete con questo, figlie mie, quanto onore fu reso alle povere scalze, per le quali poco tempo prima sembrava che non ci fosse neanche l’acqua, benché il fiume ne abbondi. Il concorso della gente fu enorme.

13. Accadde inoltre un fatto che, a detta di tutti quelli che vi assisterono, destò viva sorpresa. Si erano sparati una quantità di mortaretti con grandi razzi; finita la processione quasi al calar della notte, a qualcuno venne in mente di spararne ancora: non so come, prese fuoco un po’ di polvere e fu causa di enorme stupore che rimanesse illeso chi la portava. La fiamma salì fino alla parte alta del chiostro, i cui archi erano ricoperti di taffettà. Tutti pensarono che la stoffa si fosse ridotta in cenere mentre non subì alcun danno, neppure minimo, benché fosse di color giallo e rosso acceso. E ciò che ritengo ancor più sbalorditivo è che la pietra degli archi, sotto il taffettà, restò nera a causa del fumo, mentre il taffettà che la ricopriva fu immune da danni, come se il fuoco non l’avesse sfiorato.

14. A questa vista tutti restarono sbigottiti e le monache ne resero lode a Dio perché non avevano di che pagare altro taffettà. Il demonio doveva essere così irritato di tutta quella solennità e così deluso di vedere ormai fondata un’altra casa di Dio, che voleva in qualche modo vendicarsi. Ma Sua Maestà non glielo permise. Sia egli benedetto per sempre! Amen.

 

CAPITOLO 26

Continua a parlare della fondazione del monastero di San Giuseppe nella città di Siviglia. Dice alcune cose di grande rilievo riguardanti la prima religiosa che vi entrò.

 

1. Potete ben immaginarvi, figlie mie, quale sia stata quel giorno la nostra gioia. Ero felice soprattutto di vedere che lasciavo le consorelle in una casa così comoda e ben situata, che il monastero era conosciuto e che ospitava religiose fornite di dote con cui si poteva pagare, in gran parte, il prezzo della casa: per piccola che fosse stata la dote di quelle che ne avrebbero completato il numero, si sarebbe estinto il debito. Ma la mia gioia più grande era il pensiero che, dopo aver tratto dei vantaggi dalle sofferenze di quella fondazione, me ne andavo nel momento in cui si poteva avere un po’ di riposo, perché questa festa ebbe luogo la domenica precedente alla Pentecoste dell’anno 1576. Il lunedì successivo partii, visto che cominciava a esserci già un gran caldo e che volevo evitare, possibilmente, di viaggiare durante quelle feste, per trascorrere a Malagón, ove avrei desiderato potermi fermare qualche giorno: per questo mi ero data gran fretta.

2. Dio non permise che ascoltassi nemmeno una sola volta la Messa nella nostra cappella. La mia partenza raffreddò molto l’entusiasmo delle consorelle, le quali ne provarono vivo dolore, perché eravamo state insieme tutto quell’anno e insieme avevamo sofferto tante tribolazioni di cui – come ho detto – tralascio le più gravi. Esse furono tali che, escludendo la prima fondazione, quella di Avila – che non trova confronti –, nessuna, credo, mi è costata tanto come questa, perché si trattò, per la maggior parte, di sofferenze interiori. Piaccia alla divina Maestà di esservi sempre fedelmente servito! Se questo ne è il risultato, come spero che sarà, tutto il resto è niente. Sua Maestà infatti vi ha già condotto anime di gran virtù. Di quelle che avevo portato con me ne restarono cinque, dei cui meriti vi ho già detto qualcosa, in verità la più piccola parte di quel che ci sarebbe da dire. Ora voglio parlare della prima, perché sono sicura che vi farà piacere ascoltarmi.

3. È figlia di genitori religiosissimi; il padre è originario della montagna. Ancora assai piccola, all’incirca di sette anni, una zia l’aveva chiesta alla madre per tenerla con sé, non avendo figli. Quando la ebbe nella sua casa, ove la colmava di attenzioni, dimostrandole così l’amore che era giusto nutrisse per lei, le tre donne di servizio di quella casa se ne adombrarono. Esse, prima dell’arrivo della bambina, evidentemente avevano sperato di ereditare i beni della padrona. Ma era chiaro che ella, affezionandosi alla nipote, avrebbe nominato lei sua erede. Decisero di impedire tale pericolosa eventualità architettando una trama diabolica. Accusarono la bambina di voler uccidere la zia e di aver dato, a tal fine, non so quanti denari a una di esse perché le comprasse un po’ di sublimato corrosivo. Quando lo dissero alla zia, siccome tutt’e tre affermavano la stessa cosa, ella non esitò a crederlo, e la madre della bambina, donna di grande virtù, fece altrettanto.

4. Andò a prenderla e la ricondusse a casa, persuasa che venisse su con pessime inclinazioni. Beatriz de la Madre de Dios – questo è ora il suo nome – mi raccontava di aver passato più di un anno in cui ogni giorno la madre la picchiava violentemente, la torturava e la obbligava a dormire sulla nuda terra, per farle confessare la sua orribile colpa. Poiché la fanciulla insisteva a dichiararsi innocente, affermando di non sapere neanche che cosa fosse il sublimato, la madre, vedendo che aveva il coraggio di persistere nel diniego, la giudicò ancora più perversa. Quella povera donna era desolata nel costatare la sua ostinazione, ritenendola ormai incorreggibile. Fu molto se, per sottrarsi a quei tormenti, la bambina non finisse per confessarsi colpevole. Ma, siccome era innocente, Dio le diede la forza di dire sempre la verità. Inoltre egli, che protegge chi è innocente, mandò a due di quelle donne un male così orribile, che sembravano affette da rabbia. Esse allora fecero chiamare segretamente dalla zia la bambina e le chiesero perdono; infine, vedendosi in punto di morte, ritrattarono tutto; altrettanto fece la terza, morendo di parto. Così tutt’e tre spirarono fra i tormenti, come punizione di quello che avevano fatto soffrire a un’innocente.

5. Questo io non lo so soltanto da lei, perché sua madre, dopo che la vide farsi suora, tormentata dal rimorso dei maltrattamenti a cui l’aveva sottoposta, me lo raccontò con maggiori particolari relativi ai suoi molti martiri. Non avendo ella altri figli ed essendo così buona cristiana, Dio permise che diventasse il carnefice della propria unica figlia, che pur amava moltissimo. È una donna assai sincera e profondamente religiosa.

6. Quando la fanciulla ebbe poco più di dodici anni, la lettura di un libro sulla vita di sant’Anna le ispirò una grande devozione per i santi del Monte Carmelo, perché vi si dice come la madre di sant’Anna, che mi pare si chiamasse Emerenziana, andasse spesso a trovarli. Da ciò prese tanta affezione a quest’Ordine di nostra Signora che, promettendo subito di entrarvi come religiosa, fece voto di castità. Appena poteva si ritirava gran tempo in solitudine e si dedicava all’orazione. Durante questa, Dio e nostra Signora le concedevano grandi grazie particolari favori. Ella avrebbe voluto subito farsi suora, ma non osava decidersi a causa dei suoi genitori; né, d’altronde, sapeva dove trovare l’Ordine da lei desiderato. Ed è cosa da notare che, essendoci in Siviglia un monastero carmelitano della Regola mitigata, ella non lo venisse mai a sapere, finché non ebbe notizia di questi nostri, cioè molti anni dopo.

7. Giunta a un’età in cui si poteva farla sposare, i suoi genitori predisposero per lei un progetto di matrimonio, benché fosse ancora molto giovane. Essi non avevano che quella figlia, perché tutti i suoi fratelli erano morti e non era rimasta che lei, la meno amata. Quando le accadde ciò che ho detto aveva ancora un fratello il quale la difendeva, sostenendo che non bisognava credere a quell’accusa. Presi dunque ormai tutti gli accordi per il matrimonio, essendo i suoi genitori lontani dal pensare che ella avesse altre aspirazioni, quando glielo dissero rispose che aveva fatto voto di non sposarsi e che in nessun modo vi avrebbe mancato, neppure se l’avessero uccisa.

8. Fosse il demonio che li accecasse, o Dio che lo permettesse per fare di lei una martire, sta di fatto che essi attribuirono il rifiuto a qualche sua cattiva azione. Avendo, poi, già data la loro parola, al pensiero dell’offesa che si recava all’altro, le diedero un’infinità di percosse e le inflissero una quantità di supplizi, fino a farla pendere dall’alto, tanto che fu un miracolo se non morì strangolata. Le salvò la vita Dio, il quale la riservava a grandi cose. Ella mi ha raccontato che, tenendo presente quello che aveva sofferto sant’Agnese, il cui esempio le fu richiamato alla memoria dal Signore, godeva di patire qualcosa per lui e non cessava di fargliene offerta. Si pensò che sarebbe morta, perché rimase tre mesi a letto senza potersi muovere.

9. È incredibile che una ragazza che non si staccava mai dalla madre, il cui padre, come poi seppi, era tanto vigilante, potesse apparire ai loro occhi così colpevole. Inoltre aveva sempre dimostrato d’essere assai virtuosa, onesta e talmente caritatevole, che quanto poteva procurarsi era da lei destinato alle elemosine. Ma allorché nostro Signore vuol dare a qualcuno la grazia di soffrire, dispone di molti mezzi per farlo. Comunque, dopo alcuni anni, Dio volle che i genitori arrivassero a conoscere la virtù della loro figlia, tanto da concederle quanto voleva per farne elemosine. Le persecuzioni si cambiarono in dimostrazioni di affetto, anche se a lei, per il vivo desiderio che aveva di essere religiosa, tutto ciò riuscisse gravoso, ragion per cui era sempre crucciata e afflitta, com’ella stessa ebbe a dirmi.

10. Tredici o quattordici anni prima che il padre Graziano si recasse a Siviglia, quando ancora non c’era idea lì di carmelitani scalzi, accadde che, mentre ella stava con suo padre, sua madre e due vicine, entrasse da loro un frate del nostro Ordine vestito di bigello e a piedi nudi, come lo sono oggi i nostri padri. Dicono che avesse un aspetto fresco e venerabile, anche se era tanto vecchio che la sua lunga barba sembrava fatta di fili d’argento. Si mise vicino a lei e cominciò a dirle qualche parola in una lingua che non fu intesa né da lei né da nessuno. Finito di parlare, le fece tre volte il segno della croce, dicendole: «Beatriz, Dio ti renda forte!». E se ne andò. Finché restò lì, nessuno si mosse, essendo tutti come sbigottiti. Il padre le domandò chi fosse, mentre ella aveva creduto che si trattasse di una persona conosciuta da lui. Si alzarono subito per richiamarlo, ma non lo si vide più. Beatriz ne rimase assai consolata; gli altri, invece, erano fuori di sé dallo stupore, vedendo in ciò qualcosa di soprannaturale; così, come si è detto, presero ormai a stimarla molto. Durante i lunghi anni trascorsi dopo tale avvenimento, credo quattordici, ella attese sempre a servire il Signore, supplicandolo di esaudire il suo desiderio.

11. Mentre l’attesa le procurava gran pena, giunse là il padre maestro fra Girolamo Graziano. Un giorno che era andata in una chiesa [del convento] di Triana ove abitava suo padre, per ascoltare una predica, senza sapere chi fosse il predicatore, che era appunto il padre maestro Graziano, lo vide uscire per ricevere la benedizione. Non appena scorse il suo abito e i suoi piedi nudi, le venne subito in mente il vegliardo da lei visto, perché l’abito era lo stesso, anche se l’aspetto e l’età erano assai diversi, in quanto il padre Graziano non aveva ancora trent’anni. Mi ha raccontato che, a causa della straordinaria gioia da cui fu presa, rimase come tramortita. Benché avesse sentito dire che in Triana era sorto un convento, non sapeva che fosse di quell’Ordine. Da quel giorno in poi cercò subito di confessarsi dal padre Graziano, e anche questo Dio volle che le costasse molto, perché almeno dodici volte, se non più, vi andò senza la volesse confessare. Siccome era giovane e di bell’aspetto – non doveva avere allora neanche ventisette anni –, egli si rifiutava d’ascoltarla: riservato com’è, rifuggiva dal trattare con tali persone.

12. Finalmente un giorno Beatriz, anch’ella molto riservata, mentre stava piangendo nella chiesa, si sentì chiedere da una donna che cosa avesse. Le rispose che da tanto tempo cercava di parlare con quel padre che allora stava confessando, senza potervi riuscire. Quella, pertanto, la condusse da lui e lo pregò di ascoltarla. In tal modo, Beatriz riuscì a fargli la sua confessione generale. Egli, vedendo un’anima così ricca, ne provò grande consolazione e la confortò a sua volta col dirle che probabilmente le carmelitane scalze sarebbero venute a Siviglia, e che egli si sarebbe adoperato perché l’accogliessero subito fra loro. E fu così: quello che anzitutto mi ordinò, infatti, fu di ricevere lei prima d’ogni altra, perché era molto soddisfatto della sua anima, preavvisando poi lei del nostro arrivo. Ella prese tutte le precauzioni perché non ne venissero a conoscenza i suoi genitori, altrimenti non avrebbe avuto modo di entrare nel monastero. Pertanto il giorno della Santissima Trinità congedò le donne di servizio che solevano accompagnarla (quando usciva per confessarsi sua madre non andava con lei, essendo molto lontano il convento degli scalzi dov’ella si recava sempre per la confessione e dove faceva grandi elemosine anche a nome dei suoi genitori); si era messa d’accordo con una gran serva di Dio che venisse a prenderla e disse alle sue accompagnatrici (essendo tale persone ben conosciuta in Siviglia per le sue virtù e le sue buone opere) che ella le avrebbe raggiunte subito. Così, la lasciarono andare. Prese quindi il suo abito e il suo mantello di rozzo panno; io non so come potesse muoversi con quel peso, ma la gioia che aveva le rendeva tutto facile. Temeva solo qualche eventuale impedimento, se si fosse capita la ragione di quel carico così inconsueto, essendo solita uscire in ben altre condizioni. Che cosa non fa l’amore di Dio! Ella ormai, lungi dal preoccuparsi dell’onore del mondo, era in pensiero solo per il timore d’essere ostacolata nel compimento dei suoi desideri. Le aprimmo subito la porta e io mandai immediatamente ad avvertire la madre. Giunse come fuori di sé, ma poi disse di riconoscere la grazia che Dio faceva a sua figlia. E così, sia pure a fatica, vi si rassegnò, non abbandonandosi a quegli eccessi cui si lasciano andare altre madri, che non vogliono più parlare alle figlie, ma rimanendo inalterata. Cominciò anche lei a darci generose elemosine.

13. La sposa di Gesù Cristo cominciò allora a godere della felicità tanto a lungo desiderata. Era così umile e disposta ad assumersi il carico di tutti i lavori, che bisognava faticare per toglierle di mano la scopa. Pur essendo abituata nella sua casa a ogni sorta di comodità, tutto il suo riposo era lavorare. La grande gioia che le inondava il cuore non tardò a farla ingrassare notevolmente. I suoi genitori ne furono così contenti, che ormai gioivano di vederla lì.

14. Due o tre mesi prima della sua professione, affinché non godesse di tanto bene senza qualche patimento, ebbe fortissime tentazioni, non perché non volesse farla, ma perché le sembrava un impegno assai difficile. Dimentica ormai di tutti gli anni di sofferenze che le era costato il bene di cui si trovava in possesso, si sentiva così tormentata dal demonio che non riusciva a difendersi. Ciò nonostante, facendosi una gran forza, riportò su di lui una tale vittoria che proprio in mezzo ai suoi tormenti prese tutti gli accordi relativi alla sua professione. Nostro Signore, il quale certamente non attendeva che questa prova della sua fermezza, tre giorni prima della professione, la visitò consolandola in modo assai particolare e mise in fuga il demonio. Ne restò così piena di gioia che in quei tre giorni sembrava fuori di sé per la felicità, e ben a ragione, perché la grazia da lei ricevuta era stata assai grande.

15. Essendole morto il padre pochissimo tempo dopo il suo ingresso nel monastero, anche sua madre prese in esso l’abito, dando tutto quello che aveva. Ora madre e figlia, entrambe con grandissima gioia ed edificazione di tutte le religiose, attendono a servire colui che le ha favorite di così straordinaria grazia.

16. Non era passato ancora un anno quando venne da noi un’altra ragazza, anche lei contro il volere dei suoi genitori. Così il Signore va popolando questa sua casa di anime tanto desiderose di servirlo, che non può esser loro d’ostacolo il rigore della Regola né della clausura. Sia egli per sempre benedetto e lodato! Amen.

 

CAPITOLO 27

In cui si tratta della fondazione del monastero di Caravaca, sotto il patronato del glorioso san Giuseppe. Vi si pose il santissimo Sacramento il 1° gennaio dell’anno 1576.

 

1. Mentre ero a San Giuseppe di Avila, pronta a partire per la fondazione di Beas, di cui si è parlato, e non mancava altro che preparare i carri che dovevano trasportarci, arrivò un corriere personale inviato da una signora di Caravaca, chiamata donna Catalina: dopo aver ascoltato la predica di un padre della Compagnia di Gesù, tre ragazze erano andate a casa sua, risolute a non uscirne finché non si fosse fondato un monastero nella loro città. Evidentemente era una cosa già convenuta con questa signora, avendole poi lei aiutate nella fondazione. Appartenevano alle più distinte famiglie di Caravaca: il padre di una di esse era Rodrigo de Moya, gran servo di Dio e uomo di rara prudenza. Tutt’e tre avevano beni a sufficienza per aspirare a mettere in atto una tale iniziativa. Erano al corrente di quanto il Signore aveva fatto nella fondazione di questi nostri monasteri, perché le avevano informate i padri della Compagnia di Gesù, che hanno sempre favorito e aiutato la nostra opera.

2. Di fronte alla fervente aspirazione di quelle anime, che invocavano da così lontano l’Ordine di nostra Signora, mi sentii presa da devozione e animata dal desiderio di aiutare il loro lodevole intento. Saputo che Caravaca era vicina a Beas, aumentai il numero delle religiose che dovevano accompagnarmi con il proposito di recarmi là, appena fatta la fondazione di Beas, perché – giudicando dalle lettere ricevute – mi sembrava che sarebbe stato facile venire a un accordo. Ma, avendo il Signore deciso altrimenti, i miei disegni andarono in fumo. Come ho detto infatti nella fondazione di Siviglia, l’autorizzazione del Consiglio degli Ordini era formulata in tal modo che, sebbene io fossi decisa a partire per Caravaca, dovetti rinunciarvi.

3. È anche vero che, essendomi informata a Beas dove si trovasse questa città ed avendo saputo che era assai fuori mano e che la strada per andare dall’una all’altra località era così cattiva che sarebbe stato ben gravoso recarvisi per far visita alla religiose, senza poi dire che i superiori ne sarebbero stati scontenti, avevo ben poca voglia d’intraprendere quella fondazione. Ma, siccome avevo dato buone speranze, pregai il padre Giuliano d’Avila e Antonio Gaytán di andar lì a vedere come stessero le cose e, se lo ritenessero opportuno, di annullare le trattative. Essi trovarono che l’affare si era molto raffreddato, non da parte delle aspiranti, ma di donna Catalina che ne era stata l’anima, tenendo le giovani in un’abitazione separata come fosse già un ritiro.

4. Le postulanti, essendo irremovibili nel loro proposito, specialmente quelle due che sarebbero effettivamente diventate religiose, riuscirono a conquistarsi così bene il favore del padre Giuliano d’Avila e di Antonio Gaytán, che essi, prima di partire, stipularono il contratto e le lasciarono piene di gioia. A loro volta, i nostri coadiutori ritornarono così soddisfatti, sia delle postulanti, sia del paese, che non finivano di dirlo, come anche non finivano di dire che le strade erano pessime. Io, vedendo che l’affare era concluso e che l’autorizzazione tardava a giungere, mandai di nuovo là il buon Antonio Gaytán, il quale per amor mio accettava volentieri qualsiasi fatica. Inoltre, tanto lui quanto il padre Giuliano avevano a cuore questa fondazione e, in verità, di essa si può ringraziare loro, perché se non fossero andati lì e non avessero sistemato tutto, io avrei messo ben poco.

5. Gli chiesi di far porre la ruota e le grate nella casa che doveva servire per la presa di possesso e in cui dovevano stare le monache fino a che si fosse trovata un’abitazione conveniente. Così egli si trattenne là molti giorni. Fu Rodrigo de Moya, che – come ho detto – era padre di una di queste ragazze, a cederci assai volentieri parte della sua casa. E per sistemare questa faccenda, ripeto, a Gaytán occorsero vari giorni.

6. Ottenuta l’autorizzazione, mentre ero già in partenza per Caravaca, seppi che, in base a quanto vi era scritto, la casa sarebbe stata alle dipendenze dei Commendatori, cui le monache dovevano obbedienza, condizione che non potevo accettare, trattandosi di un monastero di nostra Signora del Carmine. Fu necessario, pertanto, chiedere una nuova autorizzazione, altrimenti neanche questo monastero, come già quello di Beas, si sarebbe fondato. Ma avendo scritto al re, lo stesso di ora, don Filippo, egli mi usò la grande benevolenza di ordinare che mi si inviasse l’autorizzazione nella forma desiderata. Disposto com’è a favorire i religiosi di cui conosce la fedeltà alla loro professione, avendo conosciuto il genere di vita che si conduce in questi monasteri nei quali si osserva la Regola primitiva, non ci ha mai fatto mancare il suo appoggio. Per questo vi raccomando vivamente, figlie mie, di pregare sempre in particolare per lui, come ora facciamo.

7. Poiché, dunque, bisognava chiedere una nuova autorizzazione, me ne andai alla volta di Siviglia per ordine del padre provinciale che, come ho detto, era allora, come anche ora, il maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio. Pertanto quelle povere figlie rimasero chiuse fino al primo gennaio dell’anno seguente, e il messaggio che mi avevano inviato ad Avila datava dal febbraio. L’autorizzazione arrivò assai presto, ma siccome io ero così lontana e impelagata in tante difficoltà, non potevo occuparmene e ne avevo gran pena, perché mi scrivevano spesso con accenti di profondo dolore: non si poteva, quindi, lasciarle ancora in quella situazione.

