La Storia d'Italia
San Giovanni Bosco
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Eccovi, o giovanetti, una nuova edizione della Storia d'Italia scritta dal Sacerdote GIOVANNI BOSCO. Il desiderio di porvi tra le mani un libro che alla verità storica accopii la sana morale, la rettitudine dei giudizii e la purita della lingua mi ha consigliato ab impiendere questo lavoro. Affinchè poi fin da principio conosciate che tutte queste doti trovansi riunite nella presente Opera, ho creduto non inopportuno il farvi precedere i giudizii pubblicati da alcuni periodici e da un celebre scrittore italiano; ciascuno dei quali per, la parte sua {3 [3]} gode meritamente la estimazione delle, persone colte.
Vi auguro che la lettura di questo libro possa produrre in voi que’ salutari effetti che mossero l’ autore, a compierlo con giande, sua fatica, e me a pubblicarlo.
Vivete felici.
L’EDITORE
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Giudizi pubblicati dalla Civiltà Cattolica
Il nome dell' egregio Sac. D. Bosco è oggimai un' arra più che sufficiente della bontà de'suoi scritti improntati tutti di zelo e diretti alla coltura della gioventù, al bene di cui da tanti anni lavora con lodevolissima fatica. Questa sua Storia d'Italia in particolare merita elogio per la rara discrezione con cui fu scritta, in maniera che nell' angusto spazio di 558 pagine in 16° vi si raccolgono con diligenza tutti i principali avvenimenti della patria nostra. Noi pertanto facciam voti, perchè, dato bando a tante storie d'Italia scritte con leggerezza od anche con perverso fine, questa del Bosco corra per le mani dei giovani, che s'iniziano allo studio delle vicende della nobilissima Penisola.
(Anno VIII, serie III, vol. V, pag 482).
In un tempo come il nostro, nel quale della menzogna storica si fa un manicaretto per avvelenare le menti giovanili, molto importa rendere note le opere che nell'educazione della gioventù possono servire d'antidoto alle predette corruttele. E che tale sia questo veramente egregio libro del chiarissimo D. Bosco non ci bisogna di provarlo alla lunga. Altrove parlando di questa storia indicammo i meriti particolari che in sè contiene, e che sono di assai cresciuti nella nuova edizione che annunziamo.
Per lo scopo che l'autore si propone, che è d'insegnare la storia patria ai giovanetti Italiani con facilità, con brevità, {5 [5]} con chiarezza, noi non esitiamo ad affermare che il libro nel suo genere non ha forse pari in Italia. E composto con grande accuratezza e con una pienezza rara a trovarsi nei compendii. Tutto il lavoro è diviso in quattro epoche, la prima delle quali incomincia dai primi abitatori della penisola, e l'ultima giunge sino alla guerra del 1859. Un confronto dei nomi geografici dell'Italia vetusta coi nomi moderni chiude il libro a maniera di appendice. Sotto la penna dell'ottimo D. Bosco la storia non si tramuta in pretesto di bandire idee di una politica subdola o principii di una ipocrita libertà come pur troppo avviene di certi altri compilatori di Epiloghi, di Sommarii, di Compendii che corrono l'Italia e brulicano ancora per molte scuole godenti riputazione di buone. Alla veracità dei fatti, alla copia della materia, alla nitidezza dello stile, alla simmetria dell'ordine, l'autore accoppia una sanità perfetta di dottrine e di massime, vuoi morali, vuoi religiose, vuoi politiche. E questa è la qualità che ci sprona a raccomandare caldamente questo libro a quei padri di famiglia, a quei maestri, a quegli istitutori che desiderano di avere figliuoli e discepoli eruditi nella germana istoria patria, ma non dalla falsa storia patria attossicati.
Convien pur dirlo, giacchè è per nostra grande sciagura troppo vero. Quella colluvie di scritti elementari e pedagogici che ora allaga la nostra penisola, è per la massima parte appestata dagli errori moderni contro il Papato, contro la Chiesa, contro il clero, contro l'autorità divina ed umana. La diabolica congiura dei figliuoli delle tenebre contro la Luce eterna opera indefessamente a guastare fino dal seme le tenere anime dei giovanetti. Quindi noi stimiamo di fare un atto di amicizia suggerendo ai cattolici nostri lettori un libro elementare il quale nè procede da un congiurato contro la verità, nè ha le magagne che corrompono ai dì nostri le menti inesperte.
(Anno XIII; serie V, voi. III, pag. 474).
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Pensieri di N. Tommaseo su questa storia
Noi abbiamo accolto con le meritate lodi la bella e sugosa Storia d'Italia raccontata alla gioventù dal sac. G. Bosco, e con noi altri periodici fecero plauso a questa operetta, che è di grandissimo vantaggio alla gioventù per guarentirla dalla congiura permanente contro la verità, che è divenuta la storia da tre secoli in qua. Ma perchè forse taluni potrebbero sospettare che quèl nostro giudizio favorevole sia stato, se non dettato per intiero, almeno abbellito dallo spirito di parte, ci pare opportuno il recare qui il dettone da tale, cui non si potrà fare certamente il detto appunto. È questi NICCOLÒ TOMMASEO di cui troviamo nell'Istitutore il seguente articolo sulla storia del sig. D. Bosco.
«Se i libri giudicassersi dall'utilità che recano veramente, se ne avrebbe una misura più giusta di quella che sogliono i letterati adoperare, e correggerebbersi, o almeno si tempererebbero molte loro sentenze peccanti o di servile ammirazione o di disprezzo tiranno. Ecco un libro modesto che gli eruditi di mestiere e gli storici severi degnerebbero forse appena di uno sguardo, ma che può nelle scuole adempire gli uffizi della storia meglio assai di certe opere celebrate. A far libri in uso della gioventù, certamente l' esperienza dell'insegnare non basta, ma è grande aiuto, e compisce le altre doti a questo diffìcile ministero richieste. Difficile segnatamente là dove trattasi di compendii, i quali devono essere opere intiere nel genere loro, non smozzicare i concetti, nè offrirne lo scheletro arido. {7 [7]}
L'abate Bosco in un volume non grave presenta la storia tutta d'Italia ne' suoi fatti più memorandi, sa sceglierli, sa circondarli di luce assai viva. Ai Piemontesi suoi non tralascia di porre innanzi quelle memorie che riguardano più in particolare il Piemonte, e insegna a fare il simile agli altri maestri, cioè le cose men note e più lontane illustrare con le più note e più prossime.
