La Controversia Accademica
Sant'Agostino d'Ippona

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Libro I
SITUAZIONE
Tempo e luogo
Il dialogo si tiene a Cassiciaco nella villa di Verecondo e si prolunga secondo la finzione letteraria per sei giorni e probabilmente:
10 novembre 386, in luogo adatto, senza indicazioni di tempo (1, 2, 5 - 4, 10),
11 " " pomeriggio (1, 4, 11 - 5, 15),
12 " " mattino (1, 6, 16-fine),
20 " " all'aperto, giornata bellissima (2, 4, 10 - 10, 24),
21 " " per due sole ore del pomeriggio, sempre all'aperto; giornata bellissima (2, 11, 25-fine),
22 " " nelle terme, giornata piovosa (libro III).
I dialoganti
Licenzio, giovane ventenne, figlio di Romaniano, segue il “grammaticus”, è amante delle lettere e della poesia ed è allo stato iniziatico nella scuola, favorevole agli accademici. Sostiene il dialogo in 1, 2, 5 - fine e in 2, 7, 16 - 8, 20; poi cede ad Alipio la difesa degli accademici per passare ad Agostino in 2, 11, 27.
Trigezio, giovane poco piú che ventenne, reduce dalla milizia, legge Virgilio, anche egli allo stato iniziatico nella scuola, contrario agli accademici. Sostiene il dialogo con Licenzio in 1, 2, 5 - 9, 24, quando è costretto dallo scolarca ad arrendersi a Licenzio. Nel secondo libro si ha qualche suo intervento per appoggiare lo svogliato Licenzio, di cui è prigioniero secondo le norme della lealtà della logomachia.
Navigio, fratello maggiore di Agostino, è il personaggio essoterico; interviene una sola volta per accettare la tesi di Licenzio: 1, 2, 5.
Alipio, quasi coetaneo di Agostino e di lui amicissimo, è l'uditore anziano della scuola cassiacense. E' nominato giudice del dibattito, ma si assenta subito (l, 2, 5); espone le origini della Media e Nuova Accademia (2, 5, 13 - 6, 15); in seguito deve intervenire per appoggiare Licenzio alle prese con Agostino finché a lui sottentra (2, 8, 21 - 3, 6, 13).
Agostino, precettore di Licenzio e Trigezio e scolarca, ha trentatré anni. Nominato giudice (1, 2, 5), interviene a moderare il dibattito fra i due iniziati e lo riepiloga (1, 9, 24-25). Come scolarca espone la tesi accademica (2, 5, 11-13). Come oppositore degli accademici contende con Licenzio (2, 7, 16 - 8, 20) e poi con Alipio (2, 8, 21 - 3, 6, 13). Come scolarca espone in forma di lezione, ritenendo un fondamento probabile, la teoria della conoscenza (3, 7, 14 - fine).
LIBRO SECONDO
L'ESPOSIZIONE STORICA DI ALIPIO: GLI ACCADEMICI E LA FILOSOFIA
A Romaniano: altro protrettico alla filosofia (1, 1-3, 9)
La mediocrità spirituale ha favorito l'Accademia.
1. 1. Non si dà filosofo che sia privo dell'apprendimento e della scienza della filosofia. Ma se a questa necessità seguisse quella del possesso quando la si ricerca, certamente sarebbero seppellite, assieme a quel periodo e ai cadaveri di Carneade e di Cicerone, la diatriba, l'ostinazione e la caparbietà degli accademici ed anche la loro problematica, opportuna tuttavia, come io frattanto ritengo, in quel momento. Ma avviene che pochi e di tanto in tanto raggiungono la vera scienza. Ne son causa le frequenti e varie disavventure della vita, come tu stesso, o Romaniano, puoi sperimentare, ovvero un certo stordimento delle menti intorpidite o dalla infingardaggine o dalla mancanza di talento, ovvero la sfiducia nella filosofia. Difatti la luce spirituale non apparisce alle menti come quella materiale agli occhi. Infine per un pregiudizio comune a tutta l'umanità, gli uomini non ricercano diligentemente, seppure ricercano, e non pongono impegno all'indagine nella illusione di essere in possesso della verità. Ne consegue che in uno scontro con gli accademici, le loro armi, maneggiate non da pivelli ma da gente perspicace e ferratissima, appaiono invincibili e quasi forgiate da Vulcano. E per questo contro i marosi e le tempeste della fortuna si deve resistere con i remi di tutte le virtù e soprattutto si deve implorare l'aiuto divino con ogni devozione e pietà affinché il fermo volere di applicarsi agli studi liberali segua il suo corso, dal quale nessun avvenimento lo faccia dirottare. Lo accoglierà allora il porto sicuro e tranquillo della filosofia. Questo è il tuo vero problema; ne consegue che io temo per te, che bramo la tua liberazione e, se ora alfine son degno d'impetrare, non cesso con quotidiane preghiere di invocare per te un vento favorevole. E per questo prego la Potenza e la Sapienza di Dio Altissimo (Cf. 1 Cor 1. 24). Con questo termine la Scrittura sacra denomina il Figlio di Dio.
Attitudini di Romaniano alla filosofia.
1. 2. Molto aiuterai le mie preghiere se non disperi che saremo esauditi e t'impegni non solo col desiderio, ma anche con la volontà e con la nativa forza della mente, per la quale ti voglio bene, da cui ricevo un singolare diletto, che sempre ammiro. Ma essa, a causa delle preoccupazioni domestiche, in te si cela come un fulmine tra le nubi ed è ignota a molti e quasi a tutti. Non può comunque essere ignota a me e forse all'uno e all'altro dei tuoi amici intimi. Noi non solo abbiamo potuto riconoscere in qualche tua espressione il brontolio del tuono, ma abbiamo anche ravvisato qualche lampeggiamento assai simile al corruscare del fulmine. Tacerò sul momento il resto e ricordo un sol caso. Chi mai unì inaspettatamente il fragore del tuono e il bagliore della luce mentale al punto che, ad un solo leggero tuonare della ragione e ad un certo lampeggiamento della temperanza, riuscì in un solo giorno ad estinguere in sé una passione assai vigorosa? Si manifesterà alfine la tua virtù e muterà gli scherni di molti increduli in indicibile stupore? Ed essa dopo aver manifestato in terra segni, per così dire, del futuro, ritornerà verso il cielo abbandonando il peso delle cose sensibili? Agostino avrà formulato invano tali giudizi su Romaniano? Non lo permetterà colui al quale mi sono interamente dedicato, che soltanto ora ho ricominciato un po' a conoscere.
Benemerenze di Romaniano verso Agostino.
2. 3. Dunque applicati con me al filosofare. In esso c'è tutto ciò che di solito ti stimola in modo meraviglioso all'ansietà e alla problemizzazione. Non ho timore per il tuo ingegno né da parte della infingardaggine morale né della limitatezza mentale. Chi infatti apparve più pronto di te nei nostri colloqui, quando ti fu permesso di respirare un po'? Chi più acuto? Ed io non potrò mai sdebitarmi con te? O forse ti son debitore di poco? Tu mi hai accolto in casa sovvenzionandomi e, quel che più conta, fosti di grande liberalità quando, giovanetto povero, mi recai a studiare fuor di casa. Tu, quando ho perduto mio padre, mi hai confortato con l'amicizia, mi hai spronato con i consigli, mi hai somministrato il mantenimento. Tu con la tua simpatia e amicizia e col considerarmi di casa mi hai reso, come te, illustre e fra i primi nel nostro municipio. Poi decisi di andare a Cartagine per ottenere un insegnamento più alto. A te solo e a nessuno dei miei manifestai il mio disegno e le mie speranze. Dapprima hai temporeggiato un po' a causa del grande amore, in te innato, per il tuo paese. D'altronde già v'insegnavo. Tuttavia non avendo potuto contrastare il desiderio d'un giovane che intendeva migliorare, a suo modo di vedere, le proprie condizioni, con grande benevolenza e moderazione passasti dalla dissuasione all'aiuto. Tu mi somministrasti il necessario per il viaggio. Poi in quella città, in cui tu avevi riscaldato, per così dire, la culla e il nido dei miei studi, hai sostenuto i miei sforzi nel tentativo di volare da solo. Ed io presi il mare in tua assenza e a tua insaputa. Ma tu non ti sei adirato perché non te ne avevo fatto parola come ero solito; attribuisti il fatto a tutt'altro che alla mia continua irrequietezza e sei rimasto fermo nell'amicizia. E non ti furono davanti agli occhi tanto i tuoi figli abbandonati dall'insegnante quanto piuttosto la segreta buona intenzione della mia anima.
Romaniano strumento della Provvidenza nella vita di Agostino.
2. 4. Infine tu mi hai spronato, stimolato e hai ottenuto che io ora possa godere della quiete spirituale, che sia sciolto dal legame dei desideri superflui, che respiri, mi ravveda e torni in me dopo aver deposto il fardello delle preoccupazioni terrene, che io cerchi con grande applicazione la verità, che sia vicino a possederla e che abbia fiducia di arrivare alla stessa misura ideale. E ho ammesso per fede più di quanto non abbia compreso con la ragione di chi sei lo strumento. Difatti in alcuni colloqui intimi io ti ho manifestato i miei movimenti interiori, ho confidato spesso e con passione che nessuna eventualità mi sembrava favorevole se non quella che mi consentisse di filosofare e che la vita non mi sembrava felice se non trascorsa nel filosofare; ma che ero trattenuto dal peso notevole dei miei familiari, la cui vita dipendeva dalla mia professione e da vari impedimenti sia di vergogna come dell'inettitudine dei miei a guadagnare. Tu hai mostrato allora una viva gioia e sei rimasto infiammato di santo entusiasmo per questa vita. Hai perfino detto che, una volta libero dalle preoccupazioni di certe liti importune, avresti eliminato gli ostacoli anche col mettere a disposizione il tuo patrimonio.
La lettura dei Neoplatonici e di Paolo.
2. 5. Così, quando fosti partito, dopo aver suscitato in me tal desiderio, giammai ho cessato di aspirare alla filosofia. Non pensavo quasi ad altro se non a quella vita che era di comune gradimento e convenienza, e con assiduità ma senza eccessivo ardore. Ritenevo tuttavia di fare già abbastanza. E poiché ancora non si era accesa la fiamma che mi avrebbe invaso col suo più vivo ardore, pensavo perfino che fosse la più viva quella che appena mi riscaldava. Ed eccoti che alcuni libri pieni, come dice Celsino, diffusero su di me buoni odori d'Arabia e fecero cadere su quella fiammella pochissime gocce d'unguento prezioso. Ma accesero in me un incendio incredibile, incredibile più di quanto tu stesso possa di me supporre e, che dovrei dir di più?, incredibile perfino a me di me stesso. Quale onore, quale fasto umano, quale desiderio di inutile fama, quale stimolo o ritegno mondano aveva ancora interesse per me? Ritornavo tutto in me di corsa. Volsi gli occhi tuttavia, per così dire, di passaggio, lo confesso, a quella religione che ci fu inculcata fin dalla fanciullezza e quasi impressa nell'intimo. Essa mi attraeva senza che me ne avvedessi. Così fra perplessità, entusiasmi ed incertezze comincio a leggere l'apostolo Paolo. Costoro, pensavo, non avrebbero potuto compiere opere tanto grandi e vivere come è evidente che erano vissuti se i loro scritti e le loro idee fossero stati contrari a un bene sì grande. Me lo lessi tutto con grande attenzione e interesse.
L'uomo estetico e la concezione classico-pagana della vita.
2. 6. Al diffondersi di quella luce, per quanto fioca, mi si mostrò il volto del filosofare con piena evidenza. Magari avessi potuto mostrarlo, non dico a te che ne hai avuto sempre fame, ma a quel tuo avversario, di cui non so se sia per te più un incitamento che un ostacolo. Anche egli subito disprezzando e abbandonando le piscine circondate di palme e gli ameni frutteti e i delicati e suntuosi banchetti e i buffoni domestici ed infine quanto suscita in lui l'acre desiderio del piacere, convertitosi in amante tenero e rispettoso, volerebbe ammirato, bramoso e appassionato verso la bellezza di quel volto. Anche egli possiede, bisogna ammetterlo, una certa dignità spirituale o meglio un germe di dignità che, tentando d'ingemmarsi della bellezza vera, finisce per ramificare contorto e deforme fra la pietraia e i rovi delle false filosofie. Tuttavia riesce a frondeggiare e, per quanto gli è concesso, ad elevarsi ma soltanto per la piccola schiera di coloro che sanno acutamente e attentamente penetrare fra il fogliame. Da qui l'ospitalità, i molti manicaretti di gentilezza nei banchetti, da qui la stessa eleganza, la dignità esteriore, la grande cortesia delle maniere, il garbo discreto e aggraziato che si diffonde dovunque e su tutto.
La vita estetica primo gradino al filosofare.
3. 7. In gergo popolare si chiama filocalia. Non disprezzare questo termine a causa dell'uso non letterario, poiché filocalia e filosofia sono denominate quasi da una medesima radice e vogliono apparire sorelle e lo sono. Che cosa è infatti la filosofia? L'amore della sapienza. Che cosa è la filocalia? L'amore della bellezza. Informati dai greci. Ma che è dunque filosofia? Non è essa la vera bellezza? Son dunque veramente sorelle e nate da un medesimo genitore. Ma questa, impedita di salire al suo cielo dal visco della libidine e chiusa nella fossa dei profani, ha tuttavia ritenuto la comunanza del nome per avvertire chi la usa a non disprezzarla. Spesso dunque la sorella, che vola nel libero cielo, la riconosce, sebbene sia senza penne, insudiciata e bisognosa, ma raramente la libera. Difatti soltanto la filosofia è competente a riconoscere le origini della filocalia. La favola da me inventata (sono diventato un Esopo estemporaneo) ti sarà esposta con maggiore ornatezza da Licenzio in una composizione poetica. È infatti un poeta quasi perfetto. Dunque se quel tuo nemico, per quanto appassionato della falsa bellezza, potesse con occhi guariti e riaperti appena un po', intuire la vera bellezza, con quanta soddisfazione tornerebbe in grembo alla filosofia. E quando ti riconoscerà, ti abbraccerà come fratello. Ti stai meravigliando delle mie parole e forse sorridi. E se ti avessi esposto l'argomento come intendevo? E se tu avessi potuto per lo meno udire la voce della filosofia se ancora non puoi vederne il volto? Ti meraviglieresti certamente, ma non rideresti e non saresti sfiduciato. Credimi, di nessuno si deve avere sfiducia e molto meno di uomini come lui. Infine se ne sono dati dei casi. Uccelli di quella famiglia facilmente si liberano e tornano a volare fra lo stupore di molti che rimangono in gabbia.
Due ostacoli al filosofare: la pregiudiziale scettica e dommatica.
3. 8. Ma tornerò a noi, o Romaniano. Diamoci al filosofare. Tuo figlio, e te ne sono riconoscente, ha cominciato a filosofare. Io lo sorveglio perché si applichi e si rafforzi nelle discipline indispensabili. Ma affinché anche tu non tema di esserne incapace, se ben ti conosco, ti auguro la piena libertà spirituale. Che dire dell'attitudine? Magari non fosse tanto rara negli uomini come è certa in te! Rimangono due difetti o impedimenti a trovar la verità, dei quali non molto mi preoccupo nei tuoi confronti. Comunque mi preoccupo che da una parte tu possa disistimarti e non abbia fiducia di trovare, dall'altra che tu presuma di aver trovato. Il primo ostacolo, se pur esiste, sarà eliminato dalla presente trattazione. Spesso infatti hai criticato gli accademici e tanto più gravemente quanto ne eri meno a conoscenza, ma con tanto maggiore soddisfazione poiché eri attratto dall'amore della verità. Ed ormai, col tuo appoggio, mi batterò con Alipio e ti convincerò con facilità al filosofare, tuttavia su fondamento probabile. Difatti non raggiungerai il vero se non ti porrai tutto nel filosofare. L'altro ostacolo riguarda la tua possibile presunzione di aver trovato, sebbene ti sei allontanato da noi con problemi e dubbi. Tuttavia se qualche residuo di superstizione è rimasto in qualche piega del tuo spirito, sarà certamente eliminato o quando ti manderò qualche nostra disputa sulla religione o quando potrò conferire con te di persona.
Criterio e metodo nella ricerca.
3. 9. Ora io non faccio altro che liberarmi dalle vane e malsane opinioni. E per questo non dubito di star meglio di te. C'è soltanto una cosa per cui invidio la tua buona sorte, che sei solo a goderti il mio Luciliano. O anche tu hai invidia perché ho detto "il mio"? Ma che altro ho detto se non che è "tuo" e di noi tutti che siamo una sola cosa? Ma per quanto lo riguarda, perché dovrei rivolgerti la raccomandazione di venire incontro ad un mio desiderio? O dovrò forse convincerti? Tu stesso ne sei cosciente perché è tuo dovere. Ma ora dico a tutti e due: guardatevi dal ritenere che conoscete qualche cosa se non l'avete appreso almeno di quella conoscenza con cui sapete che la progressione aritmetica di uno, due, tre e quattro è dieci. Ma guardatevi egualmente dal ritenere che voi col filosofare non potete conoscere la verità o che in nessun modo qualcuno la possa conoscere filosofando. Piuttosto fidatevi di me o meglio di colui che ha detto: Cercate e troverete (Mt 7, 7). Non si deve disperare di raggiungere la conoscenza e che essa diverrà più manifesta di quanto non sia il suddetto calcolo numerico. Troppo tardi ormai mi sono accorto che questa mia introduzione ha passato la misura. E la misura è senza dubbio cosa divina, ma ci può sfuggire quando ci guida con dolcezza. Sarò più cauto quando diverrò filosofo.