8. Essendomi impossibile andare io personalmente, sia perché troppo lontana, sia perché la fondazione di cui mi occupavo non era ancora ultimata, il padre maestro fra Girolamo Graziano, il quale – come si è detto – era visitatore apostolico, decise che le religiose destinate a quella fondazione, rimaste frattanto a San Giuseppe di Malagón, andassero lì anche senza di me. Provvidi a dar loro come priora una consorella della cui capacità di assolvere perfettamente questo compito avevo piena fiducia, perché era assai migliore di me. Così partirono, fornite di tutto il necessario e accompagnate da due dei nostri padri scalzi, essendosene andati già da vari giorni il padre Giuliano d’Avila e Antonio Gaytán, che avevano fatto ritorno ai loro paesi; trovandosi essi così lontani, non volli richiamarli, tanto più che il tempo era pessimo, perché si era alla fine di dicembre.

9. Giunte lì, furono ricevute con grande gioia dalla gente del luogo, specialmente dalle giovani che stavano rinchiuse. Il giorno del nome di Gesù dell’anno 1576 fu posto il santissimo Sacramento e il monastero fu fondato. Subito le due postulanti presero l’abito. La terza era molto affetta da malinconia: probabilmente le nuoceva la clausura; che mai avrebbe fatto sottoponendosi a una Regola di tanto rigore e di tanta penitenza come la nostra? Decise quindi di tornare a casa sua e vivere con una sorella.

10. Considerate ora, figlie mie, i giudizi di Dio e l’obbligo che abbiamo di servirlo noi, a cui egli ha dato la grazia di perseverare fino alla professione e di restare per sempre nella sua casa come figlie della Vergine. Sua Maestà si servì dei desideri e dei beni di questa giovane donna per la fondazione del monastero. E quando ella avrebbe dovuto godere di quello che aveva tanto desiderato, le mancò il coraggio e soggiacque al suo malinconico umore, su cui spesso facciamo ricadere la colpa delle nostre imperfezioni e della nostra incostanza.

11. Piaccia a Sua Maestà di concederci l’abbondanza della sua grazia, con la quale nulla potrà sbarrarci la strada per impedirci di progredire sempre nel suo servizio, e accordare a tutte difesa e protezione, affinché non vada distrutta, per la nostra miseria, un’opera che ha avuto inizi tanto felici, e per la quale egli ha voluto servirsi di donne così miserabili come noi. Vi chiedo in suo nome, sorelle e figlie mie, di supplicarne sempre nostro Signore. Inoltre, ognuna di quelle che ci succederanno pensi che in lei comincia a rifiorire questa prima Regola dell’Ordine della Vergine nostra Signora e che in nessun modo si deve permettere alcun rilassamento. Badate che le cose più piccole aprono la porta a quelle assai grandi e che, insensibilmente, il mondo potrebbe farsi strada in voi. Ricordatevi a prezzo di quale povertà e di quali difficoltà si è conseguito il bene di cui voi oggi godete in tutta pace; inoltre, se ci riflettete bene, vedrete che queste case, per la maggior parte, non sono state fondate dagli uomini, ma dalla mano potente di Dio, e che Sua Maestà si compiace molto di far progredire sempre le sue opere, se non manchiamo di corrispondergli. Come pensate che una donna misera come me, soggetta ad altri, senza avere neanche un soldo né alcuno che la favorisse di qualche soccorso, potesse essere capace d’intraprendere cose tanto difficili? Questo mio fratello che poi contribuì alla fondazione di Siviglia e che possedeva qualcosa, ma soprattutto coraggio e cuore per darmi un po’ d’aiuto, allora stava nelle Indie.

12. Guardate, guardate, figlie mie, il segno della mano di Dio. non sarà stato certo l’esser io di sangue nobile a procurarmi questo onore. Sotto qualunque aspetto vogliate considerare la cosa, riconoscerete che è opera sua. Non è giusto, quindi, da parte nostra, menomarla in nulla, dovesse pur costarci la vita, l’onore, il riposo, tanto più che qui troviamo tutti i beni riuniti. La vita, infatti, è vivere in modo da non temere la morte né qualunque evento del mondo, godere di questa continua allegria che è ora in tutte voi, e di questa prosperità, a cui nessuna è pari, che consiste nel non aver paura della povertà, anzi, desiderarla. E c’è forse qualcosa a cui si possa paragonare la pace interiore ed esteriore che vi accompagna sempre? È in vostro potere vivere e morire in essa, come vi dimostra la morte di quelle fra noi che abbiamo visto spirare nelle nostre case. Se infatti pregherete sempre Dio di far progredire quest’opera e diffiderete di voi stesse, egli non vi negherà la sua misericordia. Se riporrete in lui la vostra fiducia e avrete un animo coraggioso – perché Sua Maestà ama proprio questo –, non abbiate a temere che vi manchi alcunché. Non rifiutate mai di accogliere quelle che verranno a chiedervi di entrare fra voi – qualora siate soddisfatte dei loro desideri e delle loro attitudini, e vediate che non vengono per sistemarsi, ma per servire Dio con maggior perfezione – per il fatto che non posseggono beni di fortuna. Basta che siano ricche di virtù, giacché Dio provvederà per altra via a darvi il doppio di quello che con la loro dote avreste potuto procurarvi.

13. A questo riguardo ho molta esperienza. Sua Maestà sa bene che – da quanto posso ricordare – non ho mai rifiutato di accogliere, per mancanza di dote, alcuna postulante che riguardo a tutto il resto mi lasciasse soddisfatta: ne fanno testimonianza le molte religiose che sono state ricevute solo per amor di Dio. E vi posso assicurare che, accogliendo chi portava molto al monastero, la mia gioia era assai inferiore a quella che provavo quando accettavo postulanti unicamente per l’amore di Dio. Anzi, le postulanti ricche m’ispiravano paura, mentre quelle povere mi allargavano il cuore e mi procuravano un tale piacere che piangevo di gioia. È la pura verità.

14. Se, dunque, con questo modo d’agire ci è andata così bene quando ancora dovevamo comprare le case e fare tutto il resto, ora che abbiamo dimore in cui vivere sicure, perché dovremmo comportarci diversamente? Credete a me, figlie mie: dove pensereste di guadagnare, perdereste. Quando le novizie hanno beni e sono libere da qualsiasi obbligo, invece di darli ad altri, che forse non ne hanno bisogno, è giusto che ve li diano in elemosina, perché confesso che mi sembrerebbe una mancanza d’amore se non lo facessero. Ma abbiate sempre cura che chi entrerà fra voi disponga di quanto possiede secondo quello che le consiglieranno uomini dotti come rispondente a maggior gloria di Dio: sarebbe infatti molto male pretendere beni da chiunque d’esse, senza aver di mira questo fine. Guadagniamo molto di più dal fatto che ella compia il suo dovere verso Dio – intendo dire con maggiore perfezione – che da quanto ci può portare in casa. Tutte noi, pertanto, non dobbiamo aspirare ad altro. Il Signore ci preservi da ambizioni diverse da quella di servire Sua Maestà in tutto e per tutto!

15. Per quanto miserabile e dappoco, vi dirò una cosa a onore e gloria di Dio, e per darvi la gioia di sapere in che modo si sono fatti questi monasteri: se, nelle trattative per le fondazioni o in ogni altra cosa che le riguardasse, avessi dovuto, per riuscirvi, deviare alquanto da questa purezza d’intenzione, in nessun modo avrei voluto continuare. Difatti nulla ho compiuto – ripeto, in tali fondazioni – che mi paresse scostarsi, sia pure d’un punto, dalla volontà del Signore (seguendo i consigli dei miei confessori, i quali, come sapete, sono stati sempre, da quando mi occupo di queste cose, uomini assai dotti ed eccellenti servi di Dio), né – per quel che ricordo – ho mai pensato di comportarmi diversamente.

16. Può darsi che m’inganni, che abbia commesso molti errori senza rendermene conto e che le mie imperfezioni siano innumerevoli. Lo sa nostro Signore, che è il vero giudice; io dico quello che ho potuto capire da me. E, d’altronde, so perfettamente che tali disposizioni non venivano da me, ma dal fatto che Dio voleva la realizzazione di quest’opera e, riguardandola come cosa sua, mi accordava il suo favore e mi elargiva tale grazia. Lo dico, figlie mie, nell’intento di farvi conoscere quanto maggiori siano i vostri obblighi verso di lui e farvi sapere che finora questi monasteri sono stati fondati senza pregiudizio di alcuno. Sia benedetto colui che ha fatto tutto ciò, suscitando la carità delle persone che ci hanno aiutato! Piaccia a Sua Maestà proteggerci sempre e concederci la grazia di non mostrarci ingrate verso tanti favori ricevuti! Amen. *

17. Avete dunque visto, figlie mie, che abbiamo dovuto sopportare non poche fatiche, benché credo che quelle da me riferite siano il minor numero. Difatti, se avessi dovuto raccontarvele minutamente, avrei finito con lo stancarvi molto, raccontandovi, per esempio, le sofferenze sopportate nei viaggi a causa delle piogge, delle nevi, degli errori d’itinerario e, soprattutto, spesso con l’aggiunta della mia assai malferma salute, che era un inconveniente continuo. Una volta fra le altre – non so se l’ho già detto –, durante la prima giornata di viaggio da Malagón a Beas, avevo la febbre e tanti mali messi insieme, che, considerando il cammino che ancora ci restava da percorrere e lo stato in cui ero ridotta, mi ricordai del nostro padre Elia, quando fuggì da Gezabele, e dissi: «Signore, come potrò avere la forza di sopportare tutto questo? Pensateci voi!». È certo che Sua Maestà, vedendo la mia debolezza, mi tolse di colpo la febbre e ogni altro dolore, tanto che, quando in seguito me ne resi conto, pensai che tale grazia fosse dovuta ai meriti di un sacerdote gran servo di Dio ch’era capitato lì. E ciò poteva ben essere. Fatto sta che i miei mali, interni ed esterni, sparirono d’improvviso. E quando mi sentivo bene in salute, sopportavo allegramente le fatiche fisiche.

18. Quanto poi a dover tollerare tanti diversi caratteri in ogni località, non si durava poca fatica. E il lasciare le mie figlie e le mie sorelle per recarmi da una parte all’altra, vi assicuro che, amandole come le amo, non è stata piccola croce, specialmente quando pensavo di non doverle più rivedere e assistevo alla loro angoscia e alle loro lacrime. Benché siano staccate da tutto il resto, il Signore non ha concesso loro la grazia di esserlo anche da me, forse per darmi motivo di maggior tormento, perché neanch’io sono staccata da loro. Facevo tutti gli sforzi possibili per non darglielo a vedere e le rimproveravo. Ma serviva a poco, essendo grande l’amore che nutrono per me, amore della cui sincerità hanno dato molte prove.

19. Sapete anche che le fondazioni, se in principio si sono fatte col permesso del nostro reverendissimo padre generale, in seguito sono state realizzate addirittura per suo espresso ordine. Non solo, ma ad ogni nuova fondazione egli mi scriveva di provarne grandissima gioia; certo, il maggior conforto che avevo nelle mie tribolazioni era la sua soddisfazione. Mi sembrava, procurandogliela, di servire nostro Signore, in quanto era il mio superiore, ma, a prescindere da questo, io nutro per lui un grande affetto. Senonché, o perché piacesse a Sua Maestà di darmi ormai un po’ di riposo, o perché il demonio fosse infastidito di vedere la fondazione di tante case in cui si serviva nostro Signore, mi fu ingiunto di por fine alle fondazioni. Si è poi visto chiaramente che non fu una misura presa per volere del nostro padre generale, il quale pochi anni prima – avendolo io supplicato di non ordinarmi più altre fondazioni – mi aveva scritto che si rifiutava di farlo, perché desiderava che le fondazioni fossero tante quanti i capelli della mia testa. Prima che lasciassi Siviglia, dunque, in seguito ad un Capitolo generale, in cui c’era da pensare che si sarebbe considerato come un’utile prestazione l’incremento dato all’Ordine, mi fu notificato un decreto emanato nel Definitorio che non solo mi proibiva di fare altre fondazioni, ma altresì di uscire, sotto qualsiasi pretesto, dalla casa che avessi scelto come mia dimora. Era come impormi una specie di prigionia, perché non c’è nessuna religiosa che il provinciale non possa mandare da una parte all’altra, voglio dire da un monastero all’altro, per necessità tese al bene dell’Ordine. Il peggio era che il nostro padre generale si mostrava inquieto con me – ciò mi affliggeva profondamente – senza averne alcun motivo, ma solo dietro informazioni di persone faziose. Seppi, nello stesso tempo, d’essere imputata di due colpe molto gravi.

20. Per farvi costatare, sorelle, la misericordia di nostro Signore e come Sua Maestà non abbandoni chi desidera servirlo, vi dico che tale notizia non solo non mi rattristò, ma mi procurò tanta gioia che ero fuori di me. Di conseguenza, non mi stupisco di quel che faceva il re Davide, precedendo l’arca del Signore, perché anch’io non avrei voluto fare altro, essendo tale la mia felicità da non sapere come dissimularla. Ne ignoravo la ragione, in quanto nei riguardi di altre gravi mormorazioni e opposizioni cui ero stata fatta segno, non mi era mai accaduto nulla di simile. Eppure, almeno una delle due accuse che mi furono riferite era gravissima. Quanto al divieto di fare altre fondazioni, prescindendo dal dispiacere del reverendissimo padre generale, per me era un gran sollievo; desideravo spesso, infatti, poter finire i miei giorni in pace. Coloro che avevano preso tale provvedimento non immaginavano certo questo, ma credevano di avermi procurato il più grande dispiacere del mondo. Può anche darsi che avessero altre intenzioni e che fossero buone.

21. A volte mi davano anche gioia le grandi contrarietà e le critiche che ci sono state nel corso di queste fondazioni, sia da parte di persone bene intenzionate sia da parte di persone mosse da fini ben diversi. Ma non ricordo d’aver mai sperimentato, in nessuna delle prove sostenute, una così grande gioia come a causa di quel che ho detto. Eppure confesso che, in altro tempo, una sola delle tre gravi contrarietà che mi colpirono tutte insieme mi sarebbe stata di grande afflizione. Credo che la ragione principale della mia gioia fosse il pensiero che, se le creature mi pagavano in quel modo, il Creatore doveva essere contento di me. Sono convinta infatti che s’inganna molto chi fa consistere la sua felicità nei beni della terra o nelle lodi degli uomini: oltre allo scarso guadagno che se ne trae, gli uomini sono oggi d’un parere, domani d’un altro, ossia essi si volgono assai presto a dir male di quello che prima hanno approvato. Siate benedetto, mio Dio e mio Signore, voi che siete eternamente immutabile! Amen. Chi vi servirà fino in fondo vivrà senza fine nella vostra eternità.

22. Come ho detto all’inizio, ho cominciato a scrivere la storia di queste fondazioni per ordine del padre maestro Ripalda, della Compagnia di Gesù, allora rettore del collegio di Salamanca e mio confessore. Ne scrissi alcune l’anno 1573, mentre ero nel monastero del glorioso san Giuseppe di quella città. Poi, a causa delle mie numerose occupazioni, avevo interrotto il lavoro e non intendevo continuarlo, sia perché, spostandomi in luoghi diversi, non mi confessavo più da quel padre, sia inoltre per la gran fatica e le difficoltà che mi costa questo scritto. Tuttavia, avendolo sempre fatto per obbedienza, ritengo bene impiegata la fatica. Mentre ero decisa a non proseguire in esso, il padre maestro Girolamo Graziano della Madre di Dio, attualmente commissario apostolico, mi ordinò di portarlo a termine. E, nonostante le obiezioni che gli opponevo, poco rispettosa dell’ubbidienza, circa lo scarso tempo di cui disponevo e altre difficoltà che mi vennero in mente, essendo ciò per me una fatica gravosa, in aggiunta alle altre, mi confermò l’ordine di finire il libro, sia pure a poco a poco e come meglio potessi.

23. Gli ho ubbidito e accetterò volentieri tutte le soppressioni che persone competenti riterranno opportune: tolgano pure quello che è detto male; forse proprio quello che a me sembra il meglio, sarà il peggio. Ho finito oggi, vigilia di sant’Eugenio, 14 novembre 1576, nel monastero di San Giuseppe di Toledo, dove ora mi trovo per ordine del padre commissario apostolico, il padre maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio, superiore attuale degli scalzi e delle scalze della Regola primitiva, oltre ad essere visitatore dei carmelitani mitigati di Andalusia, a gloria e onore di nostro Signore Gesù Cristo che regna e regnerà per sempre. Amen.

24. Chiedo, per amore di Dio, alle sorelle e ai fratelli che leggeranno questo libro, di raccomandarmi a nostro Signore, affinché abbia misericordia di me, mi liberi dalle pene del purgatorio e mi permetta di godere di lui in cielo, se avrò meritato di starvi. Poiché, me vivente, non lo dovrete vedere. Se, dopo la mia morte, si riterrà opportuno farvelo leggere, mi sia di qualche profitto almeno allora la fatica sostenuta nel comporlo, e il gran desiderio che ho avuto, scrivendolo, di riuscire a dire qualcosa che vi sia di conforto.

 

CAPITOLO 28

La fondazione di Villanueva de la Jara.

 

1. Dopo la fondazione di Siviglia, si sospesero le fondazioni per più di quattro anni. Ne fu causa il sorgere all’improvviso di grandi persecuzioni contro gli scalzi e le scalze. Sebbene ce ne fossero state molte altre, non erano giunte a questo estremo da far quasi naufragare tutto. Si vide bene allora, da una parte, quanto il demonio avesse in odio questa santa Riforma a cui nostro Signore aveva dato inizio, e dall’altra come fosse opera di Dio, perché continuò a vivere. Gli scalzi, soprattutto i superiori, soffrirono moltissimi patimenti, per le gravi attestazioni e opposizioni di quasi tutti i padri calzati.

2. Questi diedero tali informazioni al nostro reverendissimo padre generale che, pur essendo egli un gran santo ed avendo dato proprio lui l’autorizzazione per la fondazione di tutti i monasteri (eccetto il primo, San Giuseppe di Avila, che si era fondato con il permesso del Papa), ne rimase così contrariato da adoperarsi con ogni sforzo a sopprimere gli scalzi. Con i monasteri delle religiose, invece, mantenne sempre buoni rapporti. Tuttavia, siccome io non condividevo il suo punto di vista, s’indispose anche contro di me. E questa fu la pena più grande che ho dovuto sopportare nel corso di tutte le fondazioni, anche se ne ho avute molte. Da una parte, cessare di cooperare all’incremento di un’opera con la quale io vedevo chiaramente che si serviva nostro Signore e si dava impulso al nostro Ordine, non mi era consentito dai grandi teologi che avevo per confessori e consiglieri; dall’altra, andare contro l’esplicita volontà del mio superiore era per me la morte, perché, oltre ai doveri che avevo verso di lui come tale, lo amavo assai teneramente, ed egli, certamente, ben lo meritava. Ma non avrei potuto contentarlo neppure volendolo, perché avevamo visitatori apostolici ai quali ero costretta a ubbidire.

3. Nel frattempo morì il Nunzio, uomo di grande santità, che favoriva molto la virtù e stimava gli scalzi. Gli successe un altro che sembrava mandato da Dio per esercitarci nella pazienza. Era un po’ parente del Papa e doveva essere certo un buon servo di Dio. Subito prese molto a cuore la causa dei calzati e, in base alle informazioni che di noi essi gli diedero, si mantenne saldo nel proposito di impedire che la Riforma andasse avanti e cominciò ad attuarlo con grandissimo rigore, condannando al carcere o all’esilio coloro che gli sembrava potessero resistergli.

4. Quelli che soffrirono di più furono il padre fra Antonio de Jesús, che aveva fondato il primo convento di scalzi, e il padre fra Girolamo Graziano, che il nunzio precedente aveva nominato visitatore apostolico dei carmelitani calzati; contro di lui e contro il padre Mariano de San Benito si mostrò assai indignato. Ho già detto nelle fondazioni precedenti chi siano questi padri. Inflisse anche ad altri autorevoli religiosi penitenze, ma senza infierire. A questi tre vietò con molte censure di occuparsi di qualsiasi cosa.

5. Era evidente che tutto ciò accadeva per disposizione di Dio e che Sua Maestà lo permetteva per un maggior bene e per far meglio conoscere la virtù di questi padri, come effettivamente è stato. Lo stesso nunzio fece visitare i nostri monasteri, tanto di religiose quanto di religiosi, da un superiore del Panno e, se le cose fossero state come egli pensava, ne avremmo avuto grossi guai. Comunque, non ce ne mancarono di gravissimi, come ne scriverà meglio di me chi lo sa fare. Io non faccio che darne un cenno nel solo intento di rendere evidente alle monache che verranno dopo di noi quanto siano obbligate a progredire nella perfezione, trovando già bell’e pronto quello che è costato così caro alle religiose di ora. Alcune di esse hanno sofferto moltissimo in questo periodo, sotto l’imperversare di gravi calunnie, cosa che mi affliggeva molto più delle mie sofferenze personali, le quali, anzi, mi erano motivo di grande gioia. Ritenevo d’essere io la causa di tutta questa tempesta, e mi sembrava che sarebbe cessata se mi fossi gettata in mare come Giona.

6. Sia lodato Dio che difende la verità, come fece in questo caso! Quando, infatti, il nostro cattolico sovrano, don Filippo, seppe quel che accadeva, conoscendo la vita e l’osservanza religiosa degli scalzi, cominciò a favorirci in modo tale che non volle lasciare il nunzio come solo giudice della nostra causa, e lo fece affiancare da quattro consiglieri, persone autorevoli, di cui tre religiosi, perché fossero salvaguardati i nostri diritti. Uno di essi era il padre maestro fra Pedro Fernández, uomo di santa vita, oltre che di molta dottrina e intelligenza. Era stato commissario apostolico e visitatore dei calzati della provincia di Castiglia, e a lui anche gli scalzi avevano dovuto obbedienza. Conosceva quindi come vivessero realmente gli uni e gli altri: quanto tutti noi desideravamo non era altro se non che si sapesse questo. Così, quando vidi che la scelta del re era caduta su di lui, ritenni conclusa la faccenda, come effettivamente lo è per la misericordia di Dio. Piaccia a Sua Maestà che sia a suo onore e gloria! Anche se erano molti i signori e i vescovi del regno a darsi premura d’informare il nunzio della verità della situazione, ciò e il resto sarebbe giovato a poco se Dio non si fosse servito della mediazione del re.