S'intende dunque che ciascun insegnante deve all'uso proprio e de' suoi discepoli saper rifare almeno in parte i libri scolastici, per ben fatti che siano; deve le narrazioni, per vivaci che siano nel libro, saper nella scuola animare di colori novelli e applicare e la storia e ogni altro ammaestramento a ciascheduno de'suoi allievi per quanto si può.
In tanta moltitudine di cose da dire, l'abate Bosco serba l'ordine e la chiarezza, che diffondendosi da una mente serena insinuano negli animi giovanili gradita serenità. Giova a chiarezza, secondo me, anche il raccogliere in un capitolo distinto le considerazioni generali sopra la religione e le istituzioni dei popoli, e le consuetudini e gli usi. Questo è stato ripreso in alcuni storici del secolo andato: e richiedeasi che tali notizie fossero a luogo a luogo infuse nella narrazione stessa e le dessero movimento e pienezza di vita.
Io non dico che ogni osservazione generale debbasi dalla esposizione dei fatti dividere, che sarebbe un rendere e l'una e l'altra parte imperfetta: ma dico che anco gli storici antichi, maestri imitabili in ciò, o premettevano o inframettevano ai fatti la commemorazione sommaria dei costumi: e dico che, specialmente nei libri a uso della gioventù, questa cura è sussidio alla memoria insieme e all'intelligenza. Nè a proposito di tale o tal caso è possibile indicare con la debita evidenza tutto quello che spetta all'indole costante dei popoli, senza che ricorra tediosa necessità di ripetere ogni tratto i medesimi accenni.
Io non vi dirò che l'autore non potesse talvolta approfittare maggiormente delle notizie storiche che la scienza moderna ha accertate studiando meglio le fonti: ma mi corre obbligo di soggiungere che non poche delle troppo esaltate scoperte della critica moderna rimangono tuttavia indubitabili anch' esse e versano assai volte sopra circostanze non essenziali all' intima verità della storia, e soggiungere che {8 [8]} i giudizi dell' autore mi paiono conformi insieme a civiltà vera e a sicura moralità. Nel colloquio famigliare che, raccontando, egli tiene co'suoi giovanetti, saviamente riguarda le cose pubbliche dal lato della morale privata, più accessibile a tutti e più direttamente proficua.
Il voler fare dei fanciulli altrettanti uomini di Stato, e insegnar loro a sentenziare sopra le sorti degli imperi, e le cagioni che diedero vinta a tale o a tal altro capitano una campale battaglia, è pedanteria non sempre innocente. Perchè avvezza le menti inesperte a giudicare dietro alla parola altrui cose che non possono intendere; perchè a questo modo dà loro una falsa coscienza; perchè non le addestra a modestamente applicare i documenti della storia alla pratica della comune vita. Noi vediamo all'incontro i grandi storici, i grandi poeti antichi compiacersi a ritrarre sotto le insegne e quasi sotto la maschera dell'uomo pubblico l'uomo privato; e giudicare nel cittadino e nel principe il padre, il figliuolo, il fratello. Quindi insieme con la sapienza e con l' utilità, la maggior bellezza delle opere storiche e poetiche degli antichi. Non pochi dei moderni in quella vece, nella storia e nella poesia stessa propongono a sè un assunto da dover dimostrare e quello proseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli effetti; dando sempre a vedere se stessi e la propria fissazione, nei più diversi aspetti del loro argomento ostinandosi a farne sempre apparire il medesimo lato, e sotto forme differenti ripetendo a sazietà la medesima cosa; non narratori, nè dipintori, ma declamatori importuni. E non si accorgono che la storia e tutta la natura, è quasi una grande parabola agli uomini proposta da Dio; della quale voler fare una applicazione unica, isterilisce la fecondità inesausta del vero, ammiserisce il concetto divino.»
(Estratto dall' Armonia 1859, anno XII, N. 219).
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Scopo e divisione di questa storia
Egli è un fatto universalmente ammesso che i libri devono essere adattati all' intelligenza di coloro, a cui si parla, in quella guisa che il cibo deve essere acconcio alla complessione degli individui. Giusta questo principio io divisai di raccontare la Storia d'Italia alla gioventù, seguendo nella materia, nella dicitura e nella mole del volume le stesse regole già da me praticate per altri libri al medesimo scopo destinati.
Attenendomi pertanto ai fatti certi, più fecondi di moralità e di utili ammaestramenti, tralascio le cose incerte, le frivole congetture, le troppo frequenti citazioni di autori, come pure le troppo elevate discussioni politiche, le quali cose tornano inutili e talvolta dannose alla gioventù. Posso nondimeno accertare il lettore, che non iscrissi un periodo senza confrontarlo cogli autori più accreditati, e, per quanto mi fu possibile, contemporanei o almeno vicini al tempo cui si riferiscono gli avvenimenti. Neppure risparmiai fatica nel leggere i moderni scrittori delle cose d'Italia, ricavando da ciascuno quello che parve convenisse al mio intento.
Questa storia è divisa in quattro epoche particolari. La prima comincia da' più antichi abitatori d'Italia e si stende fino al principio dell' Era Volgare, quando tutto il Romano impero passò nella dominazione di Augusto. Questa epoca ho io denominata Italia antica o pagana. {11 [11]}
La seconda dal principio dell'Era volgare va sino alla caduta del Romano impero in Occidente nel 476; ed io la chiamai Italia cristiana, perchè appunto in quello spazio di tempo il cristianesimo fu propagato e stabilito in tutta l'Italia.
La terza dalla caduta del Romano impero in Occidente si estende fino alla scoperta dell'America fatta da Cristoforo Colombo nell'anno 1492, e si suole appellare Storia del Medio Evo.
La quarta abbraccia il resto della Storia sino ai nostri tempi, e comunemente appellasi Storia Moderna.
Ho fatto quel che ho potuto perchè il mio lavoro tornasse utile a quella porzione dell'umana società, che forma la speranza di un lieto avvenire, la gioventù. Esporre la verità storica, insinuare l'amore alla virtù, la fuga del vizio, il rispetto all'autorità ed alla religione fu intendimento finale di ogni pagina.