La tesi della Media e Nuova Accademia (4, 10-6, 15)
Ricollegamento con la precedente disputa.
4. 10. Dopo la prima disputa che abbiamo raccolto nel primo libro, per circa una settimana non ci occupammo di continuarla. Commentammo tuttavia dopo il primo, tre libri di Virgilio. Volevamo poi riprendere la trattazione nel tempo che sembrasse più conveniente. Inoltre, dalla lettura dell'Eneide Licenzio fu tanto infiammato allo studio della poetica che mi parve di doverlo moderare. Mal sopportava di essere richiamato da quella a qualsiasi altra occupazione. Finalmente si piegò, senza tante resistenze, a riprendere la rimandata discussione sul problema degli accademici quando gli feci comprendere, per quanto mi riuscì, il valore della filosofia. E per buona fortuna era sorta una giornata tanto luminosa e serena. Sembrava fatta a bella posta per serenare i nostri animi. Pertanto lasciammo il letto un po' più presto del solito, ci trattenemmo con i campagnuoli qualche istante soltanto. Il tempo stringeva. Alipio osservò: "Prima che ascolti la vostra discussione sugli accademici, vorrei che mi si leggesse il discorso che dite di aver tenuto durante la mia assenza. Lo chiedo perché l'attuale discussione si deve rifare alla precedente ed io non potrei, nell'ascoltarvi, non sbagliarmi o per lo meno non trovarmi in difficoltà". Così si fece. Nella lettura si trascorse quasi tutto il mattino. Pertanto dalla campagna, in cui ci eravamo trattenuti passeggiando, riprendemmo il cammino verso casa. Licenzio mi pregò: "Scusami, ma non ti dispiaccia di espormi in breve, prima di pranzo, tutta la filosofia degli accademici affinché non me ne sfugga qualche elemento che venga in mio favore". "Lo farò, gli risposi, e tanto più volentieri in quanto tu, pensandovi su, potresti mangiar di meno". "Ma in quanto a questo sta' tranquillo, replicò, perché ho osservato che molti, e soprattutto mio padre, avevano un appetito più formidabile se erano preoccupati. E per quanto mi riguarda, hai sperimentato tu stesso che quando attendo a far versi, il mio appetito è garantito dal gran daffare. E di solito me ne meraviglio dentro di me. Perché infatti abbiamo un appetito più formidabile quando applichiamo lo spirito ad altro? Ovvero perché nell'occupazione del nostro essere interiore, lo spirito esercita il potere sulle nostre mani e sui nostri denti?". "Ascolta piuttosto, risposi, quanto avevi chiesto sugli accademici perché, se continui a rimuginare le misure metriche, rischio di doverti sopportare non solo durante i pranzi senza misura, ma anche durante le discussioni. E se io tralascerò qualche elemento che mi favorisce, lo esporrà Alipio". "Si esige al contrario la tua lealtà, protestò Alipio. Se si deve temere che tu possa occultarci qualche cosa, penso che sia piuttosto difficile che io trovi mende a colui dal quale, e chi mi conosce lo sa, ho appreso tutto. Nel manifestare il vero non ti dovrai preoccupare tanto della vittoria quanto del tuo modo di pensare".
La tesi degli accademici: il filosofo non deve mai affermare nulla.
5. 11. "Userò lealtà, risposi, perché me lo ordini nel tuo buon diritto. La tesi degli accademici riguarda soltanto l'oggetto della filosofia. Carneade affermava di non curarsi del resto. Insegnarono dunque che l'uomo non ne può raggiungere scienza e che tuttavia si può esser filosofo. Tutto il compito del filosofo consisterebbe dunque, come tu, o Licenzio, hai spiegato nella disputa precedente, nella ricerca del vero. Ne consegue che il filosofo non deve prestar l'assenso ad alcuna enunziazione e che non può non errare, e al filosofo non è lecito, se presta l'assenso ad enunciati non certi. E non solo affermavano che non si dà certezza, ma lo confermavano anche con numerosi argomenti. Son d'avviso che abbiano accettato la tesi che il vero non si può esprimere in seguito alla celebre definizione del vero data dallo stoico Zenone. Questi ha insegnato che si può esprimere come vero ciò che appare al soggetto in rappresentazione dell'oggetto in maniera tale da non apparire come rappresentazione di un altro oggetto. Più brevemente e chiaramente si può dire che il vero è riconosciuto da caratteri che non può avere ciò che è falso. E gli accademici s'impegnarono con ardore a dimostrare che tali caratteri non si possono riconoscere. E per questo a difesa della loro tesi furono allegati i dissensi dei filosofi, gli errori dei sensi, il sogno e la pazzia, i paralogismi e i soriti. Avevano appreso dallo stesso Zenone che non si dà stoltezza maggiore che affermare opinativamente. Con grande astuzia dunque imbastirono la teoria che, se nulla può essere ritenuto con certezza e che l'opinare è da stolti, il filosofo non deve mai affermare nulla.
Il probabile, il verosimile e il trattenere l'assenso.
5. 12. Contro di loro esplose uno sdegno enorme. Sembrava infatti conseguente che non può autodeterminarsi chi non presta l'assenso. Si riteneva insomma che gli accademici avessero coniato una figura di saggio il quale, dal momento che nulla ritiene come certo, non fa altro che dormire e trascura i propri doveri. Allora essi, inventata la teoria del probabile, che denominavano anche verosimile, ribattevano che il saggio non si asteneva affatto dall'agire poiché ha una norma da seguire. La verità sfugge tuttavia o perché avvolta in non so quali tenebre naturali o perché confusa nella somiglianza delle cose. Ma soggiungevano che il trattenere e quasi sospendere l'assenso era la vera grande azione del filosofo. Mi pare di avere esposto tutto come volevi e di non aver trasgredito, o Alipio, il tuo ordine. Ho agito, cioè, come si dice, con lealtà. Se poi non ho esposto le cose come sono o per caso non ho detto tutto, non è avvenuto per mia volontà. Dunque è lealtà secondo la mia coscienza. D'altra parte è evidente che si deve istruire l'uomo che s'inganna, ma ci si deve salvaguardare da chi vuole ingannare. Il primo caso esige un buon maestro, il secondo un allievo cauto".
Alipio è invitato ad esporre l'origine della nuova Accademia.
5. 13. Rispose Alipio: "Ti sono grato che hai soddisfatto la richiesta di Licenzio e hai alleggerito me d'un peso. E poi non dovevi temere tanto tu quanto io piuttosto se, allo scopo d'esplorare il mio punto di vista poiché in altra maniera non si sarebbe potuto, tu fossi stato costretto a svelare il tuo. Ma ora non ti rincresca d'esporre quanto manca, non tanto alla domanda quanto a chi l'ha fatta, sulla differenza fra la nuova e la vecchia Accademia". "Confesso che mi dispiace proprio, dissi. Quindi fa' il favore, mentre io mi riposo un pochino, di chiarire in mia presenza le due denominazioni e di esporre l'origine della Nuova Accademia. Non posso negare che l'argomento, che ci hai richiamato alla mente, interessa la nostra disputa". "Penserei, mi rispose, che anche io abbia voluto dilazionare il tuo pranzo se non riflettessi che finora ne sei stato impedito da Licenzio e che la sua richiesta ci ha posto come limite che prima del pranzo gli si sbrogliassero le difficoltà". Voleva continuare a parlare, ma mia madre, eravamo già in casa, cominciò a sospingerci alla mensa. Ci mancò il tempo di dire altro.
Arcesila e la media Accademia.
6. 14. Mangiammo con tanta frugalità quanto fosse sufficiente a far tacere lo stimolo della fame e ritornammo sul prato. Alipio riprese a dire: "Accetto il tuo ordine e non oso rifiutarmi. E se nulla mi sfuggirà, sarò grato al tuo insegnamento e alla mia memoria. Ma se in qualche punto dovessi cadere in errore, tu lo correggerai affinché in seguito io non debba rifuggire da simile incarico. Penso che la scissione della seconda Accademia non fosse diretta contro la Vecchia Accademia, ma piuttosto contro gli stoici. E neanche si può dire che fu una scissione poiché si doveva prendere in considerazione e risolvere un problema sollevato da Zenone. Difatti non arbitrariamente è stato ritenuto che la teoria dell'incapacità di affermare con certezza, sebbene non agitata da controversie, appartenesse al pensiero dei vecchi accademici. Ed è facile provarlo anche con l'autorità di Socrate, di Platone e degli altri filosofi dell'antichità, i quali ritenevano di difendersi dall'errore a condizione di non prestar l'assenso senza sufficiente esame. Tuttavia non tennero nelle loro scuole discussioni in proposito né da loro fu talora posto puntualmente il problema se la verità si può raggiungere con certezza o no. Ma Zenone introduceva una tesi radicale e nuova e tendeva a dimostrare che niente si può ritenere con. certezza se non è vero in tal maniera da distinguersi dal falso per note dissimili e che il filosofo non deve affermare in base all'opinione. Arcesila ne venne a conoscenza e affermò che non è in potere dell'uomo avere un tal tipo di conoscenza e che non si deve affidare la vita del saggio al naufragio dell'opinione. Ne concluse che non si dà apodissi per l'assenso.
Antioco d'Ascalona e la nuova Accademia.
6. 15. Le cose stavano al punto che la Vecchia Accademia appariva piuttosto confermata che confutata. Ma uscì fuori Antioco, discepolo di Filone, che, desideroso, come a molti sembrò, più della gloria che della verità, tirò nella polemica le teorie dell'una e dell'altra Accademia. Affermava infatti che i nuovi accademici avevano tentato di accreditare un motivo nuovo e assai differente dalla dottrina degli antichi. Allo scopo invocava l'autorità dei vecchi naturalisti e degli altri grandi filosofi e si poneva in contrasto con gli stessi accademici per il fatto che pretendevano di conoscere il verosimile quando confessavano d'ignorare il vero. Aveva messo insieme parecchi argomenti, ai quali, a mio avviso, per il momento si deve passar sopra. Ed in fondo altro non affermava con la più grande insistenza se non che il filosofo può conoscere con certezza. Ritengo che questi siano i termini della controversia fra nuovi e vecchi accademici. Che se i fatti stanno diversamente, ti pregherei, per me e per lui, d'informare meglio Licenzio. Se al contrario i fatti stanno come li ho potuti esporre io, continuate pure la disputa iniziata".
Si critica il concetto di verosimile e probabile (7, 16-13, 30)
Licenzio da fedele accademico rifugge dalla disputa.
7. 16. Allora io intervenni: "Questo nostro discorso si prolunga più di quanto credessi. E tu, o Licenzio, per quanto tempo ancora approfitti della tregua? Hai udito chi sono i tuoi accademici?". Egli sorrise un po' vergognoso e piuttosto turbato dal rimprovero. "Mi dispiace, disse, di aver con tanta insistenza affermato contro Trigezio che la felicità consiste nella ricerca della verità. Il problema mi turba a tal punto da sentirmene pressoché misero, mentre a voi, se avete un po' di umanità, sembro soltanto degno di commiserazione. Ma perché mi sto tormentando scioccamente? Ovvero perché ho paura se ho la garanzia della mia buona causa? Certamente non mi lascerò convincere se non dalla verità". "Ti vanno a genio, domandai, i nuovi accademici?". "Assai". "Ti sembra dunque che dicano il vero?". Stava per dir di sì, ma reso più cauto da un sorriso di Alipio, esitò alquanto. Quindi riprese: "Ripeti un po' la domandina?". "Ti sembra, ripetei, che gli accademici dicano il vero?". E di nuovo, dopo un lungo silenzio: "Se è vero, non so, ma è probabile. Non conosco altro che mi sia concesso di ricercare". "Ma sai che il probabile da costoro è denominato anche verosimile?". "Così pare". "Dunque la dottrina degli accademici è verosimile?". "Sì". "E adesso, soggiunsi, sta' più attento. Se qualcuno, visto un tuo fratello, dicesse che è simile a tuo padre e non conoscesse tuo padre, non è, a tuo modo di vedere, un pazzo o uno sciocco?". Anche a questo punto tacque a lungo. Alla fine disse: "Non mi pare assurdo".
Licenzio che si diletta nello spettacolo...
7. 17. Stavo per rispondergli, quando m'interruppe dicendo: "Aspetta un momentino, per favore". E poi sorridendo soggiunse: "Fin da adesso tu sei certo della vittoria, no?". Replicai: "Ammettiamo pure che ne sia certo; non per questo tu devi abbandonare la tua difesa tanto più che questa nostra disputa è stata organizzata per esercitarti e per eliminare la disposizione alla diatriba". "Ma io non ho letto, si scusò, gli accademici e non posseggo tutta la cultura con cui tu, essendone in possesso, mi attacchi". "Non avevano letto, gli risposi, gli accademici neanche coloro che per primi ne difesero la teoria. Ammettiamo che ti manchi un'ampia cultura ma non fino al punto che la tua intelligenza sia tanto incapace da farti soccombere, senza alcun attacco, ad alcune, assai poche, mie domande. Comincio a temere che, prima di quanto desidero, debba prendere il tuo posto Alipio e se egli diviene avversario non andrò più avanti tanto sicuro". "Magari, proruppe, io fossi già vinto. Almeno vi udirei, una buona volta, discutere e, quel che più conta, vi osserverei. Sarebbe il più bello spettacolo che mi si possa offrire. Voi avete deciso di travasare il discorso piuttosto che versarlo fuori e raccogliete con lo stilo le parole che sgorgano dalla bocca per non lasciarle, come sta scritto, cadere in terra (Terenzio, Heaut. 242). Mi sarà dunque consentito anche di leggervi. Non so per quale motivo, ma quando si hanno sotto gli occhi in persona coloro che disputano, il dibattito penetra nella mente, se non con maggior profitto, certamente con maggior diletto".
... è rimproverato da Agostino.
7. 18. "Ti ringraziamo, dissi, ma quelle tue improvvise effusioni di gioia hanno lasciato sfuggire la tua incauta frase che nessuno spettacolo più bello ti si può offrire. Ma supponi che, qui con noi, vedessi indagare e disputare il tuo buon padre, il quale, come nessuno, data 1a lunga sete, attingerà alla filosofia con tanto godimento. Io riterrei di non essere stato mai così fortunato. Ma tu che proveresti finalmente, che cosa potresti dire?". A questo punto gli spuntarono le lacrime. Appena poté parlare, stese la mano e guardando il cielo esclamò: "E quando, buon Dio, potrò assistere a tale avvenimento? Ma da te tutto si può sperare". Al gesto, quasi tutti, dimenticando la disputa, ci sentimmo commuovere fino alle lacrime. Mi feci forza. Trattenendomi a stento, ripresi: "Ma coraggio e recupera le tue energie poiché da tempo ti avevo avvisato che, come futuro difensore dell'Accademia, le dovevi raccogliere da ogni dove. Non posso pensare che ora la paura ti faccia tremar le membra prima del suono della tromba (Virgilio, Aen. 11, 424) e che per essere spettatore al combattimento altrui, desideri di divenir prigioniero tanto presto". A questo punto Trigezio, dopo avere attentamente osservato che i nostri volti erano ridivenuti sereni, esclamò: "E perché questo individuo tanto perfetto non dovrebbe desiderare che Dio gli possa concedere un favore prima di averglielo chiesto? Comincia ad avere fede, o Licenzio; poiché tu che non trovi nulla da rispondere e desideri di esser vinto, a mio avviso, sei uomo di poca fede (Mt 6, 30; 8, 26; 16, 8)". Scoppiammo a ridere. E Licenzio proruppe: "E parla tu allora, uomo felice non perché possiedi la verità ma di certo perché non la ricerchi".
L'uomo della strada e il verosimile.
7. 19. Fummo maggiormente rasserenati per i motti di spirito dei due giovani. Mi rivolsi a Licenzio: "Sta' attento alla domanda e riprendi il cammino, se ci riesci, con maggior sicurezza e lena". "Sono attento, rispose, per quanto mi riesce. Se quel tale che ha visto mio fratello sa, per averlo udito dire, che si rassomiglia a mio padre, se lo crede, si può forse considerarlo un pazzo o uno stolto?". "Ma per lo meno, replicai, si può chiamarlo un ignorante". "Non necessariamente, a meno che non presuma di averne scienza. Infatti se ammette come probabile una notizia che la pubblica voce ha frequentemente diffuso, non si può rimproverare di sconsideratezza". Soggiunsi: "Consideriamo un tantino il fatto, e poniamocelo, per così dire, davanti agli occhi. Supponi che l'uomo qualunque, di cui stiamo parlando, sia presente. Tuo fratello sbuca fuori da qualche parte e quegli chiede: "Di' chi è figlio questo ragazzo?". Gli si risponde: "Di un certo Romaniano". E quegli: "Ma quanto si rassomiglia a suo padre! Come è esatto quello che ne avevo udito dire!". A questo punto tu o un altro chiede: "Lo conosci Romaniano, buon uomo?". E colui: "Oh! no; tuttavia mi sembra che gli rassomigli". C'è qualcuno che potrebbe trattenersi dal ridere?". "Non di certo", rispose Licenzio. "Allora vedi la conclusione?". "È un pezzo che la vedo. Tuttavia proprio tale conclusione voglio ascoltare da te. Bisogna a un certo punto che tu cominci a somministrare le vettovaglie a chi hai fatto prigioniero". "E perché non dovrei concludere?, affermai. Il fatto stesso grida che ugualmente sono oggetto di scherno i tuoi accademici, i quali affermano di contentarsi in questa vita del verosimile e non sanno neanche che c'è il vero".