7. Siamo pertanto tutte obbligate, sorelle, a raccomandare sempre nelle nostre orazioni al Signore sia lui, sia quanti hanno favorito la causa di Dio e della Vergine nostra Signora: torno, quindi, a farvene viva istanza. In conseguenza di ciò che ho detto, potete immaginarvi, sorelle, quale fosse l’opportunità di dedicarsi alle fondazioni. Tutte noi attendevamo senza tregua all’orazione e alle penitenze, affinché Dio desse incremento ai monasteri esistenti, se doveva servirsi di essi a sua gloria.

8. Quand’ebbero inizio queste grandi tribolazioni (che, raccontate così in breve vi sembreranno cosa da poco, ma sofferte a lungo furono di rilevante gravità), io ero a Toledo, ritornata lì dalla fondazione di Siviglia. Nel 1576, un sacerdote di Villanueva de la Jara mi consegnò alcune lettere delle autorità municipali di quella città che volevano avviare trattative con me per la fondazione di un monastero. Mi pregava di accettare, in vista di esso, nove giovani donne che si erano riunite da alcuni anni in una piccola casa attigua a un romitorio di quel luogo, dedicato alla gloriosa sant’Anna, e vivevano lì in tanto raccoglimento e in così grande santità, da indurre tutto il villaggio ad assecondare il loro desiderio, che era quello di essere monache. Mi scrisse anche il parroco del luogo, il dottore Agustín de Ervías, uomo di grande dottrina e di molta virtù, in forza della quale favoriva come meglio poteva questa santa opera.

9. A me parve che la proposta fosse assolutamente inaccettabile per le seguenti ragioni: la prima, il fatto che erano molte e mi sembrava assai difficile che, abituate al loro modo di vivere, potessero adattarsi al nostro; la seconda, perché non avevano quasi nulla per potersi mantenere, e il luogo ha solo poco più di mille famiglie, il che ci avrebbe fornito scarso aiuto per vivere di elemosina: anche se il Comune si offriva di mantenerle, non credevo che ciò sarebbe durato a lungo; la terza, perché non avevano casa; la quarta, perché il borgo era lontano dagli altri nostri monasteri; la quinta, perché, malgrado mi si dicesse che erano assai buone, non avendole viste, non potevo sapere se avessero le attitudini richieste per il nostro genere di vita; decisi, allora, di lasciar perdere tutto.

10. Prima di rifiutarmi, però, volli parlarne al mio confessore, che era il dottor Velázquez, canonico e professore a Toledo, uomo assai dotto e virtuoso, attualmente vescovo di Osma, e questo perché ho l’abitudine di non far mai nulla in base al mio criterio personale, ma di rimettermi sempre a quello di persone di tal merito. Appena vide le lettere e prese conoscenza della faccenda, mi consigliò di non rifiutare e di rispondere benevolmente, perché se Dio riuniva tanti cuori a un sol fine, era chiaro che se ne sarebbe servito per la sua gloria. Allora mi regolai in questo modo: non accettai né rifiutai in maniera assoluta. Fra continue insistenze e interventi di persone intese a sollecitare la mia accettazione, trascorsero quattro anni, fino al 1580. Continuavo a ritenere sempre un’insensatezza aderire alla proposta, ma, rispondendo, non avevo la possibilità di opporre un reciso rifiuto.

11. Avvenne che il padre Antonio de Jesús si recasse a trascorrere il suo esilio nel monastero di nostra Signora del Soccorso, distante tre leghe da Villanueva. Poiché a volte andava a predicare lì, e lo stesso faceva anche il padre fra Gabriel de la Asunción, priore del convento, uomo assai perspicace e gran servo di Dio, amici com’erano entrambi del dottor Ervías, entrarono in contatto con le nostre sante sorelle. Conquistati dalle loro virtù e indotti dal curato e dagli abitanti del borgo, fecero del progetto una faccenda personale e cominciarono ad inviarmi lettere per convincermi ad accettarlo. Inoltre, mentre stavo a San Giuseppe di Malagón, che dista più di ventisei leghe da Villanueva, venne a parlarmi di ciò lo stesso padre priore, informandomi di quel che si poteva fare con il permesso di Roma. Mi disse come, una volta fondato il monastero, il dottor Ervías effettivamente avrebbe dato trecento ducati di rendita su quella che aveva da un suo beneficio.

12. Quest’impegno non mi parve cosa sicura, ritenendo che, fondato il monastero, si sarebbe trascurato di mantenerlo. Tale considerazione, unitamente alla consapevolezza del poco che quelle giovani avevano, era motivo sufficiente per impedirmi di accettare. Pertanto esposi al padre priore molte ragioni, a mio parere assai convincenti, per dimostrargli che la cosa non era fattibile e lo esortai a ripensarci insieme al padre Antonio, dicendogli che io lasciavo la questione a carico della loro coscienza, poiché mi sembrava che le ragioni addotte dovessero bastare a non farne nulla.

13. Dopo la sua partenza, considerando quanto il progetto gli stesse a cuore, pensai che avrebbe cercato di convincere il maestro fra Angel de Salazar, attuale nostro superiore, ad accettare la fondazione. Mi affrettai a scrivergli, supplicandolo di non dare la sua autorizzazione e spiegandogliene i motivi. In base a quanto mi rispose, egli già non aveva voluto concederla, visto che io non ero d’accordo.

14. Trascorse circa un mese e mezzo, forse un po’ di più. Quando ormai credevo d’aver scongiurato ogni rischio, mi fu inviato un messo con lettere dal Comune di Villanueva in cui la municipalità si obbligava a non far mancare alle religiose tutto quello che fosse stato necessario; il dottor Ervías s’impegnava, da parte sua, a fare quanto si è detto precedentemente; c’erano anche lettere dei due reverendi padri che raccomandavano caldamente la cosa. Mi vidi in estremo imbarazzo, perché l’ammissione di tante consorelle mi faceva temere molto che, come suole accadere, esse si schierassero contro le religiose che avrei condotte lì; inoltre, non mi sentivo sicura del loro mantenimento, visto che le offerte ricevute mancavano di sufficienti garanzie. Ho capito in seguito che le mie perplessità erano opera del demonio, il quale, proprio perché il Signore m’incoraggiava, si adoperava a rendermi così pusillanime che sembrava non avessi più fiducia in Dio. Ma le preghiere di quelle anime benedette finirono con il prevalere.

15. Un giorno, dopo la comunione, mentre stavo raccomandando al Signore questa fondazione, come facevo spesso, perché ciò che per l’innanzi mi aveva indotto a dare una risposta favorevole era il timore di ostacolare il profitto di qualche anima – in quanto il mio desiderio è sempre di essere un mezzo per far lodare il Signore e accrescere il numero di coloro che lo servono –, Sua Maestà mi rimproverò severamente, chiedendomi con quali tesori si erano eretti i monasteri fino allora fondati: non dovevo quindi esitare a permettere quella fondazione che avrebbe contribuito molto alla sua gloria e al bene delle anime.

16. Le parole di Dio hanno tale potere, che non solo penetrano l’intelletto, ma gli danno luce per capire la verità, e dispongono la volontà ad eseguire quel che dicono. Ciò è quanto allora mi accadde. Non solo accettai con gioia il progetto, ma mi parve una colpa aver esitato tanto, aggrappata fortemente a umane ragioni, io che avevo visto quanto al di sopra della ragione sono le cose straordinarie operate da Sua Maestà in favore del nostro santo Ordine.

17. Decisa ormai ad accettare questa fondazione, mi sembrò necessario accompagnare io stessa le monache che vi dovevano rimanere, per vari motivi che mi si presentarono alla mente, quantunque fisicamente mi riuscisse gravoso perché, giunta a Malagón assai sofferente, lo ero ancora. Ma, ritenendo che ciò sarebbe stato a gloria di Dio, ne scrissi al nostro superiore, affinché mi ordinasse quello che ritenesse il meglio da farsi. Egli m’inviò l’autorizzazione per la fondazione, con l’ordine di trovarmi lì presente e di condurvi le religiose che volevo. La scelta mi dava molta preoccupazione, perché avrebbero dovuto vivere con quelle che già erano sul posto. Raccomandando vivamente la cosa a nostro Signore, ne presi due dal monastero di San Giuseppe di Toledo, una delle quali doveva essere priora, e due da quello di Malagón, di cui una sarebbe stata vicepriora. Siccome si erano rivolte molte preghiere a Sua Maestà, la scelta fu assai felice. Ciò ebbe per me una grande importanza, più del consueto, perché nelle fondazioni a cui diamo inizio noi sole, l’accordo di tutte è cosa facile.

18. Vennero a cercarci il padre fra Antonio de Jesús e il padre fra Gabriel de la Asunción. Avuto tutto il necessario dagli abitanti del villaggio, partimmo da Malagón il sabato precedente la Quaresima del 13 febbraio 1580. Piacque a Dio regalarci un tempo splendido e farmi sentire così bene che mi sembrava di non essere mai stata ammalata. Ne ero stupita e consideravo la grande importanza di non badare alla nostra debolezza fisica né a qualunque altra difficoltà ci si frapponga, quando si sa di servire il Signore, poiché egli ha il potere di rendere forti i deboli e sani gli infermi. Qualora non lo faccia, il meglio per noi, ai fini della salvezza della nostra anima, è soffrire e, fissi gli occhi al suo onore e alla sua gloria, dimenticare noi stessi. A cosa deve servire la vita e la salute se non a perderla al servizio di un così grande Re e Signore? Credetemi, sorelle, non potrete mai sbagliare, seguendo questa strada.

19. Vi confesso che spesso la mia meschinità e la mia debolezza mi hanno fatto temere e dubitare, ma non ricordo una sola volta, da quando il Signore mi ha dato l’abito di carmelitana scalza e anche da qualche anno prima, che non mi abbia fatto la grazia, unicamente per la sua misericordia, di vincere queste tentazioni e gettarmi a occhi chiusi in quello che ritenevo sua maggior gloria, quali ne fossero le difficoltà. Capisco bene che era poco quanto facevo da parte mia, ma Dio non vuole altro da noi che una ferma risoluzione per fare poi da parte sua tutto il resto. Sia egli per sempre benedetto e lodato! Amen.

20. Dovevamo recarci al monastero di Nostra Signora del Soccorso che, come si è detto, dista tre leghe da Villanueva, e fermarci lì per avvertire del nostro arrivo. Era questo l’accordo stabilito dai padri che ci accompagnavano, ed era giusto che obbedissi loro in tutto. Il convento si trova in un deserto che offre una solitudine assai piacevole. Non appena vi fummo vicini, i frati vennero molto ordinatamente a ricevere il loro priore. Nel vederli scalzi, con le loro povere cappe di bigello, ci sentimmo tutte prese da devozione. Io ne rimasi profondamente commossa, parendomi di essere ai tempi felici dei nostri santi Padri. Sembravano, in quel campo, bianchi e profumati fiori. E credo che tali siano innanzi a Dio perché, a mio parere, lì egli è servito con gran fervore. Entrarono in chiesa cantando il Te Deum con voci piene d’umiltà. L’ingresso della chiesa è sottoterra. Sembra una grotta, che ci faceva pensare a quella del nostro padre Elia. Non c’è dubbio che provassi così grande gioia interiore, che avrei dato per ben impiegato un viaggio ancora più lungo. Ebbi però gran dolore che fosse già morta la santa di cui nostro Signore si era servito per fondare quella casa. Non meritava, evidentemente, di vederla, benché lo avesse tanto desiderato.

21. Non sarà inutile, credo, dire qui qualcosa della vita e delle vie per le quali nostro Signore volle che si fondasse là questo monastero che è stato di tanto profitto, per quanto ho saputo, alle anime di quei dintorni. Voglio anche che, vedendo le penitenze di questa santa, vi rendiate conto, sorelle mie, di quanto noi le restiamo indietro e vi sforziate di servire maggiormente nostro Signore. Non c’è, infatti, ragione di essere da meno di lei, noi che non discendiamo, come lei, da gente raffinata e nobile. Anche se questo non ha importanza – lo dico per far vedere che aveva avuto una vita agiata, quale richiedeva il suo stato, discendendo dai duchi di Cardona; si chiamava, infatti, donna Catalina de Cardona. Dopo avermi scritto alcune volte, si firmava, però, solo «la peccatrice».

22. Coloro che scriveranno la sua vita racconteranno quello cha ha fatto prima che il Signore le concedesse così grandi favori, e si soffermeranno sui molti particolari che ci sono da dire di lei, ma nel caso che tale biografia non giunga a vostra conoscenza, riferirò qui quello che mi hanno detto alcune persone degne di fede che hanno trattato con lei.

23. Questa santa, pur vivendo fra signore e signori di alto rango, aveva sempre molta cura della sua anima e praticava la penitenza. Il desiderio dei patimenti andò man mano crescendo in lei al punto da sentire l’ispirazione a ritirarsi dove, in solitudine, potesse godere di Dio e sottoporsi a rigorose discipline, senza che alcuno glielo impedisse. Ne parlò con i suoi confessori, ma essi non vi acconsentirono. Non mi meraviglio che la sua aspirazione sembrasse loro una follia, visto come il mondo sia oggi infatuato di prudenza, al punto da apparire quasi immemore delle straordinarie grazie accordate da Dio ai santi e alle sante che lo servirono nei deserti. Ma, poiché Sua Maestà aiuta sempre a mettere in pratica i desideri che vengono dal cuore, aiutandone l’attuazione, fece in modo che ella si confessasse da un padre francescano chiamato fra Francisco de Torres, che conosco assai bene e che ritengo un santo. Questi già da molti anni conduce una vita di penitenza e d’orazione con grande zelo, fra molte persecuzioni. Conoscendo le grazie che Dio concede a chi si sforza di riceverle, disse a Catalina di non indugiare a seguire l’invito che Sua Maestà le rivolgeva. Non so se le sue parole furono queste, ma è da supporlo, perché subito ella attuò il suo disegno.

24. Si confidò con un eremita di Alcalá e lo pregò di accompagnarla, raccomandandogli, al tempo stesso, il più assoluto segreto. Arrivati al luogo dove oggi sorge questo monastero, ella trovò una piccola grotta in cui entrava a stento, e qui l’eremita la lasciò. Ma quale doveva essere il suo amore, se non si preoccupò minimamente sia di come sostentarsi, sia dei pericoli a cui si esponeva, sia della cattiva fama che la sua fuga le avrebbe probabilmente procurato! Quale ebbrezza doveva provare questa santa anima, immersa nel desiderio di godere del suo Sposo senza che alcuno le fosse di ostacolo! Com’era ferma nel proposito di staccarsi totalmente dal mondo, se fuggiva così da tutti i suoi piaceri!

25. Meditiamo bene, sorelle, su questo esempio e consideriamo come d’un colpo ella abbia riportato una completa vittoria sulle cose terrene perché, pur non essendo da meno quello che voi fate entrando in questo santo Ordine, offrendo a Dio la vostra volontà e professando una perpetua clausura, io non so se in qualcuna di noi i fervori dei primi tempi non vengano a cessare, e se non torniamo, su certi punti, a essere schiave del nostro amor proprio. Piaccia alla divina Maestà che ciò non sia, ma che, avendo imitato questa santa nel fuggire il mondo, ne stiamo in modo assoluto lontane anche interiormente!

26. Ho sentito raccontare molte cose della rigorosa austerità della sua vita, e quanto se ne sa dev’essere il meno; avendo infatti trascorso tanti anni in quella solitudine, così ardentemente desiderosa di penitenza, senza alcuno che ne moderasse gli eccessi, dovette certamente trattare il suo corpo in modo da far paura. Dirò quello che hanno udito da lei stessa alcune persone, in particolare le nostre religiose di San Giuseppe di Toledo, dove ella si recò a visitarle e alle quali, come fossero sorelle, parlò con tutta franchezza. Faceva lo stesso con altre persone, perché dotata d’una grande semplicità e, senza dubbio, di altrettanta umiltà. Essendo perfettamente consapevole di non aver nulla di suo, era ben lontana da ogni forma di vanagloria. Si compiaceva di manifestare le grazie che Dio le faceva, affinché a motivo di esse fosse lodato e glorificato il suo nome: cosa che, a coloro i quali non sono arrivati a questo grado di perfezione, sembra pericolosa o, per lo meno, una lode di se stessi. Ma la sua modestia e la sua semplicità probabilmente la preservavano da un siffatto giudizio, perché non ho mai sentito incolparla di questo.

27. Raccontò dunque di essere stata in quella grotta otto anni, nutrendosi per giorni e giorni di sole radici e d’erbe di campo. Finiti infatti i tre pani che le aveva lasciato l’eremita che l’aveva accompagnata, non si cibò più di tale alimento, fino a quando non passò di lì un pastorello. Egli la provvide, a partire da allora, di pane e farina con cui faceva certe piccole focacce cotte al fuoco. Questo era tutto il suo nutrimento: non aveva altro. Se ne cibava ogni tre giorni. È cosa assai certa, di cui anche i frati del convento possono rendere testimonianza. Questi, più tardi, quand’era già assai indebolita, a volte le facevano mangiare una sardina o qualche altra cosa – era l’epoca in cui si occupava della fondazione del monastero –, ma ne aveva più danno che vantaggio. Vino, che io sappia, non ne bevve mai. Le discipline a cui si sottoponeva e per le quali si serviva di una grande catena, duravano spesso due ore o, quanto meno, un’ora e mezzo. I suoi cilici erano di così grande asperità, che una donna la quale, reduce da un pellegrinaggio, si era fermata a dormire una notte con lei, mi raccontò che, fingendo di essere addormentata, l’aveva vista toglierseli pieni di sangue e pulirli. Il peggio era, però, quello che doveva soffrire – a quanto ebbe a dire alle nostre consorelle – da parte dei demoni, i quali le apparivano a volte sotto l’aspetto di grossi cani che l’assalivano alle spalle, altre volte sotto quello di serpenti. Ma non ne aveva paura.

28. Anche dopo la fondazione del monastero continuava a ritirarsi nella sua grotta e lì stava e dormiva, non uscendo da essa se non per recarsi all’Ufficio divino. Prima della fondazione, andava a Messa in un convento dei Mercedari, che dista un quarto di lega da quel luogo, talvolta percorrendo le strade in ginocchio. Il suo abito era di panno grezzo, con sopra una tunica di bigello, tutto fatto in modo che veniva presa per un uomo. Dopo gli anni trascorsi qui in completa solitudine, il Signore volle che si divulgasse la fama delle sue virtù e cominciò ad essere oggetto di tanta venerazione che non poteva difendersi dall’afflusso della gente. Parlava a tutti con grande carità e benevolenza. Più tempo passava e maggiore era il concorso del popolo: chi riusciva a parlarle si riteneva non poco fortunato. Ella ne era assai stanca e diceva che la facevano morire. Accadeva a volte che quasi tutta la campagna intorno fosse piena di carri. Quando i religiosi si stabilirono là, non trovarono nulla di meglio da fare che sollevarla in alto perché potesse benedire la folla, e questo era l’unico modo di liberarla da quella ressa. Trascorsi otto anni di permanenza nella grotta già un po’ ingrandita per opera dei suoi visitatori, fu colta da una così grave malattia che credette di morire, ma non per questo abbandonò la grotta.

29. Cominciò ad avere il desiderio di far sorgere lì un convento di frati; indecisa, però, sulla scelta dell’Ordine a cui affidarlo, lasciò così passare qualche tempo. Un giorno, mentre pregava davanti ad un crocifisso che portava sempre con sé, nostro Signore le mostrò una cappa bianca ed ella capì che doveva essere di carmelitani scalzi. Fino a quel momento non aveva mai saputo che al mondo esistesse questo Ordine, perché allora di esso non c’erano che due conventi, quello di Mancera e quello di Pastrana. Dopo ciò, dovette probabilmente prenderne informazioni. Conosciuta l’esistenza del monastero di Pastrana, dove aveva avuto in passato molta amicizia con la principessa di Eboli, moglie del principe Ruy Gómez da cui dipendeva Pastrana, si recò in questo borgo, per trovare il modo di provvedere alla fondazione del monastero da lei tanto desiderato.

30. Lì, nella chiesa del convento, intitolato a san Pietro, prese l’abito di nostra Signora. Non aveva alcuna intenzione di abbracciare la vita religiosa, né di emettere i voti, non essendo stata mai propensa a questo stato, condotta com’era dal Signore per altro cammino. Temeva che, entrando in un Ordine, avrebbe dovuto rinunziare, in virtù dell’obbedienza, ai suoi propositi di austerità e di solitudine. Ricevette, peraltro, l’abito di nostra Signora, alla presenza di tutti i frati.

31. Si trovava lì anche il padre Mariano, di cui ho già parlato in queste fondazioni. Questi mi ha raccontato che, durante la cerimonia, ebbe una sospensione o un rapimento che lo trasse completamente fuori dai sensi. In questo stato vide un gran numero di frati e di monache uccisi: alcuni decapitati, altri con le gambe e le braccia mozzate, come a significare il martirio da essi subito, almeno tale ne appariva il senso. E questo padre non è uomo da raccontare una cosa che non abbia visto, né il suo spirito è abituato a sospensioni di tal genere, perché Dio non lo conduce per questo cammino. Pregate Dio, sorelle, che ciò si avveri e che possiamo meritare di conoscere ai nostri giorni un così gran bene e far parte del numero di tali religiosi.

32. Qui, da Pastrana, la santa Cardona cominciò a cercare i mezzi per la fondazione del suo monastero e, a tal fine, tornò alla Corte da cui era partita con tanta gioia. Ciò dovette essere per lei un grande tormento, né le mancarono in gran numero mormorazioni e tribolazioni. Quando usciva di casa non riusciva a liberarsi dalla gente: questo, dovunque andasse. Alcuni le tagliavano brandelli dall’abito, altri dalla cappa. Da lì si recò a Toledo, dove alloggiò presso le nostre religiose. Tutte mi hanno dichiarato concordemente che da lei emanava un così penetrante odore di reliquie che perfino l’abito e la cintura, dopo che se li tolse, per sostituirli con altri, e le furono portati via, ne erano talmente impregnati da far rendere lode a Dio. E quanto più l’avvicinavano, tanto più il profumo aumentava, pur essendo i suoi vestiti fatti di un tipo di stoffa che, col gran caldo di allora, avrebbero dovuto produrre l’effetto contrario. So che esse sono incapaci di mentire. Ne rimasero, pertanto, tutte edificate.