Affinchè poi tornasse profittevole ad un maggior numero di persone e specialmente alla studiosa gioventù, questa ultima nuovissima edizione fu accomodata ai programmi di storia destinati dal Ministero sopra la pubblica istruzione per l'esame di Licenza, ed anche per quello dei maestri e pegli allievi delle classi elementari e delle scuole tecniche.
Fu aggiunto un confronto de' nomi geografici dell'Italia antica coi nomi moderni.
Le buone accoglienze fatte dal pubblico alla Storia Sacra alla Storia Ecclesiastica e ad altre mie operette, e specialmente alle molte precedenti edizioni di questa Storia, mi fanno eziandio sperar bene della presente novella ristampa. Se riuscirà di qualche vantaggio, se ne renda gloria al Dator di tutti i beni, al quale io intendo di consacrare queste mie tenui fatiche. {12 [12]}
EPOCA PRIMA. L'ITALIA PAGANA. Dai primi abitatori d'Italia fino al principio dell'Era volgare
I. Geografia dell'Italia antica.
Allora che, miei cari giovani, leggeste la Storia Sacra, avrete senza dubbio notato come i prodi Maccabei centosessanta anni circa prima della venuta del Salvatore mandarono ambasciadori a Roma per fare alleanza coi Romani già divenuti padroni di tutta l'Italia[1]. È questa la prima volta che nei Libri santi si parla chiaramente dei nostri paesi, sebbene fossero già lungo tempo innanzi abitati.
Io credo che non vi sia paese del nostro più fecondo di avvenimenti e più ricco di uomini illustri per coraggio e per ingegno; perciò io giudico di farvi cosa piacevole narrandovi distintamente i fatti più luminosi che nei passati tempi in questi paesi avvennero. Ma prima di cominciare i racconti e nominarvi i personaggi celebri, i quali ci precedettero, sarebbe necessario che imparaste a conoscere in una carta geografica i fiumi principali, le catene delle montagne, le città più importanti di questo paese, a fine di poter essere in grado di meglio comprendere i molti fatti di cui l'Italia fu campo glorioso.
I monti d'Italia sono le Alpi e gli Apennini. {13 [13]}
Si è dato il nome di Alpi a quella catena di montagne che, cominciando da Nizza, corrono verso settentrione sino al lago di Ginevra, quindi piegandosi a levante si stendono fino al mare Adriatico, e quasi baluardo naturale separano l'Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall'Allemagna.
In quella parte delle Alpi, che sovrasta al Piemonte, sorge il Monviso. Ivi ha sorgente il fiume che in antico denominavasi dai Latini Padus, dai Greci Eridano, da noi chiamasi Po, e dai poeti re dei fiumi, perchè maggiore di tutti gli altri fiumi d'Italia. Questo nel suo corso passa presso Torino, serpeggia nel Piemonte, attraversa la Lombardia, le contrade di Parma, di Modena, di Ferrara; e mette nel mare Adriatico vicino alla città di Venezia.
Parecchi fiumi concorrono ad ingrossare la corrente del Po, tra cui alla sinistra la Dora Ripari a, che nasce alle falde del Monginevra e si congiunge al Po presso Torino; la Dora Maggiore ossia Baltea, che scende da quel tratto delle Alpi detto piccolo s. Bernardo, e si scarica nel Po nelle vicinanze di Crescentino; il Ticino a poca distanza da Pavia una volta capitale del regno dei Longobardi; l'Adda e il Mincio principali fiumi della Lombardia vanno ad ingrossare le acque del Po. Alla destra il Tanaro e la Trebbia sono i principali suoi influenti.
Fra Nizza e Savona, quasi dove cominciano le Alpi, sorge un'altra giogaia di monti detti Apennini. Staccandosi essi dalle Alpi segnano come un semicircolo intorno a Genova, capitale degli antichi Liguri, poi sotto a Bologna si piegano verso mezzodì attraversando e dividendo l'Italia fino all'estremo confine delle provincie Napolitano.
Molti fiumi traggono la sorgente dagli Apennini. Il Rubicone nasce dalle parti orientali di questi monti e scorrendo tra Cesena e Rimini va a scaricarsi nell' Adriatico. Sulle medesime vette degli Appennini d' Etruria, ma un po' più a mezzodì, trae la sorgente il gran fiume Tevere, il quale passa nel mezzo di Roma e va a scaricare le sue acque nel mare di Toscana vicino al porto d'Ostia.
Il primo tratto d'Italia che da Nizza si prolunga sino a Spezia è bagnato al mezzodì da quella parte del Mediterraneo che comunemente si appella golfo o mare ligustico. Il secondo tratto che da Spezia si piega verso mezzodì quasi {14 [14]} gamba umana, è bagnato a ponente dal mar Tirreno, a meazodì dal Mediterraneo, a levante dal Ionio e dal mare Adriatico.
Per chiarezza della storia sarà bene altresì di ricordarvi che anticamente questa nostra Italia fu appellata con vari nomi. Fu detta Saturnia da Saturno, che le memorie antiche ci danno per primo legislatore dei nostri paesi, e che visse circa mille e dugento anni prima della venuta di Cristo. Fu di poi nominata Enotria dagli Enotri, antichi abitanti d' una parte d'Italia. Esperia ovvero occidentale dai Greci, perchè appunto ha questa posizione rispetto alla Grecia. Talora vien nominata Tirrenia dai Tirreni, che sono forse i più antichi abitatori d'Italia, di cui ci sia rimasta memoria.
La parte più meridionale, che corrisponde alle provincie Napoletane, fu appellata Ausonia e talora Magna Grecia dagli Ausoni, popoli della Grecia, i quali vennero ivi a stabilire la loro dimora. Gallia Cisalpina fu per qualche tempo nominata la parte compresa tra la catena delle Alpi e la Toscana fino a Venezia. Ebbe questo nome dai Galli, antichi invasori del nostro paese, dei quali avrò più cose da raccontarvi.
Ma il nome che a tutti prevalse fu quello d'Italia, nome che gli eruditi fanno derivare da Italo re dell'Enotria, oggidì Calabria; il quale, avendo grandemente promosso la civiltà nelle nostre contrade, meritò che fosse col suo nome appellato tutto quel paese che oggidì si nomina Italia.