Si respinge il concetto di verosimile come illegittimo.
8. 20. Trigezio intervenne: "Mi sembra molto diversa la cautela degli accademici dalla stoltezza di quel tale di cui hai narrato. Essi infatti fondano su determinati criteri le loro affermazioni sul verosimile. Al contrario quello stolto ha dato ascolto alla voce pubblica, la cui autorevolezza è infima a tutte". "Come se, replicai, non fosse più stolto se dicesse: Non ho conosciuto affatto suo padre e non ho appreso dalla pubblica voce quanto assomiglia a suo padre, tuttavia mi sembra che gli rassomigli". "Certamente più stolto, rispose. Ma a che scopo codesto discorso?". "Ma perché, soggiunsi, sono della medesima mentalità coloro che affermano: Noi non conosciamo il vero, ma quest'oggetto che vediamo è simile a ciò che non conosciamo". Mi obiettò: "Essi usano il termine 'probabile'". "Come fai a dirlo?, protestai. Neghi forse che essi parlano di verosimile?". E Trigezio soggiunse: "L'ho detto allo scopo di eliminare quella similitudine. Mi sembrava infatti che la voce pubblica ingiustamente fosse stata introdotta nella nostra discussione, poiché gli accademici non solo non prestano fede ai mille ma mostruosi occhi, come fantasticano i poeti, della voce pubblica, ma neanche agli occhi dell'uomo. Ma in definitiva che avvocato sono io dell'Accademia? Ovvero con codesta discussione voi tentate forse di abbattere la mia sicurezza? Eccoti Alipio, il cui ritorno, scusa, ci permette un po' di vacanza; e noi sospettiamo che da tempo tu giustamente lo temi".
Alipio è indotto al dialogo.
8. 21. Allora, nel silenzio che seguì, ambedue volsero lo sguardo ad Alipio. Ed egli: "Vorrei proprio, disse, venire, secondo le mie forze, in aiuto alla vostra causa se non mi spaventasse il vostro auspicio. Ma, a meno che non m'illuda, potrei sfuggire facilmente tale timore. Ed insieme m'è di conforto che l'attuale avversario degli accademici s'è caricato del peso di Trigezio sconfitto e che ora è probabile, per vostra stessa ammissione, che riesca vincitore. Quel che temo di più e che non potrò evitare è l'accusa di negligenza per abbandono del mio posto o di presunzione per avere occupato quello di un altro. Penso infatti che non vi siate dimenticati che m'è stato conferito l'incarico di giudice". Qui Trigezio interloquì: "Quello era un conto e questo è un altro. Perciò ti preghiamo che accetti di esserne esonerato". "Non mi oppongo, rispose. Mentre desidero d'evitare l'accusa di negligenza e di presunzione, non devo cadere nei lacci dell'orgoglio, che è il peggiore dei vizi, qualora volessi mantenere la carica da voi conferitami più a lungo di quanto mi concedete.
Filosofia e vita.
9. 22. E per questo vorrei che mi dica, o buon accusatore degli accademici, a difesa di chi tu li avversi. Temo infatti che tu intenda dimostrarti accademico ribattendo gli accademici". "Tu, come penso, gli risposi, sai bene che si danno due tipi di accusatori. Da Cicerone con rara moderazione è stato detto che egli era accusatore di Verre in maniera da essere difensore dei siciliani. Ma non ne consegue che chiunque accusa qualcuno, necessariamente difenda un altro". "Hai per lo meno un principio, egli replicò, su cui la tua tesi abbia già trovato un fondamento?". "È facile rispondere alla domanda, per me soprattutto, perché non mi giunge inaspettata. Da tempo ho trattato a fondo il problema in me stesso e vi ho riflettuto sopra molto a lungo. E perciò, Alipio, ascolta ciò che, come credo, ti è ben noto. Io non intendo che questa discussione sia intrapresa per il gusto di discutere. Basti quanto abbiamo esposto, a titolo d'introduzione, con questi giovani. Ivi la filosofia ha liberamente quasi scherzato con noi. E perciò ci siano tolte dalle mani le nozioncine per fanciulli. Si tratta della nostra vita, del nostro essere morale, del nostro spirito che tende a superare tutti gli ostacoli del mondo delle apparenze, a trionfare del piacere ritornando, per così dire, nel luogo della sua origine mediante il possesso della verità e a regnare, disposandosi alla temperanza, per tornare, nella raggiunta sicurezza, in cielo. Comprendi ciò che intendo dire? Eliminiamo dunque ormai tutto questo. Si devono costruire armi per un forte guerriero (Virgilio, Aen. 8, 441). Non v'è cosa che sempre ho meno desiderato quanto che fra coloro, i quali son vissuti insieme per molto tempo e hanno avuto frequenti colloqui, riemerga qualche tema, dal quale possa sorgere un nuovo conflitto. Ho voluto tuttavia far trascrivere, a causa della memoria, custode non sempre fedele dei pensieri, gli argomenti delle nostre frequenti discussioni. Questi giovani dovranno imparare a riflettervi sopra e cominciare a destreggiarsi nell'attacco e nella difesa.
Il probabile è bifronte.
9. 23. E tu non dovresti ignorare che non ho mai raggiunto alcun principio da ammettere con certezza e che ne sono stato impedito dalle argomentazioni e dispute degli accademici. Neanche io so come hanno potuto incutere nel mio animo l'accettazione probabile, tanto per stare alla loro terminologia, che l'uomo non può trovare il vero. Ero divenuto del tutto pigro e indolente né osavo cercare quanto non è stato dato di raggiungere ad uomini assai dotti e perspicaci. Se io prima non otterrò per me la persuasione di poter raggiungere il vero nella misura con cui essi raggiunsero la persuasione opposta, non oserò iniziare la ricerca. Poi non ho una dottrina da difendere. Quindi ritira la tua domanda, per favore, e discutiamo piuttosto fra noi con tutta la possibile avvedutezza sulla possibilità di raggiungere il vero. Da parte mia, mi pare di avere già molti argomenti con cui intendo far forza contro la tesi degli accademici. Frattanto non c'è differenza fra loro e me, se non che a loro sembrò probabile l'impossibilità di raggiungere il vero e per me è probabile la possibilità. Difatti l'ignoranza del vero o è una mia particolare situazione se essi fingevano, ovvero è comune a me e a loro".
Interpretazione critica del probabilismo accademico.
10. 24. "Ormai, disse Alipio, vado avanti tranquillo, poiché noto che tu non sarai accusatore, ma aiuto. Tuttavia, scusami, non meniamola alle lunghe. Pertanto durante la presente indagine, in cui, come sembra, io debbo prender le parti dei due che si sono sottomessi a te, proponiamoci di non finire in un contrasto di parole. Noi stessi abbiamo sovente affermato, per tuo suggerimento e sull'autorità d'un testo di Cicerone, che tale fatto è assai disdicevole. Dunque Licenzio ha detto, se non mi sbaglio, che approvava la tesi degli accademici sulla probabilità. Tu hai replicato se sapeva che essa era da costoro denominata anche verosimiglianza. Egli te l'ha confermato senza esitazione. E so bene, poiché le ho da te apprese, che le dottrine degli accademici non ti sono sconosciute. Ed essendo esse, come ho detto, ben presenti nel tuo pensiero, non capisco proprio perché vai inseguendo delle parole". "Credimi, gli risposi, non si fa questione di parole, ma una profonda questione di idee. Non penso certo che quegli uomini fossero incapaci di attribuire i rispettivi nomi alle cose, ma son d'avviso che hanno scelto simili termini per occultare la propria filosofia ai meno capaci e per manifestarla ai più capaci. Esporrò il significato, le ragioni e il modo di questa mia interpretazione dopo aver discusso quelle tesi che gli studiosi suppongono formulate da loro come avversari dell'umana conoscenza. Intanto mi accorgo con piacere che oggi il nostro discorso si è prolungato fino a questo momento allo scopo di chiarire sufficientemente ed esaurientemente i termini della nostra indagine. Era indispensabile, perché, a mio avviso, costoro furono uomini assai ponderati e riflessivi. Quindi, se per il momento rimane qualche cosa da precisare, sarà contro gli studiosi i quali ritennero che gli accademici avversavano la conoscenza certa della verità. E perché tu non abbia a pensare che io ho paura, indosserò le armi anche contro di loro se propugnano le dottrine contenute nei loro libri per convinzione e non nell'intento di occultare il proprio sistema e non svelare verità considerate sacre a menti ritenute contaminate e profane. Lo farei oggi stesso se il tramonto non ci costringesse a tornare a casa". Quel giorno si disputò fino a questo punto.
Il probabile accademico...
11. 25. L'indomani sorse un sole non meno sereno e tranquillo. Ma potemmo con difficoltà sbrigare le faccende domestiche. Difatti ne passammo gran parte nello scrivere lettere. Ed essendone rimaste appena due ore, ci portammo sul prato. Ci invitava la pura serenità del cielo. Ci parve quindi opportuno di non lasciar trascorrere inutilmente quel po' di tempo che restava. Arrivammo sotto il solito albero e ci fermammo. Io cominciai: "Vorrei, ragazzi, poiché non abbiamo da trattare un argomento importante, che mi richiamiate la risposta che ieri Alipio diede al piccolo problema che vi ha turbato". Mi rispose Licenzio: "È passato tanto poco tempo, che non val la pena richiamarlo, e quanto poca sia la sua importanza lo stai costatando tu stesso. Comunque ti ha pregato, dal momento che il concetto è chiaro, di non far questione di parole". Ed io di rimando: "Ma siete sufficientemente coscienti del significato e dell'importanza del concetto in parola?". "Mi pare, egli disse, di comprenderne il significato; ti prego, comunque, di chiarirlo ancora un po'. Infatti ti ho udito dire spesso che è sconveniente per chi disputa soffermarsi in questioni di parole quando non rimane alcun motivo di discussione sui concetti. Ma questo è tanto arduo che non si può chiederne a me la spiegazione".
... come fondamento del filosofare.
11. 26. "Allora, risposi, siate voi ad ascoltarne il significato. Gli accademici denominano probabile o anche verosimile ciò che ci può stimolare a compiere un atto senza apodissi. Dico senza apodissi nel senso che l'atto compiuto non è determinato dalla certezza ma che lo compiamo egualmente senza la convinzione di averne indubbia conoscenza. Ad esempio, supponiamo che qualcuno, durante la notte scorsa, tanto limpida e serena, ci avesse chiesto se fosse seguito un sole tanto splendente. Penso che avremmo risposto di non saperlo, ma che ci sembrava probabile. Tali, afferma l'accademico, mi sembrano tutte le conoscenze, che ho ritenuto opportuno denominare probabili o anche verosimili, e non ho proprio nulla in contrario se tu le vuoi denominare diversamente. Mi basta che tu abbia compreso cosa intendo dire, cioè quali significati io esprimo con questi termini. Non appartiene certamente all'essenza del filosofo coniare nuovi vocaboli ma indagare sulla ragione delle cose (Cicerone, Varro framm. 33 t. A). Avete compreso abbastanza come mi sono stati strappati di mano gli strumenti didattici con cui v'inducevo alla riflessione?". Tutte e due risposero di aver compreso e mi pregavano con l'espressione del viso di dare io stesso la risposta. Soggiunsi: "Credete forse che Cicerone, di cui sono le parole citate, fosse così inesperto della lingua latina da imporre alle nozioni che possedeva nomi incompetenti a significarle?".
Licenzio, transfuga dall'Accademia...
12. 27. Prese allora la parola Trigezio: "Ormai non intendiamo, essendo manifesto il concetto, sollevare più opposizioni per questione di parole. Ora piuttosto pensa a rispondere ad Alipio che ci ha difeso mentre tu stai tentando di aggredirci di nuovo". Licenzio lo interruppe: "Un momento, ti prego. Mi sta venendo in mente un non so che: mi sto accorgendo che la dimostrazione non doveva esserti sottratta di mano con tanta facilità". Tacque un po', immerso nella riflessione, poi continuò: "Scusa, ma pare che non si dia fatto più assurdo dell'affermare che si fonda sul verosimile chi ignora che cos'è il vero. Insomma quella tua similitudine non mi dà più fastidio. Difatti, interrogato se dalle attuali condizioni atmosferiche sia condizionato il cadere della pioggia per il giorno successivo, giustamente rispondo che è verosimile e tuttavia non nego di conoscere qualche cosa di vero. So infatti che quest'albero ora non può diventar d'argento e senza presunzione affermo di sapere secondo verità molte cose e noto che ad esse sono simili quelle che denomino verosimili. Frattanto perché dovrei esitare e passare all'altra parte per consegnarmi a chi spetto come prigioniero per diritto di vittoria? Pertanto tu, o Carneade, o altra peste greca, per risparmiare i latini, tu dunque, se affermi di non sapere nulla di vero, come puoi fondarti sul verosimile? Scusatemi se non ho saputo trovare altro nome. E perché dovremmo disputare con chi non può neanche parlare?".
... confonde problematicità e sistematicità.
12. 28. "Non sarò io, proruppe Alipio, a temere i disertori e quanto meno li temerà il grande Carneade. Contro di lui tu hai ritenuto, non so se spinto da leggerezza giovanile o piuttosto fanciullesca, di dover lanciare oltraggi anziché un qualche argomento. Frattanto contro di te, per corroborare la propria tesi che è fondata soltanto sul probabile, gli basterebbe certamente, come argomento che noi siamo assai lontano dal vero, il fatto che tu stesso ne potresti essere una dimostrazione. Difatti ti sei lasciato tanto sbilanciare da una sola domandina al punto da ignorare completamente da quale parte ti saresti dovuto mettere. Ma rimandiamo l'argomento della tua scienza. Tu stesso hai dianzi confessato che ti è stata infusa da quest'albero. Anche se ti sei buttato con l'altro partito, tuttavia devi essere diligentemente istruito su quanto ho detto poco fa. A mio avviso, non eravamo ancora giunti al problema della possibilità di trovare il vero. Ma io ho ritenuto di dover trattare soltanto come esordio alla mia difesa il problema di fronte al quale avevo previsto la tua stanchezza e prostrazione e cioè: che non si deve fare ricerca sul verosimile o probabile o qualsiasi altra nozione, comunque si denomini, di cui gli accademici affermino che per loro è sufficiente. Che se a te pare d'essere già un genuino possessore della verità, a me non importa. In seguito, se non sarai ingrato a questa mia difesa, me le insegnerai forse tu le medesime cose".
Alipio, fedele difensore della Accademia...
13. 29. A questo punto Licenzio si mostrò pieno di vergogna per l'attacco di Alipio. Io intervenni: "O Alipio, hai proprio voluto pronunziarti su ogni argomento fuorché sul modo con cui dobbiamo discutere con coloro che non conoscono l'arte della parola". E quegli: "Da tempo a me e a tutti è noto che tu possiedi l'arte della parola. Ora poi lo mostri con la tua stessa professione. Vorrei pertanto che tu giustificassi, prima di tutto, l'utilità di questa tua indagine che o è superflua, come penso, e soprattutto è superfluo trovarle una risposta; ovvero, se può sembrare utile e da me non può essere svolta, ti supplico di non esercitare di mala voglia l'ufficio di maestro". "Ricordi, gli risposi, che ieri ho promesso di trattare in seguito dei termini in questione. Ed ora il sole mi avverte di mettere nei cesti gli strumenti didattici mostrati a questi ragazzi, tanto più che son solito mostrarli a titolo di ornamento e non a scopo di vendita. Ed ora prima che l'opera dello stilo sia impedita dalle tenebre, le quali di solito sono la difesa degli accademici, desidero che oggi stesso si stabilisca chiaramente, d'accordo fra di noi, la questione per la cui trattazione domani dobbiamo levarci. Rispondimi dunque per favore, se ritieni che gli accademici abbiano avuto una fondata dottrina sulla verità e non abbiano voluto svelarla incautamente ad individui non iniziati e non purificati, ovvero se hanno veramente teorizzato nei termini in cui si presenta storicamente la loro controversia".
... non comprende che si tratta del fondamento del filosofare.
13. 30. "Con serietà, rispose Alipio, esporrò la loro vera tesi. E tu conosci meglio di me, per quanto si può rilevare dai libri, i termini con cui di solito esprimono la loro dottrina. Se poi chiedi la mia opinione personale, penso che il vero non è stato ancora raggiunto. Aggiungo inoltre, per rispondere alla tua domanda sugli accademici, di ritenere che il vero non si può raggiungere e non tanto per una mia personale opinione, che tu hai sempre avvertito in me, ma anche per l'autorità di grandi ed eccellenti filosofi. Sono tanto la nostra debolezza quanto la loro sottigliezza, al di là della quale c'è proprio da credere non ci sia più nulla da trovare, che ci costringono, non so come, a curvare il collo". "Proprio questo volevo, dissi. Temevo infatti, se la tua opinione si accordava con la mia, che la nostra discussione rimanesse sterile. Non ci sarebbe stato nessuno dalla parte contraria a farci venire l'argomento fra le mani in maniera da analizzarlo con tutta la diligenza possibile. E se si fosse dato questo caso, ero pronto a pregarti di far tua la tesi degli accademici come se la tua interpretazione fosse che affermassero, non solo per esercizio ma anche per convinzione, l'impossibilità di raggiungere il vero. Fra noi si discute quindi se sulla base delle loro dimostrazioni è probabile che nulla si può conoscere e che non si dà apodissi per l'assenso. Se riuscirai a dimostrarlo, cederò volentieri. Se poi riuscirò io a dimostrare che è molto più probabile che il filosofante può raggiungere la verità e che non sempre si deve sospendere l'assenso, penso che non avrai nulla in contrario per accettare la mia opinione". La mia proposta piacque a lui e ai presenti. Tornammo a casa già avvolti dalle ombre della sera.