33. Alla Corte e altrove ricevette doni sufficienti per poter fondare il suo monastero. Ottenuta l’autorizzazione, la fondazione ebbe luogo. La chiesa fu costruita dove era la sua grotta, e a lei ne scavarono un’altra un po’ più lontano in cui misero, in rilievo, un sepolcro con l’effigie di Cristo morto. Trascorreva lì la maggior parte del tempo, giorno e notte. Ma ciò non durò a lungo, perché non sopravvisse che cinque anni e mezzo circa alla fondazione del monastero. Con la vita così dura che conduceva, sembrava un miracolo anche il tempo che era vissuta. Se ben ricordo, la sua morte avvenne l’anno 1577. Le furono resi onori funebri estremamente solenni per vivo interessamento di un cavaliere chiamato fra Juan de León, il quale nutriva per lei una profonda venerazione. Riposa ora provvisoriamente in una cappella di nostra Signora, di cui era molto devota, in attesa che si costruisca una chiesa più grande ove sia data alle sue sante spoglie degna sepoltura.

34. È grande il fervore religioso a cui è fatto segno questo monastero, in ricordo di lei. Si direbbe quasi che sia ancora presente lì e nei dintorni, specialmente quando si ha dinanzi agli occhi quel romitaggio e quella grotta in cui visse. Mi è stato assicurato che, prima di prendere la decisione di fondare il monastero, era così stanca e afflitta di vedersi visitata da tanta gente, che voleva andarsene in un altro luogo dove nessuno la conoscesse. Aveva pertanto mandato a cercare l’eremita da cui era stata condotta lì, perché l’accompagnasse altrove, ma era morto. Nostro Signore, che voleva la fondazione in quel luogo di questo monastero consacrato a nostra Signora, non le diede la possibilità di allontanarsene; infatti sono convinta, come ho detto, che egli vi è assai ben servito. I religiosi hanno in esso un’ottima sistemazione ed è evidente che sono felici di vivere separati dal resto degli uomini, specialmente il priore, chiamato anch’egli da Dio a prendere il nostro abito da una vita assai comoda, e poi da lui ben ricompensato con ricchezze spirituali.

35. Egli fu pieno di carità verso di noi. Ci diede per la chiesa della nostra futura fondazione alcuni paramenti sacri della loro, che ne era ampiamente provvista essendo questa santa molto amata da un gran numero di persone ragguardevoli. Trassi motivo di grande consolazione dal mio soggiorno in quel luogo, anche se, al tempo stesso, ero piena di confusione, che mi dura tuttora. Pensando a colei che aveva praticato lì così aspra penitenza, costatavo che era una donna come me, anche più delicata, dato il rango a cui apparteneva, e assai meno peccatrice – non essendovi a questo riguardo nessun paragone possibile – e che io avevo, ciò malgrado, ricevuto ben maggiori grazie d’ogni genere da nostro Signore, fra le quali quella – grandissima – di non essere stata precipitata nell’inferno, come meritavano i miei gravi peccati. Mi era di conforto solo il desiderio d’imitare, se mi riusciva, il suo esempio, ma non era neanche un gran conforto, perché tutta la mia vita se n’è andata in desideri cui non sono seguite le opere. Mi sia d’aiuto la misericordia di Dio, in cui ho sempre confidato per i meriti del suo santissimo Figlio e della Vergine nostra Signora, di cui porto l’abito per la bontà del Signore.

36. Un giorno, dopo essermi comunicata in quella santa chiesa, entrai in un profondo raccoglimento, accompagnato da una sospensione che mi trasse fuori dei sensi, nel corso della quale mi apparve questa santa donna in visione intellettuale, sotto forma di un corpo glorioso e circondato da angeli. Mi disse di non stancarmi di quanto facevo, ma di proseguire nella fondazione di questi monasteri. Intesi, benché non me lo dicesse, che ella mi aiutava presso Dio. Aggiunse anche un’altra cosa che non ha ragione d’essere scritta qui. Ne rimasi assai consolata e con vivo desiderio di lavorare a quest’opera: spero nella bontà del Signore che, con così grande aiuto qual è quello di tali preghiere, possa fare qualcosa in suo onore. Vedete, dunque, sorelle mie, come ebbero presto fine le sue sofferenze, mentre la gloria di cui gode sarà eterna. Sforziamoci pertanto, per amore di nostro Signore, di seguire l’esempio di questa nostra sorella. Se riusciremo ad avere in odio noi stesse come ella fece, daremo altrettanto rapido compimento alla nostra giornata, poiché tutto si svolge e finisce così presto quaggiù!

37. Arrivammo a Villanueva de la Jara la prima domenica di quaresima dell’anno 1580, vigilia della Cattedra di San Pietro, festa di san Barbaziano. Quel giorno stesso fu posto il santissimo Sacramento nella chiesa della gloriosa sant’Anna, all’ora della Messa solenne. Ci vennero incontro tutte le autorità municipali e alcune altre persone fra cui il dottor Ervías. Smontammo presso la chiesa parrocchiale, assai lontana da quella di sant’Anna. Era così grande la gioia di tutto il borgo, che mi fu di grande consolazione vedere con quale gioia fosse accolto l’Ordine della santissima Vergine nostra Signora. Udivamo da lontano il suono a festa delle campane. Appena fummo entrate in chiesa, intonarono il Te Deum la cui esecuzione era fatta a versi alterni dal coro dei cantori e dalle note dell’organo. Finito questo, il santissimo Sacramento fu posto in una portantina e la statua di nostra Signora in un’altra, con croci e stendardi. La processione cominciò a svolgersi in grande solennità. Noi, con le nostre cappe bianche e i veli calati sul viso, eravamo al centro, vicino al santissimo Sacramento, e vicino a noi stavano i nostri frati scalzi, venuti in gran numero dal loro monastero. C’erano anche i francescani (poiché a Villanueva si trova un loro convento), e infine un padre domenicano, di passaggio nel borgo; benché fosse solo, fui assai lieta di vedere in quest’occasione l’abito del suo Ordine. Trattandosi di un lungo percorso, vi erano stati eretti molti altari, ove i partecipanti alla processione si fermavano di tanto in tanto, cantando strofe in onore del nostro Ordine. Eravamo tutte prese da grande devozione, come anche di veder innalzare da tutti lodi al gran Dio che portavamo con noi, per amore del quale si rendeva tanto onore a sette povere piccole scalze lì presenti. Di fronte a un tale spettacolo era grande la mia confusione nel vedermi fra loro, convinta che se avessi dovuto esser trattata come meritavo, avrebbero dovuto voltarsi tutti contro di me.

38. Vi ho parlato così a lungo dell’onore reso all’abito della Vergine affinché lodiate nostro Signore e lo supplichiate che si serva di questa fondazione a sua maggior gloria. Da parte mia, sono più contenta quando essa comporta grandi difficoltà e persecuzioni: allora mi è più gradito parlarvene. Vero è che queste sorelle lì presenti avevano sofferto per quasi sei anni, o almeno per più di cinque e mezzo, prima del loro ingresso in questa casa della gloriosa sant’Anna. Non vi parlo della grande povertà in cui erano e della fatica che costava loro procurarsi il cibo, non avendo mai voluto chiedere elemosine (questo, per non far pensare che stessero lì allo scopo di essere mantenute da quegli abitanti), né parlo delle grandi penitenze che facevano, sia nel digiunare molto e mangiar poco, sia nell’aver letti molto scomodi e la casa piccolissima, cose tutte che erano assai penose per la stretta clausura da loro sempre osservata.

39. La più grande sofferenza che mi dissero d’aver avuto veniva dal loro ardente desiderio di vedersi con il nostro abito: ne erano estremamente tormentate giorno e notte, temendo di non essere esaudite. Le loro lacrime e preghiere miravano ad ottenere da Dio questa grazia. Quando si accorgevano di qualche ostacolo, si affliggevano molto e aumentavano le penitenze. Si toglievano il pane di bocca per avere di che pagare, con quel che guadagnavano, i messi che mandavano a me, e per offrire qualche segno di gratitudine, come lo permetteva la loro povertà, a quelli che avevano la possibilità di aiutarle almeno un po’. Mi rendo ben conto, dopo averle trattate e aver visto la loro santità, che le loro preghiere e le loro lacrime hanno fatto sì che l’Ordine le abbia accettate. Mi è sembrato pertanto ben più gran tesoro la presenza in esso di tali anime che non ricche rendite, e spero che questo monastero abbia vita prospera.

40. Al nostro ingresso nella casa erano tutte riunite presso la porta interna, ognuna vestita a modo suo, cioè com’erano entrate, perché, sperando sempre di ricevere il nostro abito, non avevano mai voluto prendere quello di beate. Indossavano però un vestito dimesso, dal quale era evidente quanta poca cura avessero di sé, malconce com’erano e quasi tutte così emaciate che il loro aspetto rivelava la vita di dura penitenza da esse condotta.

41. Ci ricevettero con grandi lacrime di gioia, e si è ben visto come fossero sincere. La loro virtù rifulge nella loro letizia, nella loro umiltà, nella loro obbedienza alla priora. Non sanno, inoltre, cosa fare per compiacere ognuna delle religiose venute per la fondazione. Tutta la loro paura era che, alla vista della loro povertà e della ristrettezza di quella casa, se ne fossero ripartite. Nessuna aveva avuto il comando sulle altre, ma, con grande spirito di fratellanza, ognuna lavorava quanto più era possibile. Le due più anziane trattavano gli affari, quando ce n’era bisogno, le altre non parlavano né volevano parlare mai con nessuno. La porta fu sempre senza chiave, con solo un martello. Nessuno osava avvicinarsi ad essa; quando c’era da rispondere, lo faceva la più anziana. Dormivano pochissimo, per guadagnarsi da vivere senza trascurare l’orazione, che le occupava molte ore: le feste, tutto il giorno. Come guida della loro condotta spirituale si servivano dei libri di fra Luis de Granada e di fra Pietro di Alcántara.

42. Passavano la maggior parte del tempo a recitare l’Ufficio divino, adoperandosi a farlo con quella scarsa pratica di lettura che avevano, perché una sola sa leggere bene, e con breviari discordanti; alcuni di antico rito romano li avevano avuti da certi preti che non se ne servivano più, altri se li erano procurati come avevano potuto. E siccome non sapevano leggere, vi impegnavano molte ore, ma lo recitavano dove, da fuori, non potessero essere udite. Dio avrà accettato la loro buona intenzione e i loro sforzi, perché di verità dovevano dirne ben poche. Quando il padre fra Antonio de Jesús cominciò a trattarle, fece sì che non recitassero se non l’Ufficio di nostra Signora. Avevano un forno dove cuocevano il pane, e tutto era così ben regolato come se ci fosse stata una superiora.

43. Io ne lodavo il Signore, e quanto più le trattavo, tanto più mi rallegravo d’essere venuta. Credo che per quante tribolazioni avessi dovuto soffrire, non avrei lasciato di consolare queste anime. Quelle fra le mie compagne che sono rimaste con loro mi dicevano che lì per lì, i primi giorni, ne avevano avuto un po’ di contrarietà, ma che da quando, in seguito, le avevano conosciute meglio e ne avevano visto la virtù, erano felicissime di viverci insieme e le amavano molto. Grande è la potenza della santità e della virtù! È pur vero che esse erano tali che, se anche avessero trovato molte difficoltà e grandi prove, le avrebbero sopportate volentieri con l’aiuto del Signore, desiderando patire per amor suo. La consorella che non senta in sé questo desiderio, non si ritenga per vera scalza, poiché le nostre aspirazioni non devono essere indirizzate al riposo, ma alla sofferenza, se vogliamo imitare in qualche cosa il nostro vero Sposo. Piaccia a Sua Maestà di darci la grazia di farlo! Amen.

44. L’origine del romitorio di sant’Anna fu questo: viveva qui, nel borgo di Villanueva de la Jara, un sacerdote nativo di Zamora, che era stato frate di nostra Signora del Carmine. Si chiamava Diego de Guadalajara ed era devoto della gloriosa sant’Anna. Aveva pertanto fatto costruire accanto alla sua casa questo romitorio che gli permetteva di ascoltare la Messa. Spinto dalla sua grande devozione, era andato a Roma riportandone una Bolla con molte indulgenze per questa chiesa o, meglio, per il romitorio. Era un uomo virtuoso e desideroso di vivere ritirato. Prima di morire aveva disposto nel testamento che questa casa e tutto quello che aveva servisse a un monastero di religiosi di Nostra Signora del Carmine. Se ciò non si fosse fatto, doveva restarne erede un cappellano che era tenuto a celebrarvi qualche Messa ogni settimana. Nel caso in cui si fosse costruito un monastero, tale obbligo sarebbe cessato.

45. Il romitorio rimase, così, servito da un cappellano per più di venti anni, durante i quali i beni diminuirono di molto. Queste giovani, al loro ingresso lì, non ebbero che la casa. Il cappellano stava in un’altra della stessa cappellania, che ora lascerà con tutto il resto: si tratta di ben poco, ma la misericordia di Dio è così grande, che non mancherà di favorire la casa della sua ava gloriosa. Piaccia a Sua Maestà di esservi sempre servito, e tutele creature lo lodino in eterno! Amen.

 

CAPITOLO 29

Vi si tratta della fondazione in Palencia del monastero di San Giuseppe di nostra Signora della Strada, il giorno della festa del re Davide del 1580.

 

1. Al ritorno dalla fondazione di Villanueva de la Jara, il nostro Superiore mi ordinò di recarmi a Valladolid, su richiesta del vescovo di Palencia, don Alvaro de Mendoza, il quale aveva accettato e protetto il nostro primo monastero di San Giuseppe di Avila, e sempre favorisce quanto riguarda l’Ordine riformato. Lasciato il vescovado di Avila e trasferitosi a Palencia, nostro Signore gli aveva ispirato il desiderio di fondare lì un altro monastero del nostro santo Ordine. Giunta a Valladolid, fui colpita da una malattia così grave che pensarono che io morissi. Mi rimase una tale svogliatezza e una così assoluta convinzione di non essere più buona a nulla che, nonostante le insistenze della nostra priora di Valladolid, la quale desiderava molto questa fondazione, non riuscivo a prendere la risoluzione di farla né vedevo su quale fondamento si potesse fare, perché il monastero doveva essere senza rendite e mi dicevano che non avrebbe potuto mantenersi, essendo la città assai povera.

2. Da più di un anno si parlava di questa e della fondazione di Burgos e mai mi ero sentita così contraria come allora. Vi scorgevo molti inconvenienti, pur essendo andata a Valladolid solo a questo scopo. Non so se ciò dipendesse dalla grave malattia avuta e dalla debolezza che mi era rimasta, o se il demonio volesse impedire il bene che ne è seguito. È certo che mi è causa di stupore e afflizione il vedere quanto la povera anima partecipi alle infermità del corpo, e molte volte me ne lamento con nostro Signore. Si direbbe che essa debba obbedire alle sue leggi, tanti sono i bisogni e le necessità che il corpo le oppone.

3. Mi sembra che una delle più grandi angosce e miserie di questa vita sia che lo spirito manchi della forza necessaria per avere il sopravvento sul corpo. Infatti, se avere malattie e patire forti dolori è certamente gravoso, quando l’anima mantiene il suo vigore ritengo che non sia nulla perché, considerando che ciò viene da Dio, essa ne trae motivo per lodarlo. Ma, patire da una parte e restare inerti dall’altra è una cosa terribile, specialmente per un’anima che ha nutrito ardenti desideri di non avere alcun riposo interiore ed esteriore, e dedicarsi tutta al servizio del suo gran Dio. In questo caso non v’è altro rimedio che la pazienza, la consapevolezza della propria miseria e l’abbandono alla volontà di Dio, affinché si serva di noi in tutto ciò che vuole e come vuole. Io mi trovavo allora in tale stato. Benché già convalescente, ero così stremata da aver perduto anche quella fiducia che sono solita ricevere da Dio quando si tratta di dare inizio a una fondazione. Tutto mi sembrava impossibile. Se allora avessi trovato una persona capace d’incoraggiarmi, ne avrei avuto un gran vantaggio, mentre gli uni aumentavano i miei timori, e la debole speranza che gli altri mi offrivano non bastava a vincere la mia pusillanimità.

4. Capitò lì un padre della Compagnia, chiamato il maestro Ripalda, gran servo di Dio, dal quale un tempo mi ero confessata. Lo misi al corrente della mia situazione e lo pregai di espormi il suo parere, dichiarandogli che desideravo mi tenesse le veci di Dio. Egli cominciò a farmi molto coraggio, assicurandomi che quella pusillanimità era un effetto della vecchiaia. Ma vedevo bene che non si trattava di questo; ora, infatti, sono più vecchia e non mi sento in quello stato. Anch’egli probabilmente lo sapeva, ma lo diceva nell’intento di mortificarmi e impedirmi di farne risalire la causa a Dio. Per la fondazione di Palencia, come per quella di Burgos, a cui dovevo contemporaneamente provvedere, non avevo alcuna risorsa, ma non era questo a rendermi esitante, perché sono solita cominciare con meno ancora. Il maestro Ripalda mi esortò dunque a non abbandonare in nessun modo l’impresa. Lo stesso aveva detto poco prima a Toledo un provinciale della Compagnia, che si chiama Baltasar Alvarez. Ma allora io stavo bene.

5. Ora, invece, tale esortazione non bastò a farmi decidere, anche se era molto opportuna: non riuscii a superare del tutto la mia esitazione, inceppata com’ero o dal demonio o – come ho detto – dalla malattia. Tuttavia, mi sentii più disposta. La priora di Valladolid, che aveva molto a cuore la fondazione di Palencia, mi spronava quanto poteva; ma, vedendomi così fiacca, temeva anche lei che non mi decidessi a farla. Venga, dunque, ora a rianimarmi il vero fervore, poiché gli uomini e gli stessi servi di Dio non bastano a darlo! Si vedrà così che spesso non sono io ad agire in queste fondazioni, ma colui che può tutto.

6. Un giorno, mentre, dopo la comunione, ero in questi dubbi e in procinto di rinunziare a qualunque fondazione, supplicai nostro Signore di darmi luce per adempiere in tutto la sua volontà, giacché il mio scarso zelo non era mai tale da raffreddare, anche minimamente, questo desiderio. Il Signore allora mi disse, a mo’ di rimprovero: Di che temi? Quand’è ch’io ti sono mancato? Io sono oggi quello che sono sempre stato; non lasciar di fare queste due fondazioni. Oh, gran Dio! Come sono diverse le vostre parole da quelle degli uomini! In virtù di esse rimasi così piena di coraggio e di decisione, che il mondo intero non sarebbe riuscito a frappormi ostacoli. Cominciai subito ad occuparmi della fondazione e nostro Signore, da parte sua, cominciò a darmi i mezzi per attuarla.

7. Presi con me due monache la cui dote doveva servirmi per l’acquisto della casa. Ormai avevano un bel dirmi che a Palencia non si poteva vivere d’elemosina; era come se non mi dicessero nulla. Vedevo bene che allora non si poteva pensare a provvederla di rendite, ma, poiché Sua Maestà mi ordinava di fondare il monastero, certo, avrebbe provveduto alle sue necessità. Pertanto, benché non fossi del tutto ristabilita, mi decisi a partire, nonostante i rigori della stagione; lasciai, infatti, Valladolid il giorno degli Innocenti del 1580, come ho detto prima, perché dal principio dell’anno seguente fino a San Giovanni un cavaliere del luogo ci aveva ceduto una casa da lui presa in affitto e poi lasciata per andare a vivere altrove.

8. Scrissi in proposito a un canonico di quella città. Non lo conoscevo, ma un suo amico mi aveva detto che era un gran servo di Dio. D’allora in poi fui convinta che vi avrebbe molto aiutate, perché il Signore stesso, come si è visto nelle altre fondazioni, sceglie in ogni luogo chi possa dare aiuto ad esse, conoscendo il poco di cui io sono capace. Mandai dunque a pregare quel canonico di farmi sgombrare la casa con la maggior segretezza possibile – vi stava ancora infatti un inquilino – e di non dire quale dovesse esserne l’uso. Ritenevo sempre più sicuro che della cosa non trapelasse notizia, nonostante la favorevole disposizione di alcune persone ragguardevoli, soprattutto del vescovo.

9. Il Canonico Reinoso (questo era il nome del sacerdote al quale avevo scritto) fece tutto così bene che non solo ottenne lo sgombro della casa, ma la provvide di letti e di molte altre comodità, dimostrandosi pieno di attenzioni. E ne avevamo bisogno, perché faceva un gran freddo e il giorno prima era stato di enorme fatica per noi, a causa di una nebbia così fitta che c’impediva quasi di vederci. Ciò nonostante, ci concedemmo ben poco riposo, finché non fu preparato il posto dove il giorno seguente si potesse celebrare la Messa prima che nessuno sapesse del nostro arrivo. Infatti, ho sperimentato che questo è il metodo migliore nelle fondazioni di cui parlo perché, se ognuno comincia a dire la sua, il demonio sconvolge ogni cosa e, pur non potendo riuscire a nulla, crea inquietudine. Si fece dunque così. L’indomani mattina, quasi sul far del giorno, celebrò la Messa un sacerdote, gran servo di Dio, di nome Porras, che ci aveva accompagnato insieme con Agustín de Victoria, un altro amico delle religiose di Valladolid. Quest’ultimo mi aveva prestato del denaro per sistemare la casa e mi aveva assistito durante il viaggio con ogni sorta di attenzioni.

10. Eravamo, me compresa, cinque religiose, più una suora che mi accompagnava da un po’ di tempo; è una conversa, ma così gran serva di Dio e così prudente che può essermi più utile di altre religiose coriste. Quella notte dormimmo ben poco, anche se – come ho detto – il viaggio era stato assai faticoso per le piogge cadute in continuazione.

11. Fui molto felice che si desse inizio alla fondazione nel giorno in cui si recitava l’Ufficio del re Davide, del quale io sono devota. Subito, la stessa mattina, feci avvisare l’illustrissimo vescovo, il quale ignorava la data del mio arrivo. Egli venne immediatamente sul posto, animato da quella grande carità che ha sempre avuto nei nostri riguardi. Ci promise di darci tutto il pane di cui avessimo bisogno e ordinò al vicario episcopale di provvederci di molte cose. Il nostro Ordine gli deve molto: chiunque leggerà queste fondazioni ha l’obbligo di raccomandarlo, vivo o morto, a nostro Signore. Lo chiedo in nome della carità. La gioia dimostrata dall’intera città fu così grande e così generale da apparire del tutto straordinaria, perché non ci fu nessuno che disapprovasse l’iniziativa. Vi contribuì molto il sapere che la fondazione era voluta dal vescovo per il quale tutti nutrono un grande amore. Del resto, questa gente ha la migliore indole e la più grande elevatezza di sentimenti che abbia mai visto. Mi rallegro pertanto ogni giorno di più d’aver fondato un monastero in quella città.