Premessa la cognizione di questi nomi, miei cari amici, voi potete mettervi a leggere la Storia d'Italia. Tuttavia potendovi occorrere nomi di città o di paesi da voi non ancora conosciuti, o ai nostri tempi altrimenti nominati, ho pensato di togliervi cotesta difficoltà col darvi in fine di questo libro una più ampia descrizione dell'Italia ed un piccolo dizionario corredato di una carta geografica, mercè cui voi potrete con un semplice colpo d'occhio confrontare i nomi antichi coi moderni. {15 [15]}
II. Etnografia, ovvero dei primi abitatori d'Italia. (dall'uno 2000 al 900 avanti Cristo).
Molti anni erano già trascorsi dopo il diluvio, e niun popolo ancora era venuto nel fertile paese, nell'ameno clima dell'Italia. Laonde i fiumi si versavano qua e colà senza alcun letto regolare; le colline e le montagne erano ingombre da folte selve, da oscure foreste; la superficie delle valli e delle pianure era coperta da acque stagnanti, da paludi e da fanghiglia. Non prati, non campi, non giardini o vigne. Niuna città, niun borgo o villaggio; in nissuna parte udivasi suono di voci umane. Quando un popolo discendente da Tiras, figlio di Giafetto, venne a stabilirsi in quelle regioni dell'antica Italia, ove oggidì presso a poco trovasi la Toscana, che perciò anticamente era detta Tirrenia. Da Tiras fu appellato Tirreno quel mare, che bagna le coste occidentali della Toscana. Ciò credesi avvenuto circa l' anno duemila prima del Salvatore.
Ora immaginatevi quante fatiche abbiano dovuto sostenere quei nostri antenati per rendere fruttifero il terreno. Colla massima premura gli uni si diedero a formare argini e rive a fine di far prendere ai fiumi un corso regolare; gli altri a scavar canali in mezzo alle paludi, perchè avessero libero scolo: altri a sradicare alberi e selve, acciocchè potessero utilmente seminar campi, piantare vigne, raccogliere frutti. Mentre costoro si occupavano con alacrità a coltivare le terre, molti altri si diedero a costruire case, donde cominciarono a sorgere borghi, villaggi e città.
Devo premettere con mio rincrescimento come le memorie spettanti quei primi abitatori dei nostri paesi andarono in grande parte perdute, e quelle che si conservarono vennero mischiate con molte favole. Soltanto si può sapere con qualche certezza che i Tirreni crebbero ben tosto in gran numero; perciò si divisero in tre popoli conosciuti dagli antichi sotto il nome di Taurini, Etruschi, ed Osci.
I Taurini, quasi provenienti dal Tauro, che è una lunga ed alta catena di montagne dell'Asia, andarono ad abitare {16 [16]} tra le Alpi ed il Po e da loro fu appellata Torino l'antica capitale del Piemonte. Etruschi furono detti quelli che restarono nel primiero loro paese. Gli Osci poi andarono ad abitare l'Italia meridionale. Sparsasi intanto la fama della bellezza e della fertilità dell'Italia, vennero a stabilirvisi successivamente altri popoli stranieri circa l'anno 1700 avanti Cristo.
I Pelasgi, così detti da Phaleg, quarto discendente dopo Noè, venuti in Italia presero diversi nomi, e si appellarono Ombri quelli che abitarono oltre l'Apennino. Da loro derivò il nome dell'Umbria ad una provincia dell' Italia centrale. Sabini si chiamarono quelli che abitarono le coste occidentali dell'Apennino verso la parte centrale dell' Italia. Siculi o Siciliani furono detti quelli che abitarono la parte meridionale dell' Italia. Una colonia di essi passò lo stretto siculo e andò a popolare quell'isola, che da loro fu detta Sicilia. Ceth nipote di Noè diede nome alla grande nazione dei Celti, che scesero ad abitare intorno all'Adriatico, nella Germania e nella Gallia, ora Francia, circa l'anno 1300 avanti Cristo.
Tutti questi popoli figli di un Dio Creatore, tutti discendenti dal comun padre Adamo, avrebbero dovuto amarsi come fratelli; ma non fu così. Fosse per ragione di commercio, fosse per gara di possesso, nacquero discordie e fin d'allora si cominciò a far guerra. I Tirreni degli altri meglio ammaestrati ordinavano i loro eserciti, e a suon di tromba li guidavano alla pugna in modo tale, che mettevano in fuga chiunque avesse osato assalirli, facendo così continue conquiste sopra i loro nemici per mare e per terra. La grande isola di Sardegna fu da essi conquistata. Dopo molto spargimento di sangue, ben conoscendosi che la guerra non apporta nessun vantaggio alle nazioni, gli Etruschi deposero le armi, e stretta alleanza coi loro vicini si diedero indefessamente a coltivare la terra, a costruire città, a far fiorire il commercio. Fondarono Veio, Mantova, e moltissime altre città tra di loro confederate ed amiche. Avevano un sistema di monete e di pesi; praticavano cerimonie religiose, avevano riti e sacerdoti. Lavoravano con maestria l'oro e l'argento in filigrana e col cesello. Eranvi tra di loro abilissimi scultori in marmo ed in bronzo. {17 [17]}
Dalle quali cose apparisce quanto quegli antichi Italiani fossero dati al lavoro, facendo consistere la loro prima gloria nel guadagnarsi il pane colle loro fatiche.
III. L' Idolatria. (Dal 900 al 752 avanti Cristo).
La religione, o giovani, è quel vincolo che stringe l'uomo col Creatore, quella che c'invita a riconoscerlo ed a servirlo. Gli uomini essendo tutti creati da un medesimo Dio, discendenti da un medesimo padre, in principio avevano tutti la medesima religione e praticavano le stesse cerimonie, gli stessi sacrifizi con un culto puro e scevro di errore.
Ma dopo il diluvio universale ben si può dire che la vera religione si conservò solamente tra'discendenti d'Abramo detti Ebrei. Le altre nazioni sparsesi a popolare le varie parti del mondo, di mano in mano che si allontanavano dal popolo Ebreo, confusero coi falsi dei l' idea di un Dio Creatore, e si diedero all'idolatria, cioè cominciarono a prestare alle creature quel culto, che a Dio solo è dovuto. Di cosiffatto errore erano eziandio miseramente imbevuti gli antichi abitatori d'Italia.