LIBRO TERZO
L'INDAGINE CRITICA DI AGOSTINO: IL FONDAMENTO DEL FILOSOFARE
Introduzione: Il filosofo-saggio e la fortuna (1, 1 - 2, 4)
Collegamento con la trattazione precedente.
1. 1. Dopo la discussione riferita nel secondo libro, l'indomani ci adunammo nelle terme. Il tempo era troppo triste per poter scendere al prato. Cominciai in questi termini: "Penso che vi siate resi consapevoli del motivo per cui fra noi è sorta la discussione di questo problema. Ma prima che giunga alla soluzione, per quanto riguarda la parte affidatami, desidero che ascoltiate alcuni concetti sulla speranza, la vita e la norma dell'agire. Non esulano dall'argomento. Penso che la nostra occupazione vera, non futile o superflua ma necessaria e nobilissima, sia ricercare con tutto l'impegno la verità. Su questo punto c'è accordo fra me e Alipio. Difatti tutti i filosofi hanno ritenuto che il saggio da loro ideato l'ha raggiunta. Gli accademici poi hanno insegnato che il loro saggio deve compiere ogni sforzo per raggiungerla e che questa è la sua incessante attività. Ma poiché essa o non appare perché oscura o si cela perché indistinta, il saggio, agli scopi pratici della vita, deve seguire quanto appare probabile o verosimile. Tale argomento fu trattato nella nostra prima discussione. In essa uno di voi ha affermato che l'uomo è felice nel possesso della verità e l'altro nella sola ricerca incessante. Quindi per nessuno di noi esiste dubbio che non si dà occupazione da preporre a questa. E adesso, se permettete, come vi sembra che abbiamo passato il giorno di ieri? V'è stato concesso di attendere ai vostri studi. Tu, Trigezio, hai preso diletto dalla poesia di Virgilio. Licenzio ha atteso a compor versi ed è molto preso dall'amore per la poesia. Ho creduto anzi mio dovere tenere questo discorso soprattutto per lui. La filosofia deve occupare ed arrogarsi nel suo spirito un'attenzione più viva non solo della poesia ma di qualsiasi altra occupazione. E questo è il momento più opportuno.
La fortuna come soggezione al bisogno.
2. 2. E me, scusate, non mi avete un po' commiserato? Ieri siamo andati a letto con l'intenzione che non ci si levasse per altro che per la disputa differita. Ma vi furono tante faccende, riguardanti la casa, che si son dovute inderogabilmente sbrigare. Occupati in esse, abbiamo potuto attendere a noi soltanto le due ultime ore del giorno. E per questo sono stato sempre dell'avviso che l'uomo saggio non ha più bisogno di nulla, ma che per divenire saggio gli è sommamente necessaria la fortuna a meno che Alipio non la pensi diversamente". Mi rispose: "Non so bene ancora quanta competenza attribuisci alla fortuna. Se ritieni che si esige la fortuna per disprezzare la fortuna stessa, allora mi associo al tuo parere. Se poi alla fortuna concedi soltanto l'elargizione dei beni che non possono esser forniti per le necessità del corpo se non col suo favore, allora non sono dello stesso avviso. In definitiva o è concesso, nonostante che essa sia decisamente sfavorevole, a chi non è ancora saggio ma è desideroso della saggezza, accaparrarsi i comodi che riteniamo indispensabili alla vita, ovvero bisogna ammettere che essa domina anche in tutta la vita del saggio. Anche il saggio infatti non può non sentire il bisogno delle cose indispensabili al corpo".
Il filosofo saggio vince la fortuna nella vita...
2. 3. "Tu dunque affermi, lo interruppi, che la fortuna è indispensabile per chi aspira alla saggezza e non per il saggio". "Non disdice, replicò, all'argomento ripetere le stesse cose. E per questo anche adesso ti chiedo se ritieni che la fortuna può contribuire a farsi disprezzare. Se sei di quest'avviso, affermo che chi aspira alla saggezza ha molto bisogno della fortuna". "Sono di quest'avviso, risposi, poiché proprio per suo mezzo sarà tale da poterla disprezzare. E non è assurdo. Quando siamo piccoli, ci è indispensabile l'allattamento ma per suo mezzo si ottiene che possiamo vivere e star bene senza di esso". "Mi accorgo, egli rispose, che i nostri pareri, salvo dissenso interiore, si accordano. Qualcuno tuttavia potrebbe pensare di dover discutere sul fatto che non l'allattamento e la fortuna ma qualche altra cosa rende superiori all'allattamento e alla fortuna". "Non è difficile, risposi, usare un altro esempio. Sebbene un tale si proponga soltanto la meta, non passa il mare Egeo senza nave o altro mezzo di locomozione o addirittura, perché non mi si obietti il caso di Dedalo, senza mezzi adatti allo scopo o altra occulta energia. Quando ha raggiunto la meta, è pronto ad abbandonare e disprezzare i mezzi che ve l'hanno trasportato. Così c'è chi vuole giungere al porto e, per così dire, allo stabile e tranquillo suolo della saggezza. Per tacere del resto, se fosse cieco o sordo, e ciò è in potere della fortuna, non lo potrebbe. Ritengo quindi indispensabile che egli abbia al compimento del suo desiderio la fortuna favorevole. E appagatolo, sebbene è ineluttabile che abbia bisogno di alcuni beni necessari alla vita fisica, è certo tuttavia che non ne ha bisogno per essere saggio ma per rimanere in vita". "Anzi, soggiunse Alipio, se fosse cieco e sordo, giustamente, secondo me, sprezzerebbe la saggezza da raggiungere e la stessa vita per cui si cerca la saggezza".
... e nella morte.
2. 4. "Tuttavia replicai, anche la nostra vita terrena è in potere della fortuna e non si diviene saggi se non si vive. Non si deve dunque ammettere che ci è indispensabile il suo favore perché possiamo giungere alla saggezza?". "Ma la saggezza, mi rispose, è necessaria soltanto a chi vive; terminata la vita non c'è alcun bisogno della saggezza. Dunque nel prolungare la vita non temo affatto la fortuna. Desidero la saggezza perché vivo e non perché aspiro alla saggezza voglio vivere. Quindi se la fortuna mi toglierà la vita, mi toglierà anche la ragione di ricercare la saggezza. Non ho pertanto alcun motivo, allo scopo di divenir saggio, di dover desiderare il favore della fortuna o temerne gli ostacoli, a meno che non mi addurrai altri motivi". Ed io: "Non ti pare dunque che chi aspira alla saggezza può essere dalla fortuna impedito di raggiungerla anche se non gli toglie la vita". "No, rispose, non mi pare".
Il fondamento: Nonostante l'aporia innegabilità del filosofare (3, 5 - 6, 13)
La scienza del filosofare e il probabile.
3. 5. - "Desidero, replicai, che tu mi esponga la differenza che esiste fra filosofante e iniziato al filosofare". "Ritengo, rispose, che il filosofante differisce da chi aspira al filosofare soltanto perché nel filosofante si ha un certo abito di quelle cose, di cui nell'iniziato si ha il solo desiderio ardente". "E quali sarebbero queste cose?, richiesi. Io opino che non si dia altra differenza se non che uno ha scienza del filosofare e l'altro attende ad averla". "Se, mi rispose, definisci brevemente la scienza, esponi più chiaramente il tuo pensiero". "Comunque la definisca, replicai, è dottrina comune che scienza non ha per oggetto l'opinabile". "Proprio per questo, egli disse, mi è sembrato opportuno frapporti come ostacolo simile premessa. Altrimenti il tuo discorso, dietro un'incauta mia ammissione, avrebbe cominciato a cavalcare indisturbato per i campi di questo problema di fondo". "Ma per la verità, obiettai, non mi hai lasciato spazio dove cavalcare. Comunque, salvo errore, ed è quanto da tempo preparo, siamo arrivati alla meta. Infatti, come hai affermato acutamente e secondo verità, la differenza fra l'iniziato e il filosofante consiste nel fatto che quegli aspira e questi possiede scienza di filosofare. Allo scopo non hai esitato a usare il termine di una certa disposizione abituale. Inoltre non si può nella mente avere scienza se non si è appreso e non si è appreso se non si ha intellezione e non si ha intellezione dell'opinabile. Ne consegue che il filosofante, del quale tu stesso hai ammesso che ha scienza del filosofare, ne ha, cioè, l'abituale disposizione, conosce la verità". "Non so proprio, ribatté Alipio, quanto apparirei sfacciato se negassi di avere affermato che nel filosofante esiste l'abituale disposizione della ricerca di cose umane e divine. Non riesco a comprendere perché ritieni che non può esistere la disposizione abituale a risultati opinabili dell'indagine". "Mi concedi, replicai, che non si dà scienza dell'opinabile?". "Ma ben volentieri". "E allora afferma, ribattei, se ne hai il coraggio, che il filosofante non ha scienza del filosofare". "Ma perché, obiettò, vuoi conchiudere l'argomento in termini tali da escludere che il filosofante opini di aver raggiunto scienza del filosofare?". "Dammi la mano, gli dissi. Se ben ricordi, è proprio questo l'argomento che ieri ho detto di voler trattare. Ed ora son felice che non è stato da me conchiuso, ma m'è stato ripresentato da te. Ho detto infatti che fra me e gli accademici esiste questa differenza: che essi ritengono probabile che la verità non si può raggiungere mentre io opino di non averla ancora raggiunta, ma che può essere raggiunta dal filosofante. Ed ora tu, incalzato dalle mie domande se il filosofante ha scienza del filosofare, hai risposto che opina di averla". "E allora?", ribatté. "Se opina, continuai, di aver scienza del filosofare, opina che il filosofante può avere scienza di qualche cosa, a meno che tu non affermi che il filosofare è nulla".
Inoppugnabilità dell'atto dei filosofare.
3. 6. "Quasi quasi stavo pensando, mi rispose, che eravamo giunti alla meta definitiva, ma all'improvviso, quando mi hai steso la mano, mi sono accorto che siamo in pieno disaccordo e che la tireremo a lungo. In effetti ieri mi sembrava che non esistesse altra discussione fra noi se non che, mentre tu affermavi, io negavo che il filosofante può giungere alla rappresentazione del vero. Adesso invece avverto di non averti concesso altro se non che il filosofante può opinare di avere raggiunto conoscenza filosofica con risultati opinabili e nessuno di noi può mettere in dubbio che io ho considerato tale conoscenza come indagine su cose divine e umane". "Non imbrogliando te la sbroglierai, lo ammonii. Mi pare che ormai stai discutendo per tuo esercizio personale. Sai bene che questi giovanetti sono ancora appena capaci di comprendere argomenti trattati con acume e sottigliezza. Stai dunque abusando, per così dire, dell'ignoranza dei giudici per parlare a tuo piacere senza subire recriminazioni. Poco fa, quando ti ho chiesto se il filosofante ha scienza del filosofare, hai risposto che opina di averla. Ne consegue che chi opina che il filosofante ha scienza del filosofare, non può non opinare che il filosofante ha scienza di qualche cosa. Tale conseguenza è inoppugnabile a meno che non si osi dire che il filosofare è nulla. Ne consegue che le nostre opinioni sono concordi. Difatti io opino che il filosofante ha scienza di qualche cosa e, a mio avviso, anche tu, sebbene preferisci dire che il filosofante opina che il filosofante ha scienza del filosofare". Ed egli: "Penso che in fatto d'esercizio della mente siamo alla pari e me ne meraviglio perché tu non hai alcun bisogno d'esercitarti sull'argomento. Io forse sono ancora cieco, ma opino che esista differenza fra opinare di sapere e sapere e fra il filosofare, che consiste nell'indagine, e la verità. Noi sosteniamo l'una e rispettivamente l'altra parte dell'alternativa. Non riesco proprio a comprendere dunque come esse coincidano". Eravamo già stati chiamati a pranzo. Gli dissi frattanto: "Non mi dispiace la tua lunga resistenza. Comunque o entrambi non sappiamo quel che diciamo e dobbiamo provvedere a non disonorarci a tal punto, ovvero uno soltanto di noi due non lo sa ed è egualmente disonorevole rinunciare per noncuranza. Ma nel pomeriggio c'incontreremo ancora. E proprio quando anche a me sembrava di esser giunti alla meta, hai stretto i pugni". Al motto tutti risero e ce ne andammo.
Licenzio si vuol dissetare alla fonte Ippocrene.
4. 7. Al nostro ritorno trovammo Licenzio affannato a far versi. L'Elicona non avrebbe mai soddisfatta la sua sete. A metà pranzo, sebbene del nostro la fine fu un tutt'uno con l'inizio, s'era alzato alla chetichella senza aver bevuto. Gli dissi: "Desidero che tu alfine possegga l'arte del poetare, come hai bramato, non perché mi dia molto piacere codesta tua abilità, ma perché osservo che ne sei tanto preso da potertene liberare soltanto col disgusto, come di solito avviene una volta conseguita l'abilità. E poi, giacché hai una bella voce, preferirei che ci faccia udire versi tuoi anziché, col tono delle tragedie greche, secondo il costume degli uccellini che vediamo chiusi in gabbia, cantare parole che non intendi. Ti prego tuttavia di andare a bere, per favore, e di ritornare alla nostra scuola se qualche benemerenza hanno verso di te L'Ortensio e la filosofia. Ad essa hai libato primizie assai dolci con la precedente vostra disputa, la quale ti aveva acceso, con maggiore ardore che l'arte del poetare, alla scienza di cose grandi e veramente utili. Ma mentre io desidero di richiamarvi alla palestra di queste discipline con cui si educa lo spirito, temo che essa possa divenire per voi un labirinto. Quasi mi pento di averti distolto dalla tua infatuazione". Arrossì e si allontanò per bere. Aveva molta sete e gli si presentava il destro di allontanarsi da me che avrei potuto dire molte altre parole e più dure.
Il sapere e l'opinare di sapere.
4. 8. Quando fu tornato, nell'attenzione generale, così cominciai: "Allora, Alipio, le cose stanno al punto che non andiamo d'accordo su un argomento, a mio avviso, tanto evidente?". "Tu affermi, rispose, di avere in mano l'argomento. Ma niente di strano che esso sia oscuro per me. Argomenti evidenti potrebbero essere più evidenti per alcuni ed egualmente argomenti oscuri più oscuri per altri. E se questo argomento è per te evidente, credimi, v'è qualcuno per cui è più evidente ed egualmente v'è qualche altro per cui l'argomento a me oscuro è ancora più oscuro. Ma non pensare che io voglia essere troppo polemico. Ti pregherei pertanto di rendere più evidente quanto è già evidente". "Per favore, gli risposi, ascoltami con attenzione trascurando per un po' la preoccupazione di rispondere. Se conosco bene te e me, facilmente con l'impegno dovuto sarà chiarito il concetto che sto esprimendo e ci persuaderemo a vicenda. Hai detto dianzi, o forse ero diventato sordo, che il filosofante opina di avere scienza del filosofare?". Fece un cenno d'assenso. "Per un po', ripresi, lasciamo andare codesto filosofante. Tu stesso sei filosofante o no?". "Ma niente affatto", rispose. "Vorrei tuttavia, continuai., che tu mi dichiari l'interpretazione che dài del filosofo accademico. Ti sembra che abbia scienza del filosofare?". "Ma per te, egli ribatté, è la medesima cosa o no se opina di avere scienza o se l'ha veramente? Temo che la mancanza di chiarezza possa offrire una scappatoia a uno di noi".
Anche l'opinare di sapere è inoppugnabile.