12. Siccome la casa non ci apparteneva, subito iniziammo le trattative per comprarne un’altra, perché la nostra, pur essendo in vendita, era assai malo situata. Con l’aiuto della dote di quelle religiose che erano destinate alla fondazione di Palencia, mi sembrava che si potesse farne il tentativo. Anche se ciò di cui disponevamo era poco, per quel luogo era molto. Però, se Dio non ci avesse dato i buoni amici che ci diede, tutto sarebbe stato vano. Il buon canonico Reinoso ci condusse un altro amico suo, che era il canonico Salinas, uomo di grande carità e intelligenza. Entrambi presero a cuore i nostri interessi come se si fosse trattato di cosa propria; anzi, più ancora, credo non abbiano mai cessato di avere per quel monastero ogni cura.

13. Vi è in Palencia una casa, oggetto di particolare devozione, dedicata a nostra Signora, una specie di romitorio, intitolato a Nostra Signora della Strada. Vi accorre molta gente dalla città e dai dintorni, piena di venerazione. Sua signoria, come tutti, ritenne che saremmo state bene vicino a quella chiesa. Non aveva annessa una casa, ma ce n’erano due lì nei pressi che, unite alla chiesa, ci sarebbero bastate. La chiesa ci doveva essere ceduta dal Capitolo e da una confraternita a cui apparteneva. Cominciammo allora le pratiche per ottenerne la proprietà. Il Capitolo ce ne fece subito dono; quanto alla confraternita, sebbene i suoi membri ci avessero dato non poco filo da torcere perché riuscissimo a convincerli, finì col cedere; come ho detto, gli abitanti di Palencia sono fra i più ricchi di virtù ch’io abbia mai visto.

14. Quando i proprietari delle due case seppero che intendevamo comprarle, cominciarono, com’è facile capire, ad alzarne il prezzo. Volli andare a vederle e ne ebbi una così cattiva impressione – io e le altre con cui ero –, che in nessun modo avrei voluto acquistarle. Si è poi costatato chiaramente che in questo aveva gran parte il demonio, spiacente come era che noi andassimo lì. Ai due canonici che trattavano l’affare esse sembravano troppo lontane dalla cattedrale; il che è vero, ma, d’altra parte, si trovavano nel quartiere più popoloso della città. Infine, fummo tutti d’accordo che quella residenza non ci conveniva e che bisognava cercarne un’altra. I due canonici vi si adoperarono con tanta cura e diligenza che mi facevano lodare di ciò il Signore: non tralasciavano di visitare tutte le case che sembravano adatte al nostro scopo, finché ne trovarono una di loro gusto, appartenente a un certo Tamayo. Aveva varie stanze disposte in modo particolarmente adatto a noi. Era vicina a quella di un illustre cavaliere chiamato Suero de Vega, nostro grande benefattore, il quale desiderava ardentemente, con altre persone del quartiere, che andassimo a stare lì.

15. Questa casa però non ci bastava e, benché ce ne offrissero, insieme, un’altra, la sua disposizione non era tale da offrire la possibilità, unendola alla prima, di sistemarci convenientemente. Tuttavia, per le informazioni che me ne davano, io desideravo acquistarla, ma quei signori non vollero far nulla senza che prima non l’avessi vista. A me rincresce tanto uscire fra la gente e avevo così gran fiducia in loro, che non c’era modo d’indurmi a farlo. Alla fine vi andai, e visitai anche le case di Nostra Signora, pur senza avere l’intenzione di acquistarle ma solo perché l’altro proprietario non credesse che l’unica soluzione ci fosse offerta da lui. Ripeto che sia a me sia alle religiose che mi accompagnavano, esse fecero una così cattiva impressione, che oggi ci meravigliamo di come ci siano potute apparire tanto sgradevoli. In tale disposizione d’animo ci recammo a visitare l’altra, ormai decise a non comprare che quella. Pur trovando in essa grandi inconvenienti, ci passammo sopra, benché fosse assai difficile potervi rimediare in quanto, per fare una cappella – e anche modesta – dovevamo privarci della parte migliore da destinare a uso di abitazione.

16. È davvero strano partire da preconcetti: tuttavia l’esperienza mi servì a non fidarmi di me stessa, anche se allora non ero la sola a ingannarmi. In conclusione, ce ne tornammo ben decise ad acquistare quella casa e nessun’altra, a pagare il prezzo richiesto dal proprietario – che era molto – e a scrivergli, perché non stava in città, ma poco lontano.

17. Sembrerà forse inopportuno che mi sia indugiata tanto a parlare dell’acquisto della casa, finché non si vedrà il fine che si proponeva il demonio distogliendoci dall’andare in quella di Nostra Signora; ogni volta che ci penso, ne provo spavento.

18. Quando ormai – come ho detto – eravamo tutti decisi a non comprarne altra, il giorno dopo, durante la Messa, mi venne un gran timore di sbagliare, accompagnato da un’inquietudine che non mi diede quasi alcuna possibilità di raccogliermi durante tutta la Messa. Andai a ricevere il santissimo Sacramento e, appena fatta la comunione, udii le seguenti parole, che mi fecero decidere fermamente a lasciare la casa che avevo fissata e a prendere quella di Nostra Signora: Questa ti conviene. Pensai subito alla difficoltà che avrei incontrato nel desistere da un affare le cui trattative erano già inoltrate e la conclusione così vivamente desiderata da coloro che vi si erano adoperati con tanto zelo. Il Signore riprese: Essi non sanno quanto io sia offeso in quel luogo. Il monastero vi porrà efficace rimedio. Mi venne in mente che potesse essere un inganno, sebbene non ci fosse ragione di crederlo, riconoscendo io bene , dagli effetti operati in me, che si trattava dello spirito di Dio. Aggiunse allora subito: Sono io.

19. Rimasi pertanto del tutto tranquilla e libera dal turbamento avuto prima, anche se non sapevo a quale rimedio appigliarmi per annullare il già fatto e ritrattare tutto il male che avevo detto di quella casa, specialmente alle mie consorelle, con le quali avevo rincarato la dose delle critiche, dichiarando loro che mi compiacevo di non aver voluto che vi fossimo andate senza vederla. È vero che di questo non m’importava molto, sapendo che esse avrebbero approvato ogni mia decisione; mi preoccupavo degli altri, i quali desideravano quell’acquisto; visto che cambiavo così facilmente parere, mi avrebbero certo giudicata volubile e leggera, difetti che detesto moltissimo. Tutti questi pensieri, peraltro, non facevano vacillare né poco né molto la mia decisione di andare nella casa di Nostra Signora, dei cui disagi già non mi ricordavo più. Se la presenza delle nostre religiose poteva evitare anche un solo peccato veniale, tutto il resto non aveva alcuna importanza. Credo che chiunque di loro, se avesse saputo quello che sapevo io, sarebbe stata dello stesso parere.

20. Ricorsi a questo mezzo: io mi confessavo allora dal canonico Reinoso, uno dei due sacerdoti che mi aiutavano. Fino a quel momento non gli avevo mai parlato delle grazie soprannaturali di cui ero favorita, non essendosi presentata l’occasione che lo rendesse necessario. Siccome in casi di questo genere sono solita, per maggiore sicurezza, seguire il consiglio del confessore, decisi di parlargliene in grande segreto. Peraltro non mi sentivo disposta a lasciare di fare ciò che mi era stato detto senza che, dovendolo fare, ciò non mi procurasse grande afflizione. Ma avrei seguito ugualmente la decisione del padre, nella speranza che nostro Signore, come già altre volte, avrebbe fatto cambiar parere al confessore affinché, quantunque fosse inizialmente di opinione diversa, mi consigliasse conformemente ai suoi desideri.

21. Gli dissi anzitutto quante volte nostro Signore si degnasse darmi le sue istruzioni in questo modo e che da molti effetti fino allora costatati si era potuto vedere che si trattava del suo spirito. Gli raccontai quindi quanto avveniva, aggiungendo che avrei fatto quello che a lui sembrasse opportuno, quand’anche dovesse riuscirmi penoso. Egli è molto saggio, oltre ad essere un grande santo, e, benché giovane, capace di consigliare bene in qualunque circostanza: pur rendendosi conto che un tale cambiamento avrebbe attirato l’attenzione della gente, non volle impedirmi di fare ciò che mi era stato detto. Io gli proposi di aspettare il ritorno del messo ed egli fu d’accordo. Da parte mia speravo che Dio avrebbe rimosso ogni difficoltà. E fu così perché il padrone della casa, benché gli avessimo dato tutto quello che voleva e che aveva chiesto, avanzò la pretesa di altri trecento ducati; ciò appariva pazzesco, perché gliela si pagava già troppo. Vedemmo in questo contrattempo la mano di Dio in quanto, avendo egli interesse a vendere ed essendosi già convenuto il prezzo, aumentarlo era cosa assurda.

22. Fu per noi un ottimo pretesto per rimediare alla situazione: gli dicemmo infatti che con lui non si sarebbe fatto più nulla. Tuttavia ciò non serviva a giustificarci completamente perché, per trecento ducati, era chiaro che non avremmo dovuto rinunziare a una casa che sembrava adatta a un monastero. Dissi al mio confessore di non preoccuparsi della mia reputazione, visto che egli mi approvava. Lo pregai al tempo stesso di riferire al suo compagno che ero decisa a comprare la casa di Nostra Signora, fosse cara o a buon mercato, buona o cattiva. L’altro, che è assai perspicace, pur non essendogli stato detto nulla, nel vedere un cambiamento così improvviso, credo ne immaginò il motivo e non insistette oltre a questo riguardo.

23. Abbiamo poi capito tutti quale grave errore avremmo commesso nel comprare l’altra casa: ci riempie di meraviglia ora vedere fino a che punto sia preferibile questa, prescindendo dal fatto principale, evidentissimo, che in essa si serve nostro Signore e la sua gloriosa Madre, e si eliminano molte occasioni di peccato. Non essendo che un romitorio, nelle frequenti veglie notturne potevano accadere molte cose che il demonio si rammaricava di veder cessare. Per questo motivo ci rallegriamo di poter fare qualcosa per la Vergine nostra Madre, Signora e patrona, ed è stato un grave torto non averlo fatto prima, perché doveva bastarci questo solo motivo per andarvi. È chiaro che il demonio faceva di tutto per accecarci in mille guise, visto che questa casa offre molte comodità che non si troverebbero altrove. Fu grandissima, in città, la gioia di tutti, essendo vivamente desiderata la nostra presenza qui; anche coloro che propendevano per l’altra casa finirono con il ritenere ottima la nostra scelta.

24. Sia benedetto per sempre colui che mi ha dato luce a questo riguardo, come me la dà ogni volta che riesco a fare qualcosa di buono, perché sono stupita ogni giorno di più della mia inettitudine in tutto. e non si deve pensare che questa sia umiltà, ma una costatazione che ogni giorno diventa più chiara. Sembra volontà del Signore che io e tutti riconosciamo che è solo lui a compiere queste opere e che, come col fango diede la vista al cieco, così permette che un essere di tale cecità quale son io faccia cose che cieche non sono. Non c’è dubbio, infatti, che in tale circostanza diedi prova – come ho detto – di assoluta cecità, e ogni volta che ci penso, vorrei di nuovo rendere lode al Signore per la sua grazia. Ma non sono capace neanche di questo, e non so come possa sopportarmi. Sia benedetta la sua misericordia! Amen.

25. Questi santi amici della Vergine si affrettarono dunque a prendere accordi per l’acquisto delle case che, a mio giudizio, furono cedute a buon prezzo. Ma ebbero molto da faticare, perché in ognuna delle nostre fondazioni Dio vuole che ci siano motivi di merito per quelli che ci aiutano: io sono l’unica a non far nulla, come ho detto altre volte, né vorrei cessare di dirlo, perché è la verità. Ebbero a sostenere infatti un’enorme fatica nel sistemare la casa, oltre a darci anche denaro per farlo, perché io non ne avevo più, con l’aggiunta delle loro garanzie. Nelle altre fondazioni, invece, prima di trovare un garante, e non per somme di tale valore, soffrivo grandi pene. Ciò è naturale perché, non avendo io neanche un soldo, chi rispondeva di noi non poteva fare affidamento che su nostro Signore. Ma Sua Maestà mi ha favorito sempre di tanta grazia che mai nessuno ha perso nulla per farci da garante; sono stati tutti pagati molto bene, e questa è per me una grazia straordinaria.

26. Siccome i proprietari non si contentavano dei nostri due garanti, essi ricorsero al vicario episcopale che, se ben ricordo, si chiamava Prudencio, così almeno mi dicono ora, perché, chiamandolo sempre «il vicario», non ne conoscevo il nome. È con noi di tanta carità che gli dobbiamo – ora come allora – molto. Incontrati i due canonici, chiese loro dove andassero. Essi risposero che erano in cerca di lui per pregarlo di firmare quella cauzione. Si mise a ridere e disse: «E per una garanzia di una simile somma vi rivolgete a me in questo modo?». Quindi subito, senza scendere dalla mula, appose la sua firma, cosa ben degna di nota per i tempi che corrono.

27. Quante lodi avrei da fare alla carità che trovai in Palencia, sia da parte della città, sia dei singoli abitanti. Non c’è dubbio che mi sembrava di essere ai tempi della Chiesa primitiva – o per lo meno di fronte a una carità di cui si è perduto l’uso in questo mondo – nel vedere che, pur non avendo rendite e dovendo essere mantenute, non solo ciò non ci creava ostacoli, ma era motivo perché tutti ci dicessero che Dio accordava loro una grazia straordinaria. Del resto, a considerare la cosa con la luce di Dio, dicevano la verità perché, quand’anche la grazia non fosse che quella di avere una chiesa in più ove si trova il santissimo Sacramento, è già grande.

28. Sia egli eternamente benedetto! Amen. È sempre più evidente infatti, che ha voluto la fondazione del monastero in quel luogo a causa di alcuni inconvenienti che ora non si verificano più perché, essendo il romitorio meta di veglie notturne e così solitario, non tutti vi andavano per devozione. Ma ora queste cose vanno scomparendo. L’immagine di nostra Signora non aveva una decente collocazione. Le ha fatto erigere una cappella a sue spese il vescovo don Alvaro de Mendoza, e a poco a poco aumenta il numero delle iniziative a onore e gloria di questa beata Vergine e di suo Figlio: sia per sempre lodato! Amen. Amen.

29 Quando la sistemazione della casa fu completata e giunse il momento che le monache vi si trasferissero, il vescovo volle che ciò avvenisse con gran solennità. Per questo motivo, lo si fece un giorno dell’ottava del santissimo Sacramento, in cui egli stesso venne da Valladolid, con la partecipazione del Capitolo, degli Ordini religiosi e di quasi tutta la città. C’era anche molta musica. Dal luogo della nostra dimora ci recammo tutte in processione, con le nostre cappe bianche e con i veli calati sul viso, a una parrocchia che stava vicino alla casa di Nostra Signora, la cui immagine fu portata fuori a incontrarci. Lì si prese il santissimo Sacramento e lo si portò nella nostra cappella con grande solennità e con ammirevole ordine. Tutti erano presi da grande devozione. C’erano anche le monache che avevo fatto venire per la fondazione di Soria, con in mano le candele. Credo che il Signore, quel giorno, in tale città fu molto lodato. Piaccia a lui essere così lodato sempre da tutte le creature! Amen. Amen.

30. Mentre ero a Palencia, Dio volle che si facesse la separazione degli scalzi dai calzati: essi venivano a formare una provincia a parte, che era quanto desideravamo per la nostra pace e tranquillità. Su richiesta del nostro cattolico re, don Filippo, giunse da Roma un Breve molto ampio che regolava la questione. Sua Maestà, che ci aveva favorito fin da principio, ci aiutò molto per il conseguimento di questo fine. Si tenne il Capitolo in Alcalá, radunatovi da un reverendo padre domenicano, Juan de las Cuevas, che era allora priore di Talavera. Designato da Roma e nominato da Sua Maestà, aveva tutta la santità e l’intelligenza richieste da tale circostanza. Il re pagò le spese del Capitolo, favorito anche, per suo ordine, dall’intera Università. L’adunanza si tenne, in tutta pace e concordia, nel collegio degli scalzi di quella città, intitolato a san Cirillo. Fu eletto provinciale il padre maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio.

31. Siccome questi padri scriveranno un libro a parte come ciò ebbe luogo, non c’era motivo che ne parlassi. Se l’ho fatto è perché, mentre ero a Palencia per la fondazione di quel monastero, nostro Signore portò a termine una questione così importante a onore e gloria della sua santa Madre. Si tratta infatti del suo Ordine, essendo ella nostra Signora e patrona. Provai allora una delle più grandi gioie e consolazioni di cui potevo godere in questa vita. Avevo trascorso più di venticinque anni tra prove, persecuzioni e sofferenze, che sarebbe troppo lungo raccontare, e solo nostro Signore sa quali siano state. Vedendo tutto ormai concluso, mi sentii il cuore pieno d’una tale gioia che non può essere intesa se non da chi conosce le pene che si sono patite. Avrei voluto che il mondo intero rendesse lode a nostro Signore e si unisse a me nel raccomandargli il nostro santo re don Filippo, per mezzo del quale egli ha condotto le cose a tanto buon fine. Se non fosse stato per lui, la nostra opera sarebbe crollata perché il demonio era ricorso ad astuti artifizi.

32. Ora, calzati e scalzi siamo tutti in pace e nessuno ci è di ostacolo nel servire il Signore. Per questo, fratelli e sorelle miei, visto che egli ha ascoltato così bene le nostre suppliche, affrettiamoci a servire Sua Maestà. Considerino i religiosi qui presenti, che ne sono testimoni oculari, le grazie che ci ha donato e le sofferenze e le ansie da cui ci ha liberato. Chi verrà dopo di noi, trovando tutto sistemato, non lasci mai indebolire in nessuna casa la perfezione, per amore di nostro Signore. Non si dica di essi ciò che si dice di certi Ordini, cioè che gli inizi sono stati lodevoli. Noi cominciamo ora. Procuriamo di cominciare sempre e d’andare innanzi di bene in meglio. Badate che, servendosi di ben piccole cose, il demonio apre la breccia attraverso cui passano quelle assai grandi. Non vi accada mai di dire: «Questo non ha alcuna importanza; sono tutte esagerazioni». Oh, come tutto è grave, figlie mie, quando si cessa di andare avanti!

33. Per amore di nostro Signore vi supplico di ricordarvi della rapidità con la quale tutto finisce, della grazia di cui egli ci ha favorito nel farci abbracciare quest’Ordine e del rigoroso castigo che toccherà a chi introdurrà in esso qualche rilassamento. Tenete sempre gli occhi fissi sulla stirpe di quei sommi profeti da cui discendiamo. Quanti santi abbiamo in cielo che hanno portato quest’abito! Cerchiamo di avere la benedetta presunzione di essere, con la grazia di Dio, simili ad essi. La battaglia durerà poco, sorelle mie, e la meta è eterna. Lasciamo stare le cose di quaggiù che in se stesse non sono nulla, per occuparci solo di quelle che ci avvicinano a questo fine che non ha fine, e ci aiutano meglio ad amare e a servire colui che vivrà per tutti i secoli. Amen. Amen. Siano rese grazie a Dio!

 

CAPITOLO 30

Ha inizio la fondazione del monastero della Santissima Trinità nella città di Soria, avvenuta l’anno 1581. Vi si celebrò la prima Messa il giorno del nostro padre sant’Eliseo.

 

1. Mentre ero a Palencia, occupata nella fondazione di cui ho parlato, mi portarono una lettera del vescovo di Osma, che era quel dottor Velázquez, con il quale avevo procurato di mettermi in contatto, quand’era canonico teologo nella chiesa cattedrale di Toledo. Tormentata ancora da alcuni timori e sapendolo uomo di straordinaria dottrina, oltre che gran servo di Dio, l’avevo pregato insistentemente di prendersi cura della mia anima e di confessarmi. Malgrado le sue numerose occupazioni, avendoglielo io chiesto per amor di Dio, accondiscese così volentieri che ne rimasi stupita. Mi confessò e diresse tutto il tempo che rimasi a Toledo, che fu lungo. Gli aprii la mia anima con assoluta franchezza, come sono solita fare. Ne trassi così gran profitto che da allora cominciai a non avere più tanti timori. È vero che vi contribuì un’altra ragione, che qui non è il caso di dire. Certo è che mi fece un gran bene, perché mi rassicurava con i testi della sacra Scrittura, che è quanto più giova a tranquillizzarmi, se ho la certezza, come l’avevo nei suoi riguardi, di trattare con chi li conosce bene. Del resto, univa alla scienza una vita santa..

2. Mi scriveva questa lettera da Soria, dove allora si trovava. Mi diceva che una signora del luogo, sua penitente, gli aveva parlato dell’eventuale fondazione di un monastero di nostre religiose. Egli era consenziente, ragion per cui si era interessato perché andassi lì a fondarlo. Mi pregava di fargli mantenere la parola data e, se il progetto mi sembrava conveniente, di dargliene notizia, perché in tal caso mi avrebbe mandato a prendere. Me ne rallegrai molto in quanto, prescindendo dall’utilità della fondazione, di cui ero convinta, desideravo fargli sapere certe cose della mia anima. D’altra parte, mi faceva piacere vederlo perché, avendomi fatto tanto bene, nutrivo per lui molto affetto.

3. La dama fondatrice anzidetta si chiama donna Beatriz de Beamonte y Navarra, perché discende dai re di Navarra ed è figlia di don Francisco de Beamonte, d’illustre e nobile famiglia. Rimasta vedova dopo alcuni anni di matrimonio, senza figli e con molti beni, aveva deciso da molto tempo di fondare un monastero di religiose. Quando ne parlò con il vescovo ed egli la informò di quest’Ordine delle scalze di nostra Signora, le piacque tanto che gli fece gran premura per la realizzazione del progetto.

4. È una donna dal carattere dolce, generosa, penitente; insomma, una gran serva di Dio. A Soria aveva una bella casa, solida e in buonissima posizione. Disse che ce l’avrebbe data con tutto quello che fosse stato necessario per la fondazione. E ce la diede, infatti, con una rendita di cinquecento ducati al venticinque per mille. Il vescovo si offrì di farci dono di una chiesa assai bella, tutta a volta, che apparteneva ad una parrocchia vicina, della quale ci siamo potute servire mediante la costruzione di un passaggio. Lo potette fare agevolmente perché era povera, e a Soria le chiese sono molte: così trasferì altrove la parrocchia. Di tutto questo mi dava notizia nella sua lettera. Ne parlai con il padre provinciale che si trovava allora a Palencia. Fu del parere, con tutti i nostri amici che, essendo finita la fondazione di Palencia, dovessi inviare un espresso al vescovo perché mandasse a prendermi. Io mi rallegrai molto di questa decisione per i motivi esposti precedentemente.

