Scrutatio

Sabato, 20 aprile 2024 - Beata Chiara Bosatta ( Letture di oggi)

Gli atti di Pelagio

Sant'Agostino d'Ippona

Gli atti di Pelagio
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Quest'opera esamina l'autodifesa di Pelagio nel Concilio palestinese che lo assolse.

1. 1. Dopo che nelle nostre mani, o santo papa Aurelio, sono giunti gli Atti ecclesiastici, nei quali Pelagio è stato dichiarato cattolico dai quattordici vescovi della provincia della Palestina, è terminata la mia esitazione per la quale non mi decidevo ad esaminare in maniera un poco più ampia e libera la sua stessa autodifesa. Io infatti l'avevo già letta in un fascicolo che egli stesso mi aveva mandato. Ma, poiché insieme al fascicolo non avevo ricevuto da lui nessuna lettera, temevo che nelle mie parole venisse a trovarsi qualcosa di diverso da ciò che si leggesse negli Atti vescovili. E così, se Pelagio negava d'esser stato lui a mandarmi quel fascicolo, non essendo facile poterlo confutare con la mia sola testimonianza, io piuttosto da coloro che lo spalleggiassero nel suo diniego sarei stato accusato o di sospetta falsità o, per dirla con più moderazione, di temeraria credulità. Ora dunque, poiché posso analizzare i fatti sulla testimonianza degli Atti, si vedrà se Pelagio abbia difeso la propria causa come già mi è sembrato che abbia fatto. Scartato ormai ogni dubbio, certamente la santità tua ed ognuno che legga giudicherà con maggiore facilità e sicurezza sia della sua difesa, sia di questo nostro libro.

La scienza della legge aiuta a non peccare.

1. 2. Prima di tutto rendo indicibili grazie al Signore Dio, nostro governatore e nostro custode, di non essere stato tradito dalla stima che avevo dei nostri santi fratelli e coepiscopi che sedettero come giudici in quella causa. Non senza ragione infatti essi approvarono le risposte di Pelagio, attenti non a come egli aveva esposto nei suoi scritti quanto gli si addebitava, ma a come egli rispondeva presentemente nell'esame diretto. Altro è infatti il caso di una fede non sana e altro il caso di una esposizione non cauta. Per venire infine al concreto, secondo il libello sporto dai nostri santi fratelli e coepiscopi galli, Eros e Lazzaro, i quali non poterono assolutamente esser presenti, a causa di una grave malattia d'uno di loro - questo è il motivo più probabile che abbiamo appreso in seguito -, tra le accuse mosse e lette a Pelagio la prima fu d'aver scritto in un suo libro: " Non può esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge ". Dopo la lettura di essa il Sinodo chiese: " Hai scritto così, Pelagio? ". Ed egli rispose: " L'ho scritto senza dubbio, ma non nel senso inteso da costoro. Di chi ha la conoscenza della legge non ho detto che non può peccare, ma che dalla stessa conoscenza della legge viene aiutato a non peccare, come è scritto: Egli ha dato la legge in loro aiuto 1 ". A questa risposta il Sinodo disse: " Non sono contrarie alla Chiesa le affermazioni di Pelagio ". Certamente non sono contrarie le risposte date da lui, ma altro è il senso di quello che fu allegato dal suo libro. I vescovi però, che erano persone di lingua greca e ascoltavano le parole di Pelagio attraverso un interprete, non si curarono d'esaminare tale differenza, guardando solamente a quello che l'interrogato diceva d'aver ritenuto e non con quali parole si diceva esser stata scritta la medesima sentenza nel suo libro.

La scienza della legge non è l'unico mezzo per non peccare.

1. 3. Ora, altro è che l'uomo venga aiutato a non peccare dalla conoscenza della legge e altro che non possa esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge. Vediamo infatti per esempio che le messi si possono battere anche senza le trebbie, benché queste siano di valido aiuto se ci sono. Senza pedagoghi i fanciulli possono andare a scuola, benché non siano inutili le prestazioni dei pedagoghi. Molti senza medici possono guarire da una malattia, sebbene siano risaputi i vantaggi dell'assistenza medica. Gli uomini possono vivere con altri cibi senza il pane, benché non si neghi che è considerevolissimo l'apporto del pane. Molte altre esperienze si affacciano con facilità a chi ci pensa, senza che noi ne parliamo. Da tutto questo siamo certamente portati a pensare che gli aiuti sono di due specie. Alcuni sono tali che senza di essi non si può ottenere ciò per cui aiutano: per esempio senza nave nessuno naviga, senza voce nessuno parla, senza piedi nessuno cammina, senza luce nessuno vede, e molti altri fatti simili, tra i quali anche questo: nessuno vive rettamente senza la grazia di Dio. Altri mezzi al contrario ci aiutano così che anche senza di essi resta possibile ottenere per altro verso il risultato per cui cerchiamo tali mezzi, come negli esempi già ricordati da me: le trebbie per battere le messi, il pedagogo per accompagnare i ragazzi, una medicina preparata dalla scienza umana per ricuperare la salute, e tutti gli altri mezzi di tal genere. Dobbiamo dunque chiederci a quali di queste due categorie appartenga la conoscenza della legge, ossia in che modo aiuti a non peccare. Se in tal modo che senza di essa è impossibile non peccare, Pelagio non solo rispose bene in giudizio, ma scrisse bene anche nel suo libro. Se invece ci fa ottenere, senza dubbio, lo scopo quando è presente, ma senza compromettere che anche in sua assenza il medesimo risultato si possa ottenere per altro verso, Pelagio rispose certamente bene in giudizio e giustamente piacque ai vescovi la sua affermazione: " L'uomo viene aiutato a non peccare dalla conoscenza della legge ", ma non scrisse bene nel suo libro: " Non può esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge ". I giudici lasciarono questa dichiarazione senza discuterla, perché erano ignari della lingua latina, perché erano contenti della confessione di colui che stava difendendosi in tribunale, e soprattutto perché non c'era dall'altra parte nessuno che costringesse l'interprete a spiegare le parole del libro di Pelagio e a chiarire ciò che con ragione urtava i fratelli. Pochissimi sono infatti quelli che possiedono la conoscenza della legge ed invece la grande massa delle membra del Cristo, diffuse dappertutto, è ignara di una legge così profonda e molteplice. Il vanto dei fedeli è costituito tutto dalla pietà d'una fede semplice e da una speranza fermissima in Dio e da una carità sincera. Ricca per grazia di Dio di questi doni, la massa dei fedeli confida di poter essere mondata dai suoi peccati mediante Gesù Cristo nostro Signore 2.

I bambini si salvano senza la scienza della fede.

2. 4. Se a ciò per caso Pelagio rispondesse che la conoscenza della legge, senza la quale disse impossibile all'uomo esser libero da peccati, è per lui quella stessa che s'impartisce ai neofiti e ai piccoli nel Cristo mediante l'insegnamento della fede e con la quale si catechizzano anche i battezzandi perché conoscano il Simbolo, allora gli faremmo osservare che non è certo cotesta la conoscenza di cui si tratta quando di qualcuno si dice che ha la conoscenza della legge, bensì quella secondo la quale si parla di periti della legge. Del resto se Pelagio chiamasse conoscenza della legge queste semplici nozioni del Simbolo che sono poche di numero, ma grandi di peso e che secondo l'uso di tutte le Chiese si fanno imparare fedelmente ai battezzandi - asserendo che di queste egli ha detto: " Non può esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge " -, attesa la necessità d'impartire tali nozioni ai credenti prima che siano ammessi alla stessa remissione dei peccati, anche in tal caso egli si verrebbe a trovare in mezzo ad una moltitudine innumerevole di bambini battezzati, incapaci di disquisire, ma capaci di vagire, che si metterebbero a gridare non con parole, ma con la stessa verità dell'innocenza: - Che è, che è mai quello che hai scritto: " Non può esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge "? Ecco, noi siamo un grande gregge di agnelli senza peccato e tuttavia non abbiamo la conoscenza della legge -. Almeno questi bambini con la loro lingua che tace lo costringerebbero certamente a tacere, oppure forse anche a confessare o di essersi adesso corretto di quell'errore o d'aver ritenuto senza dubbio anche prima la medesima opinione da lui espressa davanti al tribunale ecclesiastico, ma di non aver adoperato per tale sentenza parole ben ponderate e che perciò la sua fede era da approvarsi e il suo libro da emendarsi. Come è infatti scritto: C'è chi sdrucciola con la sua lingua, ma non di proposito 3. Se Pelagio avesse detto o dicesse così, chi non perdonerebbe con la massima facilità alle sue parole scritte incautamente e distrattamente, non difendendo egli la sentenza contenuta in quelle sue parole, ma facendo sua la sentenza conforme alla verità? Ciò è da credere abbiano pensato anche quei santi giudici, se pur poterono capire sufficientemente dopo una diligente traduzione quello che si trova nel suo libro latino, come non giudicarono contraria alla Chiesa la sua risposta resa in lingua greca e per questo facilmente compresa. Ma vediamo ormai gli altri punti.

Il governo della propria volontà non esclude nell'uomo il governo di Dio.

3. 5. Il Sinodo episcopale continuò dicendo: " Si legga un'altra imputazione ". E si lesse che Pelagio aveva scritto nel suo medesimo libro: " Tutti sono governati dalla propria volontà ". Terminata la lettura, Pelagio rispose: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio ". Ciò udito, i vescovi dissero: " Nemmeno questo è contrario alla dottrina della Chiesa ". Chi infatti condannerebbe o negherebbe il libero arbitrio, se insieme ad esso si sostiene l'aiuto di Dio? Perciò da una parte giustamente piacque ai vescovi la risposta di Pelagio e dall'altra parte tuttavia la frase del suo libro: " Tutti sono governati dalla propria volontà " dovette necessariamente colpire i nostri fratelli che conoscevano le contestazioni solite a farsi dai pelagiani contro la grazia di Dio. L'affermazione infatti che " tutti sono governati dalla propria volontà " è posta da loro come se Dio non governasse nessuno e come se fosse stato scritto invano: Salva il tuo popolo e la tua eredità benedici, governali e sostienili per sempre 4. Se gli uomini fossero governati dalla propria volontà senza Dio, rimarrebbero come pecore prive di pastore 5: e ciò non sia mai vero per noi. Certamente infatti essere portati è più che essere governati: chi è governato agisce anche lui in qualche modo e viene governato proprio perché agisca in modo buono; chi invece è portato è quasi impossibile capire che faccia anch'egli qualcosa. Tuttavia è così tanto quello che la grazia del Salvatore presta alle nostre volontà che l'Apostolo non esita a dire: Tutti quelli che sono portati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio 6. E nulla di meglio può fare in noi la volontà libera che lasciarsi portare da colui che non può agire male, e dopo che l'ha fatto non dubiti che a farlo è stata aiutata da colui al quale si dice in un salmo: O mio Dio, la tua misericordia mi preverrà 7.

Una testimonianza biblica contro l'autogoverno dell'uomo.

3. 6. Inoltre nel libro dove Pelagio scrisse quelle proposizioni, all'affermazione che " tutti sono governati dalla propria volontà e ciascuno è lasciato al proprio desiderio " egli aggiunse una testimonianza delle Scritture, dalla quale ben apparisce che l'uomo non deve affidare se stesso al suo proprio governo. Dice infatti a proposito di ciò nella Sapienza di Salomone: Anch'io sono un uomo mortale come tutti, discendente del primo essere plasmato di creta 8... fino alla fine del passo dove si legge: Si entra nella vita e se ne esce alla stessa maniera. Per questo pregai e mi fu elargito il senso della prudenza, implorai e venne in me lo Spirito della sapienza 9. Non apparisce più chiaro della luce come Salomone, considerando la miseria della fragilità umana, non osò abbandonarsi al proprio governo, ma desiderò e gli fu dato quel senso di cui l'Apostolo dice: Noi invece abbiamo il senso del Signore 10; implorò e venne in lui lo Spirito della sapienza? Da questo Spirito appunto e non dalle forze della propria volontà vengono governati e portati coloro che sono figli di Dio 11.

La volontà basta all'uomo per fare il male, non per fare il bene.

3. 7. Nel medesimo libro delle Proposizioni come se volesse dimostrare che " tutti sono governati dalla propria volontà ", allega anche il testo del salmo: Ha amato la maledizione: ricada su di lui! Non ha voluto la benedizione: da lui si allontani! 12 Chi ignora che un tale comportamento è vizio non della natura come l'ha creata Dio, ma della volontà umana che si è allontanata da Dio? Ma tuttavia, se non avesse amato la maledizione e avesse voluto la benedizione e negasse che in questa stessa scelta la sua volontà è stata aiutata dalla grazia divina l'uomo, ingrato ed empio, sarebbe abbandonato a governarsi da sé, perché, caduto a rompicollo senza più esser governato da Dio, capisse dall'esperienza delle pene che non aveva potuto governarsi da se stesso. Così pure nel testo a cui ricorre nel medesimo libro e per il medesimo scopo: Ti ho messo davanti l'acqua e il fuoco: stendi la mano dove vuoi. Davanti agli uomini stanno il bene e il male, la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà 13, è chiaro che se l'uomo stende la mano al fuoco, se gli piace il male e la morte, ciò dipende dalla sua volontà; se al contrario ama il bene e la vita, allora non è solamente la sua volontà che agisce, ma viene aiutata da Dio. L'occhio per esempio basta a se stesso per non vedere, cioè per le tenebre, ma per vedere non gli basta la sua luce interiore, se non gli si offre in aiuto una chiara luce esteriore 14. Lungi però da noi l'affermare che quanti sono stati chiamati da Dio secondo il suo disegno, che quanti Dio ha preconosciuti e predestinati ad esser conformi all'immagine del suo Figlio 15, siano abbandonati al proprio desiderio perché periscano. Questo è ciò che subiscono i vasi d'ira che sono stati fatti per la perdizione; e pur nella loro stessa perdizione Dio manifesta la ricchezza della sua gloria verso i vasi della sua misericordia 16. Per questo, dopo aver detto: O mio Dio, la tua misericordia mi preverrà 17, aggiunge immediatamente: Il mio Dio mi si è mostrato nei miei nemici 18. Per i vasi d'ira dunque si avvera quello che è scritto: Dio li ha abbandonati ai desideri del loro cuore 19. Ciò non avviene invece per i predestinati che lo Spirito di Dio governa, non risonando vana la loro supplica: Non mi abbandonare, Signore, ai miei desideri peccaminosi 20. E contro gli stessi desideri è stata rivolta la preghiera in cui si dice: Sensualità e libidine non s'impadroniscano di me, a desideri vergognosi non mi abbandonare 21. Dio concede questi benefici a coloro che governa egli stesso come sudditi, non invece a coloro che si stimano in grado di governarsi da sé e disdegnano con dura presunzione d'aver Dio per governatore della loro propria volontà.

Ambiguità di Pelagio.

3. 8. In questo stato di cose, i figli di Dio che conoscono tali verità e si rallegrano d'esser governati e portati dallo Spirito di Dio, in che modo dovettero urtarsi a sentire o a leggere queste parole di Pelagio: " Tutti sono governati dalla propria volontà e ciascuno è lasciato al proprio desiderio "! E tuttavia, mentre veniva interrogato dai vescovi, Pelagio avvertì come suonassero male le sue parole e rispose: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio ", aggiungendo subito: " Al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene; quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, a causa del libero arbitrio ". Quei pii giudici, approvando anche questa dichiarazione, non vollero esaminare o indagare con quanta sbadataggine o in quale senso avesse scritto quelle parole nel suo libro e ritennero sufficiente che costui avesse ammesso il libero arbitrio così da dire che Dio presta all'uomo il suo aiuto nello scegliere il bene e che invece nel peccare è colpevole l'uomo, bastandogli a ciò la propria volontà. Dio dunque governa coloro che aiuta a scegliere il bene. Ed è per questo che essi governano bene tutto ciò che governano, perché essi stessi sono governati dal Bene.

Non tutti i peccatori vanno all'inferno.

3. 9. Fu letto altresì dal libro di Pelagio: " Nel giorno del giudizio non ci dovrà esser perdono per gli iniqui e i peccatori, ma dovranno esser bruciati da fuochi eterni ". Quest'affermazione in tanto aveva mosso i nostri fratelli a credersi in dovere di contestarla in quanto era stata fatta nel senso che tutti i peccatori dovessero esser puniti dal supplizio eterno, non esclusi coloro che hanno come proprio fondamento il Cristo 22, benché sopra di lui edifichino con legno, fieno e paglia. Di questi dice l'Apostolo: Se l'opera di qualcuno finirà bruciata, sarà punito, tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco 23. Avendo risposto Pelagio che " questo l'aveva detto secondo il Vangelo, dove si dichiara riguardo ai peccatori: E se ne andranno questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna 24", non poté dispiacere in nessun modo a giudici cristiani la sentenza del Vangelo e del Signore. Ignoravano essi che cosa nelle parole prese dal libro di Pelagio avesse turbato i nostri fratelli, avvezzi a sentire le discussioni sue o dei suoi discepoli. Ma erano assenti coloro che avevano presentato al santo vescovo Eulogio il libello d'accusa contro Pelagio, e nessuno faceva pressione perché Pelagio distinguesse con qualche riserva i peccatori destinati a salvarsi attraverso il fuoco dai peccatori destinati al castigo del supplizio eterno. Solo in tal modo i giudici avrebbero potuto capire il motivo per cui era stata avanzata quella obiezione e Pelagio sarebbe stato giustamente condannato se non avesse voluto distinguere.