4. 9. "Quanto stai dicendo, gli risposi, è simile a quella che si suol denominare contesa toscana. Avviene quando a una domanda proposta non sembra ovviare la risposta confacente, ma la presentazione di un'altra domanda. Anche il nostro poeta, tanto per dedicarmi un po' agli orecchi di Licenzio, nelle Bucoliche, ha giustamente giudicato che tale atteggiamento è da campagnoli e senz'altro da pastori. Difatti un tizio domanda ad un altro dove il cielo non abbia estensione superiore a tre gomiti, e quegli risponde: E tu dimmi in quali regioni nascono fiori con sopra stampatovi il nome dei re (Virgilio, Ecl. 3, 105-106). Scusami, Alipio, ma non credere che questo ci sia permesso perché ci troviamo in campagna. Anche questo piccolo bagno valga a farci rievocare in qualche modo lo splendore dei ginnasi. Ed ora rispondi, se vuoi, alla mia domanda: Opini che il filosofo degli accademici ha scienza del filosofare?". "Non meniamo la cosa in lungo, rispose, rapportando parole a parole. Opino che egli opina di averla". "Tu opini dunque, replicai, che non ne ha scienza? Ma io non ti chiedo che cosa opini che opina il filosofante, ma se opini che il filosofante ha scienza del filosofare. Puoi, a mio avviso, indifferentemente affermare o negare". "Magari, rispose, l'argomento fosse facile per me come lo è per te o difficile per te come lo è per me. Non saresti tanto molesto e non avresti alcuna fiducia nella discussione. Tu mi hai domandato la mia opinione sul filosofo accademico. Ho risposto che opino che egli opina di avere scienza del filosofare sia per non affermare pregiudizialmente che io ho scienza, sia per non affermare non meno pregiudizialmente che egli ha scienza". "Come grande favore, lo ammonii, ti prego di concedermi, prima di tutto, che ti degni rispondere alle domande che ti rivolgo io e non a quelle che tu formuli. In secondo luogo che lasci da parte la mia fiducia perché so che ti è a cuore non meno della tua. Ed abbi per certo che se io sarò indotto in errore con questa mia interrogazione, passerò subito dalla tua parte e porremo fine alla discussione. Infine ti prego che, scacciata non so quale preoccupazione dalla quale ti vedo preso, tu esamini con maggiore attenzione per intendere con esattezza la risposta che io desidero da te. Hai detto che non intendevi né affermare né negare. Al contrario è indispensabile che tu lo faccia allo scopo per cui ti rivolgo domande. Non deve avvenire che incautamente tu affermi di avere scienza di ciò di cui non hai scienza come se io ti avessi chiesto ciò di cui hai scienza e non ciò su cui opini di averne. Quindi adesso ti rivolgo la stessa domanda in termini più espliciti per quanto è possibile: Opini che il filosofante abbia scienza del filosofare o non l'abbia?". "Se si potesse, mi rispose, trovare un filosofante come lo esige il pensiero filosofico, potrebbe opinare che egli ha scienza del filosofare". "Il pensiero, filosofico dunque, replicai, ti presenta il filosofante come colui che non ignora di filosofare. Fin qui bene. E non era conveniente che tu avessi una differente opinione.
Anche l'opinare di sapere è qualche cosa.
4. 10. Ormai posso chiederti dunque se può esservi un vero filosofo. Se può esservi, può anche avere scienza del filosofare ed ha termine il nostro dibattito. Se poi affermi che non può esservi, non vi sarà più il problema se il filosofante ha scienza di qualche cosa, ma se si può esser filosofo. Stabilito questo punto, dobbiamo lasciare andare gli accademici ed esaminare il problema con molto senso critico per quanto ci è possibile. Infatti essi insegnarono o meglio ritennero probabile che si può esser filosofo e che tuttavia la scienza non è di competenza dell'uomo. E per questo affermarono che l'uomo non ha scienza di qualche cosa. Tu opini che abbia scienza del filosofare e questo certamente non significa aver scienza di nulla. Nello stesso tempo abbiamo ritenuto noi due concordemente che non si può avere scienza del falso. Lo ritennero pure concordemente gli antichi e perfino gli accademici. Ti rimane quindi o di sostenere che il filosofare è un nulla o che dagli accademici viene configurato il filosofo in termini che il pensiero umano non consente. Ma, abbandonando tale argomento, permetti d'indagare se all'uomo può spettare tale filosofare quale il pensiero esige. Non esiste altro filosofare che possiamo così denominare".
Insorgenza dell'aporia e postulazione della fede.
5. 11. "Supponiamo, rispose Alipio, che io conceda l'assunto che tu vuoi derivare a tutti i costi. Nell'ipotesi il filosofante ha scienza del filosofare e dalla nostra disputa è emerso un qualche cosa che il filosofante può ritenere come certo. Tuttavia non m'è affatto ovvio che la tesi degli accademici sia del tutto crollata. Osservo che dispongono, al contrario, di uno spazio notevole per la difesa. Non è stata eliminata la sospensione dell'assenso. Proprio per il fatto che ritieni di averli convinti, essi non possono venir meno alla loro causa. Continueranno a sostenere che nulla si può rappresentare come vero, che non si dà apodissi per l'assenso a qualsiasi enunziato. Arriveranno al punto da dire che lo stesso principio dell'impossibilità di ritenere con certezza, di cui fino a te si son formati una persuasione probabile, è stato motivato in loro da un ragionamento come il tuo. Ne consegue che, come allora, la forza di un'argomentazione quale la tua, sia essa invitta a causa della mia tarda intelligenza ovvero per vera apodissi, non riesce a farli rimuovere dalla loro posizione. Son tuttora capaci di affermare audacemente ancor oggi che neanche dopo tale argomentazione si deve prestar l'assenso per obiettiva apodissi. Soggiungono che contro di essa eventualmente, in futuro, o da loro da altri, potrebbero esser formulati pensieri acuti e probabili che sarebbe opportuno ravvisare la loro figura, per così dire riflessa, nell'antico Proteo. Di lui si dice che di solito era afferrato appunto per non essere afferrato e che coloro i quali lo cercavano non riuscivano a scoprirlo se non per indicazione di qualche potere divino. Ed esso ci assista e si degni manifestarci la verità che tanto ci interessa. Allora io pure confesserò che sono stati superati. E non penso che se ne dispiacciano".
Possibilità dell'apodissi.
5. 12. "Proprio bene, risposi. Di più non desideravo. Osservate infatti, per favore, quanti e quanto grandi vantaggi me ne sono derivati. Il primo è l'ammissione che gli accademici sono stati confutati al punto da non avere altra difesa che nell'assurdo. Non si può infatti pensare in alcun modo o ritener probabile che chi è vinto, per il fatto stesso che è vinto, si vanti di esser vincitore. Quindi se rimane un punto da discutere con essi, non deriva dalla loro affermazione che non si può avere scienza di qualche cosa, ma dalla loro contestazione che non si dà oggetto di cui si abbia apodissi. E qui finalmente siamo d'accordo. Infatti io come loro, opino che il filosofo possiede scienza del filosofare. Soltanto che essi richiamano all'assenza di ogni apodissi. Affermano infatti soltanto l'opinabilità e negano completamente la scienza. Ma anche io ritengo di non avere scienza. Anche io dico di avere soltanto opinione su questo punto. Sono infatti non filosofo come loro che non hanno scienza del filosofare. Ma io ritengo che c'è qualche cosa cui associare l'apodissi. È la verità. E chiedo se essi son di parere contrario su tale argomento e cioè se ritengono che alla verità non si deve associare l'apodissi. Non lo diranno mai. Affermeranno soltanto che non si può raggiungere. E dunque mi hanno concorde in questo particolare aspetto che io e loro non riteniamo improbabile e quindi necessariamente riteniamo probabile che alla verità si deve associare l'apodissi. Ma chi ce la farà vedere?, dicono. Su questo punto non intendo contendere con loro. Mi basta la improbabilità della tesi che il filosofante non ha scienza di qualche cosa. Non potranno più affermare l'enorme assurdità o che il filosofare è nulla o che il filosofante non ha scienza del filosofare.
Probabilità e fede.
6. 13. Tu, o Alipio, hai detto chi può manifestare il vero ed io devo fare un notevole sforzo per non dissentire. Hai affermato tanto brevemente quanto religiosamente che soltanto un potere divino può manifestare all'uomo che cosa è il vero. E in questa nostra discussione non ho udito tanto volentieri parole più ponderate, più probabili e, se il potere divino mi assiste come spero, più vere. Anche perché voi, giovani, notiate che i poeti non sono del tutto disprezzati dalla filosofia, viene presentato come allegoria della verità il mitico Proteo. È stato da te chiamato in causa con molta profondità di pensiero e con viva applicazione al più genuino significato del filosofare. Intendo dire che Proteo rappresenta con esattezza, attraverso la favola poetica, la personificazione di un'idea che l'uomo non può cogliere se, ingannato dalle apparenze fenomeniche, rallenterà o aprirà le nocche della rappresentazione del vero. Sono appunto tali apparenze che, nel contatto con gli oggetti corporei, mediante i sensi che usiamo per le necessità della vita, riescono a trarci pienamente in inganno anche quando si possiede e, per così dire, si tiene in mano la verità. E questo è il terzo vantaggio che me n'è derivato. Non saprei quanto apprezzarlo. Infatti un mio intimo amico concorda con me non solo su quanto v'è di probabile nella vita umana, ma anche nella religione. È indizio assai manifesto del vero amico. L'amicizia molto rettamente e giustamente è stata definita come comunicazione, mediante benevolenza e amore, di cose umane e divine (Cicerone, Lael. 6. 20 ).
La rappresentazione o esprimibilità del vero (7, 14-9, 21)
Nel passaggio all'analisi delle parti del filosofare...
7. 14. Non deve sembrare tuttavia che gli argomenti degli accademici continuino a spargere nebbie su di noi né d'altra parte si deve pensare che vogliamo per orgoglio resistere all'autorità di uomini assai dotti. Intanto fra di essi Tullio non può non avere influsso su di noi. Pertanto dapprima, se lo gradite, esporrò in breve dei pensieri contro coloro i quali ritengono che le nostre dispute sono contrarie alla verità. Poi manifesterò, secondo una mia interpretazione, il motivo che ebbero gli accademici di occultare la propria dottrina. Pertanto, o Alipio, sebbene sappia che condividi pienamente la mia opinione, assumi momentaneamente la difesa degli accademici e rispondimi". "Oggi, mi rispose, hai conquistato terreno sotto favorevoli auspici, come dicono. Quindi non continuerò a contrastare la tua piena vittoria e tenterò di assumere la difesa con sicurezza maggiore poiché mi viene assegnata da te. Ma forse preferisci, se ti rimane comodo, presentare in un discorso continuato l'argomento che dici di voler trattare col metodo dialogico. Io, ormai tuo prigioniero, non sarei bersagliato da tante minute frecce come nemico che non si vuole arrendere. Disdice troppo alla tua magnanimità".
... è preferibile la lezione al dialogo.
7. 15. Mi accorsi che era questo che anche gli altri si aspettavano. Quindi col tono di chi introduce in altro modo il discorso, dissi: "Farò come volete. M'ero ripromesso, dopo la fatica del l'insegnamento della retorica un po' di riposo in questa leggera armatura del trattare l'argomento col dialogo anziché con la lezione. Tuttavia siamo così pochi che non si richiede di parlare alto con danno della mia salute. Ho voluto inoltre, per riguardo alla medesima salute, che lo stilo dello stenografo sia quasi l'auriga e il rallentatore del mio dire acciocché non m'infervori più di quanto esige la preoccupazione per il mio stato fisico. Ascoltate dunque in un discorso continuato il mio pensiero. Ma prima di tutto esaminiamo l'argomento di cui i seguaci degli accademici son soliti vantarsi eccessivamente. V'è nei libri di Cicerone scritti in difesa di tale tesi un passo ornato di ammirevole eleganza e, secondo alcuni, non privo di robustezza. È piuttosto difficile che i concetti ivi espressi non destino interesse in ognuno. Da tutti i seguaci delle altre sette che si reputano filosofi si dà un posto secondario al filosofo accademico. È ovvio che ciascuno si attribuisca il primo posto. E da questo si può dedurre probabilmente che è primo in base al proprio criterio chi è secondo in base al criterio degli altri.
Un passo di Cicerone sul filosofo accademico.
7. 16. Supponi, ad esempio, che sia presente un filosofo stoico. Soprattutto contro di loro s'infervorò la dialettica degli accademici. Or dunque se si domanda a Zenone e Crisippo chi è il vero filosofo, risponderanno che è quello da loro ideato. Al contrario Epicuro o un altro avversario qualunque lo negherà e sosterrà che il vero filosofo è il suo raffinato uccellatore di piaceri. Da qui l'alterco. Urla Zenone e tutto il portico grida tumultuosamente: " Per nessun altro fine è nato l'uomo se non per la virtù, essa avvince gli animi col suo decoro, senza alcun utile estrinseco e senza alcuna ricompensa che faccia quasi da paraninfa, il piacere di Epicuro è comune con gli animali che si accoppiano ed è oltraggioso sospingere l'uomo e il filosofo in loro compagnia". Al contrario Epicuro, novello Bacco, raduna in aiuto dai giardinetti una torma di ubriachi i quali cercano chi sbranare, a modo delle Baccanti, con le unghie sudice e la bocca ferigna, ammassa per trincea, dietro approvazione del volgo, le parole piacere, placamento, serenità e resiste vigorosamente affermando che non si può esser felici se non mediante il piacere. Supponiamo che l'accademico s'imbatta nel loro alterco. Ascolterà gli uni e gli altri che si adopereranno per indurlo a parteggiare con loro, ma se si aggregherà agli uni ovvero agli altri, sarà, dai non preferiti, titolato, con schiamazzi, di idiota, analfabeta e scimunito. E perciò, dopo aver aguzzato l'orecchio or qua or là, richiesto di quel che gliene sembra, risponderà che è in dubbio. Domanda poi allo stoico chi è migliore: Epicuro che gli rinfaccia con grida la pazzia ovvero l'accademico che giudica di dover riflettere ancora su un argomento tanto importante. Nessuno dubita che l'accademico avrà la preferenza. Rivolgiti poi all'altro, e chiedigli chi preferisce: Zenone, dal quale viene gratificato di bestia, o Arcesila, dal quale ascolta: "Tu forse dici il vero, ma io devo indagare più attentamente". Non è evidente che ad Epicuro tutto il portico sembra matto e gli accademici, in paragone, uomini moderati e cauti?(Cicerone, Varro, framm. 34 t. A). Allo stesso modo Cicerone offre con molta erudizione, nei confronti di quasi tutte le sette, come uno spettacolo divertente ai lettori per far notare che non v'è alcuno il quale non si arroghi il primo posto e non attribuisca un posto secondario a chi avverte che non controbatte ma dubita. Il fatto d'altronde è ineluttabile. E su questo punto io non li avverserò e non toglierò nulla della loro gloria.
Al consesso dei filosofi, contro l'arringa di Cicerone, Agostino accusa la vanagloria accademica.
8. 17. E sia pure concesso a qualcuno di ritenere che nel passo citato Cicerone non abbia inteso scherzare, ma conoscere e raccogliere alcune futili e vuote raccomandazioni perché rifuggiva dalla leggerezza dei minori filosofi greci. Nulla m'impedirebbe, se volessi ribattere la boria accademica, di dimostrare che è minor male non essere filosofo che essere incapaci di divenirlo. Ne consegue che quell'accademico vanagloriosetto, presentatosi ad ognuno e non avendo alcuno potuto persuaderlo della propria opinione, venga infine schernito con unanime consenso. Ormai infatti ognuno giudicherà che qualsiasi altro avversario non ha appreso nulla, ma che quegli è perfino incapace di apprendere. Da quel momento egli sarà buttato fuori da ogni scuola non con le sferze, il che produrrebbe più vergogna che dolore, ma con le clave e i bastoni di quei tali che portano soltanto il mantello. Non sarà davvero una grande impresa invocare contro una comune peste le forze ausiliatrici dei cinici come se fossero quelle di Ercole. E se mi andasse a genio di disputar con loro per una gloria tanto meschina, e a me filosofante ma non ancor filosofo si dovrebbe consentire più facilmente simile intento, non avrebbero da ribattere. Supponiamo dunque che io e un accademico ci imbattiamo nelle suddette liti filosofiche. Siano tutti presenti ed espongano brevemente, secondo il tempo disponibile, le rispettive opinioni. Si chieda a Carneade la sua opinione. Affermerà di dubitare. Perciò ognuno lo preferirà agli altri. Dunque tutti a tutti gli altri. Grande e altissima gloria in verità. Chi non vorrebbe imitarlo? Anche io perciò interrogato risponderò alla stessa maniera. Eguale sarà la lode. Dunque un filosofo viene fregiato di una gloria, in cui un non filosofo viene eguagliato a lui? E se lo superasse anche? La vergogna rimarrebbe senza effetto? Comunque io fermerò l'accademico che si affretta a sgusciar via dal tribunale poiché la stoltezza è troppo avida di una gloria simile. Dunque io, trattenutolo, manifesterò ai giudici ciò che ignorano e dirò: Io, o uomini eccellenti, ho in comune con costui che dubito se qualcuno di voi è capace del vero. Ma abbiamo anche due diverse opinioni sulle quali vi prego di giudicare. Ho udito le vostre decisioni, ma per me, ad esser sincero è incerto dove sia il vero appunto perché non so se qualcuno di voi è filosofo. Ma costui afferma che anche il filosofante non ha scienza di qualche cosa, neanche del filosofare da cui si denomina filosofante. Ognuno vede di chi sarà la palma. Infatti se il mio avversario ammetterà simile conclusione, lo supererò in gloria. Se poi, arrossendo di vergogna, confesserà che il filosofo ha scienza del filosofare, lo vincerò per la validità della mia tesi.
Il dubbio accademico e la definizione di Zenone.
9. 18. Ma passiamo da questo tribunale di contese in un altro luogo dove non ci molesti la turba e magari nella stessa scuola di Platone. Si dice appunto che abbia ricevuto la denominazione dal fatto che era separata dal popolo. Quivi non discutiamo più della gloria, il che è futile e fanciullesco, ma per quanto è possibile a noi, della vita e di una certa speranza dell'animo felice. Gli accademici negano che si possa avere scienza di qualche cosa. E perché codesta vostra opinione, o uomini pensosissimi e dottissimi? Ci ha indotto, rispondono, la definizione di Zenone. E, scusate, perché? Se è vera, conosce qualche cosa di vero chi conosce almeno quella. Se poi è falsa, non avrebbe dovuto mettere in subbuglio uomini tanto coerenti. Ma vediamo cosa dice Zenone. Può essere rappresentato e ritenuto come certo l'oggetto che non abbia caratteri comuni col falso. E questo proprio, o platonico, ti ha spinto a ritrarre con tutte le energie gli allievi dalla speranza di apprendere? Ne consegue che, anche a causa d'un certo lacrimevole torpore mentale, abbandoneranno completamente l'esercizio del filosofare.