5. Cominciai a far venire le religiose che dovevo condurre a Soria con me. Ne scelsi sette, perché quella signora voleva che fossero piuttosto molte che poche, oltre a una conversa, la mia compagna e me. Venne a prenderci una persona particolarmente adatta allo scopo, con una diligenza, perché io avevo scritto che sarei stata accompagnata da due padri scalzi. Conducevo con me il padre Nicola di Gesù Maria, uomo di grande perfezione e prudenza, nativo di Genova. Quando prese l’abito aveva, se non mi sbaglio, più di quarant’anni, per lo meno li ha ora, e la sua vestizione è avvenuta da poco tempo. Ma, in così poco tempo ha fatto tali progressi che è evidente come nostro Signore l’abbia scelto a sostegno del nostro Ordine riformato durante le peripezie delle grandi persecuzioni sofferte. Ha lavorato molto, infatti, per noi, perché gli altri religiosi da cui ci sarebbe potuto venire un aiuto erano chi in esilio chi in prigione. Di lui, invece, siccome non ricopriva alcuna carica, essendo entrato – come ho detto – da poco nell’Ordine, i nostri nemici non facevano gran conto, oppure fu, questa, opera di Dio, perché avessi il suo appoggio.

6. È così prudente che potette alloggiare a Madrid nel convento dei calzati, con tale dissimulazione che non diede mai a vedere di occuparsi dei nostri affari. Così i padri non gli vietavano di stare lì con loro. Ci scrivevamo spesso, perché io mi trovavo allora nel monastero di San Giuseppe di Avila per decidere il da farsi: e questo gli era di conforto. Da qui si può vedere a quali estremi fosse ridotta la Riforma se, per mancanza di uomini capaci, come si dice, si faceva tanto conto di me. In tutto questo periodo ebbi modo di conoscere la sua perfezione e discrezione: è uno dei religiosi del nostro Ordine che amo molto nel Signore e di cui ho grande stima. Egli, dunque, con un fratello converso, ci accompagnò.

7. Il viaggio non fu molto faticoso perché l’inviato del vescovo ci provvedeva abbondantemente di tutto e ci aiutava a trovare confortevoli alloggi. Entrati, poi, nella diocesi di Osma, bastava dire l’interesse personale del vescovo nei nostri riguardi, perché ci facessero la migliore accoglienza, tanto grande è l’affetto che hanno per lui. Il tempo era buono; avanzavamo a piccole tappe; così questo viaggio ci costò ben poca fatica; ci fu piuttosto piacevole: fu, infatti, grandissima la mia gioia nel sentire le lodi che si facevano della santità del vescovo. Arrivammo a Burgo il mercoledì precedente l’ottava del santissimo Sacramento. Ci comunicammo lì il giovedì, che era il giorno dell’ottava. Pranzammo anche a Burgo, perché in giornata non si poteva arrivare a Soria e, in mancanza d’altro alloggio, passammo quella notte in una chiesa, ove non ci trovammo a disagio. Il giorno seguente vi ascoltammo la Messa e poi riprendemmo il cammino per Soria, dove arrivammo alle cinque della sera. Il vescovo era affacciato a una finestra della sua casa, dalla quale, quando passammo di lì, ci impartì la sua benedizione. Ciò mi fu di grandissima gioia, perché la benedizione di un vescovo e di un santo è sempre un’ottima cosa.

8. La signora che era la nostra fondatrice stava aspettandoci sulla porta di casa sua, cioè dove si doveva fondare il monastero. Non vedevamo l’ora di entrarvi, a causa della grande folla. Non si trattava di un fatto nuovo perché, dovunque andiamo, la gente, avida com’è di novità, fa una tale ressa intorno a noi che, senza il velo calato sul viso, la cosa ci sarebbe assai penosa. Ma, grazie ai nostri veli, l’inconveniente si fa meno molesto. La signora aveva fatto preparare per l’occasione una grande sala, dove si sarebbe celebrata la Messa perché, per recarci in quella di cui ci faceva dono il vescovo, bisognava attendere la costruzione del passaggio. Subito, il giorno seguente, che era la festa del nostro padre sant’Eliseo, la Messa fu celebrata.

9. La nostra fondatrice aveva provveduto con molta generosità a ogni nostra necessità. Ci lasciò in un appartamento dove restammo ben raccolte fino a che non fu terminata la costruzione del passaggio, cioè fino alla Trasfigurazione. Quel giorno si celebrò nella chiesa la prima Messa con molta solennità e gran concorso di gente. La predica fu tenuta da un padre della Compagnia; il vescovo era già partito per Burgo, poiché non c’è giorno e ora che egli non dedichi al lavoro. Allora, per giunta, stava male, avendo perduto l’uso di un occhio. Ebbi lì questa penosa notizia: mi affliggeva infatti profondamente la perdita di un organo così utile al servizio di nostro Signore. Ma sono misteri di Dio! Probabilmente egli volle con ciò dare la possibilità di acquistare maggior merito a questo suo servo, il quale, in effetti, continuò a lavorare come prima e a provare la sua conformità al volere divino. Mi diceva di non soffrirne più che se tale disgrazia fosse toccata ad un suo vicino, e come, a volte, perfino pensasse che neppure il perdere la vista anche dell’altro occhio lo avrebbe fatto soffrire, perché si sarebbe ritirato in un romitorio per dedicarsi, libero da ogni altro obbligo, al servizio di Dio. Questa era stata sempre la sua vocazione anche prima d’essere vescovo e di tanto in tanto me ne parlava. Fu anche sul punto di decidersi a lasciare tutto e ritirarsi in solitudine.

10. Non riuscivo ad abituarmi a quest’idea, perché mi sembrava che egli avrebbe giovato molto alla causa della nostra Chiesa e mi auguravo di vedergli conferire la carica di cui oggi è insignito. Tuttavia, il giorno in cui fu eletto vescovo, avendomelo egli fatto sapere subito, sentii un gran tuffo al cuore, sembrandomi di vederlo gravato da un peso enorme. Poiché non riuscivo a farmi forza né a ritrovare la pace, andai in coro a raccomandarlo a nostro Signore. Sua Maestà mi tranquillizzò subito dicendomi che ciò sarebbe stato a sua maggior gloria, come risulta sempre più evidente. Nonostante l’infermità dell’occhio e altre malattie da cui è affetto, di cui alcune assai penose, con l’aggiunta del continuo lavoro, digiuna quattro giorni alla settimana e fa altre penitenze; il suo nutrimento non conosce cibi prelibati. Quando si reca in visita pastorale, lo fa sempre a piedi, cosa che riesce insopportabile ai suoi dipendenti, i quali se ne sono lamentati con me. Occorre loro una gran virtù, altrimenti devono rinunziare a vivere nella sua casa. Non si fida molto di lasciare ai vicari affari importanti – credo neanche gli altri affari –, ma vuole che tutto passi per le sue mani. Durante i primi anni del suo episcopato soffrì le più feroci e calunniose persecuzioni. Ne ero sbigottita, conoscendo la sua integrità e la sua rettitudine nel rendere giustizia. Quando fui lì, però, andavano già scemando, benché i suoi nemici siano arrivati a denigrarlo fino a Corte e dovunque abbiano pensato di potergli nuocere. Ma siccome ormai ogni giorno di più la sua virtù è nota in tutta la diocesi, le loro accuse trovano poco credito. Egli inoltre ha sopportato tutto con tanta perfezione da confonderli, beneficando coloro che sapeva intenti a nuocergli. Infine, per molte che siano le sue occupazioni, non tralascia di trovare il tempo per l’orazione.

11. Sembra che mi sia fissata a dir bene di questo santo, eppure ho detto poco, ma servirà a far conoscere chi sia l’ideatore del monastero della Santissima Trinità di Soria e a offrire motivo di consolazione alle religiose che verranno in seguito ad abitarlo, perché quelle che vi stanno ora sono bene al corrente di tutto. Anche se egli non ci ha lasciato una rendita, ci ha dato una chiesa, ed è stato lui – ripeto – a impegnare nella fondazione quella signora che, come ho detto, è molto pia, virtuosa e penitente.

12. Preso ormai possesso della chiesa e sistemato tutto quello che occorreva per la clausura, fu necessario che ritornassi a San Giuseppe di Avila. Così partii immediatamente, con un caldo tremendo, per una strada pessima a percorrersi con i carri. Venne con me un prebendato di Palencia, di nome Ribera, che mi era stato di grandissimo aiuto nella costruzione del passaggio e in tutto il resto. Il padre Nicola di Gesù Maria era andato via subito dopo la conclusione del contratto relativo alla fondazione essendo indispensabile la sua presenza altrove. Questo Ribera, che era stato chiamato da un affare a Soria mentre noi andavamo lì, ci aveva accompagnato, e da allora Dio gli ispirò così gran desiderio di esserci utile che si può raccomandarlo a Sua Maestà fra i benefattori dell’Ordine.

13. Non volli che nessun altro venisse con la mia compagna e con me, perché egli è tanto premuroso che mi bastava lui solo. Nei viaggi, meno rumore c’è, più sono contenta. In questo ritorno però pagai tutto il piacere di cui avevo goduto nell’andata. Quantunque infatti chi ci accompagnava conoscesse la strada per Segovia, ignorava quella praticabile da un carro. Eravamo condotte per anfratti dove spesso dovevamo scendere, mentre il carro sembrava venisse portato quasi di peso per grandi dirupi. Se ricorrevamo alle guide, ci accompagnavano fin dove sapevano che la strada era buona e ci lasciavano un po’ prima che cominciasse quella cattiva, dicendo di aver da fare. Prima di trovare un alloggio, andando così, alla cieca, bisognava camminare molte ore al sole e col rischio, spesso, che il carro si rovesciasse. Io mi affliggevo per il nostro compagno di viaggio. Spesso infatti, dopo aver ricevuto l’assicurazione che andavamo bene, bisognava ritornare indietro. Ma la virtù in lui aveva così profonde radici che non mi pare di averlo mai visto contrariato, tanto da esserne rimasta assai stupita e da lodarne il Signore. È proprio vero che dove la virtù è ben radicata, le occasioni di mancarvi non fanno presa. Ringrazio Dio di averci voluto finalmente tirar fuori da quella strada.

14. Arrivammo a San Giuseppe di Segovia la vigilia di San Bartolomeo; tutte le nostre religiose stavano in gran pena per il nostro ritardo che, a causa delle pessime strade, era considerevole. Ci coprirono di attenzioni, giacché mai Dio mi manda una sofferenza senza ricompensarmene subito. Mi riposai lì otto giorni, e anche di più. Ma devo dire che la fondazione di Soria si è fatta con tanta facilità che non bisogna badare a questo contrattempo, perché cosa da nulla. Ritornai da lì soddisfatta sembrandomi, quello, un paese dove spero che la presenza di un monastero, per la misericordia divina, sarà di grande gloria per il Signore, come già si comincia a vedere. Sia egli per sempre benedetto e lodato per tutti i secoli dei secoli! Amen. Deo gratias!

 

CAPITOLO 31

Questo capitolo tratta della fondazione del monastero dedicato al glorioso San Giuseppe di Sant’Anna nella città di Burgos. Vi si celebrò la prima Messa il 19 aprile nell’ottava di Pasqua del 1582.

 

1. Da più di sei anni alcuni padri della Compagnia di Gesù, religiosi esemplari, anziani, di gran dottrina e spiritualità, mi dicevano che si sarebbe reso un gran servizio a nostro Signore con la fondazione a Burgos di un monastero di questa santa Riforma, adducendomene varie ragioni che mi invogliavano a farlo. Ma, per tutti i contrasti scatenatisi contro l’Ordine e le altre fondazioni, mi era stato impossibile occuparmene.

2. L’anno 1580, mentre ero a Valladolid, passò da lì l’arcivescovo di Burgos, di recente nomina in questa città e prima vescovo delle Canarie, in viaggio per la nuova sede. Supplicai il vescovo di Palencia, don Alvaro de Mendoza, di chiedergli l’autorizzazione per la nuova fondazione di Burgos. Ho già detto quanto egli appoggi il nostro Ordine: è stato il primo ad accettare il monastero di San Giuseppe di Avila, quando era lì vescovo. Da allora ci ha sempre favorito molto, prendendo a cuore le cose del nostro Ordine come fossero sue proprie. Rispose quindi che molto volentieri gliel’avrebbe chiesta, perché, sembrandogli che in queste case nostro Signore sia ben servito, ha molto piacere di vederne fondare di nuove.

3. L’arcivescovo non volle entrare in Valladolid: prese alloggio nel convento dei Girolamini, dove il vescovo di Palencia lo accolse con gran festa, pranzò con lui e gli diede una cintura o adempì non so quale cerimonia con cui era creato vescovo. In tale circostanza gli chiese l’autorizzazione per me di fondare il monastero. Egli rispose che l’avrebbe data assai volentieri: già nelle Canarie aveva desiderato e cercato di avere uno di questi monasteri, sapendo come nostro Signore vi fosse servito, perché nella sua città natale ve n’era uno, e mi conosceva bene. Il vescovo mi disse quindi che potevo essere sicura dell’autorizzazione, visto che l’arcivescovo si era molto rallegrato di questo progetto, e siccome il Concilio non parla di permesso scritto, ma solo di gradimento da parte dell’Ordinario, si poteva ritenere come già data.

4. A proposito della fondazione di Palencia, trattata precedentemente, ho detto quanto fossi restia allora dal farne di nuove, per aver avuto una grave malattia giudicata mortale e dalla quale non mi ero ancora ristabilita. Siccome però l’abbattimento fisico non suole farmi venir meno a ciò che reputo servizio di Dio, non mi spiego la causa della grande svogliatezza che si era impadronita di me. Se si volesse attribuirla alle scarse possibilità di riuscita, meno ancora ne avevo avute in altre fondazioni. Credo, dopo aver visto lo svolgimento degli avvenimenti, che fosse opera del demonio. In via ordinaria, quando una fondazione deve costarmi particolare fatica, nostro Signore, conoscendo la mia grande miseria, mi aiuta sempre con parole e con opere, mentre ho notato che in quelle esenti da difficoltà, Sua Maestà non mi dà alcun avvertimento. Così è stato in questa circostanza: conoscendo le sofferenze a cui si andava incontro, cominciò subito a farmi coraggio. Sia lodato per tutto quello che fa! Come ho già detto infatti, nella fondazione di Palencia per la quale si svolgevano trattative come per questa, a mo’ di rimprovero mi chiese di che cosa temessi e quando mai mi avesse abbandonato. Sono sempre lo stesso – egli disse –; non lasciar di fare queste due fondazioni. Poiché ho già parlato precedentemente del coraggio che ricevetti da queste parole, non c’è motivo di ripeterlo qui. Tutta la mia svogliatezza sparì all’istante, segno evidente che non ne era causa la malattia né la vecchiaia. Così, come si è detto, cominciai a trattare di entrambe le fondazioni.

5. Mi parve meglio cominciare da quella di Palencia, sia per la maggior vicinanza di questa città, sia per l’inclemenza della stagione e il gran freddo di Burgos, sia, ancora, per far piacere all’ottimo vescovo di Palencia. E così si fece, come già riferito. Ho detto anche che, mentre ero là, mi fu proposta la fondazione di Soria e, poiché a Palencia si era fatto tutto, ritenni opportuno andarvi subito, per recarmi poi da lì a Burgos. Il vescovo di Palencia giudicò conveniente informare di tutto l’arcivescovo e io lo supplicai d’interessarsene. Così egli, dopo la mia partenza per Soria, gli mandò espressamente da lì, a questo solo fine, un canonico di nome Juan Alonso. L’arcivescovo mi scrisse molto affettuosamente, dicendomi quanto desiderava vedermi arrivare, trattò della cosa con il canonico e scrisse a sua signoria rimettendosi a lui; se faceva qualche osservazione, era perché conosceva Burgos e sapeva come, per il nostro ingresso, fosse necessario il consenso della città.

6. Insomma, la conclusione era che io mi recassi sul posto e ne trattassi con la città; se questa mi negava il permesso, non gli avrebbe però potuto togliere la facoltà di concedermi il suo. Ma, essendosi trovato ad Avila al tempo della fondazione del primo monastero e ricordandosi del grande turbamento e dei forti contrasti che erano insorti, voleva qui prevenirli. Occorreva perciò che il monastero si fondasse con rendite o con il consenso della città. Non era conveniente per me agire diversamente, e per questo me lo diceva.

7. Il vescovo la ritenne cosa fatta, e a ragione, visto che l’arcivescovo mi chiamava a Burgos. Perciò, mi mandò a dire di andarvi, ma a me parve di notare nell’arcivescovo una certa mancanza di coraggio. Gli scrissi per ringraziarlo dell’aiuto di cui mi favoriva, dicendogli però al tempo stesso che, a mio giudizio, sarebbe stato peggio procedere alla fondazione dopo il rifiuto della città, che farla senza prevenirla, se si voleva evitare di esporre sua signoria a più seri contrasti (sembrava che prevedessi il poco aiuto che avrei trovato in lui, se fosse sorto qualche ostacolo); aggiungevo che avrei fatto i passi necessari, ma che la cosa mi sembrava difficile, perché in tali circostanze c’è sempre diversità di opinioni. Scrissi anche al vescovo di Palencia, pregandolo di concedermi una proroga, in considerazione del fatto che l’estate volgeva al termine e che le mie infermità erano troppe per affrontare il soggiorno in una città così fredda come Burgos. Non affacciai alcun dubbio sull’arcivescovo, perché egli era già spiacente di vedere che, dopo essersi dimostrato così ben disposto, sollevasse tante difficoltà e, sapendoli amici, non volevo suscitare alcuna discordia fra loro. Lasciai dunque Soria per recarmi ad Avila ben lontana, per il momento, dall’idea di ripartirne assai presto. Il mio ritorno al monastero di San Giuseppe di Avila era urgente per varie ragioni.

8. C’era nella città di Burgos una santa vedova di nome Catalina de Tolosa, nativa della Biscaglia. Se volessi dirne le virtù, così per quanto riguarda la penitenza, come per quanto riguarda l’orazione, le grandi elemosine, la carità, il grande ingegno e il coraggio, mi dilungherei troppo. Da quattro anni, mi pare, aveva fatto entrare due sue figlie nel nostro monastero della Concezione a Valladolid; altre due ne fece entrare in quello di Palencia, di cui aveva atteso la fondazione, conducendovele prima che io ne partissi.

9. Tutt’e quattro hanno avuto la riuscita che meritava l’essere figlie di tale madre: sembrano infatti proprio angeli: Catalina diede loro una buona dote e fece ogni cosa in modo perfetto, data l’estrema sua compitezza: adempie a tutto con grande precisione, e può farlo, perché ricca. Quando venne a Palencia, eravamo così certe dell’autorizzazione dell’arcivescovo, che non sembrava dovesse sorgere alcun intoppo. La pregai quindi di cercarmi una casa in affitto, per prenderne possesso, e di farvi mettere a mie spese grate e ruota. Non mi passava neanche per la mente che dovesse spendere del suo, ma solo anticiparmi il denaro che poi le avrei rimborsato. Ella ne aveva così vivo desiderio, che soffrì moltissimo della dilazione di quest’opera. Così, mentre avevo fatto ritorno, come ho detto, ad Avila, lontana dal pensare di occuparmi per il momento di quella faccenda, ella non rimase in ozio; anzi, ritenendo che tutto dipendesse dall’avere il consenso della città, senza dirmi nulla, cominciò a darsi da fare per averlo.

10. Aveva come vicine di casa due persone di nobili natali e gran serve di Dio, madre e figlia, che desideravano molto la fondazione. La madre si chiamava donna María Manrique, e aveva un figlio consigliere comunale di nome don Alonso de Santo Domingo Manrique; la figlia si chiamava donna Catalina. Entrambe trattarono della cosa con don Alonso, pregandolo di far richiesta del consenso alla municipalità. Egli parlò con Catalina de Tolosa, chiedendole quali garanzie potesse offrire da parte nostra, perché senza alcun impegno formale non c’era da aspettarsi un consenso. Gli rispose che ella si sarebbe assunto l’obbligo di darci una casa, se ne fossimo state prive, e di provvedere al nostro mantenimento, come effettivamente fece. Stese poi un’istanza che firmò col suo nome. Don Alonso si adoperò con tanta abilità a questo scopo che ottenne il consenso di tutti i consiglieri e portò egli stesso l’autorizzazione scritta all’arcivescovo, il quale assentì. Subito dopo l’inizio delle trattative Catalina mi scrisse che stava negoziando quest’affare. Ma io non presi la cosa sul serio, sapendo quanto sia difficile l’accettazione dei monasteri poveri. E, poiché ignoravo né mi passava lontanamente per la mente che ella si fosse assunta l’impegno di fare quel che realmente fece, mi sembrava che ci fosse bisogno di ben altro.

11. Ciò nonostante, un giorno dell’ottava di san Martino, mentre raccomandavo questa faccenda al Signore, mi chiesi cosa si poteva fare se la città avesse dato il suo consenso. Che andassi a Burgos con quel freddo e tutti quei malanni a cui il freddo è assai nocivo, mi sembrava impossibile; era anche una temerità, a mio giudizio, affrontare un così lungo viaggio, appena arrivata da quello tanto faticoso – come ho detto – di ritorno da Soria, né il padre provinciale me l’avrebbe permesso. Reputavo che poteva ben andarci la priora di Palencia perché, essendo tutto liscio, non c’era ormai molto da fare. Mentre facevo queste considerazioni ed ero fermamente decisa a non partire, mi sentii dire dal Signore le seguenti parole dalle quali capii che il consenso era ormai dato: Non badare al freddo, perché io sono il vero calore. Il demonio impiega tutte le sue forze per impedire quella fondazione: impiega tu le tue, da parte mia, per farla. Recati lì di persona, perché la tua presenza sarà molto utile.