Pelagio attacca un errore dell'origenismo.

3. 10. La postilla poi aggiunta da Pelagio: "Se qualcuno crede diversamente è origenista" i giudici l'accettarono come corrispondente a ciò che la Chiesa in realtà riprova giustissimamente in Origene: l'opinione cioè che anche coloro che il Signore dice destinati al castigo del supplizio eterno e lo stesso diavolo e i suoi angeli, dopo che si siano purificati per un tempo lungo quanto si vuole, saranno liberati dalle pene e si uniranno ai santi che regnano con Dio in comunione di beatitudine. Il punto dunque di cui il Sinodo ha detto, non secondo Pelagio, ma piuttosto secondo il Vangelo: "Non è contrario alla Chiesa" è questo: saranno bruciati da fuochi eterni esattamente gli iniqui e i peccatori che il Vangelo giudica degni di tale supplizio; per cui condivide detestabilmente la sentenza di Origene chiunque dice che un giorno potrà finire il loro supplizio, che il Signore ha definito eterno. Quanto invece ai peccatori di cui l'Apostolo prevede la salvezza quasi attraverso il fuoco distruggitore delle loro opere 25, poiché nulla fu obiettato esplicitamente a Pelagio in rapporto ad essi, i vescovi non pronunziarono nessun giudizio. Perciò non sbaglia Pelagio a chiamare origenista chi dice che gli iniqui e i peccatori condannati dalla Verità all'eterno supplizio potranno un giorno esser liberati. D'altra parte però, a chi non ritiene degno di misericordia nel giudizio di Dio nessun peccatore Pelagio dia il nome che vuole, purché comprenda che dalla verità ecclesiastica non è accolto nemmeno questo errore. Infatti il giudizio sarà senza misericordia, ma per chi non avrà usato misericordia 26.

Rimane incerto il pensiero di Pelagio sulla sorte dei peccatori.

3. 11. Come poi avverrà questo giudizio è difficile poterlo capire dalle Scritture sante, perché viene descritto in molte maniere ciò che si compirà in una sola maniera determinata. Una volta il Signore dice che chiuderà la porta in faccia a coloro che non accoglierà nel suo regno e al loro reclamo: Aprici. Abbiamo mangiato e bevuto nel tuo nome 27 e a tutte le altre proteste che faranno, come sta scritto, risponderà: Non vi conosco, voi che siete operatori d'iniquità 28. Una volta dice che si farà condurre quanti non hanno voluto che egli regnasse e li farà uccidere davanti a sé 29. Un'altra volta dice che verrà con i suoi angeli nella sua maestà, perché siano radunate al suo cospetto tutte le genti e divise in due gruppi: alla sua destra quelli da portare alla vita eterna, dopo che ne avrà celebrato le opere buone, e alla sua sinistra quelli da condannare al fuoco eterno, dopo che li avrà rimproverati di sterilità nelle opere buone 30. Una volta comanda che, legato mani e piedi, sia gettato fuori nelle tenebre il servo cattivo e pigro che ha trascurato d'investire il denaro ricevuto 31 o anche l'uomo trovato privo, nel convito, di veste nuziale 32. Una volta, dopo aver fatto entrare le cinque vergini sagge, chiude la porta in faccia alle altre cinque vergini stolte 33. Tutto questo e altro se c'è che ora non viene in mente è detto del giudizio futuro che ha da esser celebrato non per una persona sola o per cinque, ma per molte. Perché, se l'ordine d'esser buttato fuori dalla sala del convito nelle tenebre per non aver la veste nuziale colpisse uno solo, Gesù non direbbe subito di seguito: Molti sono chiamati, ma pochi eletti 34. Tanto più che di fronte ad uno respinto e condannato è evidente che molti rimasero dentro. Ma sarebbe lunghissimo discutere ora a sufficienza su tutti questi dettagli. Brevemente tuttavia posso affermare, senza pregiudizio di un migliore esame - come si suol dire nei conti d'amministrazione -, che il giudizio, che si svolgerà in un certo qual modo per noi inscrutabile, salva comunque in ogni caso la diversità dei meriti nei premi e nelle pene, viene indicato in molti modi dalle Scritture Sante. Ecco però quanto basta all'argomento di cui adesso si tratta: se Pelagio avesse detto che tutti assolutamente i peccatori dovranno esser puniti con il fuoco eterno e con il supplizio eterno, chiunque avesse approvato un tal giudizio avrebbe pronunziato contro se stesso prima di tutto una sentenza di condanna. Infatti è scritto: Chi può dire: Sono mondo dal peccato? 35 Poiché però Pelagio non disse né tutti né alcuni, ma si espresse indeterminatamente e protestò d'attenersi al senso del Vangelo, dal tribunale episcopale fu, sì, confermata una sentenza vera, ma non risulta ancora chiaro quale sia la sentenza di Pelagio e senza impertinenza se ne va alla ricerca anche dopo questo pronunziamento episcopale.

Il male pensato.

4. 12. Pelagio fu contestato anche perché sembrava che avesse scritto nel suo libro: " Il male non viene nemmeno nel pensiero ". Egli rispose però: " Non l'abbiamo messo così, ma abbiamo detto: - Il cristiano deve studiarsi di non pensare male - ". I vescovi, com'era giusto, l'approvarono. Chi dubita infatti che il male non dev'essere pensato? E realmente, nel libro di Pelagio si legge così, con più esattezza, " per quanto riguarda il male: non dev'essere pensato ". E questa frase si suol intendere nel senso che al male non ci si deve nemmeno pensare. Chi lo nega che altro dice se non che si deve pensare al male? E se questo fosse vero, non si direbbe nell'inno della carità: Essa non tiene conto del male ricevuto 36. Tuttavia che " il male non viene nemmeno nel pensiero " dei giusti e dei santi non è detto con troppa esattezza, proprio perché si suol chiamare pensiero anche quando qualcosa viene in mente senza che gli tenga dietro il consenso. Il pensiero invece che contrae colpa e giustamente si proibisce è quello a cui si accompagna il consenso. Poté dunque capitare di leggere un codice difettoso a coloro che credettero di dover obiettare a Pelagio questa sua affermazione, come se egli dicendo: " Il male non viene nemmeno nel pensiero" avesse inteso che non viene in mente ai giusti e ai santi ciò che è male. E questa è una sentenza certamente molto sballata: quando infatti noi riprendiamo dei mali, non li possiamo enunziare con le nostre parole se non dopo averli pensati. Ma, come abbiamo detto, pensiero colpevole del male si chiama quel pensiero del male che si porta dietro il consenso al male.

L'Antico Testamento e la promessa del regno dei cieli.

5. 13. Dopo dunque che i giudici ebbero approvato anche questa risposta di Pelagio, fu letto dal suo libro un altro passo: " Il regno dei cieli è stato promesso pure nel Testamento Antico ". Pelagio rispose: " È possibile dimostrarlo anche per mezzo delle Scritture. Gli eretici però lo negano in odio al Testamento Antico. Io invece l'ho affermato seguendo l'autorità delle Scritture, perché nel profeta Daniele si legge: I santi dell'Altissimo riceveranno il regno " 37. Sentita la sua risposta, il Sinodo disse: " Nemmeno questo è contrario alla fede della Chiesa ".

Testamento come alleanza e Testamento come collezione di libri ispirati.

5. 14. Fu dunque senza ragione che tali parole di Pelagio turbarono i nostri fratelli così da contestare a lui tra le altre sue proposizioni anche questa? Certamente no. In due modi però si è soliti usare la denominazione di Testamento Antico: uno secondo l'autorità delle divine Scritture, un altro secondo una consuetudine di parlare ormai divulgatissima. L'apostolo Paolo dice per esempio ai Galati: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non sentite quello che dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Tali cose sono dette per allegoria: le due donne rappresentano i due Testamenti. L'uno, quello che genera nella schiavitù è rappresentato da Agar - il Sinai è un monte dell'Arabia -. Il Testamento del Sinai corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre 38. Se dunque il Testamento Antico appartiene alla schiavitù (tanto che è scritto: Manda via la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col mio figlio Isacco 39), se viceversa il regno dei cieli appartiene alla libertà, come può mai il regno dei cieli appartenere anche al Testamento Antico? Ma poiché, come ho detto, siamo soliti parlare anche così da chiamare con il nome di Testamento Antico tutte le Scritture della Legge e dei Profeti che, somministrate prima dell'incarnazione del Signore, sono contenute nel canone autentico, chi mai, anche se solo mediocremente istruito nelle lettere ecclesiastiche, ignora che da quelle Scritture poté essere promesso il regno dei cieli allo stesso modo che da quelle Scritture fu promesso anche quel Testamento Nuovo a cui appartiene il regno dei cieli? Certamente, infatti, in quelle Lettere sta scritto in modo esplicitissimo: Ecco, verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giacobbe io concluderò un Nuovo Testamento. Non come il Testamento che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto 40. La conclusione di questo Testamento avvenne sul monte Sinai e non era ancora vissuto il profeta Daniele che ha detto: I santi dell'Altissimo riceveranno il regno 41. Con tali parole infatti egli vaticinava il premio non del Testamento Vecchio, ma del Nuovo. Come i medesimi profeti indicarono senz'altro lo stesso Cristo venturo con il cui sangue fu inaugurato il Testamento Nuovo, del quale sono stati fatti ministri gli Apostoli, dicendo il beato Paolo: Ci ha resi ministri adatti di un nuovo Testamento, non della lettera, ma dello Spirito, perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita 42. Al contrario in quel Testamento che si dice propriamente Vecchio e che fu dato sul monte Sinai non si trova promessa in modo apertissimo se non la felicità terrena. Perciò quella terra dove il popolo fu introdotto e condotto attraverso il deserto si chiama terra promessa. In quella terra la pace e il regno e le vittorie sui nemici e l'abbondanza di figli e di frutti del suolo e altri beni simili sono le promesse del Testamento Vecchio. E per quanto da questi beni siano simboleggiati i beni spirituali appartenenti al Testamento Nuovo, tuttavia chi accoglie la legge di Dio a motivo di quei beni terreni, costui è erede del Testamento Vecchio. I beni che si promettono e si retribuiscono secondo il Testamento Vecchio sono appunto i beni che si desiderano secondo l'uomo vecchio. Viceversa i beni che nel Testamento Vecchio sono simboleggiati come appartenenti al Testamento Nuovo reclamano uomini nuovi. Né infatti ignorava il senso delle sue parole un Apostolo così grande che distingueva per significazione allegorica i due Testamenti nella donna schiava e nella donna libera 43, attribuendo al Testamento Vecchio i figli della carne e al Testamento Nuovo i figli della promessa: Non sono considerati, dice, figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa 44. I figli dunque della carne appartengono alla Gerusalemme terrena che è schiava insieme ai suoi figli, i figli invece della promessa appartengono alla Gerusalemme di lassù, nostra libera madre eterna nei cieli 45. Da qui si capisce chi siano quelli che appartengono al regno terreno e quelli che appartengono al regno celeste. Coloro che anche a quei tempi per grazia di Dio capirono questa distinzione e diventarono figli della promessa, furono considerati nell'occulto disegno di Dio eredi del Testamento Nuovo, benché abbiano osservato il Testamento Vecchio dato da Dio al vecchio popolo in modo ad esso appropriato, secondo la distribuzione dei tempi.

La Scrittura dell'Antico Testamento promette il regno di Dio, l'alleanza antica fa promesse solo terrene.

5. 15. Come dunque non avrebbero dovuto giustamente allarmarsi i figli della promessa, i figli della libera Gerusalemme eterna nei cieli, quando sembrava che le parole di Pelagio togliessero via tale distinzione apostolica e cattolica e volessero far credere che in qualche modo si equiparava Agar a Sara? Pelagio dunque, con eretica empietà, non offende di meno la Scrittura del Vecchio Testamento di chi con sfrontatezza di sacrilega empietà nega la sua origine dal Dio buono, sommo e vero, come Marcione, come Manicheo e come qualunque altra peste che la pensi alla stessa maniera. Per compendiare quindi con la massima brevità il mio pensiero su questo tema, dico: Come si offende l'Antico Testamento negando l'origine dei suoi Libri dal Dio buono e sommo, così si offende anche il Testamento Nuovo equiparandolo come patto al Testamento Vecchio. Ma poiché Pelagio nella sua risposta diede la ragione per cui aveva detto che anche nel Testamento Antico viene promesso il regno dei cieli, citando il testo del profeta Daniele, il quale vaticinò apertissimamente che i santi avrebbero ricevuto il regno dell'Altissimo, giustamente fu giudicata non contraria alla fede cattolica la sua affermazione. Infatti la frase di Pelagio sarebbe erronea secondo la distinzione per cui sul monte Sinai si mostra che al Vecchio Testamento appartengono propriamente promesse terrene, ma non è erronea secondo la consuetudine di parlare per cui tutte le Scritture canoniche somministrate prima dell'incarnazione del Signore si sommano nella denominazione di Vecchio Testamento. Senza dubbio il regno dell'Altissimo non è altro che il regno di Dio. Oppure qualcuno oserà sostenere che altro è il regno di Dio e altro il regno dei cieli?

Le dichiarazioni di Pelagio sulla possibilità dell'uomo di evitare il peccato.

6. 16. Dopo fu obiettato a Pelagio d'aver detto nel suo libro: "L'uomo se vuole può esser senza peccato " e d'aver scritto in modo adulatorio ad una vedova: " Presso di te trovi la pietà il posto che non ha trovato mai presso nessuno, trovi in te la sua sede la giustizia che è sempre pellegrina, diventi a te familiare ed amica la verità che ormai nessuno più conosce, e la legge di Dio che è disprezzata quasi da tutti gli uomini da te sola sia onorata ". A lei ancora: "O te felice e beata, se la giustizia, che in cielo soltanto si deve credere stare di casa, presso di te soltanto sia trovata sopra la terra". E in un altro libro, a seguito dell'orazione del nostro Signore e Salvatore, insegnando come i santi devono pregare, dice alla medesima vedova: " A Dio degnamente eleva le mani ed effonde le sue suppliche con buona coscienza colui che può dire: - Tu sai, o Signore, quanto sante, innocenti, monde da ogni villania iniquità e rapina sono le mani che apro a te, come sono giuste, pure, libere da ogni menzogna le labbra con le quali offro a te la mia preghiera, perché tu abbia misericordia di me -". Nel rispondere a tale obiezione Pelagio disse: " Abbiamo detto, sì, che l'uomo se vuole può esser senza peccato e osservare i comandamenti di Dio, perché Dio gli ha dato questa possibilità. Non abbiamo detto invece che si trovi qualcuno il quale non abbia mai peccato dalla sua infanzia fino alla vecchiaia, ma che, una volta convertito dai suoi peccati, l'uomo può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio, senza tuttavia che non possa più per questo pervertirsi in avvenire. Quanto poi agli altri passi che hanno fatto seguire, essi né si trovano nei nostri libri, né abbiamo mai detto nulla di simile ". Udita tale risposta, il Sinodo disse: " Poiché tu neghi di aver scritto tali testi, anatematizzi tu coloro che sostengono tali errori? ". Pelagio rispose: " Li anatematizzo come stolti e non come eretici, perché non è un dogma ". A quel punto i vescovi sentenziarono dicendo: " Poiché ora Pelagio ha anatematizzato con la propria voce un'anonima stoltezza rispondendo esattamente che l'uomo con l'aiuto e la grazia di Dio può essere senza peccato, risponda anche alle altre imputazioni ".

Agostino giustifica la sentenza dei vescovi palestinesi.

6. 17. Avrebbero forse potuto o dovuto i giudici in quella occasione condannare espressioni anonime ed incerte, quando dall'altra parte non c'era nessuno che convincesse Pelagio d'aver scritto quelle riprovevoli frasi che si dicevano indirizzate ad una vedova? In tal caso sarebbe valso a poco portare fuori un codice e leggere queste proposizioni dagli scritti di Pelagio, se non si adducevano anche dei testimoni, qualora egli negasse come suoi quegli scritti nel momento stesso che fossero declamati. Tuttavia anche allora i giudici fecero ciò che poterono, interrogando Pelagio se anatematizzasse quanti sostengono le opinioni ch'egli negava d'aver scritte o dette. Quando egli rispose che le anatematizzava come stolte, che cosa dovevano chiedere di più i giudici su questo punto in assenza degli accusatori?

Come si definisce un eretico?