Un dilemma: o l'uomo non è filosofante o se lo è, è filosofo.
9. 19. Ma come non dovrebbe metterlo in subbuglio se non si dà il vero e se non si può ritenere con certezza se non ciò che è vero? E se è così, si doveva dire che il filosofare non spetta all'uomo piuttosto che il filosofo non sa perché vive, non sa come vive, non sa se vive ed infine anche, e nulla si può affermare di più perverso, di più maniaco e pazzesco, che è filosofante e non ha scienza del filosofare. Fra le due cose qual è la più atroce: che l'uomo non può esser filosofo o che il filosofante non ha scienza del filosofare? Su questo secondo punto non si può discutere se il problema non è stato impostato in maniera da essere risolto. Ma se fosse affermata la prima parte, gli uomini sarebbero completamente distolti dal filosofare. Al contrario devono essere attratti dal soave e augusto nome della filosofia. Non deve avvenire che, giunti alla tarda età senza avere nulla appreso, ti scaglino le peggiori imprecazioni poiché non avendo provato almeno i piaceri sensibili, ti son venuti dietro verso i tormenti dello spirito.
Gli uomini non devono esser distolti dal filosofare.
9. 20. Ma vediamo chi soprattutto li potrebbe distogliere dal filosofare. Ci potrebbe esser qualcuno che dica: "Ascolta, amico, il filosofare, non è la filosofia; è soltanto esercizio alla sapienza. Se tu ti ci applicherai, non diverrai certamente sapiente nella vita terrena poiché la sapienza è presso Dio e non può spettare all'uomo. Ma quando con tale esercitazione ti sarai abbastanza esercitato e purificato, il tuo spirito facilmente godrà di essa dopo questa vita, cioè quando avrai cessato di essere uomo". Un altro potrebbe dire: "Applicatevi, o mortali, al filosofare. Se ne ha un grande vantaggio poiché non v'è cosa più preziosa del filosofare per l'uomo. Applicatevi dunque per essere filosofanti e non avere scienza del filosofare". "Ma io, obietterebbe, non direi così". "Ma il tuo è ingannare poiché non si troverà altro insegnamento. Ed avviene che, se dici così, ti fuggono come un pazzo, se li addurrai in altro modo, rendi pazzi loro. Ma ammettiamo che gli uomini non vogliano filosofare tanto per l'uno come per l'altro modo d'intenderlo. Se la definizione di Zenone ti costringeva a dire qualche cosa di svantaggioso per il filosofare, o pover'uomo, si dovevano dire al tuo simile parole che lo inducessero al travaglio e non parole che ti esponessero al suo scherno".
Altro dilemma contro Arcesila: o si può esprimere il vero o non si dà filosofia.
9. 21. Non siamo ancora filosofi, ma esaminiamo egualmente, nei limiti consentiti, la definizione di Zenone. Egli ha detto che quell'oggetto può essere rappresentato come vero che appare in maniera da non apparire falso. Ed è manifesto che è impossibile darne un altro come certo. "Ma, dice Arcesila, anche io lo ammetto e per questo appunto insegno che nulla può esser dato come certo. In definitiva è impossibile trovare un tale oggetto". "Forse da te o da altri non filosofi; ma perché non si potrebbe dal filosofo? Ed io son d'avviso che anche all'indotto non si potrebbe rispondere se ti dicesse di ribattere col tuo famoso acume questa stessa definizione di Zenone e di dimostrare che essa può esser falsa. Se non lo potrai, devi ammettere che la puoi dare per certa. Se poi riuscirai a ribatterla, devi ammettere che non lo puoi fare senza dar per certo qualche cosa. Io poi non scorgo che può essere ribattuta e la giudico del tutto vera. Quindi quando ne ho scienza, sebbene non sia filosofo, ho scienza di qualche cosa. Ma sottoponiamola ad uno dei tuoi metodi dialettici. Userò un dilemma ben solido: o è vera, o è falsa. Se è vera, penso rettamente, se è falsa, si può ritenere come certo qualche cosa anche se ha caratteri in comune col falso". "Ma com'è possibile?", obietta. "Quindi Zenone ha definito secondo verità e non ha errato chi, anche in questo punto, gli ha acconsentito. Non possiamo reputare di poca importanza e proprietà tale definizione. Essa, contro coloro che avrebbero addotto molti argomenti contrari alla conoscenza certa, nell'indicare le proprietà di ciò che può esser dato come certo, s'è mostrata essa stessa certa. È dunque definizione e modello di oggetti esprimibili come veri". "Se sia vera anche essa, mi obietta, non so. Ma poiché è probabile, su tale premessa dimostro che non v'è cosa alcuna che sia tale quale essa dichiara potersi rappresentare come certa". "Ma tu forse dimostri indipendentemente da tale premessa e, a mio avviso, ne vedi egualmente la conseguenza. Ma anche posto che non ne abbiamo conoscenza certa, anche in tal caso la scienza non ci abbandona. Sappiamo che essa o è vera o è falsa, dunque qualche cosa sappiamo. E sebbene non sia proprio essa a rendermi noioso, torno a giudicarla del tutto vera. Infatti o può esser dato per certo anche il falso, ed è proprio questo che gli accademici temono ed in verità è assurdo, o non può esser dato per certo neanche ciò che è molto simile al falso. Quindi la definizione è vera. Ma esaminiamo quanto rimane.
Il problema della certezza (10, 22 - 13, 29)
Contro Carneade assonnato s'introduce il problema della certezza.
10. 22. Sebbene questi motivi potrebbero esser sufficienti per la vittoria, non lo sono tuttavia per la piena vittoria. Vi son due affermazioni degli accademici, alla cui confutazione, per quanto ne siamo capaci, vogliamo accedere: Nulla può esser dato per certo, e: Non si dà apodissi per l'assenso. Parleremo dell'apodissi fra poco; ora qualche altro concetto sulla certezza. Dite che proprio nulla si può dar per certo? A questo punto s'è svegliato Carneade. Nessuno di costoro ha dormito più sodo di lui. Ha volto intorno lo sguardo sull'evidenza delle cose. E così, credo, parlando con se stesso, come avviene, si è detto: "Dunque, o Carneade, ma dici davvero che non sai se sei uomo o formica? Ovvero Crisippo avrà vittoria su di te? Noi affermiamo di non avere scienza delle cose che sono oggetto dell'indagine dei filosofi e che le altre non sono di nostra competenza. Se avrò perplessità sulla mia dottrina alla luce di ogni giorno e comune a tutti, posso appellarmi alle tenebre degli ignoranti nelle quali veggono soltanto certi occhi divini. Se essi mi vedranno andare a tastoni e cadere, non possono svelarlo ai ciechi, soprattutto se orgogliosi e tali da vergognarsi d'imparare qualche cosa". Veramente, o greca abilità, te ne vai in giro pulitamente vestita e paludata, ma non ti accorgi che quella definizione non è soltanto l'insegnamento di un filosofo ma che è anche stabilmente fondata nel vestibolo della filosofia. Se tenterai di scalzarla, ti darai la scure sulle gambe. Infatti se essa verrà demolita e tu ce la farai a rovesciarla, non solo si può dar per certo un qualche cosa, ma anche ciò che è il più simile al falso. C'è un tuo nascondiglio dal quale ti avventi furiosamente contro gli incauti che vogliono passare. Ma un qualche Ercole ti soffocherà nel tuo antro come l'uomo bestia Caco e ti coprirà con le tue rovine insegnando che nel filosofare c'è un qualche cosa che tu non puoi rendere incerto come se fosse simile al falso. In verità stavo passando ad altro. Chiunque, o Carneade, mi spinge a farlo t'insolentisce enormemente perché suppone che io ti possa superare in qualsiasi tema e con qualsiasi dimostrazione come se tu fossi un morto. Se poi non lo suppone, è spietato perché mi costringe a lasciare la rocca incustodita e a combattere con te in campo aperto. Ho cominciato a venirti incontro, ma poi atterrito dal solo tuo nome, ho voltato le spalle e dall'alto della rocca ho lanciato una freccia a caso. Se ti ha colpito e che cosa ti ha fatto, lo vedranno i giudici del nostro duello. Ma di che cosa ho paura, imbecille che altro non sono? Se ben ricordo, sei morto. Anche Alipio non combatte più per la tua tomba. Ed è possibile che Dio mi difenda contro i tuoi mani.
Le antinomie sul mondo ridotte alla non contraddizione.
10. 23. Sostieni che nel filosofare nulla si può dare per certo. E per diffondere in lungo e in largo il tuo discorso, tiri fuori le liti e i dissensi dei filosofi e pensi di usarli come armi contro di loro. Quale giudizio, dici, potremo emettere fra Democrito e i primi naturalisti in merito alla discussione sull'unità o molteplicità dei mondi, quando non fu possibile l'accordo fra lui e il suo erede Epicuro? Infatti questo filosofo del piacere permette agli atomi, cioè i corpuscoli, di non seguire la retta ma di deviare di continuo, spontaneamente nelle linee degli altri atomi. Sembrerebbero quasi le sue concubine che a scopo di piacere abbraccia di nascosto. Ma così ha scialacquato tutto il patrimonio anche nelle liti. A me il problema non interessa. Se è di competenza della filosofia avere scienza di tale argomento, al filosofo non può essere ignoto. Ma se è ben qualche cosa d'altro, del filosofare così inteso il filosofo ha scienza e quei problemi non cura. Io tuttavia, che sono ancora ben lontano anche dall'esser vicino a diventar filosofo, ho qualche nozione in materia naturalistica. Ritengo che il mondo o è uno o non è uno, se è uno o è di numero finito o infinito. Carneade insegnerebbe che tale dottrina è simile a una falsa. Allo stesso modo ho scienza che questo nostro mondo è stato così ordinato o dal meccanismo delle cose ovvero da una qualche provvidenza e che esso o è sempre stato e sempre sarà o ha cominciato ad essere ma non finirà o non ha avuto inizio nel tempo ma avrà fine o ha cominciato ad esistere ma non esisterà per sempre. E conosco in tal maniera innumerevoli altre nozioni in materia naturalistica. Simili proposizioni, in quanto implicano contraddizione, sono vere e non si può negarne la validità in un rapporto qualsiasi col falso. "Ma, mi obietta l'accademico, prendi una delle parti della contraddizione". "No! perché sarebbe come affermare: non dire ciò di cui hai scienza, dì ciò di cui non hai scienza. "Ma l'enunziazione rimane sospesa". "Piuttosto che cadere terra, è meglio che rimanga sospesa. Per l'appunto è piana, quanto dire che potrebbe esser riconosciuta come vera o falsa. Ed io dico che ne ho scienza. Tu affermi che questi concetti non appartengono alla filosofia e che non se ne può avere alcuna scienza. Dimostrami piuttosto che io non ne ho scienza. O anche dimostra che le due parti della contraddizione sono ambedue false o che hanno qualche cosa di comune col falso sicché non si possa distinguere la vera dalla falsa".
Certezza del dato immediato di coscienza circa l'esistenza dei mondo.
11. 24. "Come mai, mi obietta, che il mondo esiste se i sensi s'ingannano?". "Giammai le vostre argomentazioni hanno potuto eliminare la funzionalità dei sensi fino al punto da convincermi che niente si percepisce. Non avete nemmeno osato talora di tentarlo. Avete soltanto compiuto ogni sforzo per persuadere che il sensibile può esser diverso da come appare. Io comunque chiamo mondo tutto questo, qualunque struttura abbia, che ci contiene e ci nutrisce, questo, dico, che appare ai miei sensi e che da me viene percepito come formato di terra e cielo o apparenza di terra e cielo. Se affermi che nulla mi appare, non sarò in errore. Erra infatti chi pregiudizialmente annette apodissi alle apparenze. Voi dite che ai soggetti senzienti può apparire il falso, ma non dite che nulla appare. Si toglierà completamente ogni motivo di discussione, che è il vostro dominio preferito, se non solo non abbiamo scienza di qualche cosa, ma neanche opinione. Se poi affermi che ciò che mi appare non è il mondo, fai questione di nomi per puntiglio perché io l'ho chiamato mondo
Certezza delle verità matematiche.
11. 25. "Anche se dormi, obietterai, il mondo è questo che ti appare?". "È stato già detto che chiamo mondo tutto ciò che appare in tal modo. Ma se proprio vuoi chiamare mondo quello che appare a chi è desto e sano di mente, dimostra, se ce la fai, che coloro che dormono o son pazzi, non nel mondo dormono o son pazzi. E per tal motivo affermo che tutto questo meccanismo della massa dei corpi in cui siamo, sia che dormiamo, sia che siamo pazzi, sia che siamo svegli, sia che siamo sani di mente, o è uno o non è uno. Dimostra che questa enunziazione può esser falsa. Se dormo infatti, non è assurdo che non dica nulla. Se poi mentre dormo, mi escono, come avviene talora, parole di bocca, non è assurdo che le dica non in questo posto, non seduto come ora, non con questi ascoltatori. Ma è assurdo che tutto questo sia falso. E non affermo di averne certezza perché son sveglio. Puoi anche contestarmi che mi può apparire mentre dormo e che per tal motivo può avere molta somiglianza col falso. Se ci sono uno e sei mondi, è evidente che fanno sette mondi in qualsiasi maniera io li abbia percepiti e non pregiudizialmente io posso affermare di averne scienza. Dimostra che tale enunziato ovvero le anzidette parti della contraddizione possono esser false o a causa del sonno o della pazzia o per la fallacia dei sensi e mi arrendo se svegliatomi ricorderò di averli sognati". Credo che ormai è abbastanza evidente che ciò che appare falso perché immaginato nel sonno o nella pazzia dipende esclusivamente dai sensi del corpo. Il prodotto di tre per tre eguale a nove e le potenze dei numeri puri è necessario che siano veri anche se l'uman genere russa. Comunque osservo che anche a favore dei sensi si possono allegare molte ragioni che non ritroviamo contestate dagli accademici. Penso che non si dia colpa ai sensi per il fatto che i pazzi soffrono di allucinazioni e che nel sonno vediamo false immagini. Se essi hanno trasmesso a chi è sveglio dei sensibili veri, non si deve loro attribuire ciò che l'animo del dormiente o del pazzo immagina.
Certezza del dato immediato di coscienza circa i sensibili.
11. 26. Rimane da esaminare se, quando essi trasmettono, trasmettono il vero. Supponiamo dunque che un epicureo dica: "Non ho da lamentarmi dei sensi. È ingiusto pretendere da essi oltre le loro possibilità; tutto ciò che possono percepire lo percepiscono". "Dunque è vero ciò che vedono del remo immerso nell'acqua?". "Certamente vero poiché esiste una causa per cui appare così. Se il remo, immerso nell'acqua, apparisse dritto, piuttosto allora accuserei gli occhi di una falsa impressione. Infatti non vedrebbero ciò che, date quelle cause, doveva esser veduto. E perché andare a lungo? Altrettanto si dica delle oscillazioni delle torri, delle penne degli uccelli e degli innumerevoli altri casi". "Io tuttavia, dirà qualcuno, m'inganno se presto l'assenso". "Non prestar l'assenso più di quanto tu ritenga certo che così ti appare e non vi sarà inganno". Non capisco come l'accademico può ribattere chi dice: "Io ho coscienza che questo oggetto mi appare candido, che da questo suono il mio udito prende diletto, ho coscienza che questa cosa ha buon odore, che questa vivanda ha buon sapore, che questo oggetto è per me freddo". "Dimmi piuttosto se le foglie dell'ulivo selvatico, che il becco appetisce con tanto gusto, sono per se stesse amare". "O uomo disonesto! Il becco stesso è più assennato di te. Io non ho coscienza come siano per il becco, per me sono amare. Che vuoi di più?". "Ma v'è forse anche qualche uomo per cui sono amare". Ma vuoi proprio diventare insopportabile? Ho detto forse che sono amare per tutti? L'ho detto per me e non l'affermo per tutte le circostanze. Che cosa v'è di strano se, in circostanze diverse e per altre cause, una medesima cosa si sente in bocca ora dolce ora amara? Io affermo questo: che l'uomo, nell'atto di gustare un cibo, può giurare in buona fede che esso è piacevole al suo palato, o il contrario, e che non può essere smosso da questa sua persuasione da qualsiasi sorite di marca greca. Nessuno può osare di dirmi, mentre sto assaporando gustosamente qualche vivanda: "Bada che non lo stai gustando, è soltanto un sogno". Ma io non ribatto. Tuttavia mi arrecherebbe diletto anche nel sonno. Quindi non v'è somiglianza con cose false che possa rendere incerto ciò di cui affermo di esser cosciente. Epicuro e i cirenaici potrebbero addurre a favore dei sensi molti altri motivi contro dei quali non conosco obiezioni degli accademici. Ma a me che importa? Se vogliono e riescono ad eliminare tali motivi, possono farlo anche con la mia approvazione. Le loro obiezioni contro i sensi non riguardano tutti i filosofi. Ce ne sono molti infatti i quali ammettono che le conoscenze derivate all'intelligenza dal senso possono generare l'opinione, ma non scienza. E ritengono che essa è propria del pensiero e, separata dai sensi, sussiste nella mente. E forse nel loro numero c'è anche il filosofo che stiamo cercando. Ma sull'argomento altrove. Passiamo ad altri concetti. Ormai, grazie a quanto abbiamo già detto, potremo, a mio avviso, spiegarli in poche parole.