12. Questo mi fece subito cambiare parere; infatti, anche se talvolta la mia natura è riluttante ad affrontare la sofferenza, non così la mia volontà, decisa a sopportare qualunque patimento per amore di un Dio così grande. Perciò gli dico di non badare a tali miei sentimenti di debolezza e di ordinarmi tutto quello che gli piace, giacché, con il suo aiuto, non mancherò di obbedirgli. In quel periodo nevicava e faceva freddo. Ma ciò che più mi rende vile è la mia poca salute: se l’avessi buona, credo che tutto mi sembrerebbe nulla. il cattivo stato della mia salute mi ha accompagnato per quasi tutto il tempo di questa fondazione. Il freddo è stato così lieve, almeno quello che ho sentito io che, a dire il vero, non ne ho sofferto più di quando stavo a Toledo: il Signore ha adempiuto perfettamente la parola data a questo riguardo.

13. Pochi giorni dopo mi portarono l’autorizzazione della città con lettere di Catalina de Tolosa e della sua amica donna Catalina in cui mi mettevano fretta, perché temevano il sorgere di qualche contrarietà; infatti i Vittoriani avevano fondato in quel momento un convento; già da tempo, inoltre, i carmelitani calzati cercavano di fare altrettanto; infine erano venuti i basiliani. Ciò costituiva per noi una seria difficoltà. C’era da restare stupiti del fatto che ci fossimo trovati in tanti – contemporaneamente – a prendere la stessa iniziativa. C’era anche da lodare nostro Signore per la grande carità di Burgos nell’accordare molto volentieri a tutti l’autorizzazione, benché non godesse della prosperità di un tempo. Io avevo sempre sentito lodare la carità dei suoi abitanti, ma non pensavo che arrivasse a tanto. Gli uni favorivano un Ordine, gli altri un altro; l’arcivescovo però, preoccupato di eventuali inconvenienti, cercava d’impedire queste fondazioni nel timore che fossero di pregiudizio agli Ordini mendicanti ai quali, poi, poteva riuscire difficile mantenersi. Forse erano questi stessi a ricorrere a lui, o si trattava di espedienti del demonio, per impedire il gran bene che Dio riversa su quei luoghi dove stabilisce molti monasteri, essendo così potente da mantenerli tutti, siano pochi o molti.

14. Per questo motivo, dunque, le due sante donne mi facevano tanta premura che io, seguendo il mio impulso, sarei partita immediatamente, se non avessi avuto da sbrigare alcuni affari. Pensavo infatti, vedendole tanto impegnate in questa faccenda, quanto più di loro io fossi obbligata a non far sfuggire un’occasione così favorevole. Le parole che avevo udite lasciavano intendere gravi difficoltà. Io non potevo sapere da chi né da che parte dovessero sorgere: Catalina de Tolosa mi aveva scritto di aver già sicura la casa – che era quella abitata da lei – per la presa di possesso; la città non presentava ostacoli, l’arcivescovo nemmeno. Non riuscivo a capire da chi dovevano venirmi contrasti per opera del demonio, perché non potevo certo dubitare che le parole rivoltemi a questo riguardo non venissero da Dio.

15. Infine, Sua Maestà dà certo più luce ai superiori che agli altri. Quando, in seguito alle parole che avevo udito, scrissi al padre provinciale per sapere se dovevo intraprendere questo viaggio, egli non vi si oppose, ma mi chiese se avessi l’autorizzazione scritta del vescovo. Inviai lettere a Burgos per informarmene. Mi risposero che egli era stato messo al corrente delle trattative intercorse per avere il consenso della città e che ne era rimasto soddisfatto. Questo, insieme a tutto quanto aveva sempre detto nei riguardi di tale fondazione, permetteva di non avere motivi di dubbio.

16. Il padre provinciale volle accompagnarci nel viaggio per questa fondazione, sia perché era più libero da occupazioni, avendo finito di predicare l’avvento, sia perché voleva visitare il monastero di Soria che non aveva rivisto da quando era stato fondato, tanto più che la deviazione era di poco conto. Oltre a ciò, giudicando la mia vita ancora di qualche utilità, si proponeva in quel viaggio di aver cura della mia salute, essendo il tempo assai inclemente e io molto vecchia e malata. Fu senza dubbio una disposizione di Dio, perché le strade erano così cattive, a causa della caduta di piogge torrenziali, che egli e i suoi compagni ci furono ben necessari per sapere dove passare ed averne aiuto a tirar fuori i carri dai pantani, specialmente da Palencia a Burgos: era stata, certo, una grande imprudenza mettersi in viaggio in quel momento. È vero però che il Signore mi aveva detto di non esitare a procedere in esso, esortandomi a non temere, perché egli sarebbe stato con noi. Anche se allora non feci parola di questo al provinciale, mi era di gran consolazione pensarci nelle grandi difficoltà e nei gravi pericoli in cui ci venimmo a trovare, specialmente in un tratto presso Burgos che chiamano ipontones. La pioggia era caduta in grande quantità e l’acqua del fiume in molti punti raggiungeva tale altezza da superare il livello dei ponti, che non si vedevano più, né si sapeva dove passare; dappertutto acqua, e anche molto profonda, da una parte e dall’altra. In conclusione, era una gran temerità tentare quel passaggio, specialmente con carri di cui bastava il minimo scarto perché tutto andasse perduto. Uno di essi, infatti, corse serio pericolo di affondare.

17. In una locanda incontrata poco prima avevamo preso una guida che conosceva quel passaggio; ma, comunque, questo è assai pericoloso. Alloggiare in qualche posto era, poi, un problema. Non si poteva, infatti, avanzare a tappe regolari con tali pessime strade. Quasi di continuo i carri affondavano tanto nel fango che, per tirarli fuori, bisognava staccare le bestie dall’uno e attaccarle all’altro. I padri che ci accompagnavano dovettero sobbarcarsi a una grande fatica, essendoci capitati carrettieri giovani e poco attenti. La presenza del padre provinciale ci era di grande sollievo, perché aveva cura di tutto. È di un carattere così tranquillo che non sembra turbarsi di nulla. Rendeva facili le cose più difficili, anche se non fu così al passaggio dei pontones, ove non potette evitare di temere molto. Effettivamente, vedersi in mezzo a quell’enorme quantità d’acqua, senza strada né imbarcazione, nonostante tutto l’incoraggiamento che nostro Signore mi aveva dato, fece temere anche me. Quale sarà stata, dunque, la paura delle mie compagne? Eravamo otto: due dovevano ripartire con me, cinque restare a Burgos: quattro religiose coriste e una conversa. Credo di non aver detto ancora come si chiami il padre provinciale. È fra Girolamo Graziano della Madre di Dio, di cui ho già fatto menzione altre volte. Soffrivo di un acuto mal di gola che mi ero presa durante il viaggio per Valladolid e continuavo ad avere la febbre. Mangiare mi faceva sentire gran dolore. Tali sofferenze m’impedirono di godere, come avrei voluto, delle peripezie del viaggio. Questo male mi dura tuttora che siamo alla fine di giugno; benché sia meno violento, mi dà sempre molta sofferenza. Tutte le mie compagne continuarono il viaggio allegramente: passato il pericolo, provavano gusto a parlarne. È gran cosa soffrire per obbedienza, allorché si è in essa tanto radicati quanto queste religiose!

18. Dopo un viaggio così cattivo, arrivammo a Burgos attraverso il gran fiume che s’incontra prima d’entrarvi. Il padre volle che ci recassimo anzitutto a visitare il santo Crocifisso per raccomandargli la faccenda e per attendere lì la notte, essendo arrivate presto. Era di venerdì, il giorno seguente alla Conversione di san Paolo, 26 gennaio. Il nostro fermo proposito consisteva nel realizzare subito la fondazione. Avevo con me molte lettere del canonico Salinas (del quale ho già parlato nella fondazione di Palencia e che qui non ebbe meno da fare, essendo nato nel luogo e da ragguardevole famiglia) dirette a sollecitare vivamente da parenti e amici il loro appoggio per la nostra causa.

19. Essi non mancarono di farlo; subito, fin dall’indomani, vennero tutti a trovarmi, e in commissione, per dirmi che non erano pentiti di quanto avevano promesso e che si rallegravano molto del mio arrivo: vedessi io in che cosa potevano servirmi. Siccome, se avevamo qualche timore, era proprio da parte della città, ci sembrò appianato ogni ostacolo. Senza il diluvio di pioggia sotto il quale giungemmo alla casa della buona Catalina de Tolosa, avremmo provveduto a informare il vescovo del nostro arrivo, prima che lo sapesse da chiunque altro, affinché si potesse celebrare subito la prima Messa, come faccio nella maggior parte delle fondazioni, ma dovemmo rinunciarvi per la ragione anzidetta.

20. Quella notte riposammo assai bene, per tutte le comodità offerteci da questa santa donna. La sua sollecitudine però mi costò cara; c’era un gran fuoco acceso per asciugare l’acqua e, benché fosse in un camino, mi fece così male che il giorno dopo non potevo alzare la testa, tanto che parlavo sdraiata a quelli che venivano a vedermi, attraverso una finestra con la grata, coperta da un velo. Ciò fu per me assai increscioso, perché quel giorno bisognava a ogni costo trattare i nostri affari.

21. Fin dalla mattina il padre provinciale andò a chiedere la benedizione dell’illustrissimo: era tutto quello che, a quanto credevamo, ci restasse da fare. Lo trovò così alterato e sdegnato perché ero venuta senza il suo permesso come se non me lo avesse mai dato né mai si fosse avviata quella fondazione. Le sue parole al padre provinciale furono pertanto di estrema irritazione a mio riguardo. Pur avendo ammesso di avermi ordinato di venire, disse che io sola dovevo trattare della cosa, ma venire con tante monache!… Dio ci liberi dalla contrarietà che ne aveva! Serviva a poco dirgli che già, com’egli aveva voluto, l’affare era concluso con la città, che non si doveva dar corso ad altre trattative, ma solo fondare il monastero, e che il vescovo di Palencia, al quale avevo chiesto se potevo partire senza farlo sapere a sua signoria, mi aveva risposto che non c’era motivo di preavvertirlo, visto che ne aveva già espresso il desiderio. Tutto si svolse esattamente così, perché Dio voleva la fondazione del monastero, come lo stesso arcivescovo ora riconosce. Se infatti gli avessimo fatto sapere candidamente del nostro arrivo, ci avrebbe detto di non venire. Congedò il padre provinciale dicendogli che se non avevamo rendite e casa propria, non ci avrebbe dato in nessun modo l’autorizzazione e che potevamo ben tornarcene subito indietro. Con quelle strade così buone e con quel tempo così bello!

22. Oh, com’è vero, mio Signore, che, non appena vi si rende un servizio, voi lo ripagate con una gran tribolazione! E che ricompensa preziosa sarebbe questa per coloro che vi amano davvero, se ne comprendessero subito il valore! Ma noi allora non avremmo voluto questo guadagno, perché sembrava rendere impossibile ogni nostro piano. L’arcivescovo esigeva di più: che quanto era destinato a servire per la rendita e l’acquisto della casa non doveva essere preso dalla dote delle religiose. Essendo tale condizione inammissibile nei tempi attuali, appariva chiaro che non c’era via d’uscita: non a me, però, sicurissima com’ero sempre che tutto sarebbe tornato a nostro profitto, che erano intralci del demonio per impedire la fondazione e che Dio sarebbe riuscito a farne effettuare l’esecuzione. Il padre provinciale ritornò tutto allegro con queste notizie, non rimanendone, per il momento, affatto turbato. Fu una provvidenza di Dio affinché non s’irritasse con me per non essermi procurata l’autorizzazione scritta, com’egli mi aveva detto.

23. Ho già detto prima che erano stati da me i parenti e gli amici del canonico Salinas, dopo aver ricevuto le sue lettere. Ritornarono subito e furono di avviso che si chiedesse all’arcivescovo il permesso di celebrare la Messa in casa, essendo indecoroso che noi andassimo per le strade scalze con tutto quel fango, mentre in casa c’era una stanza particolarmente adatta allo scopo. Era stata adibita a cappella dai padri della Compagnia di Gesù, appena venuti a Burgos, restando destinata a quest’uso per più di dieci anni. Ci sembrava pertanto che non potessero esserci difficoltà per far lì la presa di possesso fino all’acquisto di una casa. Ma non riuscimmo ad ottenere dall’arcivescovo il permesso di ascoltarvi la Messa, nonostante che i due canonici si fossero recati da lui a fargliene istanza. Tutto quello che si poté ottenere fu che, assicurataci la rendita, la fondazione si facesse in quel luogo fino all’acquisto di una casa, e che a tal fine c’impegnassimo su cauzione a comprarne una e ad andare via da quella in cui eravamo. Trovammo subito chi ci aiutò. Gli amici del canonico Salinas si offrirono a far loro da garanti e Catalina de Tolosa, da parte sua, ad assicurare la rendita della fondazione.

24. Per stabilire quanto, come e da chi dovesse provvedersi a tutto ciò, passarono, credo, più di tre settimane, e in tutto questo tempo non ascoltammo la Messa che nei giorni festivi, di prima mattina. Intanto la febbre non mi lasciava ed io stavo molto male. Ma Catalina de Tolosa provvide così bene a tutto, desiderosa com’era di prodigarsi per gli altri. Ha un cuore così grande che ci nutrì per un mese, come se fosse stata la madre di ognuna di noi, tenendoci con sé in una stanza appartata. Il padre provinciale alloggiava con i suoi compagni in casa di un amico, suo ex condiscepolo, il dottor Manso, allora canonico teologo della cattedrale. Benché contrariato per quell’indugio, non sapeva decidersi a lasciarci.

25. Una volta sistemata la questione dei garanti e della rendita, l’arcivescovo ci mandò dal vicario che doveva sbrigare subito la pratica. Ma il demonio non lasciava certo di correre ai ripari. Dopo che tutto era stato attentamente considerato, pensavamo ormai che non ci fosse più nessun motivo d’indugio: era trascorso quasi un mese per riuscire a ottenere dall’arcivescovo l’approvazione di quanto si era convenuto. Ma il vicario m’inviò un memoriale in cui si diceva che l’autorizzazione non sarebbe stata rilasciata fino a quando non avessimo una casa propria, perché l’arcivescovo non voleva più che la fondazione si facesse in quella dove stavamo, essendo umida e in una strada troppo rumorosa. Presentava inoltre non so quali intralci e difficoltà per la sicurezza della rendita come se si desse inizio allora alle trattative. Ci raccomandava, infine, di stare zitte, perché, dopo tutto, la casa doveva essere di gradimento dell’arcivescovo.

26. Fu grande, di fronte a ciò, il turbamento del padre provinciale e di tutte noi, perché si sa ormai quanto tempo ci voglia per l’acquisto di un locale adatto a un monastero, ed egli provava una viva contrarietà nel vederci uscire per la Messa. Anche se la chiesa non era lontana e l’ascoltassimo in una cappella dove non ci vedeva nessuno, per sua reverenza e per noi era una grandissima pena il prolungarsi di questa situazione. Da allora, credo, egli fu del parere di farci ripartire. Io però non potevo rassegnarmi a questa soluzione, ricordando la raccomandazione del Signore di adoperarmi a questo scopo da parte sua: ero così certa che il monastero si sarebbe fondato, da non soffrire quasi di nessuna contraddizione. La mia sola pena era data da quella del padre provinciale; mi rincresceva molto che egli fosse venuto con noi, non sapendo quanto i suoi amici ci sarebbero stati utili, come dirò in seguito. Mentre eravamo in questa afflizione, assai grande per le mie compagne (ma di questo non mi preoccupavo, presa com’ero da quella del padre provinciale), senza che mi trovassi in orazione, nostro Signore mi disse queste parole: Ora, Teresa, tieni duro. Ciò mi incoraggiò a insistere con il padre provinciale (e Sua Maestà doveva certo ispirarlo ad acconsentire) perché ripartisse lui e ci lasciasse sole: era ormai vicina la quaresima e aveva l’impegno di andare a predicare.

27. Egli e i suoi amici ci fecero dare qualche stanza nell’ospedale della Concezione, dove si conservava il santissimo Sacramento e si celebrava la Messa ogni giorno. Questo gli fu di qualche sollievo, ma per riuscirvi dovette penare molto. Un comodo appartamento, di cui l’ospedale disponeva, era stato preso in affitto da una vedova della città, la quale non solo non ce lo volle prestare (benché non dovesse occuparlo se non da lì a sei mesi), ma fu molto spiacente che ci avessero dato, sotto il tetto, in soffitta alcune stanze di cui una era in comunicazione con il suo appartamento. Così non si accontentò di chiuderla a chiave dall’esterno, ma la fece inchiodare dall’interno. Oltre a questo, i confratelli pensarono che noi intendessimo appropriarci dell’ospedale, sospetto privo d’ogni fondamento, ma Dio voleva farci acquistare maggior merito. Fecero così promettere al padre provinciale e a me, davanti a un notaio, che, non appena ci avessero detto di andarcene, lo avremmo subito fatto.

28. Questo impegno mi costò più d’ogni altra cosa, perché nutrivo timori circa la vedova, la quale, essendo ricca e di famiglia ragguardevole, ci avrebbe al suo primo capriccio costrette ad andar via. Ma il padre provinciale, che era più accorto di me, volle che si facesse quanto richiedevano, affinché vi potessimo entrare al più presto. Non ci davano altro che due stanze e una cucina. Ma l’amministratore dell’ospedale, Hernando de Matanza, gran servo di Dio, ce ne assegnò altre due perché ci servissero come parlatorio. Ci faceva molta carità, come la fa a tutti, specialmente ai poveri. Altrettanto generosa assistenza ci prodigò Francisco de Cuevas, direttore capo del servizio postale cittadino, che godeva di molta autorità nell’ospedale. Egli, in tutte le occasioni che gli si sono offerte, non ha mai tralasciato di favorirci.

29. Ho riferito i nomi di questi nostri primi benefattori perché è giusto che le religiose presenti e future li ricordino nelle loro preghiere. Tale ricordo si deve soprattutto ai fondatori, anche se la mia prima intenzione non fu quella di dare questo titolo a Catalina de Tolosa, anzi neppure mi passò per la mente. L’ha resa meritevole di questo titolo la sua santa vita di fronte a nostro Signore, il quale dispose le cose in modo che non si può negarglielo. Oltre, infatti, a pagare la casa, quando non sapevamo come fare, è impossibile dire quanta sofferenza le abbiano procurato tutti gli intralci dell’arcivescovo. Il solo pensiero che la fondazione non riuscisse l’affliggeva molto; inoltre, non si stancava mai di aiutarci.

30. L’ospedale era molto lontano dalla sua casa, eppure veniva a trovarci quasi ogni giorno con grande affetto e ci mandava tutto quello di cui avevamo bisogno, nonostante le incessanti critiche di cui era oggetto, tali che, se non avesse avuto il coraggio che ha, l’avrebbero indotta a lasciar perdere tutto. Ero angosciata nel vedere quello che soffriva, perché, se anche il più delle volte ella non lo lasciava trapelare, altre volte non poteva dissimularlo, specialmente quando la toccavano nella coscienza. È così retta che, per quante occasioni di risentimento le abbiano dato varie persone, non ho mai udito da lei una parola che fosse offesa a Dio. Le dicevano che sarebbe andata all’inferno e che era incomprensibile come potesse fare quel che faceva, avendo figli. Eppure si regolava in tutto secondo il parere di uomini dotti, né io, anche se ella avesse voluto agire altrimenti, avrei consentito, per nessuna cosa al mondo, che facesse ciò che non le era lecito, a costo di rinunciare alla fondazione di mille monasteri, nonché di uno. Ma siccome le trattative erano segrete, non mi meraviglio di quel che si pensava. Ella rispondeva con la saggezza di cui è ampiamente dotata. Si comportava in modo tale che era evidente come Dio le insegnasse a sapersi destreggiare per accontentare gli uni e sopportare gli altri e le desse il coraggio di resistere a tutto. quanto più coraggio, di fronte a grandi cose, hanno i servi di Dio che non le persone nobili, forti solo del loro casato! Del resto, a questa donna non manca nobiltà di sangue, discendendo ella da antenati illustri.

31. Tornando dunque a quel che dicevo, il padre provinciale, quando ci ebbe sistemate dove, stando in clausura, potevamo ascoltare la Messa, trovò il coraggio di partire per Valladolid, città in cui doveva predicare, sia pure molto afflitto di non scorgere nell’arcivescovo alcun indizio che lasciasse sperare nella concessione dell’autorizzazione. Benché io lo inducessi a nutrire fiducia, non riusciva a darmi ascolto. Certo, aveva buone ragioni per diffidare, ragioni che qui non è il caso di dire. Se egli, inoltre, aveva poca speranza, i suoi amici ne avevano ancor meno e contribuivano a scoraggiarlo. Io mi sentii sollevata alla sua partenza, perché – come ho detto – la mia maggior pena era data dalla sua. Ci lasciò l’ordine di cercare la casa perché ne disponessimo in proprio, cosa assai difficile, non essendosene fino allora trovata una che potesse convenirci. I nostri amici, specialmente i due del padre provinciale, rimasero ancora più impegnati nei nostri riguardi, e stabilirono di comune accordo di non far più parola della cosa all’arcivescovo, finché non avessimo la casa. Quest’ultimo diceva sempre che desiderava più d’ogni altro questa fondazione, e credo che fosse sincero essendo così buon cristiano da non poter dire nulla contro la verità. Tuttavia le sue azioni non lo rivelavano perché pretendeva cose apparentemente impossibili nei confronti delle nostre risorse. Era questa la trama ordita dal demonio perché la fondazione non si facesse; ma, o Signore, com’è evidente la vostra potenza! Servendovi, infatti, degli stessi mezzi con cui il demonio cercava d’impedire quest’opera, avete trovato il modo per farla meglio riuscire. Siate per sempre benedetto!

32. Dalla vigilia di San Mattia, in cui entrammo nell’ospedale, fino alla vigilia di San Giuseppe, passammo tutto il tempo in trattative per l’una o l’altra casa. C’erano sempre tanti inconvenienti, che nessuna di quelle poste in vendita ci offriva la possibilità di acquistarla. Infine mi parlarono della casa di un gentiluomo – che era in vendita da vari giorni – e, nonostante la ricerca di un alloggio da parte di tanti Ordini, piacque a Dio che a nessuno di essi tale casa sembrasse adatta. Ora sono tutti stupiti del loro rifiuto e qualcuno ne è anche assai pentito. A me ne era stato parlato bene da due persone, ma erano tante quelle che ne dicevano male, che ero ormai lontana dal pensarci, persuasa che non ci convenisse.