6. 18. Dobbiamo esaminare forse anche se sia stato esatto dire: "Sono da anatematizzare non come eretici, ma come stolti, coloro che sostengono tali errori, perché non è un dogma"? Ma da una simile non lieve questione, di ricercare come si debba definire un eretico, fecero bene i giudici ad astenersi sul momento. Se per esempio uno dicesse che gli aquilotti, tenuti sospesi dagli artigli del foro padre ed esposti ai raggi del sole, vengono fatti cadere a terra come degeneri se battono gli occhi - prendendo la luce quasi come una prova perentoria -, qualora ciò risulti eventualmente falso, costui non è da giudicarsi eretico. E tale opinione, poiché si trova in libri di persone dotte ed è largamente accettata per fama, né si deve giudicare una stupidaggine, anche ammesso che non sia vera, né a crederla reca danno o giovamento alla nostra fede per la quale siamo chiamati fedeli. Invece, se fondandosi su questo istinto uno volesse sostenere che negli uccelli ci sono delle anime razionali perché è convinto che in essi vengono degradate le anime umane, allora, sì, sarebbe davvero una peste ereticale da allontanare dagli orecchi e dalle menti. Anche se fosse vero quello che si dice delle aquile, come sono veri delle api tanti meravigliosi fatti che accadono sotto i nostri occhi, dovremmo tuttavia far di tutto per dimostrare che dall'istinto, per quanto mirabile di questi animali irragionevoli, dista moltissimo la ragione, che non è comune agli uomini e alle bestie, bensì agli uomini e agli angeli. Molte poi sono le strampalerie, anche stolte, che vengono dette da persone ignoranti e sciocche, ma non per questo eretiche. Come quelle di coloro che giudicano a caso l'arte altrui che non conoscono o di coloro che, con passione smodata e cieca, lodano chi amano o vituperano chi odiano. Come anche tutto quello che, nei modi abituali di esprimersi degli uomini, viene detto a voce o anche a penna e consegnato alle lettere non per fissare un dogma, ma tanto per dire, secondo le circostanze, con superficiale stoltezza. Molte di coteste persone, appena avvisate, si pentono subito d'aver detto tali sciocchezze: evidentemente non le sostenevano con attaccamento come punti fermi, ma le avevano raccattate da qualsiasi parte quasi a volo e sciorinate senza riflettere. È difficile esser esenti da questi mali: chi è che non sdrucciola con la lingua e non pecca con le parole? 46 Ma interessa quanto uno pecchi, interessa perché pecchi, interessa infine se dopo esser stato avvertito si corregge o invece difendendosi con pertinacia fa diventare dogma ciò che aveva detto superficialmente e non dogmaticamente. Poiché dunque ogni eretico è per conseguenza logica anche stolto, ma non ogni stolto è subito da chiamarsi eretico, giustamente i giudici dissero che Pelagio aveva anatematizzato con la propria voce un'anonima stoltezza, perché, pur non essendo un'eresia, era certamente una stoltezza. Perciò, qualunque sia la sua identità, l'hanno chiamata con il nome del vizio generico della stoltezza. Quanto poi a quelle affermazioni, se fossero state fatte con una qualche pertinacia dogmatica, oppure senza una sentenza ferma e definitiva, ma con leggerezza facilmente emendabile, i vescovi non credettero di doverle esaminare in quel momento, perché colui che veniva ascoltato aveva negato che fossero sue, qualunque fosse il modo in cui erano state fatte.

L'autenticità della lettera di Pelagio alla vedova Livania.

6. 19. Per la verità, quando noi leggemmo quest'autodifesa di Pelagio in quel fascicolo che avevamo già ricevuto prima, erano presenti alcuni nostri santi fratelli, i quali dissero d'essere in possesso di libri di Pelagio, scritti per esortare o consolare una certa vedova di cui non si faceva il nome, ed insisterono sul nostro dovere d'indagare se in quei libri si trovassero scritti o no quei brani che Pelagio negò suoi, perché essi stessi asserivano d'ignorarlo. Si cominciò allora a leggere da capo quei libri e i brani ricercati furono rintracciati. Ora, coloro che avevano fornito il codice assicuravano d'aver cominciato a possedere quei libri come libri di Pelagio da quasi quattro anni e di non aver mai sentito avanzare da nessuno il dubbio che fossero suoi. Pertanto, considerando che non potevano mentire su questo fatto quei servi di Dio di cui conoscevamo ottimamente l'onestà, sembrava non restarci altro che credere piuttosto ad una menzogna di Pelagio nel tribunale dei vescovi, se non ci fosse venuto il pensiero anche d'un'altra ipotesi: poteva esser stato scritto tanto tempo fa qualche libro sotto il nome di Pelagio, che tuttavia non fosse suo. Infatti cotesti nostri fratelli non dicevano d'aver ricevuto da Pelagio in persona quei libri, né dicevano d'aver sentito dire da lui stesso che erano proprio suoi. Anche a me è capitato che alcuni nostri fratelli hanno detto che erano arrivati in Spagna sotto il mio nome certi libri che a colpo sicuro non venivano riconosciuti autentici da coloro che avevano letto altre nostre opere, e tuttavia da altri si credevano nostri.

La grazia di Dio che cos'era per Pelagio?

6. 20. Certo, quello che Pelagio riconobbe come suo rimane ancora pieno di nascondigli, ma penso che verrà alla luce nelle parti successive di questi Atti. Dichiarò Pelagio: " Abbiamo detto, sì, che l'uomo se vuole può esser senza peccato e osservare i comandamenti di Dio, perché Dio gli ha dato questa possibilità. Non abbiamo detto invece che si trovi qualcuno il quale non abbia mai peccato dalla sua infanzia fino alla vecchiaia, ma che, una volta convertito dai suoi peccati, l'uomo può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio, senza tuttavia che non possa più per questo pervertirsi in avvenire ". In queste parole rimane assolutamente indecifrabile che cosa Pelagio intenda per grazia di Dio. È certo che i giudici, cattolici com'erano, non poterono intendere altra grazia all'infuori di quella che l'Apostolo raccomanda moltissimo a noi con la sua dottrina. È questa infatti la grazia per la quale noi speriamo di poter esser liberati dal corpo di questa morte per Gesù Cristo nostro Signore 47.

7. 20. Ed è per impetrare tale grazia che noi preghiamo di non entrare in tentazione 48. Questa grazia non è la natura, ma quella che soccorre la fragile e viziata natura. Questa grazia non è la conoscenza della legge, ma quella di cui l'Apostolo dice: Non annullo la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, il Cristo è morto invano 49. La grazia non è dunque la lettera che uccide, bensì lo Spirito che dà vita 50. La conoscenza della legge senza la grazia dello Spirito solleva nell'uomo ogni concupiscenza. Scrive l'Apostolo infatti: Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di concupiscenza 51. E dicendo questo non è che vituperi la legge, anzi la loda per giunta con le seguenti parole: La legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. E prosegue: Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero. È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene 52. E loda di nuovo la legge dicendo: Sappiamo che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona 53. Ecco qui: conosce la legge, loda la legge, consente alla legge, cioè ne sente la bontà, perché quello che essa comanda questo stesso anche egli vuole, quello che essa vieta e condanna questo stesso anch'egli detesta, e ciò nonostante quello che detesta egli lo fa. Ha dunque dentro di sé la conoscenza della legge santa, né tuttavia guarisce in lui la concupiscenza viziosa. Ha dentro di sé la volontà buona e prevale in lui l'attività cattiva. È per questo che in mezzo a due leggi in contrasto tra loro, contrastando alla legge dello spirito la legge delle membra e riducendo l'uomo in schiavitù sotto la legge del peccato 54, l'Apostolo consapevole di ciò esclama e dice: Sono uno sventurato! Chi mi libererà dal corpo di questa morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore 55.

La grazia di Dio che cos'era per S. Paolo?

8. 21. Non la natura dunque, che venduta come schiava del peccato e ferita dal vizio desidera il suo Redentore e Salvatore, non la conoscenza della legge, che ci dà il conoscimento e non il superamento della concupiscenza, ci libera dal corpo di questa morte, bensì la grazia del Signore per Gesù Cristo nostro Signore 56.

9. 21. Questa grazia non è la natura che muore, né la lettera che uccide, ma lo Spirito che dà vita. Paolo infatti aveva già la natura con l'arbitrio della volontà (tanto da dire: C'è in me il desiderio del bene 57), ma non aveva la natura in possesso della propria sanità e senza vizio (e per questo diceva: Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene 58). Aveva già la conoscenza della legge santa (tanto da dire: Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge 59), ma non aveva la forza di fare la giustizia e di farla perfettamente, e diceva: Non quello che voglio, io faccio, ma quello che detesto, e anche: Non c'è in me la capacità di attuare il bene 60. Perciò non invocava né l'arbitrio della volontà né il precetto della legge per esser liberato dal corpo di questa morte 61, perché li aveva già ambedue, il primo nella natura e il secondo nella dottrina, ma invocava l'aiuto della grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore 62.

La grazia di Dio secondo i giudici di Pelagio.

10. 22. Logicamente i vescovi credettero affermata da Pelagio questa grazia che sapevano notissima nella Chiesa cattolica, quando gli sentirono dire che l'uomo " una volta convertito dai suoi peccati, può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio ". Per me invece non è così. Nel libro che mi diedero da confutare alcuni servi di Dio che erano stati discepoli di Pelagio e che, sebbene affezionatissimi a lui, assicurarono esser suo Pelagio pose a se stesso la questione della grazia di Dio, perché aveva già urtato moltissimi il fatto che parlasse contro di essa. Ebbene in quel libro egli ha dichiarato apertissimamente: " Questa è che io dico grazia di Dio: la possibilità di non peccare che la nostra natura ha ricevuta nel momento d'esser creata, essendo stata creata con il libero arbitrio ". Io dunque, dicevo, per questo libro, ma moltissimi nostri fratelli per le discussioni di Pelagio, delle quali essi dicono d'essere molto al corrente, siamo tuttora preoccupati dell'ambiguità di coteste sue parole, per paura che in esse si nasconda malauguratamente qualche tranello. Abbiamo paura in realtà che in seguito Pelagio possa svelare ai suoi discepoli d'aver risposto in quel modo senza recare nessun pregiudizio al suo dogma, ragionando così: " Ho asserito, sì, che con la propria fatica e la grazia di Dio l'uomo può vivere senza peccato, ma voi conoscete benissimo che cosa chiamo grazia e rileggendo potrete rammentarvi che essa è la condizione nella quale siamo stati creati con il libero arbitrio ". Mentre invece i vescovi, credendo che Pelagio parlasse non della grazia per la quale siamo stati fatti creature umane, ma di quella per la quale siamo stati adottati per diventare creature nuove - questa è appunto la grazia raccomandata con tanta evidenza dalla Scrittura divina -, senza avvedersi che Pelagio era eretico l'assolsero come cattolico. Mi tiene in sospetto anche il fatto che Pelagio, mentre nel medesimo libro da me confutato aveva detto nella maniera più chiara che " il giusto Abele non peccò mai in nessun modo ", ora dichiara: " Non abbiamo detto invece che si trovi qualcuno che non abbia mai peccato dalla sua infanzia alla vecchiaia, ma che, una volta convertito dai suoi peccati, l'uomo può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio ". Del giusto Abele al contrario non aveva scritto che, una volta convertito dai suoi peccati, fu senza peccato per il resto della sua vita, ma che " non peccò mai in nessun modo ". Perciò se quel libro è suo, dev'esser certamente corretto secondo la sua risposta. Non lo voglio accusare d'aver mentito adesso, perché non venga fuori a dire d'aver dimenticato quello che aveva scritto nel libro. Vediamo dunque il resto. Seguono negli Atti ecclesiastici dei particolari con i quali possiamo dimostrare, aiutandoci Dio, che, anche discolpato Pelagio, come ad alcuni sembra, in quell'interrogatorio e assolto davanti a giudici che erano certamente soltanto degli uomini, questa siffatta eresia, che non vorremmo né veder progredire ulteriormente né diventare ancora peggiore di quello che è, fu senza dubbio condannata.

Il tesario di Celestio.

11. 23. Ecco infatti le affermazioni che successivamente furono rimproverate a Pelagio e che si dicono rinvenute nella dottrina del suo discepolo Celestio: " Adamo fu creato mortale e sarebbe morto, sia che peccasse, sia che non peccasse. Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano. La Legge conduce al regno nella stessa maniera del Vangelo. Prima della venuta del Cristo ci furono uomini senza peccato. I neonati si trovano nel medesimo stato in cui era Adamo prima della sua prevaricazione. Né per la morte, né per la prevaricazione di Adamo muore tutto il genere umano; né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano". Queste affermazioni furono obiettate come già udite e condannate a Cartagine dalla tua santità e da altri vescovi assieme a te. Io non ero presente, come ricordi, ma venni a Cartagine successivamente ed esaminai gli Atti degli stessi avvenimenti. Di questi Atti rammento alcune proposizioni, ma non so se negli Atti si trovino tutte le proposizioni di sopra. Che conta però che alcune non siano state eventualmente conservate e quindi nemmeno condannate, se consta che sono da condannare? Poi, interposto il mio nome, furono obiettate anche altre Imputazioni che erano state mandate a me dalla Sicilia, perché i nostri fratelli cattolici di là si sentivano turbati da simili questioni. Ad esse risposi sufficientemente, come mi sembra, per mezzo del libro scritto ad Ilario, il quale me le aveva rimesse per consultazione in una sua lettera 63. Eccole: " L'uomo se vuole può vivere senza peccato. I bambini, anche se non vengono battezzati, hanno la vita eterna. Ai ricchi battezzati, se non rinunziano a tutto, non giova a nulla il bene che sembra a loro di fare e non possono ricevere il regno di Dio ".

Il tesario di Celestio risulta condannato dai vescovi.

11. 24. A queste obiezioni, come attestano gli Atti, Pelagio rispose così: " Della possibilità dell'uomo d'esser senza peccato è stato detto sopra. Dell'esistenza di uomini senza peccato prima della venuta del Signore, anche noi diciamo che prima dell'avvento del Cristo certuni vissero in santità e giustizia, secondo la tradizione delle Scritture sante. Quanto alle altre affermazioni, anche secondo la testimonianza di costoro, non sono state fatte da me e di esse non mi devo giustificare, ma, ciò nonostante, per la tranquillità del santo Sinodo anatematizzo coloro che ritengono o che hanno già ritenuto così ". Dopo questa sua risposta il Sinodo disse: " Relativamente alle suddette imputazioni il qui presente Pelagio ha dato sufficiente e retta soddisfazione, anatematizzando quelle che non erano sue ". Noi dunque costatiamo e riteniamo che non solo da Pelagio, ma anche dai santi vescovi che presiedevano a quel giudizio furono condannati gli errori perniciosissimi di questa eresia. Eccoli: " Adamo fu creato mortale ", e per spiegarne meglio il senso fu aggiunto: " Egli sarebbe morto, sia che peccasse, sia che non peccasse ". " Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano. La Legge conduce al regno nella stessa maniera del Vangelo. I neonati si trovano nel medesimo stato in cui era Adamo prima della sua prevaricazione. Né per la morte, né per la prevaricazione di Adamo muore tutto il genere umano; né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano. I bambini, anche se non sono battezzati, hanno la vita eterna. Ai ricchi dopo il battesimo, se non rinunziano a tutto, non giova a nulla il bene che sembra a loro di fare e non possono ricevere il regno di Dio ". Tutti questi errori risultano condannati da quel tribunale ecclesiastico per l'anatema di Pelagio e per gli interventi verbali dei vescovi 64.

Pelagio fu assolto, perché condannò le proposizioni suddette.

11. 25. Ora, da tali questioni e dalle asserzioni litigiosissime di coteste sentenze, che ormai avevano portato la febbre dappertutto, era turbata la debolezza di molti nostri fratelli. Perciò dalla preoccupazione della carità che per la grazia del Cristo giustamente abbiamo verso la Chiesa del Cristo sono stato costretto a scrivere su alcuni di questi problemi e massimamente sul battesimo dei bambini anche a Marcellino di beata memoria, il quale ogni giorno doveva sopportare quei molestissimi litiganti e mi consultava per lettera. Nei riguardi del battesimo anche dopo per tuo volere nella Basilica dei Maggiori, stringendo pure in mano l'Epistola del gloriosissimo martire Cipriano 65, declamando e commentando il suo testo su questo tema, aiutato dalle tue preghiere, mi sforzai per quanto mi fu possibile perché tale empio errore fosse sradicato dal cuore di alcuni guadagnati alle tesi che vediamo condannate in questi Atti. Queste sono le tesi che certi loro sostenitori tentavano di far accettare ad alcuni nostri fratelli, minacciandoli di un'eventuale condanna da parte delle Chiese d'Oriente, se non le avessero accolte. Ecco, quattordici vescovi della Chiesa orientale, in quella terra alla quale il Signore offri visibilmente la presenza della sua incarnazione, non avrebbero assolto Pelagio, se egli non avesse condannato quegli errori come avversi alla fede cattolica. Se costui dunque in tanto fu assolto in quanto li anatematizzò, essi sicuramente furono condannati. Ciò apparirà più abbondantemente e più chiaramente nel seguito.

L'esame di altre due risposte di Pelagio.


11. 26. Vediamo adesso le due affermazioni che Pelagio non volle anatematizzare anche perché le ha riconosciute sue. Ma egli, per togliere quello che in esse urtava, spiegò come le intendeva. Dichiarò: " Della possibilità dell'uomo d'esser senza peccato è stato detto sopra ". Sì, è stato detto e noi lo ricordiamo, ma mitigato e per questo approvato dai giudici, con l'aggiunta della grazia di Dio, taciuta in quelle Imputazioni. Come abbia risposto sulla seconda affermazione merita un esame alquanto più attento. Dichiarò: " Dell'esistenza di uomini senza peccato prima della venuta del Signore, diciamo anche noi che prima dell'avvento del Cristo certuni vissero in santità e giustizia, secondo la tradizione delle sante Scritture ". Non osò dire: Diciamo anche noi che prima dell'avvento del Cristo vissero degli uomini senza peccato: era quello che gli si obiettava per le affermazioni di Celestio. Pelagio avvertì quanto fosse pericoloso e odioso. Ma disse: " Diciamo anche noi che prima dell'avvento del Cristo certuni vissero in santità e giustizia ". Chi potrebbe negarlo? Ma altro è questo e altro è l'esser vissuti senza peccato. Vivevano in santità e giustizia anche coloro che tuttavia dichiaravano con sincerità: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi 66. Pure oggi molti vivono in giustizia e santità e tuttavia non mentiscono dicendo nell'orazione: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori 67. Ciò dunque piacque ai giudici nel modo in cui Pelagio asserì di dirlo, non nel modo in cui secondo l'obiezione l'aveva detto Celestio. Adesso esaminiamo, per quanto ci è possibile, quello che resta.