Principi morali e non contraddizione.
12. 27. In che cosa il senso favorirebbe od ostacolerebbe chi indaga sulla moralità? Il collo della colomba, la eco, un peso grave per l'uomo e leggero per i cammelli e mille altri casi non impediscono coloro stessi, i quali riposero il bene sommo e ideale dell'uomo nel piacere, di affermare che hanno coscienza di ritrar piacere dalle sensazioni piacevoli e dolore da quelle dolorose. E non veggo che cosa si potrebbe loro obiettare. Molto meno costituiscono difficoltà per chi ripone la perfezione del bene nello spirito. "Quale scegli fra le due opinioni?". Se chiedi la mia opinione, ritengo che il bene sommo dell'uomo è nella mente. Ma ora qui si parla di scienza. Quindi chiedilo al filosofo che non può non avere scienza del filosofare. Frattanto a me, che sono tardo e indotto, è lecito sapere che il fine della perfezione umana, cui è connessa la felicità, o non esiste o è nello spirito o nel corpo o in entrambi. Convincimi, se ti riesce, che io non ho scienza di tale motivo poiché le vostre celebri dimostrazioni non convincono affatto. Non ci riuscirai dal momento che non troverai a quale falso si rassomigli. Non devo dunque esitare a concludere l'attendibilità della mia opinione che il filosofo ha scienza di tutte le verità contenute nella filosofia quando io già ne ho conosciute tante.
Il dato immediato di coscienza e l'agire.
12. 28. Ma forse teme di scegliere il bene sommo mentre dorme. Poco male. Quando si sveglierà, lo rifiuterà se gli dispiace, lo accetterà se gli piace. Nessuno lo può giustamente biasimare perché ha commesso un errore nel sonno. O forse temerai che smarrisca la saggezza se nel sonno accetterà l'errore a posto della verità? Neanche uno che dorme oserebbe sognarsi di chiamare filosofo un tale se è sveglio e di negarlo se dorme. Altrettanto si può dire della pazzia. Ma ho fretta di passare ad altri argomenti. Tuttavia non lascio questo tema senza una fondata conclusione: o la filosofia si smarrisce con la pazzia e quindi non sarà filosofo colui di cui gridate che ignora il vero; o la scienza che possiede rimane nell'intelligenza anche se la rimanente parte dello spirito ricostruisce, come nel sonno, ciò che ha ricevuto dai sensi.
Non contraddizione, dialettica e certezza.
13. 29. Rimane la dialettica. Certamente il filosofo ne ha adeguata conoscenza e non si può avere scienza del falso. Se poi non ne ha scienza, la conoscenza di essa non è di pertinenza del filosofare se senza di essa è potuto esser filosofo. Ma in tal caso indaghiamo inutilmente se è vera e se può esser ritenuta come certa. A questo punto mi si potrebbe dire: "Tu, o uomo indotto, sei solito parlare di quel che sai ovvero non hai potuto avere qualche nozione sulla dialettica?". Ma io ne so più di qualsiasi altra parte della filosofia. Proprio essa mi ha insegnato che son vere tutte quelle proposizioni che dianzi ho formulato. Inoltre per suo mezzo conosco molte altre verità. E voi contate, se ce la fate, quante sono: se in natura vi sono quattro elementi, essi non sono cinque; se il sole è uno, non sono due; non può la medesima anima perire ed essere immortale; non si può essere insieme felici e infelici; in questo luogo non è contemporaneamente giorno e notte; in questo momento o siamo svegli o dormiamo; o è corpo ciò che mi appare o non è corpo. Ho appreso per mezzo della dialettica che queste, e molte altre proposizioni, che sarebbe lungo enumerare, sono vere, qualunque sia l'attitudine dei nostri sensi, cioè vere in se stesse. Mi ha insegnato che se si verifica la parte antecedente di una delle proposizioni condizionali da me formulate, essa trae necessariamente quanto vi è implicito e che le proposizioni da me formulate secondo il principio di contraddizione e del terzo escluso hanno questa caratteristica che, se si escludono le altre parti, una o più, ne rimane una che ha la sua verifica dall'esclusione delle altre. Mi ha insegnato anche che quando è chiaro il concetto che viene espresso con le parole, non si deve far questione di parole. Chiunque lo fa, se agisce per impreparazione deve essere istruito, se per slealtà si deve lasciare a se stesso. Se non può essere istruito, deve essere esortato a dedicarsi a qualche altra occupazione anziché perdere tempo e possibilità inutilmente; se non dà ascolto, si deve non calcolarlo. Breve è l'ammaestramento nei riguardi dei paralogismi e sofismi. Se la loro illazione deriva da illegittima conseguenza, si deve riesaminare quanto è stato indebitamente concesso. Se mescolano in una sola proposizione vero e falso, si deve isolare ciò che è oggetto di pensiero e lasciare ciò che è illogico. Se poi il significato di alcune nozioni è completamente nascosto all'uomo, non se ne deve ricercare la conoscenza. Dalla dialettica ricevo questo insegnamento e molti altri che non è necessario ricordare. Non vorrei proprio diventar noioso. Comunque il filosofo disprezza le false argomentazioni. Se poi, com'è difatti, la consummante dialettica è scienza per sé di verità, la conosce in maniera che disprezzando e non avendo pietà faccia morir di fame il sorite ricattatore degli accademici: Se è vero, è falso e se è falso, è vero. Penso che basti sul problema della certezza. Quando comincerò a parlare dell'apodissi, tutto l'argomento sarà riesaminato.
Il problema dell'apodissi (14, 30-17, 37)
Apoditticità e aporeticità del filosofare.
14. 30. Veniamo a quel settore del problema, sul quale Alipio ancora mantiene il dubbio. E prima di tutto esaminiamo proprio il significato di quel concetto che, appunto per la sua validità come pensiero, t'impone l'aporia. Si tratta appunto del tema della più solida innegabile probabilità che il filosofo ha scienza del filosofare in opposizione alla tesi che il filosofo non ha scienza di qualche cosa. A più forte ragione non si dà apodissi, hai detto, se questa tua nuova intuizione abbatte la dottrina degli accademici suffragata da tante e tante ragioni. Con questo si verrebbe ad ammettere che anche con abbondanti e sottilissime argomentazioni non si può ottenere una persuasione, alla quale, da parte degli avversari, se c'è ingegno, non si può resistere non meno e forse anche più vigorosamente. Ne consegue che l'accademico, nell'atto stesso che è sconfitto, sconfigge. Magari fosse sconfitto! Non otterrebbe col raggiro proprio dei greci di allontanarsi da me assieme vinto e vincitore. Certo che se non trovo altro da affermare contro la tesi accademica, anche io dichiarerò la mia resa senza condizioni. Non disputiamo per acquistarci la gloria, ma per raggiungere la verità. A me basta passare al di là di questo ingombro che s'incontra da chi si avvia al filosofare. Esso, ammassando tenebre in non saprei quali angoli, incute il timore che così sia tutto il filosofare e non permette la speranza di trovare un po' di luce. Per il momento non ho da desiderare di più poiché è già probabile che il filosofante ha scienza di qualche cosa. Infatti non per altro motivo era verosimile che egli dovesse sospendere l'assenso se non perché era verosimile che nulla può essere espresso come vero. Ma è superato questo punto. È stato già ammesso che il filosofante ha come certo per lo meno il filosofare. Non dovrebbe quindi rimanere alcun dubbio che il filosofante accetti l'apodissi per lo meno del filosofare. Sarebbe certamente più assurdo che il filosofante non ammetta l'apodissi del filosofare anziché il filosofante non abbia scienza del filosofare.
Per assurdo il filosofante contro l'apoditticità del filosofare.
14. 31. E per favore poniamoci, per così dire, davanti agli occhi per un momento, se ci riusciamo, una immaginaria lite tra il filosofante e il filosofare. Il filosofare può affermare soltanto che è filosofare. E quegli di rimando: "Non credo". Ma chi dice al filosofare: "Non credo che è il filosofare"? È proprio colui al quale esso ha potuto parlare e nel quale s'è degnato abitare, cioè il filosofante stesso. Avete un nuovo genere di combattimento, il duello fra filosofante e filosofare. Io me ne sto tranquillo con voi ad osservare. Chi non penserebbe che il filosofare deve rimanere invitto? Tuttavia riforniamoci di qualche dilemma. In questo combattimento o l'accademico sconfiggerà il filosofare e rimarrà sconfitto da me perché non sarà più filosofo, o rimarrà sconfitto e gli insegneremo che il filosofante deve ammettere l'innegabilità del filosofare. Pertanto o l'accademico non è filosofante o il filosofante deve ammettere come innegabile qualche cosa. Chi non ha avuto il coraggio di dire che il filosofante non ha scienza del filosofare, non l'avrà neanche per dire che il filosofante non ammette l'innegabilità del filosofare. Ma è già verosimile che spetta al filosofante per lo meno la conoscenza certa del filosofare e non v'è motivo perché non si ammetta l'apodissi di quanto si può ritenere come certo. Noto quindi che è verosimile il mio assunto e cioè che il filosofante deve ammettere l'apodissi del proprio filosofare. Se mi chiederai dove trova il filosofare, rispondo che lo trova nel suo Io. Se mi obietti che egli non ha scienza di ciò che ha nel suo Io, ritorni nell'assurdo che il filosofante non ha scienza del filosofare. E se affermi che non si può dare il filosofante, tratteremo il problema in altri termini e non già con gli accademici ma con te, chiunque tu sia che così pensi. Comunque, quando essi parlano sull'argomento, parlano certamente del filosofante. Cicerone grida che egli è un grande formulatore d'opinioni, ma che egli indaga su filosofo (Cicerone, Lucullus, 20, 66). E se questo passo vi è ignoto, o giovani, avete certamente letto ne L'Ortensio: Se dunque nulla v'è di certo e non è del filosofo l'opinare, il filosofo giammai presterà l'assenso a qualche (Cicerone, Hort. Framm. 100 t. A). Da qui appare che essi con le loro discussioni portano l'indagine sul filosofante. Per questo le stiamo ribattendo.
Reversibilità fra certezza e apodissi.
14. 32. Dunque io penso che per il filosofante il filosofare è certezza, quanto dire che il filosofante ha conoscenza certa del proprio filosofare. Pertanto egli non opina quando associa apodissi al filosofare perché ritiene innegabile quel qualche cosa che se non avesse ritenuto come certo, filosofante non sarebbe. E costoro non negano che si debbano ritenere innegabili le nozioni che possono essere conosciute con certezza. Ora il filosofare è qualche cosa. Poiché dunque il filosofante ha scienza del filosofare e ritiene innegabile il filosofare, ne consegue che egli ha scienza di qualche cosa e annette apodissi a qualche cosa. Che volete di più? Ma indaghiamo anche sull'errore. Essi affermano che si può evitare con assoluta certezza se l'apodissi non induce il pensiero a qualche enunziazione., Erra, dicono, chiunque formula un giudizio non solo falso, ma anche dubbio, sebbene vero, ma io trovo che ogni conoscenza è dubbia. Ma il filosofante, come dicevamo, trova lo stesso filosofare.
Apodissi e vita pratica.
15. 33. Voi. desiderate forse che io abbandoni questo argomento. Ma non si dovrebbero lasciare con tanta facilità le posizioni sicure. Stiamo battendoci con uomini astutissimi. Tuttavia farò come volete. Ma che devo dire a questo punto? Che cosa? Che cosa mai? Si deve certamente tornare al vecchio argomento, sul quale anche essi hanno una loro tesi. Ma non so come comportarmi se mi costringete ad uscire dal mio accampamento. Dovrò forse invocare le forze ausiliarie dei dotti? Se con essi non potrò vincere, sarà meno vergognoso esser vinto. Scaglierò dunque, con quante forze m'è possibile, il piuttosto affumicato e graffiato ma, salvo errore, sempre efficientissimo dardo: Chi non raggiunge apodissi, non agisce (Sensi Emp., Adv. math. 7, 158). "O individuo villereccio! E il probabile dov'è andato a finire? E il verosimile?". Questo volevate allora. Udite come risuonano gli scudi ellenici. Hanno ricevuto un colpo molto forte. Ma con qual mano l'abbiamo lanciato? E questi miei amici non sanno suggerirmi qualche cosa di più valido. Non abbiamo prodotto, come osservo, neanche una ferita. Mi volgerò agli argomenti che mi forniscono la villa e la campagna. I sussidi culturali mi appesantiscono, non mi difendono.
Il racconto dell'incredulo e del credulone e l'errore come inganno.
15. 34. Libero da occupazioni, ho meditato a lungo, in questa campagna, come possa il probabile ossia verosimile difendere le nostre azioni dall'errore fino a tal punto. Dapprima la tesi, come allora quando vendevo chiacchiere, mi sembrò ben coperta e difesa. In seguito, quando l'ho esaminata più attentamente da ogni lato e nel complesso, mi parve di scoprire un passaggio attraverso il quale l'errore si poteva avventare sui troppo fiduciosi. Penso in definitiva che non solo va fuori strada chi segue il cammino sbagliato, ma anche chi si astiene dal seguire il retto cammino. Supponiamo che due viandanti tendano alla medesima meta. Uno ha deciso di non credere a nessuno e l'altro è fin troppo credulone. Si giunge a un bivio. Il credulone si rivolge a un pastore o a un contadino presente: "Salve, buon uomo, dicci per favore da qual parte si va per tale località". Gli si risponde: "Se vai di qua, vai bene". E quegli al compagno: "Dice bene. Andiamo di qua". Se la ride l'uomo troppo diffidente e motteggia scherzosamente l'altro che tanto facilmente ha creduto. Frattanto, mentre l'altro se ne va, si ferma al bivio. Ma comincia ad accorgersi che non è dignitoso arrestarsi.. Ed ecco che dall'altro capo della strada si avvicina un uomo a cavallo. Ha l'aspetto elegante e piacevole. Il nostro uomo si rallegra. L'altro sopraggiunge ed egli lo saluta. Poi gli indica la meta che deve raggiungere e chiede il cammino. Espone anche il motivo del proprio indugio per aggraziarselo col preferirlo al pastore. Quegli per caso era un ciurmadore, proprio di quelli che ormai il popolo chiama samardoci. Il farabutto, pur senza vantaggio, si comportò da quel che era. "Passa di qua, disse, ne vengo io stesso". Ingannò e proseguì. Ma perché poté essere ingannato quest'uomo? "Io, disse a se stesso, non accetto l'indicazione come vera, ma come verosimile. E rimaner qui ozioso non è né onesto né utile, me ne devo andare". L'altro forse errò reputando vere con tanta disinvoltura le parole del pastore. Ma intanto, prestando fede, si stava già ristorando nel luogo dove erano diretti. Costui al contrario non erra perché si fa dirigere dal probabile. Ma intanto vaga per non so quali selve e non trova più nessuno cui sia noto il luogo prefisso come meta. Vi confesso sinceramente che non ho potuto trattenermi dal ridere quando ho pensato che nella tesi degli accademici si ha, non saprei come, una insignificanza. Erra chi, sia pure per caso, tiene il giusto cammino e pare almeno che non erri chi è stato indirizzato, in base a indicazione probabile, per monti senza sentieri e non ha raggiunto la meta prefissa. E tanto per condannare una ingiustificata apodissi, dico che errano tutti e due anziché dire che questi non erra. Reso quindi più vigile nei confronti della terminologia accademica, ho cominciato ad esaminare le loro azioni e i loro costumi. Mi vennero allora in mente molti motivi e così importanti che smisi di ridere, ma sentii in parte nausea ed in parte dolore che uomini assai dotti e intelligenti fossero incorsi in tanta ipocrisia e falsità di pensiero.
L'errore come peccato.
16. 35. A ben riflettere infatti, forse non chiunque erra pecca Tuttavia si deve ammettere che chiunque pecca commette errore o qualche cosa di peggio. Mettiamo il caso che un giovane li oda mentre affermano: "È indegno commettere errore, perciò non dobbiamo nulla accettare per apodissi. Se qualcuno esegue un'azione che gli sembra probabile, non pecca e non erra. Basta ritenere che ogni oggetto che gli si presenta alla mente ovvero ai sensi non si deve per apodissi accettare come vero". Il giovane, che ha udite tali cose, insidierà la donna altrui. Chiedo l'assistenza legale a te, proprio a te, Marco Tullio. Stiamo trattando dei costumi e della vita dei giovani, alla cui educazione e formazione (Cicerone, De div. 2, 2, 4) è stata rivolta tutta la tua produzione letteraria. Tu dirai che per te non è probabile il comportarsi del giovane in tal modo. Ma per lui è probabile. Infatti se regoliamo la vita secondo ciò che è probabile agli altri, anche tu non avresti dovuto amministrare lo Stato. Ad Epicuro è sembrato che non si dovesse fare. Dunque quel giovane farà adulterio con la donna d'altri. Se sarà scoperto, dove ti troverà per farsi difendere? Ma anche posto che ti trovasse, che potrai dire? Certamente negherai l'addebito. E se fosse flagrante da non poterlo negare? Cercherai di persuadere, come hai fatto nell'adunanza di Cuma e ancor più in quella di Napoli, che egli non ha commesso colpa, anzi perfino che non ha errato. Difatti non ha ritenuto come vero che non si deve commettere adulterio, gli si è presentato soltanto come probabile, l'ha seguito, l'ha commesso. Ma forse non l'ha commesso, ma ha opinato di averlo commesso. Il marito, uno sciocco, va scompigliando ogni cosa con processi reclamando il riconoscimento della fedeltà della moglie. E forse, anche in questo momento, senza averne coscienza certa, sta dormendo con lei. I giudici, se ben comprenderanno la situazione, o non si cureranno degli accademici e puniranno il reato come veramente commesso, ovvero dando ascolto a loro condanneranno l'uomo in base al criterio di verosimiglianza e probabilità. Il difensore non saprà più che cosa fare. Non avrà più alcuno con cui prendersela. Tutti affermeranno di non avere errato dal momento che, senza dare per certo qualche cosa, hanno fatto ciò che ritenevano probabile. Egli abbandonerà quindi il ruolo di difensore e assumerà quello di filosofo consolatore. Così potrà agevolmente persuadere il giovane, il quale ormai avrà fatto notevoli progressi nell'Accademia, che si convinca di essere stato condannato in sogno. Ma voi state pensando che io burli. Potrei giurare per tutti gli dèi che non so proprio come quel tale ha potuto commettere colpa se non la commette chiunque potrà fare ciò che ritiene probabile. Ma forse dimostreranno che sono completamente diversi l'errare e il peccare, che si sono adoperati con quella teoria a non farci errare e che non hanno tenuto in alcuna considerazione il commettere colpa.