Conviene tuttavia notare che l' idolatria degli Italiani fu sempre meno mostruosa di quel che fosse presso alle altre nazioni; e parecchie istituzioni, almeno nella loro origine, parvero assai ragionevoli. Persuasi che tutto dovesse avere principio da un Essere Supremo consideravano Giano come il maggiore di tutti e Reggitore del mondo; e lo rappresentavano con due faccie per indicare che egli vedeva il passato e l'avvenire.
Come poi i Romani ebbero maggiori relazioni coi Greci, ne adottarono tutte le divinità. Giove era riconosciuto per padre degli Dei e degli uomini, e chiamato Giove Feretrio, Statore, Salvatore, secondochè a quella buona gente pareva di aver da lui ricevuto questo o quell'altro beneficio.
Giunone sposa di Giove era la Dea sovrana ed universale, {18 [18]} cui davasi talvolta il nome di Giunone Sospita o Salvatrice, di Moneta o Consigliera.
Nettuno presiedeva al mare, Cerere all'agricoltura, Vulcano al fuoco, Marte alla guerra, Diana alla caccia, Minerva alle scienze, Apollo alla poesia ed alla musica. Che più? La Pudicizia, la Gioventù, la Virtù, la Pietà, la Mente, l'Onore, la Concordia, la Speranza, la Vittoria erano altrettante divinità cui s'innalzavano templi ed altari.
Credo che voi di leggieri scorgerete ove stesse l' errore riguardo a queste divinità. Gli uomini, invece di praticare queste virtù per amor di Dio Creatore, adoravano le virtù medesime.
I Sabini poi veneravano la Dea Tellure o Vesta che significa terra, la quale conoscevano come larga produttrice di tutte le cose necessarie alla vita umana, e in questa guisa gli uomini erano eccitati alla coltura dei campi per motivo di religione. I Latini ed anche i Sabini, i quali abitavano le spiagge del Tevere, adoravano la Dea Matuta che vuol dire aurora, divinità non per altro immaginata, che per animare i popoli a mettersi di buon mattino al lavoro. Da ciò l'uso di far passare i soldati a rassegna avanti al levare del sole.
Numa Pompilio primo legislatore religioso dei Romani propose all'adorazione la Dea Fede, affinchè tutti fossero eccitati a mantenere la parola data in ogni genere di contratti.
Lo stesso Numa voleva che fosse tenuto in grande venerazione il Dio Termine, a fine di avvezzare i suoi popoli a non invadere i poderi dei vicini. Laonde questo Dio non solo era adorato con feste particolari dette terminali, ma di più quelli che avevano terreni limitrofi si radunavano sui confini, e presso ai segni divisori dei loro poderi facevano offerte e sacrifizi, ed amichevolmente banchettando riconosceva ciascuno i termini del suo campo.
Altri popoli pure dell'Italia prestavano culto ad altre divinità più ridicole, ma sempre con una certa ragione. Per es. adoravano il bue, perchè quest'animale serve a condurre i carri, e a coltivare la terra. Rendevano omaggio al cane, perchè custodisce la casa, ossequiavano il gatto, perchè distrugge i sorci, e così dite di altre divinità.
Ma questa superstizione o idolatria, la quale in mezzo {19 [19]} all'errore aveva un' apparenza di ragionevolezza, col progresso del tempo degenerò e giunse a deplorabili eccessi. Chiunque si fosse reso celebre con qualche azione, eziandio malvagia, aveva dopo morte gli onori divini. Animali immondi e talora de' più schifosi ricevevano queir onore che solamente a Dio onnipotente è dovuto. Fra i sacrifizi e le offèrte alcune erano ridicole, altre esecrande a segno, che in qualche luogo si giunse fino ad offrire vittime umane alle insensate divinità.
Voi farete certamente le maraviglie, o giovani miei, in vedere tante divinità adorate dagli antichi abitatori di questa nostra Italia, e che solo siasi costantemente ricusato di riconoscere il Dio degli Ebrei e dei Cristiani. Perchè mai? Le altre religioni si contentavano di prescrivere sacrifizi e mere cerimonie, senza imporre alcun obbligo di verità da credersi o di virtù da essere praticate. Tutti erano padroni di credere ciò che loro talentava; molti negavano una vita avvenire; tutti si abbandonavano alle più brutali passioni, di cui avevano molti esempi nella vita dei loro Dei incontinenti, ladri, vendicativi, ingannatori. Laddove la religione degli Ebrei frenava l'orgoglio dell'intelletto coi dommi da credersi, e regolava la condotta della vita colle virtù da praticarsi: senza la fede e senza la morale le cerimonie non servono a nulla.
E ben vero che i filosofi, ossia i dotti, negavano credenza alla religione pubblica, anzi ne ridevano; e vollero provarsi ad introdurre qualche sano principio e qualche esercizio di virtù; ma non ottennero effetto veruno. Discordavano fra loro anche sulla natura di Dio e sull' esistenza della vita futura. Le poche virtù, che ostentavano, nascevano da uno spirito d'orgoglio e non dall'amore di Dio e del bene. Platone, il più dotto di questi filosofi, riconobbe che bisognava aspettare un Dio che venisse ad abitare cogli uomini per insegnare a loro la vera religione. {20 [20]}
IV. Fondazione di Roma e Romolo primo re. (Dall'anno 752 al 714 avant Cristo).
Vi ricorderete, cari amici, della famosa visione di Nabucodonosor, colla quale Iddio prenunziava quattro grandi monarchie. Una fu quella degli Assiri, l'altra dei Persiani, la terza dei Greci, la quarta dei Romani. Di questa ultima sono io ora per parlarvi. Essa fu la più vasta e di maggiore durata delle altre. Eccone l'umile origine.
Circa l'anno 750 avanti la venuta di Gesù Cristo vivevano, secondo le antiche tradizioni, due fratelli, uno di nome Remo, e l'altro Romolo nella città di Alba situata nelle vicinanze del Tevere a poca distanza dal mare Mediterraneo.