Un'altra accusa a Pelagio: la Chiesa terrena è immacolata.

12. 27. Si obiettò a Pelagio di dire che " la Chiesa vive quaggiù senza macchia né ruga ". Anche i donatisti ebbero con noi un lungo dibattito nella nostra Conferenza 68, sulla mescolanza dei cattivi con i buoni, ma noi li incalzavamo di preferenza argomentando dalla mescolanza della pula con il frumento come nella parabola dell'aia. Con la medesima parabola possiamo rispondere anche a questi, a meno che non vogliano eventualmente restringere la Chiesa a quei soli buoni che asseriscono esenti del tutto da qualsiasi peccato, perché la Chiesa possa essere sulla terra senza macchia né ruga. Se è così, ripeto quello che ho detto poc'anzi: Come sarebbero membra della Chiesa coloro nei quali un'umiltà verace grida: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi 69? O come pregherebbe la Chiesa con le parole che le ha insegnato il Signore: Rimetti a noi i nostri debiti 70, se la Chiesa fosse in questo mondo senza macchia e senza ruga? Costoro devono essere interrogati infine su se stessi: se confessino d'avere o no qualche peccato. Se negheranno d'avere peccati, si dovrà dire a costoro che ingannano se stessi e che la verità non è in loro. Se invece confesseranno d'avere qualche peccato, che cosa confesseranno se non qualche propria ruga o macchia? Essi dunque non sono membra della Chiesa, perché essa è senza macchia e senza ruga, ed essi invece sono con qualche macchia e ruga.

La risposta di Pelagio.

12. 28. Ma a questa obiezione Pelagio rispose con vigile cautela che i giudici cattolici apprezzarono senza esitazione. Dichiarò: " È stato detto da noi, ma in questo senso: perché con il lavacro la Chiesa si purifica da ogni macchia e ruga e perché il Signore vuole che la Chiesa rimanga così ". A questo il Sinodo rispose: " Ciò piace anche a noi ". Chi di noi infatti potrebbe negare che nel battesimo si rimettono i peccati a tutti e che tutti i fedeli risalgono senza macchia né ruga dal lavacro della rigenerazione? O a quale cristiano cattolico non piace quello che piace anche al Signore e che si avvererà: che la Chiesa sia per sempre senza macchia né ruga? Proprio questo stanno facendo presentemente la misericordia e la giustizia di Dio: condurre la santa Chiesa a quella perfezione nella quale rimarrà in eterno senza macchia e senza ruga. Ma tra il lavacro nel quale tutte le macchie e le rughe del passato vengono eliminate e il regno nel quale la Chiesa durerà perpetuamente senza macchia e senza ruga c'è di mezzo questo tempo d'orazione durante il quale è necessario che la Chiesa dica: Rimetti a noi i nostri debiti 71. L'accusa mossa a costoro di dire che " la Chiesa vive quaggiù senza macchia né ruga " aveva lo scopo di sapere se essi con tale sentenza osassero proibire l'orazione con la quale giorno e notte la Chiesa già battezzata domanda per sé il perdono dei peccati. Di questo tempo intermedio, tra l'indulgenza dei peccati che si fa nel lavacro e la permanenza senza peccati che si avrà nel regno, non ci fu nessuna discussione con Pelagio e nessuna decisione dei vescovi, ma soltanto questa dichiarazione che Pelagio credette di dover fare brevemente: non l'aveva detto così come appariva dall'obiezione. Quando infatti rispose: " È stato detto da noi, ma in questo senso", che cosa volle far apparire se non di non averlo detto nel senso in cui gli obiettori credevano l'avesse detto? Appare tuttavia a mio avviso abbastanza chiaro che cosa abbia guidato i giudici nel dire che " piaceva anche a loro ciò ", ossia il battesimo con il quale la Chiesa si lava dai peccati e il regno dove vivrà per sempre santa senza peccati la Chiesa che adesso se ne purifica.

Differenza tra il senso in cui si pronunziò il Concilio e il senso in cui si era espresso Celestio sulla verginità perpetua.

13. 29. Successivamente fu presentato sotto forma di obiezioni da un libro di Celestio il contenuto d'ogni capitolo, più a senso che a parola. Per la verità Celestio sviluppa gli argomenti più estesamente, ma i presentatori del libello d'accusa contro Pelagio dissero di non aver potuto sottoporre al Sinodo tutto il testo. Proposero dunque dal primo capitolo del libro di Celestio questa affermazione: " Noi facciamo più di ciò che è comandato nella Legge e nel Vangelo ". All'obiezione Pelagio rispose: " Propongono questo come se fosse un'idea nostra, ma noi l'abbiamo detto seguendo l'Apostolo sul tema della verginità, a proposito della quale dice: Non ho alcun comando dal Signore 72 ". Il Sinodo disse: " Questo l'accetta anche la Chiesa ". Ho letto io in che senso Celestio lo afferma nel suo libro, a meno tuttavia che non lo ripudi come suo. L'afferma per dimostrare che noi abbiamo per la natura del libero arbitrio tanta possibilità di non peccare che facciamo anche di più di quello che è comandato, perché molti serbano la verginità perpetua che non è di precetto, mentre per non peccare basta adempiere i precetti. Vediamo invece perché i giudici poterono approvare la risposta data da Pelagio. In essa non intesero implicita l'osservanza di tutti i comandamenti della Legge e del Vangelo da parte di coloro che per giunta osservano la verginità che non è comandata, ma intesero solo nel senso restrittivo che la verginità non comandata vale più della castità coniugale comandata e osservare la verginità vale più che osservare la castità coniugale: ben inteso tuttavia che non si ha la forza d'osservare né l'una né l'altra senza la grazia di Dio, dal momento che l'Apostolo parlando di questo argomento dice: Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro 73. E lo stesso Signore, avendogli detto i discepoli: Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene maritarsi, o meglio come ha il testo latino: Non conviene ammogliarsi, replicò: Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso 74. Ecco dunque che cosa i vescovi dichiararono accettato dalla Chiesa: la verginità permanente che non è comandata vale più della castità coniugale che è comandata. In quale senso invece l'abbia detto Pelagio o Celestio i giudici non riuscirono a saperlo.

Pelagio contro Celestio.

14. 30. Ora da qui si continuano ad obiettare a Pelagio altri capitoli di Celestio, capitali e senza dubbio così meritevoli di condanna che, se egli non li avesse anatematizzati, sarebbe stato certamente condannato insieme con essi. Nel terzo capitolo Celestio aveva scritto: " La grazia e l'aiuto di Dio non ci sono dati per il compimento delle singole azioni, ma consistono nel libero arbitrio o nella legge e nella dottrina ". E ancora: " La grazia di Dio si dà secondo i nostri meriti, perché se Dio la desse ai peccatori apparirebbe ingiusto ". E da queste parole aveva tirata la conclusione: " Ecco perché anche la stessa grazia consiste nella mia volontà, degno o indegno che io sia. Perché, se facessimo tutte le nostre azioni in forza della grazia, quando rimaniamo vinti dal peccato, la sconfitta non sarebbe nostra, ma della grazia divina, la quale ci voleva aiutare in ogni modo e non c'è riuscita ". E scrive ancora: " Se è grazia di Dio quando vinciamo i peccati, allora quando siamo vinti dal peccato Dio stesso è in colpa, perché egli o non ha potuto o non ha voluto custodirci ad oltranza ". A queste contestazioni Pelagio rispose: " Se queste affermazioni siano di Celestio lo vedano coloro stessi che gliele attribuiscono. Quanto a me, io non ho mai ritenuto questo, ma anatematizzo chi lo ritiene ". Il Sinodo disse: " Il santo Sinodo ti accoglie, perché in tal modo condanni affermazioni riprovevoli ". Nei riguardi di tutti questi errori risulta certamente manifesta sia la risposta di Pelagio che li anatematizza, sia la sentenza perentoria dei vescovi che li condanna. Ammettiamo che rimanga dubbio o ignoto se siano stati sostenuti o siano sostenuti ancora da Pelagio o da Celestio o da ambedue o da nessuno dei due o da altri, sia insieme a loro, sia sotto il loro nome: risulta comunque da questo processo che tali errori furono condannati e che Pelagio avrebbe dovuto esser condannato insieme ad essi, se egli stesso non li avesse condannati. Sicuramente adesso dopo questo giudizio, quando noi discutiamo contro siffatte sentenze, è contro un'eresia condannata che discutiamo.

Sprazzi di speranza nei riguardi di Pelagio.

14. 31. Dirò anche qualcosa di più lieto. Più sopra, quando Pelagio diceva 75 che " con l'aiuto della grazia di Dio l'uomo può vivere senza peccato ", io temevo che egli chiamasse grazia la possibilità della natura, creata da Dio con il libero arbitrio, come si trova scritto in quel libro che io ricevei come suo 76 e a cui ho risposto; e temevo che parlando in tal modo avesse ingannato gli ignari giudici. Adesso invece, quando anatematizza coloro che dicono che " la grazia e l'aiuto di Dio non si dànno per il compimento delle singole azioni, ma consistono nel libero arbitrio o nella legge e dottrina ", appare ben evidente che egli intende per grazia quella che viene insegnata dalla Chiesa del Cristo, quella che viene data con la somministrazione dello Spirito Santo, perché siamo aiutati nelle singole nostre azioni. È per questo anche che domandiamo sempre l'aiuto opportuno per non esser trascinati in tentazione 77. Né ho più ormai la paura di prima che malauguratamente dove ha detto: " Non può esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge " ed ha spiegato questa sua sentenza nel senso di " riporre nella conoscenza della legge l'aiuto a non peccare ", voglia far passare per grazia di Dio la medesima conoscenza della legge. Ecco, egli anatematizza coloro che sostengono quest'opinione! Ecco, egli non vuole che si confondano con la grazia di Dio dalla quale veniamo aiutati nelle singole nostre azioni né la natura del libero arbitrio, né la legge e la dottrina! Che resta allora se non che Pelagio intenda la grazia che si dà secondo l'Apostolo con la somministrazione dello Spirito Santo 78? Quella grazia di cui il Signore dice: Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi 79. Né adesso ci dev'essere più la paura che malauguratamente dove dice: " Tutti sono governati dalla propria volontà " e lo spiega così: " L'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene ", abbia anche qui inteso dire che Dio presta il suo aiuto per mezzo della natura del libero arbitrio e per mezzo della dottrina della legge. Avendo egli infatti anatematizzato giustamente coloro che " dicono che la grazia e l'aiuto di Dio non si dànno per il compimento delle singole azioni, ma consistono nel libero arbitrio o nella legge e nella dottrina ", sicuramente la grazia o l'aiuto di Dio si dà per le singole azioni, rimanendo a parte il libero arbitrio o la legge e la dottrina, e quindi noi siamo governati da Dio nelle singole nostre azioni quando sono azioni buone, e non preghiamo invano dicendo: Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male 80.

S. Paolo poté meritare i suoi molti carismi?

14. 32. Ma ciò che segue a cotesti pronunziamenti di Pelagio mi rende di nuovo perplesso. Infatti, essendo stato obiettato a Pelagio dal quinto capitolo del libro di Celestio, ove si afferma che " Ogni uomo può avere tutte le virtù e le grazie " e si elimina " la diversità delle grazie insegnata dall'Apostolo ", Pelagio rispose: " È stato detto da noi, ma l'hanno ripreso maliziosamente e ignorantemente. Noi infatti non eliminiamo la diversità delle grazie, ma diciamo che Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle, come le donò all'apostolo Paolo ". A questa risposta il Sinodo disse: " Ragionevolmente e nel senso della Chiesa anche tu pensi del dono delle grazie elencate dal santo Apostolo ". Qui potrebbe chiedere qualcuno: Che cosa allora ti preoccupa? Negherai tu che nell'Apostolo ci furono tutte le virtù e le grazie? Ma io, se si prendono tutte quelle grazie che lo stesso Apostolo ha ricordate in un solo testo e che, penso, hanno intese anche i vescovi per approvare la risposta di Pelagio e giudicarla come data " nel senso della Chiesa ", non dubito che l'apostolo Paolo le abbia avute tutte. Egli dice infatti: Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; e poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue 81. Che dunque? Diremo che l'Apostolo non ebbe tutti questi doni? Chi oserebbe dirlo? Dal momento infatti che era apostolo, aveva appunto l'apostolato. Ma aveva anche la profezia. Non c'è forse una sua profezia in queste sue parole: Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche 82, ecc.? Egli era pure maestro dei pagani nella fede e nella verità 83. E operava miracoli e guarigioni: infatti scosse dalla sua mano una vipera che lo stava mordendo e rimase illeso; e un paralitico si drizzò in piedi ad una sua parola che gli restituì subito la salute. Che cosa intenda come " doni di assistenza " è oscuro, perché è un'espressione di largo significato 84. Comunque chi direbbe che sia mancata questa grazia ad uno le cui fatiche risultano essere state di tanta assistenza per la salvezza degli uomini? Che cosa poi è più glorioso del suo governo, avendo il Signore governato allora molte Chiese per mezzo di lui e governandole pure adesso per mezzo delle sue Lettere? Infine quanto alle lingue, quali poterono mancargli, se egli dice: Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue molto più di tutti voi 85? Proprio dunque perché si deve credere che nessuno di questi doni mancò all'apostolo Paolo, per questo i giudici approvarono la risposta di Pelagio che " a lui furono donate tutte le grazie ". Ma ci sono anche altre grazie non ricordate da Paolo in quel passo. Certamente grazie ancora più numerose e più grandi di quelle dell'apostolo Paolo, benché egli fosse un membro molto eminente del corpo del Cristo, ha ricevuto lo stesso Capo di tutto il corpo, sia nella carne dell'uomo, sia nell'anima dell'uomo, la sua creatura che il Verbo di Dio assunse nell'unità della sua persona perché egli fosse il nostro capo e noi fossimo il suo corpo. E in verità, se in ciascuna persona ci potessero essere tutte le grazie, sembrerebbe adoperata invano la similitudine presa a questo scopo dalle membra del nostro corpo. È vero che alcuni beni sono comuni a tutte le membra, come la sanità, come la vita, ma ce ne sono anche altri che competono come propri alle singole membra, tanto che né l'orecchio percepisce i colori, né l'occhio i suoni, e per questo è scritto: Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l'udito? Se fosse tutto udito, dove l'odorato? 86 E ciò non si dice senza dubbio come se fosse impossibile a Dio prestare agli orecchi il senso della vista e agli occhi il senso dell'udito. Tuttavia è certo che cosa Dio faccia nel corpo del Cristo che è la Chiesa 87 e quanta diversità di Chiese abbia indicato l'Apostolo, perché le singole Chiese, quasi distinguendosi tra loro come membra diverse, possedessero anche doni propri a ciascuna di esse. Perciò è chiara ormai sia la causa per la quale coloro che mossero l'obiezione non vollero che fosse eliminata la diversità delle grazie, sia la causa per la quale i vescovi per riguardo all'apostolo Paolo, nel quale riconosciamo tutti i doni che egli elenca tutti insieme in quel solo passo, poterono approvare la risposta di Pelagio.

Il concetto stesso di grazia.

14. 33. Che cos'è dunque che, come ho detto precedentemente, mi ha allarmato in questo capitolo? Precisamente quello che dichiara Pelagio: " Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle, come le donò all'apostolo Paolo ". Non mi preoccuperebbe affatto questa sua frase se non ci fosse di mezzo questa causa di cui dobbiamo avere la massima cura: cioè che ci perda la grazia di Dio, mentre noi taciamo e dissimuliamo un male così grande. Poiché dunque Pelagio non dice che Dio dona le sue grazie a chi vuole, ma dice: " Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle ", non ho potuto nel leggere fare a meno di sospettare. Evidentemente si elimina lo stesso nome di grazia e il significato di tal nome, se la grazia non si dà gratis, ma la riceve chi n'è degno. Mi accuserà forse qualcuno d'offendere l'Apostolo, perché dico che non era degno della grazia? Anzi proprio allora procuro offesa a lui e punizione a me, se non credo a ciò che dice egli stesso. Non ha egli forse definito la grazia in modo da far capire che si chiama così appunto perché si dà gratis? Egli ha detto precisamente questo: E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia 88. Per questo ha detto nello stesso senso: A chi lavora il salario non viene calcolato come una grazia ma come debito 89. C'è dunque un debito verso chiunque è degno; ma se c'è un debito, non è grazia, perché la grazia si dona e il debito si paga. Si dona dunque la grazia agli indegni per poter pagare il debito ai degni; ma a far sì che i degni abbiano tutti i beni che meriteranno di riscuotere in paga è lo stesso Dio che, quando erano indegni, ha dato in regalo i beni che non meritavano d'avere.

La fede non si può meritare.