33. Anche il licenziato Aguiar, amico del nostro padre provinciale, si adoperava con grande zelo per trovarci una casa. Un giorno mi informò d’averne viste varie, ma che non ce n’era una adatta in tutta la città, né realmente pareva possibile trovarla, in base alle notizie che mi venivano date. Mi ricordai, allora, di questa che era stata, come ho detto, già esclusa da noi e pensai che, malgrado fosse così scadente come mi dicevano, poteva servirci in quel frangente, visto che poi si poteva sempre vendere. Chiesi, quindi, al licenziato Aguiar di farmi il piacere d’andarla a vedere.

34. Non gli parve una cattiva idea; non l’aveva mai vista e volle subito andarvi nonostante che la giornata fosse assai burrascosa e fredda. L’occupava un inquilino, il quale aveva poca voglia di vederla vendere e non volle fargliela visitare. Ma, per la sua posizione e per quello che di essa aveva potuto scorgere, ne rimase assai soddisfatto. Ci decidemmo, così, a trattarne subito l’acquisto. Il proprietario in quel momento era assente, ma aveva dato la procura per effettuarne la vendita a un sacerdote, gran servo di Dio, al quale Sua Maestà ispirò il desiderio di aderire alla nostra richiesta e trattare con noi con tutta la benevolenza possibile.

35. Restammo d’accordo che andassi a vederla. Ne rimasi soddisfatta a tal punto che, quand’anche ci avessero chiesto il doppio di quanto sapevo avevano chiesto per darcela, mi sarebbe sembrato di ottenerla a buon mercato. Non era, del resto, una valutazione esagerata, perché due anni prima ne era stato offerto proprio il doppio al padrone e non aveva voluto venderla. Il giorno dopo vennero lì senza indugio il sacerdote e il licenziato, il quale, vedendo il prezzo di cui l’altro si contentava, avrebbe voluto subito stringere i tempi. Ma alcuni amici che avevo informato della cosa mi avevano detto che a quel prezzo pagavo cinquecento ducati più del suo valore. Lo dissi al licenziato, il quale, però, riteneva che l’avremmo pagata a buon prezzo, dando quello che ci si chiedeva; a me sembrava lo stesso; da parte mia non avrei avuto esitazioni, giudicandola come regalata, ma, trattandosi di denari dell’Ordine, mi sorgevano scrupoli. Questa riunione avveniva la vigilia della festa del nostro glorioso san Giuseppe, prima della Messa. Io dissi a quei signori che, finita la Messa, ci saremmo riuniti di nuovo per prendere una decisione.

36. Il licenziato, che è molto avveduto, si rese chiaramente conto che se la cosa si fosse divulgata, o avremmo dovuto pagare di più o rinunziare all’acquisto. Si adoperò, perciò, ad evitare perdite di tempo e si fece promettere dal sacerdote che sarebbe tornato lì dopo la Messa. Noi andammo a raccomandare la cosa al Signore, il quale mi disse: È il denaro a farti esitare? Compresi, così, che quella casa ci conveniva. Le consorelle avevano pregato molto san Giuseppe di farci avere una casa per il giorno della sua festa e, pur non potendosi sperare che ciò avvenisse così presto, furono esaudite. Tutti mi chiesero con insistenza di concludere l’affare, e lo si fece subito, perché il licenziato trovò alla porta un notaio che parve inviato lì per disposizione del Signore. Lo condusse da me, mi disse che bisognava concludere e chiamò un testimone. Chiusa allora la porta della sala affinché non trapelasse nulla al di fuori (poiché era questa la sua paura), la vendita fu conclusa con tutte le formalità necessarie, la vigilia della festa – ripeto – del glorioso san Giuseppe, per la lodevole sollecitudine e l’accortezza di questo buon amico.

37. Nessuno avrebbe immaginato che la casa sarebbe stata venduta a così buon prezzo. Perciò, appena la notizia dell’acquisto cominciò a divulgarsi, vennero fuori da ogni parte compratori affermando che il sacerdote l’aveva data per nulla e che bisognava rescindere il contratto, trattandosi di un evidente inganno. Quel buon sacerdote non ebbe poco da soffrire. Avvisarono subito i proprietari della casa che – come ho detto – erano un illustre gentiluomo e sua moglie, anch’ella di ottima famiglia. Ma essi si rallegrarono tanto di vedere la loro casa diventare un monastero, che diedero tutto per ben fatto, benché ormai non potessero agire altrimenti. Il giorno dopo si stesero gli atti notarili e si pagò il terzo della casa, senza discostarsi d’un punto dalle richieste del sacerdote. Alcune particolari imposizioni non convenute prima rendevano onerose le clausole del contratto, ma per compiacerlo accondiscendemmo.

38. Potrà sembrare fuori luogo il fatto che m’indugi tanto a raccontare l’acquisto di tale casa. Ma, in verità, quelli che seguirono l’affare nei minimi particolari non videro in esso nulla meno di un miracolo, sia per l’esiguità del prezzo, sia per quella specie d’accecamento che aveva impedito a tutti i religiosi, dopo averla vista, di comprarla. E, come se la casa, prima, non fosse mai esistita a Burgos, quelli che la vedevano ne restavano stupiti: biasimavano coloro che non l’avevano voluta e li chiamavano pazzi. Era stata rifiutata da una comunità di religiose in cerca di una casa: anzi, da due comunità, una di recente fondazione l’altra venuta da fuori in seguito all’incendio della propria dimora. Inoltre, poco prima, anche una persona ricca, intesa a fondare un monastero, dopo averla vista, l’aveva lasciata perdere: tutti ne sono ora assai pentiti.

39. Il gran parlare che se ne fece in città fu tale che costatammo quanto avesse avuto ragione il licenziato di voler mantenere segrete le trattative e di darsi ogni premura per la conclusione di esse. Possiamo in verità dire che, dopo Dio, dobbiamo a lui la casa. Un sapiente accorgimento è d’immenso aiuto a tutto. Tale fu quello del licenziato. Dio gl’ispirò così benevola disposizione verso di noi da essere lo strumento di cui la Provvidenza si servì per porre fine a quest’opera. Si dedicò più d’un mese ad aiutarci, suggerendo espedienti per sistemare convenientemente la casa senza troppa spesa. Sembrava proprio che il Signore l’avesse riservata a sé, perché quasi tutto vi si trovava già fatto. Tant’è vero che, appena la vidi e la trovai in ogni particolare come se fosse stata costruita così per noi, pensando alla rapidità con cui era stata ultimata, mi sembrava di sognare. Nostro Signore ci ha ben ricompensato di quello che avevamo sofferto, portandoci in un tale luogo di delizie, perché davvero non si può darne altro giudizio, così per il giardino, come per il panorama e le acque. Sia egli per sempre benedetto! Amen.

40. L’arcivescovo fu presto avvertito di tutto e si rallegrò molto di una conclusione così felice, ritenendo che la sua insistenza ne fosse stata la causa, e in questo aveva perfettamente ragione. Io gli scrissi che ero lieta di saperlo soddisfatto e che mi sarei affrettata a sistemare la casa, affinché egli potesse adempiere i nostri desideri. Fatto questo, mi sbrigai a trasferirmi lì, essendo stata avvertita che voleva ritardare il trasloco fino a quando non si fossero espletate non so quali formalità. Inoltre, benché dalla casa non fosse ancora andato via l’inquilino, che ci diede a sua volta non poco filo da torcere perché si riuscisse a metterlo fuori, prendemmo alloggio in un appartamento. Mi vennero subito a dire che l’arcivescovo era assai contrariato a causa di ciò. Feci del mio meglio per ammansirlo giacché, siccome è buono, anche se va in collera, l’inquietudine gli passa presto. S’irritò anche nel sapere che avevamo grate e ruota, ritenendo che io avessi voluto strafare di mia iniziativa. Gli scrissi che non era stata tale la mia intenzione, ma che tutte le case di raccoglimento ne disponevano e che, anzi, per non dare nell’occhio, non avevo neanche osato porre sulla porta una croce, il che era vero. Peraltro, nonostante tutta la benevolenza che ci attestava, non si riusciva ad ottenere la sua autorizzazione.

41. Venne a vedere la casa, ne rimase molto soddisfatto e si dimostrò assai gentile, ma non ancora intenzionato ad accordarmi l’autorizzazione, anche se ci diede maggiori speranze: si trattava di dover stipulare ancora non so quali scritture con Catalina de Tolosa. Si temeva molto che non l’avrebbe concessa, ma il dottor Manso che, come ho detto, è l’altro amico del padre provinciale e strettamente legato all’arcivescovo, non si lasciava sfuggire occasione per ricordargli la cosa e sollecitarlo insistentemente a darci l’autorizzazione. Gli dispiaceva molto vederci nella situazione in cui eravamo, perché anche in questa casa, nonostante vi fosse una cappella che serviva prima a celebrarvi la Messa per i proprietari, l’arcivescovo non ci volle mai permettere di fare altrettanto: dovevamo uscire i giorni festivi e le domeniche ad ascoltarla in una chiesa che, per fortuna, era vicina. Tale situazione durò dal nostro trasferimento in questa casa fino a che si fondò il monastero, cioè circa un mese. Tutti i teologi dicevano che era un motivo sufficiente per far celebrare la Messa lì e lo riteneva tale anche l’arcivescovo, che è molto dotto. Ma la ragione di tutto questo non sembra fosse altra che la volontà di nostro Signore di farci soffrire. Da parte mia, mi adattavo alla meglio, ma una consorella, quando si vedeva in istrada, tremava dalla pena che ne aveva.

42. Per la firma degli atti notarili vi furono molte difficoltà, perché ora si accontentavano dei garanti, ora volevano il denaro, e così via, seccature su seccature. La colpa di questo non era tanto dell’arcivescovo quanto di un suo vicario che ci fece una gran guerra. E se allora Dio non gli avesse fatto intraprendere un viaggio, in modo che il suo posto fu affidato ad un altro, non ne saremmo mai venute a capo. Oh! Quanto ebbe a patire allora Catalina de Tolosa! È cosa da non dirsi. Sopportava tutto con una pazienza che mi sbalordiva, e non si stancava di provvedere ai nostri bisogni. Diede tutto il mobilio necessario per arredare la nostra dimora, letti e molte altre cose di cui la sua casa era abbondantemente provvista: in poche parole, tutto quello che ci occorreva; preferiva mancare lei di qualche cosa, piuttosto che ne mancassimo noi. Altre fondatrici di nostri monasteri ci hanno dato beni più grandi, ma nessuna ha sofferto per noi la decima parte di quello che ha sofferto lei. Se non avesse avuto figli, ci avrebbe dato tutte le sostanze di cui poteva disporre. Desiderava tanto vedere compiuta quest’opera che le sembrava poco tutto quello che faceva a tal fine.

43. Quando vidi che le cose andavano per le lunghe, scrissi al vescovo di Palencia supplicandolo di tornare a sollecitare l’arcivescovo con una lettera. Egli era irritatissimo con lui, considerando come fatto a sé tutto quello che faceva a noi, mentre, con nostra meraviglia, l’arcivescovo era persuaso di non farci il minimo torto. Supplicai, dunque, il vescovo di Palencia di scrivergli dicendogli che, poiché avevamo una casa e ottemperavamo ai suoi ordini, ci concedesse finalmente l’autorizzazione. M’inviò una lettera aperta per l’arcivescovo di tal tenore che, se gliel’avessimo consegnata, avremmo rovinato tutto. Il dottor Manso, che era il mio confessore e il mio consigliere, mi disse, infatti, di non farlo. Benché di tono assai cortese, essa conteneva alcune verità che, considerato il carattere dell’arcivescovo, sarebbero bastate ad irritarlo, tanto più che era già incollerito per certe cose che il vescovo gli aveva mandato a dire, nonostante che fino allora fossero molto amici. E l’arcivescovo mi disse che se la morte di nostro Signore aveva reso amici quelli che prima non lo erano, io, invece, avevo reso nemici loro due. Gli risposi che da questo poteva vedere chi fossi. Ma, per quanto mi è dato giudicarne, avevo posto particolare attenzione perché non sorgessero screzi fra loro.

44. Ricorsi di nuovo al vescovo di Palencia per supplicarlo, con le migliori ragioni che seppi trovare, di scrivere all’arcivescovo un’altra lettera più amichevole, dicendogli che si trattava del servizio di Dio. Egli fece quanto gli chiesi, e non fu poco; vi acconsentì, visto che si trattava di rendere un servizio a Dio e di far piacere a me – cosa a cui non è mai venuto meno –, compiendo uno sforzo di volontà. Mi scrisse, però, che quanto aveva fatto per il nostro Ordine non era nulla in confronto a quello che gli era costato l’invio di quella lettera. Era scritta in modo tale, e il dottor Manso seppe presentarla così bene, che l’arcivescovo decise di darci l’autorizzazione. Si servì, per farcela avere, del buon Hernando de Matanza, che venne da noi pieno di gioia. Quel giorno le consorelle erano molto più afflitte di quanto non lo fossero mai state e la buona Catalina de Tolosa era in tale stato che non si riusciva a consolarla. Sembrava che nostro Signore volesse aumentare le nostre angosce proprio quando doveva riempirci di gioia. Perfino io, infatti, che non avevo mai perduto la fiducia, la notte prima mi sentivo assai scoraggiata. Sia eternamente benedetto il nome di Dio e sia egli lodato per tutti i secoli! Amen.

45. L’arcivescovo diede al dottor Manso il permesso di celebrare l’indomani la Messa e di porre il santissimo Sacramento. Fu dunque lui a celebrare la prima Messa. Quella solenne fu celebrata, con gran concorso di musicanti venuti di loro iniziativa, dal padre priore del convento di San Paolo, dell’Ordine dei domenicani, ai quali il nostro Ordine è stato sempre molto obbligato, come anche ai padri della Compagnia di Gesù. Tutti i nostri amici erano felici, e si può dire che fosse piena di gioia l’intera città, cui aveva fatto molta pena il vederci in quella situazione; l’operato dell’arcivescovo era giudicato così male che, a volte, mi affliggeva più il modo con cui se ne parlava che tutto il resto. La gioia della buona Catalina de Tolosa e delle consorelle era talmente grande che m’ispirava devozione e dicevo a Dio: «Signore, che altro vogliono queste vostre serve, se non di potervi servire e di vedersi raccolte in clausura per voi in una casa dalla quale non dovranno più uscire?».

46. Non si potrà mai capire, a meno d’averne fatto esperienza, la gioia che si prova in queste fondazioni quando ci si ritrova in clausura, dove non possono entrare le persone del mondo. Per molto, infatti, che le amiamo, tale affetto non è sufficiente a toglierci la grande felicità di vederci sole. Mi sembra che sia come quando si traggono dal fiume nella rete molti pesci, che non possono vivere se non vengono di nuovo gettati in acqua: avviene ugualmente delle anime abituate a stare nelle vive acque del loro Sposo, che – tolte da lì e tratte nelle reti delle cose del mondo – effettivamente non vivono più finché non si vedono di nuovo nel loro elemento. Ciò è quanto ho sempre notato in queste consorelle e di cui ho fatto io stessa esperienza. Le religiose che dovessero sentire in sé il desiderio di uscir fuori da qui per stare fra secolari o di trattare spesso con loro, temano di non aver mai incontrato quell’acqua viva di cui il Signore parlava alla samaritana e che lo Sposo si sia loro nascosto, ben a ragione, visto che esse non godono di stare con lui. Ho paura che ciò provenga da due motivi: o che non abbiano abbracciato la vita religiosa soltanto per lui, o che – dopo averla abbracciata – non abbiano capito quale straordinaria grazia Dio abbia concesso loro, scegliendole per sé e liberandole dallo star soggette ad un uomo, che spesso fa perdere ad esse la vita. Dio voglia, inoltre, che non sia così anche dell’anima!

47. Oh, mio Sposo, vero Dio e vero uomo! Com’è possibile tenere in poco conto la grazia di appartenervi? Rendiamogli lode, sorelle mie, per avercela concessa, e non cessiamo mai di magnificare un così gran Re e Signore che ci tiene preparato un regno senza fine in cambio di piccole sofferenze che domani cesseranno di esistere e che, d’altronde, sono alleviate da mille gioie. Sia egli per sempre benedetto! Amen. Amen.

48. Alcuni giorni dopo la fondazione del monastero, parve al padre provinciale e a me che nei riguardi della rendita assegnataci da Catalina de Tolosa ci fossero alcuni inconvenienti dai quali poteva provenire a noi il pericolo di una causa giudiziaria e a lei quello di qualche dispiacere. Preferimmo pertanto confidare in Dio anziché esporci al rischio di procurarle la benché minima sofferenza. Sia per questo, sia per varie altre ragioni, rinunziammo, alla presenza di un notaio, con il consenso del padre provinciale, alla donazione che ci aveva fatto, restituendogliene tutti gli atti legali. Ciò avvenne in gran segreto affinché l’arcivescovo non venisse a saperlo e non lo giudicasse un danno. In realtà, il peso di questa decisione era gravoso per la nostra casa. Quando infatti si sa che il monastero è senza rendite, non c’è motivo di temere, perché tutti lo aiutano, ma far credere che il nostro fosse provvisto di rendite era certo pericoloso. Nel nostro caso significava esporre le monache al rischio di mancare del necessario, almeno nei primi tempi, in quanto per il futuro Catalina de Tolosa vi aveva posto rimedio. Due sue figlie, infatti, che dovevano quell’anno professare nel nostro monastero di Palencia, nel momento di pronunciare i voti avevano rinunziato ai loro beni in favore della madre, ed ella aveva fatto annullare quell’opzione e volgere la rinuncia in favore del monastero di Burgos. A un’altra figlia che ha voluto prendere l’abito qui da noi lascerà la legittima, che le spetta da parte del padre e della madre, il che equivale alla rendita che ella ci aveva dato. L’unico inconveniente è che per ora la comunità non ne gode. Ma io ho sempre avuto la convinzione che le religiose non mancheranno di nulla perché il Signore, che procura elemosine ad altri monasteri senza rendite, saprà ispirare la carità anche a favore di questo, o vi provvederà in un altro modo. Tuttavia, siccome nessun altro monastero era stato eretto in queste condizioni, a volte supplicavo il Signore affinché, avendone voluto la fondazione, volesse anche disporre le cose in modo da rimediare a quella difficile circostanza, non facendo mancare le religiose del necessario. E non avevo voglia di partire da lì fino a quando non vi entrasse qualche novizia.

49. Mentre un giorno stavo pensando a questo, dopo la comunione, il Signore mi disse: Di che temi? È cosa ormai finita; puoi ben andartene, facendomi così intendere che il necessario alle religiose non sarebbe mancato. Fu tale la sicurezza ispiratami da queste parole che non sentii più alcuna preoccupazione, come se le lasciassi con un’ottima rendita. Preparai subito la mia partenza, perché mi pareva che ormai lì non facessi altro che godere di quella casa, tanto di mio gusto, mentre altrove, sia pure a costo di pene maggiori, potevo essere più utile. L’arcivescovo di Burgos e il vescovo di Palencia restarono grandi amici. Subito, infatti, l’arcivescovo ci dimostrò molta benevolenza e diede l’abito alla figlia di Catalina de Tolosa e a un’altra novizia che entrò poco dopo. Finora non ci sono mancati donativi da parte di varie persone, né certamente nostro Signore lascerà patire le sue spose, se lo servono come sono obbligate a fare. Sua Maestà ne dia loro la grazia per la sua grande misericordia e bontà.

 

 

[EPILOGO]

 

1. Credo opportuno riferire qui come il monastero di San Giuseppe di Avila, che fu il primo dei nostri monasteri – della cui fondazione ho scritto, non in questo, ma in un altro libro – passò dalla giurisdizione dell’Ordinario, sotto cui era stato posto, a quella dell’Ordine.

2. Quando si fondò, era vescovo di Avila don Alvaro de Mendoza, che ora lo è di Palencia, e per tutto il tempo che stette lì, le nostre religiose furono da lui ampiamente beneficate. Allorché il monastero fu posto sotto la sua autorità, nostro Signore mi disse che così conveniva fare, e in seguito lo si è visto chiaramente, perché in tutti i dissensi dell’Ordine e in molte altre difficoltà che si sono presentate, abbiamo ricevuto da lui ogni sorta di aiuti. Non permise mai che il visitatore delle religiose fosse un ecclesiastico né egli faceva in quel monastero più di quanto io lo pregavo di fare. In questo modo passarono diciassette anni, più o meno, perché non lo ricordo esattamente, né io aspiravo certo a un cambiamento di giurisdizione.

3. Dopo questo tempo, il vescovo di Avila fu trasferito alla sede di Palencia. Allora io mi trovavo nel monastero di Toledo, e nostro Signore mi disse che conveniva che le religiose di San Giuseppe si ponessero sotto la giurisdizione dell’Ordine e che mi adoperassi a tal fine, perché, se non l’avessi fatto, presto avrei visto il rilassamento di quella casa. Ricordandomi di aver udito da lui che era bene sottometterla all’Ordinario, credevo di vedere in ciò una contraddizione e non sapevo cosa fare. Ne parlai con il mio confessore, che era un gran teologo, attualmente vescovo di Osma. Mi disse che non si trattava di contraddizione, perché allora doveva esser necessaria quella risoluzione e ora quest’altra. L’evidenza di questa verità è apparsa, infatti, ben chiara da moltissime cose. Disse inoltre di ritenere preferibile che questo monastero fosse unito agli altri, anziché restare isolato.

4. Mi fece andare ad Avila per trattarne con il vescovo. Lo trovai di ben diverso parere: non era in nessun modo d’accordo a questo riguardo. Ma, quando gli addussi alcuni motivi circa il danno che poteva venire dall’attuale situazione alle religiose, per le quali nutre grandissimo affetto, cominciò a valutare le mie ragioni. E siccome è molto intelligente e Dio lo ispirava, trovò ragioni ancora più valide delle mie e si decise a farlo. Né servì a nulla che alcuni suoi preti gli esprimessero parere contrario.

5. Erano necessari i voti delle religiose. Ad alcune riusciva assai gravoso darlo, ma siccome mi volevano molto bene, si arresero alle mie ragioni, soprattutto in considerazione del fatto che, mancando il vescovo al quale l’Ordine era tanto obbligato e che io amavo molto, non mi avrebbero più avuta fra loro. Questo pensiero fu per esse determinante, e così si concluse un affare di assai grande importanza. Si è visto poi chiaramente da parte di tutte e di tutti a quale rovina sarebbe andato incontro il monastero se si fosse fatto il contrario. Sia benedetto il Signore, che veglia con tanta cura su ciò che riguarda le sue serve! Sia egli per sempre benedetto! Amen.