Devo qui farvi notare che la stirpe, la nascita di questi due fratelli e la fondazione di Roma sono mischiate di molte favole; ond'io esporrò quanto sembrami più degno di essere creduto nelle storie antiche. Dicesi adunque che 400 anni prima della fondazione di Roma un principe di nome Enea, dopo la distruzione di una città dell'Asia Minore detta Troia, approdasse alla foce del Tevere e prendesse terra nel vicino paese del Lazio. In questo paese aveva anticamente regnato Giano, sotto al cui regno Saturno cacciato da Giove si ritirò fra i Latini. Enea pertanto fondò quivi una città nomata Lavinia, ed Ascanio figliuolo di lui ne fondò un'altra appellata Alba Lunga. Da Ascanio ebbe origine una serie di re, di cui il decimo terzo fu chiamato Numitore, al quale fu rapito il trono dal fratello Amulio. Dalla figliuola di Numitore, detta Rea Silvia, credesi che nascessero Remo e Romolo. Amulio temendo che questi dovessero poi un giorno spogliarlo del trono, come egli aveva spogliato il loro avolo Numitore, appena nati, li fece gittare nel Tevere, donde furono dalla corrente rigettati sulla riva. Allattati da una lupa vennero poi trovati da un pastore di nome Faustolo, il quale li allevò come suoi propri figliuoli. Cresciuti in età, ed informati della loro origine reale si unirono ad altri pastori ed assalsero improvvisamente Amulio. Cacciatolo dal regno {21 [21]} diedero principio alla fondazione di Roma in quel medesimo luogo ove erano stati salvati.
Ma del presente racconto questo panni potersi credere con qualche certezza, che cioè Faustolo vedendo i due fratelli bizzarri, rissosi, incorreggibili, pensò di licenziarli da casa sua, lasciando che si andassero a cercare fortuna. Abbandonati così a sè stessi associaronsi ad altri uomini al par di loro vagabondi e andarono a gettare le fondamenta di una città sopra un angolo del Tevere al confine degli Etruschi, dei Sabini e dei Latini, popoli dell'Italia centrale.
Nella costruzione della nuova città nacquero gravi discordie fra i due fratelli. Venuti a contesa nel decidere a chi dei due toccherebbe dare il nome alla novella città, consultarono gli auspizi, vale a dire il volo degli uccelli. Remo vide il primo sei avoltoi, Romolo poco dopo ne vide dodici. Derivò quindi la questione, pretendendo l' uno la superiorità per averli veduti prima, l'altro per averne veduti di più. Nel bollore della rissa Romolo, trasportato dalla collera, gettò sul capo di Remo uno strumento di ferro, di cui era armato e lo uccise sull' istante. Così quella che doveva divenire la regina delle città fondavasi da un' orda di avventurieri, e Romolo fratricida le dava il suo nome, chiamandola Roma e, facendola ricettacolo di ogni sorta di masnadieri, si costituì loro Re.
Roma fu fondata alle falde di un colle detto Palatino, e coll'andare del tempo ampliata venne a rinchiudere nella sua cerchia fino a sette colli. In mezzo al recinto della città era una vasta piazza detta Foro, dove il popolo si radunava par deliberare intorno agli affari pubblici. L'adunanza del poprlo nel Foro veniva significata con questa frase: tenere i comizi. Nel Foro s'innalzavano i rostri, o la ringhiera, specie di cattedra su cui salivano quelli, che dovevano parlare al popolo.
V. Regno di Romolo e di Tito Tazio.
Sebbene molti abitanti fossero corsi a popolare la nuova città, tuttavia per niun modo i paesi vicini volevano maritare le loro figliuole a quei malfattori. Perciò Romolo studio {22 [22]} di ottenere coll'inganno quello che non poteva per amicizia. Finse egli di voler celebrare in Roma una grande festa e la fece annunziare a suon di tromba, invitando i popoli vicini ad intervenirvi. Gli abitanti d'Alba e i Sabini accorsero in folla al promesso spettacolo; ma nei grandi spettacoli vi sono spesso grandi pericoli. Mentre stavano attenti a guardare i giuochi, che si celebravano, i Romani ad un segno convenuto, tradita l'ospitalità, a mano armata piombarono addosso ai Sabini, e loro rapirono le fanciulle, malgrado la resistenza dei loro padri e dei loro fratelli. I Sabini erano a quei tempi i più forti e nel fatto dell'armi i più rinomati popoli d'Italia. Tito Tazio loro re era tenuto poi più valoroso guerriero del suo tempo. Questi altamente sdegnato per l'oltraggio fatto a' suoi sudditi si pose alla testa di un formidabile esercito e mosse contro ai Romani, i quali in breve furono costretti a rinchiudersi dentro le mura di Roma.
Ma difficilmente i nemici avrebbero potuto entrare in città se una donzella di nome Tarpea loro non ne avesse con perfidia aperta una porta. Quella donzella poi chiese ai Sabini, che in premio del suo tradimento le dessero ciò che ognuno di essi portava al braccio sinistro, volendo intendere un braccialetto d'oro o d'argento; ma fingendo.queglino di non comprenderla, le gettarono tutti insieme addosso certi arnesi di ferro, grandi e rotondi che portavano eziandio al braccio sinistro, i quali si appellavano scudi. Tarpea morì in quel modo a piè di una rupe, che dal suo nome dicesi ancora oggidì Rupe Tarpea. Entrati così i Sabini in città appiccarono tre sanguinose battaglie, ed i Romani sarebbero forse stati interamente distrutti, se le zitelle dei Sabini, divenute spose dei Romani, non si fossero colle loro preghiere interposte per far cessare le ostilità. Allora fu conchiusa la pace a queste condizioni: I Sabini lasciando la loro città detta Curi o Quiri verranno a porre le loro stanze in Roma; Tazio regnerà congiuntamente a Romolo sui due popoli uniti.
Infatto i Sabini vennero a stanziarsi sul colle Capitolino e sul Quirinale, e dal nome della loro antica città, Quiriti si chiamarono i due popoli in un solo allora costituiti.
Due re di eguale potere non possono alla lunga andare {23 [23]} d'accordo; perciò trascorsi appena cinque anni, Tazio venne ucciso nell'occasione di una festa, non si sa da chi, ma probabilmente per una trama ordita da Romolo istesso.