14. 34. Replicherà forse Pelagio: Non per le opere, ma per la fede ho detto che l'Apostolo era degno che gli si donassero quelle grazie così grandi: non lo meritarono infatti le sue opere che prima non erano buone, ma lo meritò tuttavia la sua fede. Ebbene? Pensiamo forse che la fede non operi? Anzi è proprio essa che veramente opera, operando per mezzo della carità 90. Per quanto poi si esaltino le opere degli infedeli, noi conosciamo la sentenza vera e invitta del medesimo Apostolo: Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato 91. La ragione però per cui egli dice spesso che la giustizia non ci è accreditata per le opere, bensì per la fede, mentre è piuttosto la fede che opera per mezzo della carità, è questa: nessuno deve stimare che si possa giungere alla fede stessa per i meriti delle opere, essendo la fede stessa l'inizio da cui cominciano le buone opere, perché, come è scritto, ciò che non viene dalla fede è peccato. Per questo nel Cantico dei Cantici si dice anche alla Chiesa: Verrai e passerai da me partendo dalla fede 92. Per quanto dunque la fede impetri la grazia di operare bene, non è certamente per merito della fede che noi abbiamo meritato d'avere la fede stessa, ma la misericordia del Signore ci ha prevenuti 93 nel darcela, perché nella fede seguissimo il Signore. Ce la siamo forse data da noi e ci siamo fatti fedeli da noi stessi? Anche sotto questo aspetto io grido con sicurezza: Egli ci ha fatti e non noi da noi 94. Nient'altro del resto mette in rilievo l'insegnamento dell'Apostolo dove dice: Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non sopravvalutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha data 95. Da ciò nasce appunto anche la domanda: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? 96 [Osservazione giustissima], dal momento che abbiamo ricevuto anche ciò da cui comincia tutto quello che abbiamo di buono nelle nostre azioni.

Sono doni di Dio i meriti dell'uomo.

14. 35. Perché allora il medesimo Apostolo dice: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi pagherà in quel giorno 97, se questi premi non si pagano a persone degne, ma si donano a persone indegne? Chi dice così, riflette poco che la corona non si sarebbe potuta pagare alla persona degna, se la grazia non le fosse stata regalata quand'era indegna. Dice, sì: Ho combattuto la buona battaglia 98, ma egli stesso dice anche: Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo 99. Dice: Ho terminato la mia corsa, ma egli stesso dice anche: Non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia 100. Dice: Ho conservato la fede, ma egli stesso dice anche: So infatti a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno 101, cioè il mio plico raccomandato, e infatti alcuni codici non hanno deposito, ma l'espressione più facile plico raccomandato. Ora, che cosa raccomandiamo a Dio se non quei beni che lo preghiamo di conservarci, tra i quali c'è anche la stessa nostra fede? Che altro infatti raccomandò per l'apostolo Pietro con la sua preghiera il Signore, tanto da dirgli: Io ho pregato per te, Pietro, che non venga meno la tua fede 102, se non che Dio conservasse la sua fede ed egli non venisse meno cedendo alla tentazione? Perciò, o beato Paolo, grande predicatore della grazia, dirò né temerò - chi infatti, se lo dico, si adirerà con me meno di te, che dicesti di dirlo e insegnasti d'insegnarlo? -, dirò dunque né temerò: Dio paga ai tuoi meriti certamente la loro corona, ma i meriti tuoi sono doni suoi.

S. Paolo non potè meritare l'apostolato.

14. 36. È pagato dunque un debito premio all'Apostolo degno, ma lo stesso apostolato fu regalato dalla grazia senza debito ad un uomo indegno. Mi pentirò forse d'averlo detto? Mai! Mi difenderà infatti in questo caso dall'odiosità la testimonianza dell'Apostolo e a chiamare me sfacciato provocatore non sarà se non chi avrà avuto la sfacciataggine di chiamare mentitore lui. È lui stesso che grida, è lui stesso che attesta, è lui stesso che per esaltare i doni di Dio nella sua persona e non vantarsi in se stesso, ma nel Signore 103, non solo dice di non aver avuto meriti buoni di nessun genere per diventare apostolo, ma svela anche i suoi meriti cattivi per manifestare e lodare la grazia di Dio. Scrive: Non sono adatto ad essere chiamato Apostolo 104. E ciò che altro significa se non questo: " Non sono degno "? Infatti la maggior parte dei codici latini ha proprio così. È precisamente la nostra questione: l'ufficio dell'apostolato contiene appunto tutte quelle grazie già ricordate. Non era infatti conveniente od opportuno che un apostolo non avesse la profezia o che non fosse maestro o che non splendesse di miracoli e di guarigioni o che non prestasse soccorsi o non governasse le Chiese o non eccellesse nelle varie lingue. Tutte queste grazie insieme comprende il nome di apostolato da solo. Lui stesso dunque consultiamo, lui stesso anzi ascoltiamo e a lui diciamo: O santo apostolo Paolo, il monaco Pelagio dice che tu eri degno di ricevere tutte le grazie del tuo apostolato, tu che dici di te stesso? Egli risponde: Non sono degno di essere chiamato Apostolo. E allora? Per onorare Paolo oserò credere su di lui a Pelagio piuttosto che a Paolo? Non lo farò. Se lo farò, mi graverò di un onere invece di tributare a Paolo un onore. Ascoltiamo anche perché non è degno d'esser chiamato apostolo. Dice: Perché ho perseguitato la Chiesa di Dio 105. A seguire la logica, chi non giudicherebbe che un uomo siffatto meritava piuttosto d'esser condannato dal Cristo che d'esser chiamato dal Cristo? Chi lo può amare tanto come predicatore da non detestarlo come persecutore? Ottimamente dunque e veracemente egli stesso dice: Non sono degno di essere chiamato Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Facendo dunque tanto male donde hai meritato tanto bene? Ascoltino la sua risposta tutte le genti: Per grazia di Dio sono quello che sono 106. È stata forse lodata la grazia per una ragione diversa da questa: fu regalata ad un indegno? E la sua grazia, dice, in me non è stata vana 107. Questo lo comanda pure agli altri, per mettere in risalto altresì l'arbitrio della volontà, là dove dice: Ora vi raccomandiamo ed esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio 108. Ma con che dimostra che la grazia di Dio non è stata vana in lui se non con quello che segue: Anzi ho faticato più di tutti loro 109? Non faticò dunque per ricevere la grazia, ma la ricevé per faticare, e così, per avere ciò che lo rendesse degno di ricevere i premi non gratuiti, ricevé da indegno la grazia gratuita. E per giunta non ardì arrogarsi nemmeno la stessa fatica. Dopo infatti aver detto: Ho faticato più di tutti loro, aggiunge immediatamente: Non io però, ma la grazia di Dio che è con me 110. O magnifico precettore, banditore, cantore della grazia! A che mirano coteste tue parole: Ho faticato di più, non io però? Dove la volontà ha spiccato un piccolo volo, là subito è stata pronta la vigile Pietà e ha tremato l'umiltà, perché l'infermità ha riconosciuto se stessa.

Una testimonianza del vescovo di Gerusalemme.

14. 37. Come indicano gli Atti, si servì giustamente anche di questa testimonianza il santo vescovo della Chiesa di Gerusalemme, Giovanni 111. Lo raccontò egli stesso ai nostri colleghi nell'episcopato che presiedevano con lui in quel tribunale, quando fu interrogato quali fossero stati gli avvenimenti accaduti presso di lui prima del giudizio. Raccontò che alcuni sussurravano e dicevano che Pelagio andava affermando che " senza la grazia di Dio l'uomo può arrivare alla perfezione ", cioè, come aveva detto prima, " l'uomo può vivere senza peccato ". Allora intervenne Giovanni: " Facendo l'accusatore, ricordai su questo punto che anche l'apostolo Paolo, pur avendo faticato molto, l'ha detto tuttavia non secondo le sue forze, bensì secondo la grazia di Dio: Io ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me 112. E le altre parole: Non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia 113. E le parole del salmo: Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori 114. E citammo molti altri testi simili dalle Scritture sante. Mentre quei presbiteri non accettavano i nostri riferimenti dalle sante Scritture, ma continuavano a borbottare, Pelagio affermò: Credo anch'io così. Sia anatema a chi dice che l'uomo può senza l'aiuto di Dio progredire fino a possedere tutte le virtù ".

Pelagio, presente, non respinse la testimonianza del vescovo di Gerusalemme.

15. 38. Questi fatti raccontò il vescovo Giovanni alla presenza di Pelagio, il quale certo avrebbe potuto dire garbatamente: " Si sbaglia la tua santità, non ricorda bene; io non ho detto di fronte a queste testimonianze che tu citasti dalle Scritture: Credo così. Perché io non le intendo nel senso che la grazia di Dio collabori con l'uomo in tal modo che il suo non peccare non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia 115 ".

Pelagio avrebbe dovuto replicare al vescovo di Gerusalemme, perché dava una interpretazione di S. Paolo contraria alla sua.

16. 39. Esistono infatti certi commenti della Lettera di S. Paolo ai Romani, che si dicono essere dello stesso Pelagio 116, nei quali la frase: Non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia secondo Pelagio " non è stata detta per conto di Paolo, ma che questi nel pronunziarla ha usato la voce di uno che interroga e obietta, come se una tale affermazione non si dovesse evidentemente fare ". Quando dunque il vescovo Giovanni riconobbe esplicitamente che questa sentenza era dell'Apostolo, quando la citò proprio perché Pelagio non reputasse che qualcuno possa evitare il peccato senza la grazia di Dio, quando disse che Pelagio aveva risposto: " Credo anch'io così " e Pelagio sentì dire tutto questo in sua presenza, non ci fu da parte di costui nessuna smentita: Io non credo così. Occorre quindi che nei riguardi di quel commento sbagliato, dove vuol dare ad intendere che l'Apostolo non ha ritenuto questa sentenza, ma piuttosto l'ha respinta, o neghi che è suo o non indugi a correggerlo e ad emendarlo. Qualunque cosa infatti abbia detto il vescovo Giovanni sul conto dei nostri fratelli assenti, sia dei coepiscopi Eros e Lazzaro, sia del presbitero Orosio 117, sia degli altri dei quali non sono stati indicati i nomi, credo che Pelagio capisca che ciò non può farsi valere a pregiudizio contro di loro. Se infatti fossero stati presenti, lungi da me l'affermare che forse avrebbero potuto convincere di falso Giovanni, ma probabilmente gli avrebbero rammentato quello che aveva dimenticato o quello in cui l'interprete latino l'aveva ingannato, sebbene senza l'intento di mentire, ma sicuramente per una certa difficoltà nella lingua straniera poco capita. Tanto più che la discussione non veniva trascritta a verbale negli Atti, che sono stati utilmente istituiti perché gli imbroglioni non mentiscano e i buoni non abbiano nulla da dimenticare. Se qualcuno però vorrà proporre delle questioni sulla vicenda ai suddetti nostri fratelli e li chiamerà a comparire davanti ad un tribunale di vescovi, essi faranno il possibile per essere presenti. Quanto a noi, perché dovremmo affaticarci su questo punto, se nemmeno gli stessi giudici, dopo il racconto di un nostro fratello nell'episcopato, vollero emettere un giudizio sulla medesima questione?

La buona fede di Pelagio è molto sospetta.

17. 40. Poiché dunque Pelagio, che era presente, in riferimento a quelle testimonianze delle Scritture con il suo silenzio riconobbe d'aver detto che credeva così, come mai, ricordando poco sopra quel testo dell'Apostolo e trovando che Paolo ha confessato: Non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio, ma per grazia di Dio sono quello che sono 118, come mai non capì che, trattando dell'abbondanza delle grazie ricevute dal medesimo Apostolo, non avrebbe dovuto dire che Paolo " era degno di riceverle "? Infatti lo stesso Paolo non solo si è detto indegno di riceverle, ma l'ha dimostrato adducendo anche un'altra ragione e ha fatto risaltare così la grazia come vera grazia. Ma se per mala sorte non fu in grado di ripensare o di ricordare il racconto già fatto molto tempo prima dal santo vescovo Giovanni, tenesse conto almeno della propria recentissima risposta e avesse presenti gli errori che, obiettatigli attraverso gli scritti di Celestio, egli aveva anatematizzati poco tempo prima. Anche tra essi c'è appunto l'errore che si obiettò come insegnato da Celestio: " La grazia di Dio si dà secondo i nostri meriti ". Se Pelagio dunque anatematizzò questo errore con sincerità, perché mai dice che tutte quelle grazie furono date all'Apostolo secondo il suo merito? C'è forse differenza tra essere degno di ricevere e ricevere secondo il merito? Può Pelagio dimostrare con qualche sottile argomentazione che uno può essere degno senza meritare? Comunque Celestio o chi altro sia l'autore di cui Pelagio anatematizzò tutti i precedenti errori, non gli consente di sollevare una cortina di fumo su questa espressione per nascondersi dentro di essa. Incalza infatti dicendo: " Anche la stessa grazia consiste nella mia volontà, degno o indegno che io sia ". Se dunque fu condannata da Pelagio con rettitudine e sincerità l'affermazione che " la grazia di Dio si dà secondo i meriti e a coloro che ne sono degni ", con che cuore pensò o con quale bocca proferì le parole: " Diciamo che Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle "? Chi, se avverte diligentemente tutto questo, sarebbe capace di non preoccuparsi della risposta di Pelagio o della sua autodifesa?

Agostino si sente perplesso di fronte alla sentenza dei vescovi.

17. 41. Domanderà qualcuno: Perché dunque i giudici approvarono Pelagio? Confesso che già io stesso non me lo spiego. Ma evidentemente o quella rapida parola " degno " sfuggì con facilità all'ascolto e all'avvertenza dei giudici, o stimando che essa potesse intendersi rettamente in qualche modo credettero che non fosse il caso di promuovere una controversia su di una parola appena con un imputato di cui sullo stesso argomento sembrava ad essi di possedere limpide confessioni. Sarebbe accaduto lo stesso anche a noi, se ci fossimo trovati a sedere con essi in quel tribunale. Se, per esempio, al posto di " degno " fosse stato messo: " predestinato " o un'altra parola simile, certamente non avrebbe toccato o turbato l'animo nessuno scrupolo. Se al contrario venisse chiamato degno invece che eletto chi è giustificato per elezione di grazia, certamente senza buoni meriti precedenti ma per destinazione divina, sarebbe difficile giudicare se ciò si possa accettare con sicurezza o costituisca una benché minima offesa all'intelligenza. Per quanto mi riguarda, io sorvolerei facilmente su questa parola " degno ", se quel libro, a cui ho risposto e nel quale Pelagio non dice grazia di Dio nient'altro che la nostra natura dotata di libero arbitrio gratuitamente creata, non mi rendesse preoccupato dell'intenzione dello stesso Pelagio: forse gli ha fatto inserire quella parola non la negligenza del suo linguaggio, ma la diligenza del suo dogma. Quanto alle ultimissime asserzioni che ormai restano da esaminare, esse turbarono talmente i giudici che pensarono di doverle condannare ancora prima della risposta di Pelagio.

Proposizioni condannate dai vescovi prima della risposta di Pelagio.

18. 42. Infatti nel sesto capitolo del libro di Celestio si trova questa proposizione che fu messa sotto accusa: " Non si possono chiamare figli di Dio se non coloro che sono stati resi puri assolutamente da ogni peccato ". Con questo metro, secondo lui, sarebbe detto dalla Scrittura che non è figlio di Dio nemmeno l'apostolo Paolo, avendo egli detto: Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione 119. Nel settimo capitolo si legge: " La dimenticanza e l'ignoranza non soggiacciono a peccato, perché non provengono da volontà, ma da necessità ". Eppure Davide dice: Non ricordare i peccati della mia giovinezza e della mia ignoranza 120, e nella Legge si offrivano sacrifici per l'ignoranza, come per il peccato 121. Nel decimo capitolo è scritto: " Non è libero arbitrio, se ha bisogno dell'aiuto di Dio, perché ciascuno possiede nella propria volontà il potere di fare o di non fare un'azione ". Nel dodicesimo capitolo si legge: " La nostra vittoria non viene dall'aiuto di Dio, ma dal libero arbitrio " e si dice che Celestio abbia proposto tale errore con queste parole: " Nostra è la vittoria, perché abbiamo imbracciato le armi di nostra volontà, come al contrario nostra è la sconfitta, perché abbiamo trascurato volontariamente d'imbracciare le armi ". Dall'apostolo Pietro riportò questa testimonianza: Noi siamo partecipi della natura divina 122, in dipendenza della quale gli si attribuisce il seguente sillogismo: " Se l'anima non può essere senza peccato, anche Dio allora soggiace al peccato, perché una sua parte, cioè l'anima, è soggetta al peccato ". Nel tredicesimo capitolo dice: " Ai penitenti non si dà il perdono secondo la grazia e la misericordia di Dio, ma secondo i meriti e gli sforzi di coloro che mediante la penitenza sono divenuti degni di misericordia ".

Le dichiarazioni dei vescovi e di Pelagio.

19. 43. Letti questi brani, il Sinodo chiese: " Che cosa dice il monaco Pelagio qui presente relativamente a questi capitoli che sono stati letti? Tutto questo riprova il santo Sinodo e la Chiesa di Dio santa e cattolica ". Pelagio rispose: " Dichiaro di nuovo che queste frasi, anche secondo la testimonianza degli avversari, non sono mie e di esse non devo giustificarmi, come ho detto. Le frasi che ho riconosciute mie affermo che sono esatte. Quelle che ho respinte come non mie le riprovo secondo il giudizio della santa Chiesa, anatematizzando chiunque contravvenga e contraddica alla dottrina della santa Chiesa cattolica. Io infatti credo nella Trinità di una sola sostanza e in tutte le verità secondo la dottrina della santa Chiesa cattolica. Se qualcuno pensa diversamente da essa sia anatema ".