Il probabile non ci fa evitare la colpa.
16. 36. Non parlo degli omicidi, parricidi, sacrilegi ed insomma di tutte le trasgressioni e delitti che si possono commettere o pensare e che vengono giustificati con poche parole e, quel che è peggio, davanti a giudici molto saggi. "Nulla ho accettato per apodissi e quindi non ho errato. E perché non avrei dovuto fare ciò che m'è sembrato probabile?". Ma ci potrebbero essere alcuni, i quali ritengano che non si può persuadere col criterio della probabilità a commettere delitti. Leggano allora il discorso di Catilina, col quale costui rese accettabile il parricidio della patria, scelleratezza che tutte le contiene. Ma ormai chi non schernirà tale tesi? Essi dicono che nell'agire seguono soltanto il probabile e cercano con impegno la verità sebbene sia per loro probabile che non può essere raggiunta. Incredibile assurdità! Ma abbandoniamo questo soggetto. Esso non riguarda noi, la norma del nostro vivere, la problematicità del nostro destino. Ciò che è fondamentale, angoscioso e temibile da ogni uomo onesto è che egli può commettere, senza condannare non solo il delitto ma neanche l'errore, qualsiasi colpa se sarà probabile la tesi del dover compiere l'azione che ad ognuno sembra probabile. Basta che nulla si accetti come vero. "E allora? Ma costoro non hanno riflettuto su tali cose?". Anzi vi hanno riflettuto con molta capacità e accortezza. Diversamente io non avrei osato per nessun motivo seguire in certi limiti Marco Tullio per la sua capacità, diligenza, ingegno ed insegnamento. Tuttavia, mentre egli afferma che l'uomo non può avere, scienza di qualche cosa, non avrebbe nulla da ribattere se gli si obiettasse soltanto: "Ho scienza di opinare così".
Esame critico storico: l'esoterismo dell'Accademia (17, 37-19, 41)
Formazione e dottrina di Platone.
17. 37. Perché dunque uomini tanto eccellenti insegnarono con dispute interminabili ed ostinate l'opinione che all'uomo non spetta scienza del vero? Ascoltate ancora per un po' non una mia conoscenza precisa ma una mia teoria in proposito. Ho lasciato l'argomento per ultimo allo scopo di spiegare, se m'è possibile, la mia opinione sul modo di pensare degli accademici. Platone fu l'uomo più sapiente e colto del suo tempo e parlò in maniera da render grandi le teorie che esponeva e ne espose di tali che, comunque le avesse esposte, non sarebbero divenute piccole. Si dice che dopo la morte di Socrate suo maestro, che aveva amato in maniera singolare, aveva appreso anche molte idee dai Pitagorici. Ora Pitagora non era pienamente soddisfatto della filosofia greca che allora era pressoché inesistente o per lo meno era molto segreta. Quindi era stato convinto dalle dispute di un certo Ferecide siriaco a creder nell'immortalità dell'anima. Aveva in seguito udito molti filosofi viaggiando in varie parti. Si dice dunque che Platone associò alla finezza e perspicacia di Socrate sui problemi morali la conoscenza di cose naturali e divine che aveva derivato con assidua applicazione dagli anzidetti filosofi. Vi aggiunse la dialettica quasi creatrice e ordinatrice di quelle parti in maniera che essa s'identificasse con la filosofia e fosse tale che senza di essa non si desse filosofia. Diede dunque una perfetta sistemazione alla disciplina filosofica. Ma ora non è opportuno discuterne. È sufficiente al mio intento che Platone ha ideato l'esistenza di due mondi: uno intelligibile nel quale sussiste la verità stessa, e questo sensibile che noi, com'è manifesto, percepiamo con la vista e il tatto, quello vero e questo simile al vero e prodotto come immagine di quello. Di conseguenza da quello la verità si partecipa tersa e limpida, per così dire, nell'anima che conosce se stessa e da questo, al contrario, non la scienza ma l'opinione può essere determinata nell'anima degli indotti. Ne conseguiva che può essere considerato soltanto verosimile tutto ciò che si compie in questa vita con l'esercizio delle virtù che definiva civili, simili alle vere virtù note soltanto a pochi sapienti.
Gli scolarchi Polemone, Arcesila, l'esoterismo e Zenone.
17. 38. Ritengo che tali dottrine ed altre simili furono conservate esclusivamente tra i suoi successori, per quanto possibile, e difese con dottrina esoterica. Infatti o esse non sono intese agevolmente se non da coloro che, purificandosi da tutti i vizi, si ritraggono in una specie di associazione di spiriti eletti ovvero non commette grave colpa chi conoscendole le vorrà insegnare a qualsiasi uomo. Ed ecco la mia ipotesi. Zenone, capo degli Stoici, entrò nella scuola fondata da Platone e allora diretta da Polemone dopo che era stato uditore e seguace di alcuni filosofi. Ma fu ritenuto sospetto e non stimato tale che gli si potessero liberamente manifestare e affidare come leggi sacre le dottrine platoniche. Prima doveva dimenticare le teorie che, derivate da altri, aveva introdotto nell'Accademia. Muore Polemone e gli succede Arcesila, condiscepolo di Zenone mentre era uditore di Polemone.. Zenone stava formulando una sua tesi sul mondo ed in particolare sull'anima, a favore della quale veglia la vera filosofia. Affermava che essa è mortale e che non v'è se non questo mondo sensibile e che in esso non si compie attività alcuna se non mediante il corpo. Pensava perfino che anche Dio fosse fuoco. Il male cominciava a diffondersi. Mi pare quindi attendibile che Arcesila, con singolare avvedutezza e capacità organizzativa, occultasse del tutto la vera dottrina dell'Accademia e che la sotterrasse come oro da trovarsi più tardi dai posteri. Ora la moltitudine è più incline a cadere in false opinioni e per il continuo contatto con la materia si finisce col credere, facilmente ma dannosamente, che tutte le cose siano corporee. Egli dunque, uomo assai intelligente e colto, decise di far disimparare piuttosto a coloro che doveva tollerare come male istruiti anziché fare imparare a coloro che reputava meno capaci d'istruirsi. Da qui provennero tutte le tesi che si attribuiscono alla Nuova Accademia. I predecessori non ne avevano bisogno.
Carneade scolarca e Crisippo.
17. 39. Che se Zenone, svegliatosi una buona volta, si fosse accorto che nulla si può rappresentare come vero se non è un oggetto tale quale egli definiva e che questo oggetto non può essere del mondo sensibile, cui egli tutto riduceva, da tempo sarebbero cessate completamente le discussioni di tal genere. Erano divampate per vera necessità. Ma Zenone, ingannato dallo specioso pretesto della coerenza di pensiero, come ritenevano gli accademici ed io anche, fu ostinato e la sua dannosa teoria materialistica si trasmise a Crisippo. Questi era assai capace. Le avrebbe quindi potuto conferire grande energia di più larga diffusione se da quella parte non gli avesse resistito Carneade, più rigido e vigile di tutti i predecessori. Mi meraviglio anzi come la dottrina stoica possa essere rimasta in vita negli anni successivi. Carneade prima di tutto, perché non sembrasse che voleva ribattere quasi per ostentazione tutte le affermazioni degli altri, abbandonò il sistema sfrontato della diatriba. A causa di essa vedeva infamato, e non poco, Arcesila. Si propose comunque di sconvolgere e abbattere gli stoici e Crisippo.
La vita pratica e il probabilismo di Carneade.
18. 40. In seguito fu attaccato da ogni parte col motivo che se non v'è nulla di accettabile, il saggio non avrebbe agito. Ed egli, uomo ammirevole e nel contempo non ammirevole se si pensa che proveniva dalle sorgenti di Platone, esaminò filosoficamente quali azioni coloro ritenevano morali. Vedendole simili alle vere, non saprei quali, denominò verosimile la norma dell'agire in questa vita. Ma sapeva per dottrina e occultava per prudenza a quale cosa fosse simile e parlava anche di probabile. Considera facilmente probabile la copia chiunque ne intuisce il modello. Il filosofo non può infatti approvare o seguire il simile al vero se ignora che c'è il vero in sé. Quindi essi conoscevano e ritenevano probabili le false apparenze, nelle quali scorgevano una notevole imitazione delle cose vere. Ma non era né permesso né facile manifestare il concetto agli altri considerati profani. Lo lasciarono quindi ai posteri e ai contemporanei cui fu possibile come un distintivo della loro dottrina. Ed evitavano gli altri, ferrati dialettici, accusandoli con scherno di far questione di parole. E per questo si dice che Carneade fu capo e fondatore anche della Terza Accademia.
I fati della Nuova e Nuovissima Accademia con Cicerone e Antioco.
18. 41. In seguito la lotta, ormai esauritasi del tutto, continuò fino al nostro Tullio, quasi a render tronfia con l'estremo anelito la letteratura latina. Mi sembra infatti che non si dia discorso più tronfio di quello di uno scrittore, il quale, con tanta profusione ed eleganza, espone molte dottrine e la pensa diversamente. Tuttavia da tali venti abbastanza, a mio avviso, fu spazzato via e disperso il celebre platonico di paglia Antioco. I greggi degli epicurei intanto avevano costruito negli animi degli individui dediti al piacere degli stazzi esposti al sole. Antioco era stato uditore di Filone, uomo, a mio avviso, molto accorto, il quale aveva cominciato ad aprire le porte ai nemici costretti alla resa e a richiamare all'autorità di Platone le leggi dell'Accademia. Aveva già tentato di fare altrettanto Metrodoro. Questi, si dice, per primo manifestò che gli accademici non per tematica propria avevano insegnato che non si dà rappresentazione del vero, ma per necessità avevano usato simili armi contro gli stoici. Or dunque Antioco, avevo iniziato a dirlo, uditi l'accademico Filone e lo stoico Mnesarco, aveva fatto irruzione come cittadino e soccorritore, nella Vecchia Accademia priva, per così dire, di difensori e tranquilla per mancanza di nemici. Vi aveva diffuso dalle ceneri degli stoici non saprei quale contagio che violava il santuario di Platone. Ma riafferrate le vecchie armi resisté Filone fino alla morte e il nostro Tullio distrusse quanto rimaneva. Non tollerava che, lui vivo, fosse insozzato e contaminato ciò che aveva amato. Così da quell'epoca dopo non molto tempo cessarono l'ostinatezza e la caparbietà. La parola di Platone, la più pura e limpida in filosofia, fugate le nubi dell'errore, tornò a risplendere soprattutto in Plotino. Egli, filosofo platonico, fu giudicato tanto simile al maestro da sembrare che fossero contemporanei, ma è tanto l'intervallo di tempo da far ritenere che il primo si sia reincarnato nel secondo.
Filosofia e rivelazione (19, 42 - 20, 43)
Lo stato della filosofia al tempo di Agostino.
19. 42. Oggi quasi non notiamo più filosofi se si eccettuano cinici, peripatetici e platonici. I cinici sono coloro che hanno una concezione materialistica ed edonistica della vita. Per quanto riguarda la concezione intellettualistica e quella spiritualistica dell'anima, non sono mancati uomini assai perspicaci e studiosi, i quali hanno affermato che Aristotele e Platone, nell'esposizione della loro dottrina, sono stati così concordi che soltanto agli ignoranti e meno perspicaci possono sembrare discordi. Quindi attraverso molti secoli e molte controversie è stato, a mio avviso, configurato un comune insegnamento della vera filosofia. Essa infatti non è filosofia del mondo sensibile, che le nostre sacre Scritture giustamente detestano, ma di un mondo sovrasensibile. Ma ad esso questa profonda speculazione non richiamerebbe le anime, accecate dalle multiformi tenebre dell'errore e rese dimentiche da un cumulo di scorie corporee, se il sommo Dio per benevolenza verso la massa, non avesse abbassato e calato l'autorità dell'intelligenza divina all'umana sensibilità. Le anime, mosse non solo dal suo insegnamento ma anche dalle sue opere, sono potute tornare in sé e ricordarsi della patria anche senza il concerto delle filosofie.
Fede ragione e l'esperienza di Agostino.
20. 43. Io mi son fatto, frattanto opinativamente, come m'è stato possibile, questa opinione degli accademici. Se è falsa, non m'importa. Mi basta ormai di non ritenere pregiudizialmente che la verità non può esser raggiunta dall'uomo. Chiunque poi pensa che tale fu la tesi degli accademici, ascolti lo stesso Cicerone. Ha detto che fu loro usanza occultare la propria dottrina e che erano abituati a non manifestarla ad alcuno a meno che fino alla vecchiaia non fosse vissuto con loro (Cicerone, Varro, fr. 35 t. A). Quale fosse, Dio lo sa. Penso che fosse quella di Platone. E poiché in poche parole conosciate ogni mia intenzione, vi manifesto che, qualsivoglia sia il contenuto dell'umana filosofia, sono consapevole di non averla ancora raggiunta. Ma ho appena trentatré anni, ritengo quindi di non dover disperare di raggiungerla alfine. Disprezzate comunque tutte le altre cose che i mortali reputano beni, mi son proposto di attendere alla sua ricerca. E poiché i ragionamenti degli accademici mi distoglievano da tale occupazione, con questa disputa, a mio avviso, mi sono abbastanza premunito contro di essi. Tutti sanno che noi siamo stimolati alla conoscenza dal duplice peso dell'autorità e della ragione. Io ritengo dunque come certo definitivamente di non dovermi allontanare dall'autorità di Cristo perché non ne trovo altra più valida. Riguardo poi a ciò che si deve raggiungere col pensiero filosofico, ho fiducia di trovare frattanto, nei platonici, temi che non ripugnano alla parola sacra. Tale è infatti la mia attuale disposizione che desidero di apprendere senza indugio le ragioni del vero non solo con la fede ma anche con l'intelligenza".
Conclusione (20, 44-45)
La resa finale e la lode di Alipio uditore anziano.
20. 44. 1 miei giovani uditori a questo punto si accorsero che avevo terminato di parlare. Era già notte e qualche parte del discorso era stata trascritta al lume della lucerna. Attendevano tuttavia, con lo sguardo fisso, se Alipio intendeva rispondere magari in un altro giorno. Ma egli disse: "Son disposto ad affermare che giammai da una discussione ho tratto tanto vantaggio quanto dal fatto che rimango sconfitto nell'attuale disputa. Ne renderò partecipi anche voi, commilitoni miei e giudici nostri. Forse anche gli accademici hanno desiderato talora di essere sconfitti dai posteri a queste condizioni. Infatti non si sarebbe potuto presentare o far udire a noi un discorso più piacevole per l'eleganza del dire, più ponderato per la serietà delle opinioni, più improntato all'umanità, più profondo in dottrina. Non riesco ad ammirare, come converrebbe, il fatto che i problemi che richiedevano asprezza sono stati trattati con tanta buona grazia, quelli difficili nella soluzione con tanto vigore, quelli polemici con tanta moderazione, quelli oscuri con tanta chiarezza. Quindi ormai, o miei alleati, mutate l'attesa, con cui m'incitavate alla risposta, in una più fondata speranza d'apprendere assieme a me. Abbiamo una guida che può introdurci, con l'aiuto di Dio, nell'arcano santuario della verità".
Allievi troppo diligenti.
20. 45. Essi mostrarono dal viso, con una specie di fanciullesco disappunto, d'essere quasi stati defraudati. Era chiaro che Alipio non intendeva rispondere. Dissi allora sorridendo: "Siete invidiosi delle lodi tributatemi? Ma poiché, sicuro della costanza di Alipio, non lo temo affatto, vi armo contro di lui che ha deluso la vostra viva attesa affinché anche voi mi ringraziate. Leggete Gli Accademici e vi riscontrerete che Cicerone ribatte vittoriosamente le bagatelle da me esposte. È un'impresa estremamente facile. Ma Alipio sia costretto a difendere il nostro discorso contro quella dimostrazione insuperabile. O Alipio, ti offro una spiacevole ricompensa in cambio della falsa lode tributatami". Scoppiarono a ridere. Così ponemmo fine al lungo dibattito. Era stato condotto non saprei se su solide basi, ma con maggiore moderazione e prestezza di quanto avessi sperato.