Romolo rimasto solo divise tutto il popolo in tre tribù, chiamate dei Ramnensi, Tiziensi e Luceri. Primeggiavano i Ramnensi perchè compagni di Romolo e primi abitatori della città; essi dominarono soli sino alla fusione dei Romani coi Sabini, che formarono la seconda tribù, quella dei Tiziensi. La tribù dei Luceri, inferiore dapprima alle altre due, venne più tardi ad esse eguagliata in tutti i diritti. Ogni tribù comprendeva dieci Curie, ed ogni curia si suddivideva in dieci Decurie. Alla testa di ciascuna di queste divisioni Romolo aveva preposto capi, che perciò chiamavansi Tribuni, Curioni e Decurioni. Tutti questi capi formavano una nobiltà ereditaria, detta Patrizi, ossia Padri. Cento di questi patrizi furono scelti da Romolo per formare il Senato, ossia il Consiglio supremo dello Stato, a cui furono aggiunti cento Sabini, dopo che questi furono uniti coi Romani. Appellavansi senatori ossia vecchi, perchè appunto vecchi per età, per esperienza e per senno. Era vi dunque un senato, che proponeva le leggi e consigliava quanto fosse a farsi. Eravi l' assemblea composta dei soli patrizi detta Curiata. Questa sanciva le leggi, decideva su tutte le proposte del Senato, e nominava i magistrati presi dal suo seno. Il restante popolo, cioè l'infima plebe non aveva pressochè alcun diritto; era bensì convocato nel Foro, ma non dava quasi mai voto alcuno, solamente udiva ad esporre i partiti presi dai Patrizi, serviva alla milizia, esercitava le arti ed i mestieri. Romolo cosi ci insegnò, che ad occuparsi dello Stato sono inabili tutti coloro che o per età o per occupazione non hanno acquistata la scienza indisepensabile nel governo dei popoli.
Siccome per professare con lode una scienza bisogna attendervi di proposito, cosi i patrizi dovevano occuparsi della sola scienza dello Stato ed erano proibiti di esercitare qualunque commercio od arte, ad eccezione dell'agricoltura.
Ogni cittadino era soldato; ma fra i cittadini Romolo ne prese cento di ciascuna tribù, i quali servivano a cavallo, perciò denominati Cavalieri. Il loro numero da trecento crebbe presto a mille ed ottocento, e col tempo formarono {24 [24]} i cavalieri un ordine intermedio tra i patrizi ed il popolo. Altri del popolo servivano in qualità di littori. Dodici di questi, armati di un fascio di verghe con entrovì una scure, accompagnavano il Re, ne eseguivano i comandi e punivano i malfattori.
Romolo oltre avere ordinato lo Stato lo ampliò portando le armi contro ai Veienti, popoli dell'Etruria. Li sconfisse e fermò con essi la pace obbligandoli a cedere sette dei loro borghi.
Stava egli un giorno passando in rivista le schiere, quando levossi un fiero temporale accompagnato da tenebre. Cessato questo, Romolo più non si vide. Vogliono alcuni che i senatori, non potendo più sopportare i modi altieri di Romolo lo tagliassero a pezzi e lo dispergessero in quella oscurità del temporale.
Dopo la morte di Romolo un uomo di nome Proculo si presentò al popolo, indi al Senato, dicendo che aveva veduto Romolo salire al cielo, il quale'gli aveva detto che voleva essere adorato dai Romani sotto al nome di dio Quirino. Si prestò fede al racconto e gli fu innalzato un tempio sul vicino monte, detto d'allora in poi monte Quirinale, dove presentemente sorge il palazzo dei Pontefici romani col medesimo nome appellato. La vita di Romolo deve ammaestrarci a non essere superbi e crudeli verso dei nostri simili, perchè avvi un Dio giusto che a tempo e luogo rende il meritato castigo.
VI. Il filosofo Pitagora. (Circa il 712 av. Cristo).
Al vedere i primi Romani tanto rozzi e feroci non pensatevi che cosi fossero tutti gli altri italiani. Imperciocchè eziandio in quei remoti tempi non pochi davansi con tutta sollecitudine alla coltura della terra, altri attendevano a diversi mestieri, e sappiamo che fin d'allora le arti erano in grandissimo fiore[2]. Presso gli Etruschi sono particolarmente {25 [25]} menzionati gli amatori della musica, detti trombettieri, gli orefici, i fabbri, i tintori, i calzolai, i cuoiai, i rnetallieri e vasellai. La pittura e l'architettura degli antichi offrono ancora oggidì monumenti degni di alta ammirazione.
Il credereste, o giovani miei, che in mezzo a tanto commercio le scienze fossero col più vivo ardore coltivate? Ci assicura la storia che molte scuole erano stabilite per l'istruzione dell' alta ed anche della bassa classe del popolo, perchè fu sempre conosciuto che senza la coltura delle arti belle il commercio illanguidisce e vien meno.
Fra le scuole rinomate nell'antichità fu quella di Pitagora di Crotone, città dell'Italia Meridionale. Egli è soprannominato il filosofo, perchè quelli che davansi allo studio prima di lui dicevansi sofi o sofisti ovvero sapienti. Pitagora cangiò quel pomposo nome in altro più modesto facendosi chiamare filosofo vale a dire amante della sapienza. Egli amava veramente la sapienza, e dopo essersi profondamente instruito in tutte le scienze degli Etruschi e degli altri popoli più eruditi d'Italia, spinto da desiderio di ulteriore sapere, viaggiò in Grecia, in Egitto, nella Palestina e da per tutto trattò coi più dotti personaggi di quei tempi. Fattosi un nobile corredo di cognizioni egli ritornò in patria dove aprì una scuola detta Itala che fu modello di tutte le altre nei tempi posteriori stabilite. Così la scienza, da lui acquistata con grande fatica, tornava anche utile al suo simile. Era solito di non accettare alcun allievo in iscuola se prima in confidenza non gli faceva una dichiarazione, ossia una specie di confessione delle azioni di tutta la vita. Dipoi lo sottometteva alla prova del silenzio che durava tre, quattro o cinque anni secondo che lo scorgeva più o meno inclinato a cianciare. Maestro ed allievi mettevano i loro beni in comune, e dormivano tutti in un vasto edifizio. La frugalità de' loro pasti non ammetteva nè carne, nè pesce, nè vino. La rigida temperanza, lo scarso sonno, la seria e continua occupazione li faceva maravigliosamente progredire nelle scienze. Tale austerità di vita era per altro temperata dal passeggio, dal canto, dal suono, dalla Ginnastica e dalla lettura dei poeti, ossia da una specie di piccolo teatro. Voleva che Dio fosse il fondamento di ogni sapere. Dio è un solo, loro diceva, nè egli abita fuori de' confini del mondo, come credono taluni, {26 [26]} ma tutto intiero risedendo in se stesso contempla nell'orbita universale tutte le generazioni. Egli è il centro di tutti i secoli; l'artefice di tutte le podestà e di tutte le opere; il principio di tutte le cose; il padre di tutti; il motore di tutte le sfere. (V. S. Giustino fil. e m.).