La sentenza del Concilio.

20. 44. Il Sinodo disse: " Poiché è stata data ora soddisfazione a noi con le spiegazioni del monaco Pelagio qui presente, il quale da una parte assentisce ai pii insegnamenti della Chiesa e dall'altra smentisce e anatematizza le affermazioni contrarie alla fede della Chiesa, noi dichiariamo che egli è nella comunione ecclesiastica e cattolica ".

L'assoluzione non ha dissipato i sospetti attorno a Pelagio.

21. 45. Questi sono gli Atti per i quali gli amici di Pelagio godono che egli sia stato assolto. Quanto a noi, poiché egli ebbe il modo e la cura di far conoscere anche la nostra amicizia verso di lui, tirando fuori e leggendo perfino in tribunale una nostra lettera familiare che è stata inserita negli Atti, gli desideriamo, sì, e gli auguriamo tanta salute nel Cristo, ma non dobbiamo godere alla leggera di questa sua assoluzione, più presunta che limpidamente provata. E dicendo questo io non accuso i giudici né di negligenza, né di connivenza, né d'accoglienza fatta a dogmi empi, un atteggiamento dal quale essi aborriscono certissimamente. Ma, approvato e lodato il loro giudizio secondo il suo merito, non mi sembra tuttavia che Pelagio sia stato prosciolto davanti a coloro ai quali è noto con maggiore ampiezza e certezza. I giudici infatti, trovandosi a giudicare quasi uno sconosciuto, specialmente per l'assenza di coloro che avevano presentato il libello d'accusa contro di lui, non poterono certamente esaminare Pelagio con troppa diligenza. Ciò nonostante, essi sbaragliarono radicalmente l'eresia stessa, se a coloro che combattevano a favore dell'errore di Pelagio preme di attenersi al giudizio dei vescovi. Al contrario coloro che conoscono bene gli insegnamenti correnti di Pelagio, tanto quelli che hanno opposto resistenza alle sue discussioni, quanto quelli che si rallegrano d'essersi liberati dallo stesso errore, come fanno a non sospettare di lui, quando leggono non una sua semplice confessione di condanna degli errori da lui sostenuti in passato, ma una difesa formulata così da far credere che egli non abbia mai pensato nulla di diverso da quanto in cotesto tribunale è stato approvato nelle sue risposte?

Notizie storiche sui rapporti tra Agostino e Pelagio.

22. 46. Per parlare soprattutto di me stesso, io conobbi per la prima volta il nome di Pelagio, accompagnato da grandi elogi, mentre egli era lontano e dimorava a Roma. In seguito la fama cominciò a portarci la voce che egli combattesse contro la grazia di Dio. Sebbene ciò mi affliggesse e lo sentissi testimoniato da persone alle quali credevo, tuttavia desideravo conoscere qualcuna di quelle sue opinioni direttamente da lui o da qualche suo libro, perché egli non potesse negare, qualora io avessi preso a confutarlo. Dopo però che in mia assenza egli arrivò in Africa, fu accolto sulla nostra sponda, cioè su quella d'Ippona, dove, come ho saputo dai nostri, non si udì da lui nemmeno una sola parola dei suoi errori, anche perché se ne ripartì prima del previsto. Successivamente ho veduto, per quanto ricordo, una o due volte la sua faccia a Cartagine, mentre ero occupatissimo nel preparare la Conferenza con gli eretici donatisti. Egli però si affrettò a trasferirsi anche sull'altra sponda del mare. Nel frattempo si spargevano con fervore i suoi insegnamenti per bocca di coloro che l'opinione pubblica portava come suoi discepoli, tanto che Celestio fu condotto davanti a un tribunale ecclesiastico e ne riportò una sentenza degna della sua perversità. Noi credevamo in tutta buona fede di comportarci più opportunamente contro di loro, se tacendo i nomi delle persone si confutavano e riprovavano gli errori stessi, e così gli individui si potessero correggere per paura di un giudizio ecclesiastico, piuttosto che esser condannati da un giudizio ecclesiastico. Per questo non cessavamo né con libri, né con discorsi popolari di discutere contro quegli errori.

Altre notizie storiche.

23. 47. Ed ecco che mi fu dato dai servi di Dio, Timasio e Giacomo, persone buone e oneste, anche quel libro dove Pelagio, facendo la parte dell'avversario, opponeva apertamente a se stesso la questione della grazia di Dio, per cui si era già sollevata contro di lui una grande odiosità. Pelagio credette di doverla risolvere dicendo grazia di Dio la natura creata con il libero arbitrio, unendo talvolta, ma blandamente e non esplicitamente, alla natura o l'aiuto della legge o la remissione anche dei peccati. Allora, sì, senza più nessun dubbio mi fu chiaro quanto fosse nemico della salvezza cristiana il veleno di quell'errore. E tuttavia nemmeno in quella condizione di spirito io inserii il nome di Pelagio nella mia opera con la quale confutai il medesimo libro, stimando che gli sarei stato più facilmente di aiuto, se conservando la sua amicizia avessi ancora riguardo al suo pudore, dal momento che non dovevo averne ormai più ai suoi scritti. Da qui viene che mal sopporto che in questo processo egli ad un certo punto abbia detto: "Anatematizzo coloro che ritengono così o in altro tempo hanno ritenuto così ". Sarebbe bastato che dicesse: " Coloro che ritengono così ", perché credessimo che egli si era corretto. Aggiungendo invece le altre parole: " O in altro tempo hanno ritenuto così ", quanto ingiustamente, prima di tutto, ha osato condannare quegli innocenti che non erano stati esenti dall'errore imparato dall'insegnamento o di altri o di lui stesso! In secondo luogo, tra coloro che lo sanno non solo partecipe nel passato di tali errori, ma anche maestro, chi non avrebbe il diritto di sospettare che abbia anatematizzato fintamente coloro che ritengono adesso tali errori, se non ha esitato ad anatematizzare nello stesso modo coloro che li hanno ritenuti in passato e lo ricorderanno come loro maestro in tali errori? Ecco, per tacere di altri, con quali occhi, con quale faccia avrà il coraggio di guardare Timasio e Giacomo, che sono stati suoi amici affezionati e per qualche tempo suoi discepoli, e ai quali io ho scritto il libro dove ho risposto al suo? In che modo essi mi abbiano risposto non ho creduto davvero di doverlo tacere e sorvolare, ma riporto qui sotto la copia della loro lettera 123.

La lettera di Timasio e Giacomo ad Agostino.

24. 48. " Al vescovo Agostino, signore veramente beatissimo e padre meritamente venerabile, Timasio e Giacomo dicono salute nel Signore. La grazia di Dio, somministrata mediante la tua parola, ci ha tanto confortati e rinnovati da dover dire con tutta sincerità: Mandò la sua parola e li fece guarire 124, signore beatissimo e padre meritamente venerabile. Ben riscontriamo che la tua santità ha spulato con tanta diligenza il testo del medesimo libro da rispondere con nostro stupore ai singoli punti, sia riguardo agli errori che ad un cristiano conviene respingere, detestare e fuggire, sia riguardo ai passi dove non è sufficientemente chiaro che egli abbia errato, sebbene anche in essi, per non so quale scaltrezza, abbia creduto di dover sopprimere la grazia di Dio. Ma di una sola cosa ci rammarichiamo in tanto grande beneficio: che il dono così splendido della grazia di Dio sia giunto tardi a brillare del suo fulgore. È accaduto appunto che alcuni alla cui cecità si doveva tale illustrazione di una verità tanto stupenda fossero già partiti. Ad essi non diffidiamo che giunga, per quanto un po' più tardi, la medesima grazia per la misericordia di Dio, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità 125. Quanto poi a noi, sebbene grazie allo spirito della carità che vive in te abbiamo già gettato via il giogo di tale errore, ti ringraziamo presentemente anche per il fatto che adesso sappiamo aprire agli altri le verità che finora credevamo, perché ci ha spalancato la via della facilità il libro così abbondante della tua santità. E con altra mano : La misericordia del nostro Dio glorifichi in eterno la tua beatitudine, la conservi incolume e memore di noi ".

Perché Pelagio non si è ritrattato?

25. 49. Se dunque anche Pelagio confessasse che una volta si è trovato dentro a quest'errore come una persona colta di sorpresa, ma che adesso anatematizza coloro che sostengono tali opinioni, chiunque non si congratulasse con lui, perderebbe lo spirito della carità, mentre Pelagio camminerebbe già sulla via della verità. Ora invece non solo non si è contentato di non confessare d'essersi liberato da quella peste, ma per giunta ha anatematizzato coloro che se ne sono liberati e che lo amano così da desiderare che ne sia liberato anche lui stesso. Tra i quali ci sono pure cotesti due che hanno fatto capire il loro affetto verso di lui con questa lettera scritta a me: proprio a lui principalmente pensavano dicendo di rammaricarsi che io avessi scritto quel libro in ritardo. " È accaduto " dicono " che alcuni alla cui cecità si doveva tale illustrazione di una verità tanto stupenda fossero già partiti. Ad essi non diffidiamo che giunga, per quanto un po' più tardi, la medesima grazia per la misericordia di Dio ". Il nome appunto o i nomi anch'essi credettero bene di doverli tacere ancora, perché continuando a vivere l'amicizia degli amici venisse a morire piuttosto l'errore degli amici.

Esortazione a Pelagio.

25. 50. Se ora Pelagio pensa a Dio, se non è ingrato verso la sua misericordia che l'ha condotto al giudizio dei vescovi perché non osasse difendere in seguito queste dottrine anatematizzate e le riconoscesse meritevoli ormai d'esser detestate e abbandonate, accoglierà questo nostro scritto, dove facendo espressamente il suo nome preferiamo aprire la piaga per guarirla. L'accoglierà con maggior piacere di quegli scritti dove, temendo di recargli dolore, facevamo crescere il tumore, e di ciò ci pentiamo. Ma se fosse adirato con me, si renda conto quanto ingiustamente è adirato e per vincere l'ira domandi una buona volta la grazia di Dio, della quale ha riconosciuto in quel processo la necessità per le nostre singole azioni, perché con l'aiuto di Dio consegua una vera vittoria. Che gli giovano infatti le lodi così grandi tributategli dai vescovi nelle lettere ch'egli credette di dover ricordare od anche leggere ed allegare in suo favore? Come se a tutti coloro che ascoltavano le sue veementi e in certo qual modo ardenti esortazioni a condurre una vita buona fosse stato facile sapere che egli sosteneva tali errori.

Presentazione e commento di Agostino ad una lettera indirizzata a Pelagio.

26. 51. Io veramente, nella mia lettera che fu allegata da lui, non solo mi sono mantenuto misurato nel lodarlo, ma nei limiti del possibile, senza sollevare la questione sulla grazia di Dio, l'ho anche esortato a ritenere la sana dottrina. Nel saluto l'ho chiamato signore, come siamo soliti scrivere nello stile epistolare anche a certi non cristiani, e ciò senza menzogna, perché, per conseguire la salvezza che sta nel Cristo, dobbiamo a tutti in qualche modo la nostra libera servitù. L'ho chiamato dilettissimo e lo chiamo così pure adesso, anche se si fosse adirato, e lo chiamerò così pure in seguito, perché, se non avrò carità verso di lui, anche se lui resta adirato, un danno ancora maggiore io recherò a me stesso. L'ho chiamato desideratissimo, perché ero bramosissimo di dialogare alquanto con lui a viva voce: avevo infatti già sentito dire che, appena si accennava alla grazia che ci giustifica, egli s'impennava fortemente e apertamente. Del resto la stessa brevità della mia lettera indica tutto questo. Eccone il contenuto: dopo averlo ringraziato d'avermi rallegrato con il suo scritto assicurandomi della salute sua e dei suoi - e certamente dobbiamo volere anche la salute fisica di quelli di cui vogliamo la correzione -, gli auguravo subito che il Signore gli elargisse non i beni concernenti la salute corporale, ma quei beni invece che egli riteneva o forse ritiene ancora dipendenti solamente dall'arbitrio della volontà e del proprio potere umano, augurandogli contemporaneamente e conseguentemente la vita eterna. E poiché egli, nella sua lettera alla quale io rispondevo, aveva lodato grandemente e gentilmente alcuni di quei beni in me, io anche nella mia risposta chiedevo a lui di pregare per me perché piuttosto il Signore mi facesse quale egli già credeva che io fossi. In tal modo gli ricordai, contro il suo convincimento, che anche la stessa giustizia che aveva ritenuto di dover lodare in me non dipendeva né dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia 126. Questo è tutto il contenuto della mia breve lettera e questo è l'intento con il quale è stata dettata. Eccone infatti il testo.

Il testo della lettera di Agostino a Pelagio.

27-28. 52. " Al signore dilettissimo e fratello desideratissimo Pelagio Agostino dice salute nel Signore. Ti ringrazio moltissimo d'esserti degnato di rallegrarmi con la tua lettera e di assicurarmi della vostra salute. Il Signore ti ricompensi con beni che ti facciano essere buono per sempre e vivere in eterno con lui eterno, signore dilettissimo e fratello desideratissimo. Ed io, sebbene non mi senta meritevole dei tuoi elogi che su di me sono contenuti nella lettera della tua benignità, non posso tuttavia mancare di gratitudine all'animo tuo che è benevolo verso la mia esiguità; però ti raccomando insieme di pregare piuttosto per me, perché il Signore mi faccia quale tu credi che io sia già. E con altra mano: Memore di noi, possa tu piacere al Signore in pienezza di salute, signore dilettissimo e fratello desideratissimo ".

Agostino giustifica la sua lettera.

29. 53. Anche con la stessa formula di saluto apposta da me, che egli potesse piacere al Signore, ho indicato che ciò è riposto più nella grazia di Dio che nella sola volontà dell'uomo, perché ciò io non l'ho né raccomandato, né comandato, né insegnato, ma augurato. Come in realtà, con l'esortazione, il comando o l'insegnamento avrei indicato che piacere a Dio è compito anche del libero arbitrio, senza tuttavia togliere nulla alla grazia di Dio, così facendogli l'augurio ho, sì, messo in risalto la grazia di Dio, ma non ho tuttavia soppresso l'arbitrio della volontà. Con quale mira dunque in questo processo ha tirato fuori una lettera siffatta? Se essa avesse ispirato il suo pensiero fin dal principio, non sarebbe stato probabilmente citato a comparire davanti al giudizio dei vescovi da fratelli buoni senza dubbio, ma tuttavia offesi dalla falsità delle sue discussioni. E a questo punto dico: come ho reso conto io di questa mia lettera, così, se necessario, renderebbero conto delle loro gli altri, di cui egli ha allegato le lettere, dicendo che cosa avevano creduto nei suoi riguardi o che cosa avevano ignorato o per quale ragione avevano scritto. Perciò Pelagio, lasci da parte le varie persone sante della cui amicizia si è vantato, i vari vescovi dei quali ha letto gli elogi rilasciati da loro a lui stesso, i vari documenti da lui addotti a propria difesa. Se non anatematizzerà con esplicita confessione tutti gli errori che l'autorità di testimoni idonei dimostra ch'egli ha inseriti nei suoi libri contro la grazia di Dio, la quale ci chiama e ci giustifica, se non si asterrà in seguito dallo scrivere e discutere contro queste stesse dottrine, non potrà in nessun modo apparire, a coloro che lo conoscono meglio degli altri, che si sia corretto.

Una lettera di Pelagio dopo il Concilio.

30. 54. Non tacerò ora le vicende che sono seguite a questo processo e che sono tali da accrescere ancora di più i nostri sospetti. È giunta nelle nostre mani una lettera che si dice dello stesso Pelagio. Egli risponde a un certo presbitero suo amico, il quale, com'è contenuto nella stessa lettera, gli aveva scritto ammonendolo benevolmente ad evitare che per causa sua qualcuno si separasse dal corpo della Chiesa. Tra le altre cose che sarebbe troppo lungo riportare qui, e non è necessario, Pelagio dice nella lettera: " Dalla sentenza dei quattordici vescovi è stata approvata la nostra dichiarazione con la quale abbiamo detto che l'uomo può vivere senza peccato ed osservare facilmente i comandamenti di Dio, se vuole. Questa sentenza ha riempito di confusione il volto dei contraddittori e ha posto in contrasto l'intera consorteria di coloro che cospiravano al male". Sia che Pelagio abbia scritto questa lettera, sia che l'abbia inventata qualche altro sotto il suo nome, chi non vede come questo errore si vanti persino del giudizio che l'ha convinto di falso e l'ha condannato, quasi si tratti d'una sua vittoria? Ha riferito infatti le parole come si leggono nel libro di Pelagio detto Libro dei Capitoli, non come furono obiettate nel processo e ripetute anche da Pelagio nella sua risposta. Anche coloro che mossero l'accusa misero, non so per quale incuria, una parola in meno, sulla quale la controversia non è poca. Attestarono infatti che egli aveva detto: " L'uomo, se vuole, può vivere senza peccato; può, se vuole, osservare i comandamenti di Dio ". Qui non si dice nulla della " facilità ". Pelagio nella sua risposta dichiarò: " Ho detto che l'uomo può vivere senza peccato e osservare i comandamenti di Dio, se vuole ". Neppure lui disse: " Osservare facilmente ", ma solo: " Osservare ". Così altrove, tra i punti su cui mi consultò Ilario e sui quali risposi 127, alla obiezione: " L'uomo può essere senza peccato, se vuole ", rispose Pelagio: " Che l'uomo possa essere senza peccato è stato detto sopra ". Nemmeno qui dunque, né da parte degli obiettanti, né da parte di lui stesso nel rispondere fu aggiunto l'avverbio " facilmente ". Anche sopra nel racconto del santo vescovo Giovanni il fatto viene ricordato così: " Insistendo costoro a dire: È eretico perché dice che l'uomo, se vuole, può essere senza peccato, e interrogandolo noi su questo rispose: Non ho detto che la natura dell'uomo ha ricevuto la dote di essere impeccabile, ma ho detto che chi vuol faticare e combattere ai fini della propria salvezza per non peccare e camminare nei precetti di Dio, costui riceve da Dio questa possibilità. Mormorando allora alcuni e dicendo che Pelagio affermava la possibilità dell'uomo d'arrivare alla perfezione senza bisogno della grazia di Dio, io, facendo da accusatore, ricordai su questo punto che anche l'apostolo Paolo, pur avendo faticato molto, l'ha detto tuttavia non secondo le proprie forze, bensì secondo la grazia di Dio: Io ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me 128 ". E il resto che ho già riferito.

La critica di quella lettera.

30. 55. A che tende dunque il vanto così sfacciato che hanno osato menare in questa lettera d'esser riusciti a convincere i quattordici vescovi giudicanti non solo della possibilità, ma anche della facilità di non peccare, come è messo nel Libro dei Capitoli del medesimo Pelagio, mentre risulta che le medesime accuse mosse negli Atti e tante volte ripetute non hanno in nessun testo tale parola? In che modo tale parola non è contraria alla stessa autodifesa e alla risposta di Pelagio, mentre anche il vescovo Giovanni dice che Pelagio davanti a lui rispose: " Intendo che non può peccare chi vuol faticare e combattere per la propria salvezza " e Pelagio stesso nel corso dell'interrogatorio disse a sua discolpa: " L'uomo può essere senza peccato con la propria fatica e la grazia di Dio "? Come avviene dunque " facilmente ", se si fatica perché avvenga? Credo che il buon senso comune riconosca con noi che dove c'è fatica non c'è facilità. E tuttavia la lettera di Pelagio vola piena di vento e d'esaltazione carnale e, vincendo in sveltezza la voluta lentezza della compilazione degli Atti, si cala sulle mani degli uomini a dire che ai quattordici vescovi orientali piacque non solo che " l'uomo può essere senza peccato e può osservare i comandamenti di Dio ", ma anche che li può " osservare facilmente ", e senza nominare nemmeno l'aiuto di Dio, a questa sola condizione: " se vuole ". Di modo che, taciuta la grazia divina per la quale si combatteva con il massimo ardore, non resta evidentemente da leggere nella lettera nient'altro che la sola superbia umana, infelice e ingannatrice di se stessa come falsa vincitrice. Quasi che il vescovo Giovanni non abbia detto d'aver mosso contro Pelagio proprio quest'accusa e di aver abbattuto con i colpi di tre testimonianze divine, a modo di folgori, i giganteschi monti innalzati contro la vetta irraggiungibile della grazia celeste 129. Oppure, quasi che insieme a Giovanni anche tutti gli altri vescovi giudicanti sopportassero o con la loro mente o con i loro stessi orecchi che Pelagio dicesse: " Abbiamo detto che l'uomo può, certo, essere senza peccato e osservare i comandamenti di Dio, se vuole ", ma non aggiungesse immediatamente: " Dio infatti gli ha dato questa possibilità " - e costoro ignoravano che Pelagio lo diceva della natura e non di quella grazia che i vescovi conoscevano dalla dottrina dell'Apostolo - e non continuasse dicendo: " Non ho detto invece che si trovi qualcuno che dall'infanzia alla vecchiaia non abbia mai peccato; ma che, una volta convertito dai suoi peccati, può con la propria fatica e con la grazia di Dio essere senza peccato ". Ciò dichiararono anche con la loro sentenza i giudici dicendo che era buona la risposta di Pelagio: " L'uomo con l'aiuto di Dio e con la sua grazia può essere senza peccato ". Che cos'altro temevano i vescovi se non questo: che negando tale possibilità dessero l'impressione di recare offesa non alla possibilità dell'uomo, ma alla stessa grazia di Dio? Né tuttavia fu definito quando l'uomo arrivi ad essere senza peccato. Fu sentenziato che gli è possibile con l'aiuto della grazia di Dio: non fu definito, ripeto, se in questa carne, che ha desideri contrari allo spirito 130, sia esistito o esista o esisterà qualcuno in possesso dell'uso della ragione e dell'arbitrio della volontà e che si trova o in mezzo alla folla umana o nella solitudine della vita monacale, che non abbia bisogno di dire, non per gli altri, ma anche per se stesso nell'orazione: Rimetti a noi i nostri debiti 131. Né fu detto se tale dono d'essere senza peccato arrivi alla sua perfezione solo quando saremo simili a Dio, quando lo vedremo così com'è 132, quando non si dirà più da noi come persone militanti: Nelle mie membra vedo un'altra legge che muove guerra alla legge della mia mente 133, ma si dirà da noi come persone trionfanti: Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? 134 E questa non è una ricerca da farsi tra cattolici ed eretici, ma, se mai, tra gli stessi cattolici in tutta pace.

Non si può credere a Pelagio.

31. 56. Come si fa dunque a credere che Pelagio - ammesso tuttavia che questa lettera sia sua - abbia riconosciuto sinceramente la grazia di Dio, che non è né la natura in possesso del libero arbitrio, né la conoscenza della legge, né la sola remissione dei peccati, bensì quella che ci è necessaria nelle nostre singole azioni, e abbia anatematizzato sinceramente chiunque pensasse il contrario? Non lo si può credere perché nella sua lettera ha inserito la facilità di non peccare, sulla quale non ci fu nessuna questione in quel processo, come se ai giudici fosse piaciuta anche questa parola, ma non ha inserito la grazia di Dio con quella confessione aperta che gli valse d'evitare la pena della condanna ecclesiastica.

Un altro motivo di sospetto nei riguardi di Pelagio.

32. 57. C'è anche un altro particolare che non devo tacere. Nel fascicolo dell'autodifesa che Pelagio mi mandò per mezzo d'un certo Caro, nostro concittadino d'Ippona, ma diacono orientale, egli ha fatto qualcosa che sta diversamente da come si ha negli Atti episcopali. Ora, quello che hanno gli Atti è molto più utile, più sicuro e più esplicito per la verità cattolica contro la peste di quell'eresia. Infatti quando io lessi quel fascicolo, prima che arrivassero a noi gli Atti, ignoravo che non aveva riportato le stesse parole da lui usate in tribunale nel difendere se stesso. Ci sono poche parole diverse e non molto diverse, e di esse non mi curo troppo.

33. 57. Mal sopportavo invece che potesse destare l'impressione di riservarsi la difesa di alcune sentenze di Celestio che negli Atti risultavano chiaramente anatematizzate da lui 135. Infatti per alcune di esse smentì che fossero sue dicendo semplicemente che "per esse non doveva dare nessuna soddisfazione ", ma nello stesso fascicolo non le volle anatematizzare. Sono le seguenti: " Adamo fu creato mortale: sia che peccasse, sia che non peccasse, sarebbe morto. Il peccato di Adamo nocque a lui soltanto e non al genere umano. La Legge manda al regno dei cieli nella stessa maniera del Vangelo. I neonati si trovano nello stato in cui era Adamo prima della sua prevaricazione. Per la morte o per la prevaricazione di Adamo non muore tutto il genere umano, né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano. I bambini ricevono la vita eterna anche se non vengono battezzati. Ai ricchi dopo il battesimo, se non rinunziano a tutto, non giova a nulla il bene che sembra ad essi di fare e non avranno il regno dei cieli ". Alla contestazione di queste proposizioni ecco come risponde in quel fascicolo: "Queste asserzioni, secondo la stessa testimonianza di costoro, non sono state fatte da me e di esse non mi devo giustificare ". Negli Atti invece alle stesse imputazioni Pelagio reagì così: " Queste asserzioni, secondo la stessa testimonianza di costoro, non sono state fatte da me e di esse non mi devo giustificare, ma tuttavia per la soddisfazione del santo Sinodo anatematizzo coloro che ritengono o hanno già ritenuto così ". Perché dunque anche in quel fascicolo non è stato scritto in questa stessa maniera? Penso che a farlo non ci sarebbe voluto né molto inchiostro, né molta scrittura, né molto tempo, né molta carta. Ma chi non sarebbe indotto a pensare che sia stato fatto a bella posta perché quel fascicolo circolasse dappertutto come un riassunto di quegli Atti? Così si creava l'opinione che non era stata tolta ogni licenza di difendere quelle sentenze, perché esse erano state semplicemente contestate a Pelagio, ma non dimostrate sue, e non erano state tuttavia anatematizzate e condannate.

Subdolamente Pelagio ha nascosto la celebrazione del processo che lo aveva condannato.

33. 58. Successivamente nel medesimo fascicolo raccoglie dal libro di Celestio anche molte altre imputazioni, ma non le fa seguire una ad una dalle due risposte contenute negli Atti, con le quali anatematizzò le stesse imputazioni, ma fa seguire a tutte insieme una sola risposta. Sarei pronto a credere che l'abbia fatto per amore di brevità, se non avessi la sensazione che è di enorme interesse per quello che ci rende preoccupati. Ecco come chiude: " Ripeto che queste proposizioni, anche secondo la testimonianza di costoro, non sono mie. Per esse, come ho detto, io non devo nessuna giustificazione. Le proposizioni invece che ho riconosciute mie, affermo che hanno senso esatto. Quelle poi che ho detto non essere mie, le riprovo secondo il giudizio della santa Chiesa, dicendo anatema a chiunque contravvenga alle dottrine della Chiesa santa e cattolica, come pure a coloro che inventando delle falsità ci hanno calunniati ". Queste ultime parole non si trovano negli Atti, ma non interessano il problema che ci deve stare a cuore. Sia anatema senz'altro anche a coloro che inventando delle falsità li hanno calunniati. Ma quando io lessi per la prima volta: " Quelle poi che ho detto non essere mie le riprovo secondo il giudizio della santa Chiesa", non sapendo io che quel giudizio della Chiesa era già stato fatto, perché li è stato taciuto ed io non avevo letto gli Atti, non pensai altro se non questo: egli promette di ritenere nei riguardi di quelle imputazioni non quello che la Chiesa aveva già giudicato, ma quello che avrebbe giudicato in futuro, e di riprovare non quelle imputazioni che la Chiesa aveva già riprovate, ma quelle che avrebbe riprovate in futuro. In questo modo intendevo pure le parole da lui aggiunte: " Dicendo anatema a chiunque contravvenga o contraddica alle dottrine della santa Chiesa cattolica ". Al contrario, come attestano gli Atti, era già stato pronunziato su quelle imputazioni il giudizio ecclesiastico dai quattordici vescovi ed era secondo quel giudizio che Pelagio diceva di riprovarle tutte e di anatematizzare coloro che pensando in quella maniera contravvenivano al giudizio che gli Atti indicano come già emesso allora. I giudici infatti avevano già chiesto: " Che cosa dire, relativamente a queste imputazioni che sono state lette, il monaco Pelagio qui presente? Tutto questo riprova il santo Sinodo e la Chiesa di Dio, santa e cattolica ". Ora, quelli che ignorano i fatti e leggono questo fascicolo, possono pensare che qualcuna di quelle imputazioni si possa difendere lecitamente, dal momento che non era stata giudicata contraria alla dottrina cattolica e dal momento che Pelagio s'era dichiarato disposto a ritenere su tali punti non quello che la Chiesa aveva deciso, ma quello che avrebbe deciso. In quel fascicolo dunque, di cui ora parliamo, Pelagio non si esprime così da far riconoscere quello di cui fanno fede gli Atti, cioè che tutti quegli errori, con i quali la medesima eresia serpeggiava e cresceva con litigiosa audacia, erano stati condannati dal tribunale ecclesiastico sotto la presidenza dei quattordici vescovi. Se Pelagio ebbe paura di far conoscere la reale verità dei fatti, emendi se stesso, invece di prendersela con la nostra vigilanza, quale che sia e benché tardiva. Se invece è falso che egli abbia avuto paura e se il nostro è un sospetto che facciamo da uomini che siamo, ci perdoni. Comunque però gli errori che sono stati anatematizzati e riprovati nel processo dove egli fu assolto, li combatta per l'avvenire, perché mostrandosi indulgente con essi non dia l'impressione non solo d'averli creduti allora, ma di crederli tuttora.

Questo libro di Agostino deve dissipare gli equivoci.

34. 59. Ho voluto, perciò, scrivere alla tua venerazione questo libro, forse non inutilmente lungo in una causa tanto grave e tanto grande, precisamente con il desiderio che, se non dispiacerà ai tuoi sentimenti e con la tua autorità molto più efficace dell'affannarsi della nostra esiguità, venga a conoscenza di coloro ai quali lo stimerai necessario. Che esso giovi a reprimere le nullità e le litigiosità di quanti pensano che, con l'assoluzione di Pelagio, quegli errori abbiano avuto l'approvazione dei vescovi orientali, chiamati a giudicare. Invece queste eresie, che pullulano assai pericolosamente contro la fede cristiana e contro la grazia divina della nostra vocazione e giustificazione 136, sono state sempre condannate dalla verità cristiana. Inoltre sono state condannate dall'autorità di questi quattordici vescovi, i quali avrebbero insieme ad esse condannato anche Pelagio, se egli non le avesse anatematizzate. Adesso, dopo aver reso a Pelagio il debito della nostra carità fraterna, dopo aver sinceramente dimostrato la nostra preoccupazione su lui e per lui, dobbiamo vedere come si possa far capire brevemente che anche con l'assoluzione di Pelagio davanti agli uomini, com'essa è chiara, nondimeno l'eresia stessa, sempre condannabile dal giudizio divino, è stata condannata anche dal giudizio dei quattordici vescovi orientali.

I due punti essenziali della sentenza del Concilio.

35. 60. Ecco l'ultima sentenza di quel tribunale. Il Sinodo disse: " Poiché ora è stata data soddisfazione a noi con le spiegazioni del monaco Pelagio qui presente, il quale da una parte acconsente ai santi insegnamenti della Chiesa e dall'altra riprova e anatematizza le affermazioni contrarie alla fede della Chiesa, noi confessiamo che egli è nella comunione ecclesiastica e cattolica ". Due punti abbastanza chiari hanno messo insieme nella brevità della loro sentenza i santi vescovi giudici per quanto si riferiva al monaco Pelagio: il primo che " acconsente ai santi insegnamenti della Chiesa ", il secondo che " riprova e anatematizza le affermazioni contrarie alla fede della Chiesa ". Per questi due motivi Pelagio fu dichiarato " nella comunione ecclesiastica e cattolica ". Ricapitolando tutto brevemente, vediamo dunque da quali parole di Pelagio l'uno e l'altro motivo sia venuto alla luce in quel momento, per quanto quei giudici poterono giudicare su elementi manifesti sotto i loro occhi. Si dice infatti che tra gli errori che gli furono obiettati riprovò e anatematizzò come contrari alla fede quelli che non riconobbe suoi. Brevemente dunque riassumiamo così, se è possibile, tutta la vicenda di questa eresia.

Le tesi del pelagianesimo sulla grazia.

35. 61. Poiché era inevitabile l'avverarsi della profezia dell'apostolo Paolo: È necessario che avvengano eresie tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi 137, dopo le antiche eresie n'è stata suscitata anche recentemente una nuova, non da vescovi o da presbiteri o da chierici, ma da una sorta di monaci. Essa con il pretesto di difendere il libero arbitrio si oppone alla grazia di Dio, che ci viene per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore 138, e tenta di sovvertire il fondamento della fede cristiana in riferimento al quale è scritto: A causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti, e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita nel Cristo 139. Questa eresia nega nelle nostre azioni l'aiuto di Dio, dicendo che "a non peccare e ad adempiere la giustizia può bastare la natura umana creata con il libero arbitrio, poiché la natura è grazia di Dio. Infatti siamo stati creati tali che possiamo con la nostra volontà raggiungere questo scopo, e Dio ci ha dato l'aiuto della sua legge e dei suoi comandamenti e perdona i peccati passati a coloro che si convertono a lui". Secondo essa solo in questi benefici è da collocarsi la grazia di Dio, non nell'aiuto alle nostre singole azioni: " L'uomo infatti può essere senza peccato e può osservare facilmente i comandamenti di Dio, se vuole ".

Quello che i vescovi approvarono e quello che non approvarono.

35. 62. Poiché questa eresia aveva sedotto moltissimi e turbava i fratelli che non aveva sedotti, un certo Celestio che sosteneva tali errori fu condotto al tribunale della Chiesa di Cartagine e condannato da una sentenza di vescovi. Poi dopo alcuni anni, fu accusato della medesima eresia Pelagio che passava per maestro di Celestio, e finì anche lui davanti ad un tribunale episcopale. Gli furono contestate tutte le accuse che venivano mosse nel libello d'accusa presentato contro di lui dai vescovi galli Eros e Lazzaro, che erano assenti a causa della malattia d'uno di essi. Quattordici vescovi della provincia della Palestina ascoltarono le risposte di Pelagio su tutti i punti e secondo le sue risposte lo dichiararono immune dalla perversità di quest'eresia, condannando però l'eresia stessa senza nessuna esitazione. Approvarono infatti quanto egli rispondeva alle accuse: Che " l'uomo viene aiutato dalla conoscenza della legge a non peccare, com'è scritto: Egli ha dato la legge in loro aiuto 140 ". Non per questo tuttavia identificarono la medesima conoscenza della legge con la grazia di Dio, della quale è scritto: Chi mi libererà dal corpo di questa morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore 141. Che " tutti sono governati dalla propria volontà " Pelagio non l'affermò intendendo escludere il governo da parte di Dio. Infatti rispose: " L'ho detto per il libero arbitrio che Dio aiuta nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio ". Approvarono pure che " per gli iniqui e i peccatori non ci sarà misericordia nel giorno del giudizio, ma saranno puniti con fuochi eterni ", perché rispose che " l'aveva detto secondo il Vangelo dove è scritto: E se ne andranno questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna 142". Non aveva detto però che tutti i peccatori sono destinati al supplizio eterno, perché si sarebbe mostrato contrario all'Apostolo, il quale dice che alcuni saranno salvi quasi però attraverso il fuoco 143. In tanto approvarono che "il regno dei cieli è stato promesso anche nel Vecchio Testamento" in quanto Pelagio si riferiva al testo del profeta Daniele dove è scritto: I santi dell'Altissimo riceveranno il regno 144. Intesero che in questo caso egli chiamava Vecchio Testamento non solo il patto del monte Sinai, ma tutte le Scritture canoniche somministrate prima dell'avvento del Signore. Che "l'uomo può essere senza peccato, se vuole" non fu approvato nel senso in cui sembrava che l'avesse detto Pelagio nel suo libro, cioè come se il risultato fosse unicamente in potere dell'uomo mediante il libero arbitrio. (Proprio questo lo si accusava d'aver sostenuto dicendo: " Se vuole "). Ma fu approvato nel senso in cui Pelagio rispose in giudizio, anzi nel senso in cui ancora più brevemente ed esplicitamente si espressero i vescovi giudicanti interloquendo: l'uomo può essere senza peccato con l'aiuto di Dio e con la sua grazia. Ciò nonostante, non fu precisato quando i santi conseguiranno questa perfezione: se nel corpo di questa morte o se dopo che la morte sarà ingoiata per la vittoria 145.

Quattro accuse respinte da Pelagio.

35. 63. Anche alcune delle affermazioni dette o scritte da Celestio, che furono opposte a Pelagio come opinioni di quel suo discepolo, Pelagio le riconobbe come proprie, ma disse di averle intese diversamente da come gli venivano imputate. Tra esse c'era la proposizione: " Prima della venuta del Cristo alcuni vissero in santità e giustizia". Ma correva la voce che Celestio avesse detto: "Furono senza peccato". Fu pure obiettato che Celestio avesse detto: "La Chiesa è senza macchia e senza ruga". Pelagio però rispose parlando di se stesso che " l'aveva detto, sì, ma perché la Chiesa viene mondata da ogni macchia e ruga per mezzo del battesimo e il Signore vuole che essa rimanga così". Fu obiettata parimente la proposizione di Celestio: "Noi facciamo più di quanto è comandato nella Legge e nel Vangelo". Ma Pelagio rispose di se stesso che "l'aveva detto nei riguardi della verginità, rispetto alla quale Paolo scrive: Non ho alcun comandamento dal Signore 146". Similmente fu obiettato che Celestio avesse detto: "Ogni uomo può avere tutte le virtù e le grazie eliminando così la diversità delle grazie che insegna l'Apostolo ". Ma Pelagio rispose: " Io non elimino la diversità delle grazie, ma dico che Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle, come le donò all'apostolo Paolo ".

Il Concilio ha approvato Pelagio, non Celestio.

35. 64. Queste quattro sentenze presentate sotto il nome di Celestio non furono approvate dal vescovi giudicanti nel senso che si diceva attribuito ad esse da Celestio, ma nel senso in cui rispose su di esse Pelagio. Videro infatti i giudici che altro è vivere senza peccato, altro è vivere in santità e giustizia, come la Scrittura attesta che vissero alcuni anche prima della venuta del Cristo. E sebbene presentemente la Chiesa non sia senza macchia e ruga, tuttavia per un verso il lavacro della rigenerazione la monda da ogni macchia e ruga, e per l'altro verso il Signore vuole che essa rimanga così. E di fatto rimarrà così, perché regnerà nella felicità eterna certamente senza sorta di macchie e di rughe. La verginità perpetua che non è di precetto vale senza dubbio più della castità coniugale che è di precetto, benché la verginità perseveri in molti che non sono tuttavia senza peccato. L'apostolo Paolo ebbe tutte quelle grazie che egli ricorda in blocco in un suo testo. Tuttavia che egli sia stato " degno " di riceverle lo poterono intendere i giudici in qualche buon modo, pensando forse non ai suoi meriti ma piuttosto alla predestinazione, poiché egli stesso dichiara: Non sono degno, oppure: Non sono adatto ad essere chiamato apostolo 147. Ovvero quella parola " degno " sfuggì all'avvertenza dei giudici, e Pelagio stesso se la veda con quale mai intenzione l'abbia usata. Questi sono i punti nei quali i vescovi dichiararono che Pelagio era d'accordo con le sante dottrine della Chiesa.

Le tesi del pelagianesimo condannate da Pelagio e dal Concilio.

35. 65. Adesso ricapitolando alla stessa maniera vediamo un poco più attentamente le proposizioni che, a detta dei giudici, Pelagio riprovava e anatematizzava come contrarie alla fede della Chiesa. In esse sta principalmente tutta quest'eresia. Mettiamo da parte le affermazioni che si dicono messe da Pelagio nei suoi libri in adulazione di non so quale vedova. A loro riguardo egli rispose che " né erano nei suoi libri, né aveva mai detto cose simili ", e anatematizzò invece " non come eretici, ma come stolti coloro che la pensano in quel modo ". Queste invece sono le spine di quella eresia che con dolore vediamo diventare quotidianamente più rigogliosa e anzi già una boscaglia: " Adamo fu fatto mortale: sia che peccasse, sia che non peccasse, era destinato a morire. Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano. La Legge porta al regno così come il Vangelo. I neonati sono nello stato in cui era Adamo prima della sua prevaricazione. Né per la morte o per la prevaricazione di Adamo muore tutto il genere umano, né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano. I bambini hanno la vita eterna, anche se non si battezzano. Ai ricchi dopo il battesimo, se non rinunziano a tutte le loro ricchezze, non viene accreditato il bene che sia sembrato ad essi di fare e non possono avere il regno di Dio. La grazia di Dio e il suo aiuto non si dà per le nostre singole azioni, ma consiste nel libero arbitrio, nella legge e nella dottrina. La grazia di Dio si dà secondo i meriti e perciò la grazia stessa è riposta nella volontà dell'uomo, degno o indegno che sia. Non si possono chiamare figli di Dio se non coloro che sono diventati tali da essere assolutamente senza peccato. La dimenticanza e l'ignoranza non soggiacciono al peccato, perché non provengono da volontà, ma da necessità. Non è libero l'arbitrio, se esso ha bisogno dell'aiuto di Dio, perché ciascuno ha, per fare o non fare un'azione, la propria volontà. La nostra vittoria non proviene dall'aiuto di Dio, bensì dal libero arbitrio. Dall'affermazione di Pietro che noi siamo partecipi della natura divina 148 deriva conseguentemente che la nostra anima può essere senza peccato alla stessa maniera di Dio ". Quest'ultima frase io stesso ho letto nell'undicesimo capitolo di un libro che veramente non porta l'indicazione del proprio autore, ma passa per un libro di Celestio, espressa con queste parole: " Come potrebbe una persona esser diventata partecipe di una sostanza ed esser dichiarata estranea allo stato e al potere di quella sostanza? ". Perciò i nostri fratelli che opposero questi punti intesero come se egli avesse detto che l'anima e Dio sono della stessa natura e che l'anima è una parte di Dio: così infatti interpretarono il suo pensiero che l'anima ha in comune con Dio lo stato e il potere. Nell'ultima contestazione si legge poi: " Ai penitenti non si concede il perdono secondo la grazia e la misericordia di Dio, ma secondo il merito e la fatica dei penitenti, i quali mediante la penitenza sono diventati degni di misericordia ". Pelagio che negò come suoi e anatematizzò tutti questi errori e le eventuali argomentazioni con cui furono difesi, fu approvato dai giudici, i quali perciò sentenziarono che egli riprovandoli e anatematizzandoli aveva condannato errori contrari alla fede della Chiesa. Pertanto, in qualunque modo li abbia esposti o non esposti Celestio, in qualunque, modo li abbia condivisi o non condivisi Pelagio, per il fatto che errori così gravi di un'eresia così nuova siano stati condannati da quel tribunale ecclesiastico noi dobbiamo gioire e rendere grazie a Dio ed elevargli inni di lode.

Agostino deplora le violenze perpetrate da parte pelagiana.

35. 66. Si racconta che dopo questo processo gravi crimini furono commessi in Palestina con incredibile audacia da parte di non so quale crocchio di uomini sfrenati, che si fanno passare per partigiani di Pelagio e lo spalleggiano in maniera assai perversa. Accadde che i servi e le serve di Dio addetti alle cure del santo presbitero Girolamo furono vittime di uno scelleratissimo assalto, un diacono rimase ucciso, e edifici di monasteri furono incendiati. A mala pena lo stesso Girolamo per la misericordia di Dio fu protetto contro questa violenta incursione di gente empia da una torre meglio difesa delle altre. Preferisco non parlare di questi fatti e aspettare che cosa decidano di fare in relazione a così grandi mali i nostri fratelli che sono vescovi del luogo 149. Chi potrebbe credere che di fronte a tali fatti possano tirarsi indietro? Certamente gli empi dogmi di uomini di tal sorta devono essere riprovati da tutti i cattolici, anche se stanno molto lontani da quelle terre, perché non possano nuocere dove possono arrivare; invece le azioni empie, la cui coercizione spetta alla disciplina episcopale, si devono colpire nel medesimo luogo dove si commettono, con pastorale puntualità e con santa severità, soprattutto dai vescovi locali o da quelli vicini 150. Noi pertanto, posti a così grande distanza, dobbiamo augurare che a tali fatti si ponga fine lì sul luogo in tal modo che non ci sia più bisogno di sottoporli ad ulteriore giudizio in nessun altro posto, e a noi non rimanga altro che far conoscere questo provvedimento. In tal modo gli animi di tutti coloro che sono stati gravemente feriti dalla fama di quelle scelleratezze, che sta volando dappertutto, saranno risanati dalla misericordia soccorritrice di Dio. Poniamo qui termine al presente libro, il quale, se meriterà, come spero, d'incontrare il gradimento del tuo animo, sarà utile ai lettori con l'aiuto del Signore, raccomandato ad essi più dal tuo che dal mio nome, e sarà conosciuto da moltissime persone per mezzo della tua premura.


Note:


 

1 - Is 8, 20 (sec. LXX).

2 - Rm 7, 25.

3 - Sir 19, 16.

4 - Sal 27, 9.

5 - Mc 6, 34.

6 - Rm 8, 14.

7 - Sal 58, 11.

8 - Sap 7, 1.

9 - Sap 7, 6-7.

10 - 1 Cor 2, 16.

11 - Rm 8, 14.

12 - Sal 108, 17.

13 - Sir 15, 17-18.

14 - Cf. AUG., De nat. et gr. 48, 56.

15 - Rm 8, 28-29.

16 - Rm 9, 22-23.

17 - Sal 58, 11.

18 - Sal 58, 12.

19 - Rm 1, 24.

20 - Sal 139, 9.

21 - Sir 23, 6.

22 - Cf. 1 Cor 3, 11-12.

23 - 1 Cor 3, 15.

24 - Mt 25, 46.

25 - 1 Cor 3, 15.

26 - Gc 2, 13.

27 - Lc 13, 25-26.

28 - Lc 13, 27.

29 - Cf. Lc 19, 27.

30 - Cf. Mt 25, 31-46.

31 - Cf. Lc 19, 22-24.

32 - Cf. Mt 22, 11-13.

33 - Cf. Mt 25, 10-12.

34 - Mt 22, 14.

35 - Prv 20, 9.

36 - 1 Cor 13, 5.

37 - Dn 7, 18.

38 - Gal 4, 21-22. 24-26.

39 - Gn 21, 10.

40 - Ger 31, 31-32.

41 - Dn 7, 18.

42 - 2 Cor 3, 6.

43 - Cf. Gal 4, 23.

44 - Rm 9, 8.

45 - Cf. Gal 4, 26.

46 - Cf. Sir 19, 16; Gc 3, 2.

47 - Rm 7, 24-25.

48 - Cf. Mt 6, 13.

49 - Gal 2, 21.

50 - Cf. 2 Cor 3, 6.

51 - Rm 7, 7-8.

52 - Rm 7, 12-13.

53 - Rm 7, 14-16.

54 - Cf. Rm 7, 23.

55 - Rm 7, 24-25.

56 - Rm 7, 24-25.

57 - Rm 7, 18.

58 - Rm 7, 18.

59 - Rm 7, 7.

60 - Rm 7, 15. 18.

61 - Rm 7, 24.

62 - Rm 7, 24-25.

63 - Cf. ILARIo, Ep. 156 (fra le agostin.): NBA 22, 580.

64 - Cf. De gr. Chr. et de p. o. 2, 11, 12 ss.

65 - Cf. CIPRIANo, Ep. ad Fid.

66 - 1 Gv 1, 8.

67 - Mt 6, 12.

68 - Cf. Breviculus collationis cum Donatistis.

69 - 1 Gv 1, 8.

70 - Mt 6, 12.

71 - Mt 6, 12.

72 - 1 Cor 7, 25.

73 - 1 Cor 7, 7.

74 - Mt 19, 10-11.

75 - Cf. AUG., Contra Iul. 3, 21, 48; Opus imp. c. Iul. 1, 133-135; 2, 166.

76 - PELAGIO, De natura.

77 - Cf. Mt 6, 13.

78 - Cf. Fil 1, 19.

79 - Mt 10, 19-20.

80 - Sal 118, 133.

81 - 1 Cor 12, 28.

82 - 1 Tm 4, 1.

83 - 1 Tm 2, 7.

84 - Cf. At 28, 3; 14, 10.

85 - 1 Cor 14, 18.

86 - 1 Cor 12, 17.

87 - Cf. Col 1, 18.

88 - Rm 11, 6.

89 - Rm 4, 4.

90 - Gal 5, 6.

91 - Rm 14, 23.

92 - Ct 4, 8 (sec. LXX).

93 - Cf. Sal 58, 11.

94 - Sal 99, 3.

95 - Rm 12, 3.

96 - 1 Cor 4, 7.

97 - 2 Tm 4, 7-8.

98 - 2 Tm 4, 7.

99 - 1 Cor 15, 57.

100 - Rm 9, 16.

101 - 2 Tm 1, 12.

102 - Lc 22, 32.

103 - Cf. 1 Cor 1, 31.

104 - 1 Cor 15, 9.

105 - 1 Cor 15, 9.

106 - 1 Cor 15, 10.

107 - 1 Cor 15, 10.

108 - 2 Cor 6, 1.

109 - 1 Cor 15, 10.

110 - 1 Cor 15, 10.

111 - Cf. Orosio, Liber apologeticus 3, 6-4, 1.

112 - 1 Cor 15, 10.

113 - Rm 9, 16.

114 - Sal 126, 1.

115 - Rm 9, 16.

116 - Cf. M. MERCATOR, Common. adv. haer. Petagii et Cael.

117 - Cf. Orosio, Liber apologeticus 6, 1.

118 - 1 Cor 15, 9-10.

119 - Fil 3, 12.

120 - Sal 24, 7.

121 - Cf. Lv 4, 2-3. 13-14. 22-23. 27-28.

122 - 2 Pt 1, 4.

123 - Cf. Ep. 168: NBA 22, 782 s.

124 - Sal 106, 20.

125 - 1 Tm 2, 4.

126 - Rm 9, 16.

127 - Ilario, Ep. 156 (tra le agostin.) e AUG., Ep. 157: NBA 22, 580-637.

128 - 1 Cor 15, 10.

129 - Cf. Ef 3, 19.

130 - Cf. Gal 5, 17.

131 - Mt 6, 12.

132 - 1 Gv 3, 2.

133 - Rm 7, 23.

134 - 1 Cor 15, 55.

135 - Cf. AUG., Contra Iulianum 1, 5. 19.

136 - Cf. Rm 8, 30.

137 - 1 Cor 11, 19.

138 - Rm 7, 25.

139 - 1 Cor 15, 21.

140 - Is 8, 20.

141 - Rm 7, 24-25.

142 - Mt 25, 46.

143 - 1 Cor 3, 15.

144 - Dn 7, 18.

145 - Cf. 1 Cor 15, 54.

146 - 1 Cor 7, 25.

147 - 1 Cor 15, 9.

148 - 2 Pt 1, 4.

149 - Cf. EP. Innocentii ad Gv. Hierosolymitanum 43: Ep. Innocentii ad Hieronymum: 42

150 - Cf. Ep. tertia Innocentii ad episcopos quintos 41: cf. Ep. 183 (tra le agostin.): NBA 22, 922-927.