Voleva che tutti avessero la religione per guida. Chi avesse detto o fatto oltraggio a Dio od alla religione era immantinente cacciato dalla sua scuola. In questa maniera egli divenne capo di numerosissima scolaresca e potè introdurre certi metodi di disciplina nei maestri, di tanta moralità, puntualità e docilità negli alunni, che potrebbero in più cose proporsi per esemplari ai collegi dei nostri giorni.
Ma lo studio torna inutile ove si perda in minute sottigliezze, e non vada unito all'operosità. Pitagora mentre occupavasi a promuovere le scienze filosofiche e letterarie amministrava alte cariche a pubblico vantaggio. Egli si rese assai benemerito in una guerra mossa a' suoi concittadini. Mercè l'opera e le sollecitudini di Pitagora fu impedito il saccheggio della città, e risparmiato molto sangue. Così il grande Pitagora nel mezzo dell' idolatria ravvisava quel divino ammaestramento per cui gli uomini devono amare la scienza e la virtù procurando nel tempo stesso di adoperarsi in quelle cose che possono tornare di giovamento al nostro simile.
Pitagora ebbe molti allievi degni di tanto maestro. Fra gli altri è celebre Archita tarantino o di Taranto. Questi erasi dato allo studio della geometria e riuscì un famoso matematico. Egli tenne per molti anni il supremo potere in sua patria e più volte guidò la milizia con gran successo in tempo di guerra. Seguendo i ricordi del suo maestro, raccomandava a tutti, ma specialmente a' suoi allievi, la purezza dei costumi. Nulla avvi nell' uomo, loro diceva, più pernicioso e più micidiale che la disonestà. Da essa i giovani sono tratti alla rovina; da essa i tradimenti della patria, i sovvertimenti degli stati, le pratiche segrete coi nemici; nè avvi delitto cui non sia tratto chi è affetto da questo vizio. Quando l'uomo vi è immerso diviene incapace di far uso della ragione; e giungo a spegnere per fino il lume della mente. (V. Cic. de senect. 12).
Da tutte parti si correva in folla al gran Pitagora, ed i {27 [27]} più nobili personaggi ambivano divenire suoi discepoli o almeno affidargli la loro figliuolanza.
Malgrado tante belle doti questo filosofo cadde nell'invidia di alcuni malevoli, i quali mossero contro di lui una persecuzione tale, che un giorno fra gli urli, gli schiamazzi ed i tumulti fu ucciso. Fatto abbominevole che ci dimostra come anche gli uomini più pii e benemeriti possono cadere vittima dei malvagi.
VII. Numa Pompilio legislatore, secondo re di Roma. (Dall'anno 712 al 670 avanti Cristo).
Dopo la morte di Romolo i Sabini ed i Romani disputarono due anni per sapere chi avrebbero scelto per loro Re. Da ultimo prevalse il partito dei Sabini e fu eletto un uomo di loro nazione, conosciuto per la sua bontà e giustizia, chiamato Numa Pompilio. Egli frequentò la scuola di Pitagora e studiò a fondo la dottrina degli Etruschi, e da questa aveva imparato ad essere benefico e giusto verso di tutti; veniva perciò da tutti amato.
Era nel quarantesimo anno dell' età quando si presentarono due messaggieri ad offrirgli la dignità reale a nome del popolo e del senato di Roma. Egli amava più di vivere col vecchio suo genitore, che addossarsi un carico tanto pericoloso; laonde rispose agli ambasciatori: «Perchè volete che io lasci mio padre e la mia casa per accettare una dignità che offre tanti pericoli? A me non piace la guerra poichè essa non reca agli uomini se non danno; io amo e rispetto gli Dei, che i Romani non conoscono e che dovrebbero temere ed onorare. Lasciatemi adunque vivere tranquillo nella mia dimora e tornatevene senza di me.» Gli ambasciatori rinnovarono le istanze; e Numa accondiscese soltanto quando gli fu comandato da suo padre, cui egli prontamente obbediva. Fu grandissima la gioia in Roma, allora che si seppe che Numa era re dei Romani[3]. {28 [28]}
Invece di tenere i Romani continuamente occupati in giuochi ed in esercizi militari, come aveva fatto Romolo, egli a tutti i suoi sudditi distribuì campi da coltivare, strumenti per lavorare la terra, perchè l'agricoltura ossia la coltivazione delle campagne deve essere riputata la prima di tutte le arti, come quella che procaccia il nutrimento agli uomini e contribuisce assai a renderli robusti ed onesti.
Numa a fine di governar bene il popolo fece molte leggi utilissime per l'amministrazione della giustizia e favorevoli alla religione. Qual degno allievo di Pitagora, egli era persuaso essere impossibile frenare i disordini senza di essa. A questo fine trasportò in Roma il culto di parecchie divinità venerate in altri paesi d'Italia.
Fece innalzare un tempio a Giano, le cui porte rimanevano sempre aperte in tempo di guerra, e solo chiudevansi quando vi era pace. Stabili anche sacerdoti, cui diede l'incarico di servire agli Dei. Il primo di essi chiamavasi Pontefice Massimo; gli altri sacerdoti inferiori prendevano vari nomi secondo la parte del ministero che esercitavano.
Dicevansi Auguri quelli che studiavansi di presagire l'avvenire dal volo, dal canto e dal modo di mangiare degli uccelli. Se, per es., i polli trangugiavano con buon appetito il grano, annunziavano qualche lieto avvenimento; se rifiutavano di mangiare, presagivano un qualche disastro. Aruspici erano quelli che esaminavano attentamente le viscere delle vittime immolate nei sacrifizi, colla ridicola superstizione di poter prevedere da esse l'avvenire.
Numa istituì molte cose vantaggiose al popolo; e mentre inculcava a tutti di coltivare la terra, adoperavasi a promuovere il commercio, perfezionare le arti ed i mestieri. Approfittò delle scienze imparate, e l' anno che Romolo aveva solo diviso in dieci mesi, egli corresse, dividendolo in dodici, quasi nel modo che noi abbiamo presentemente. Fissò in ciascun mese giorni festivi, in cui il popolo doveva cessare da ogni lavoro per attendere alle cose spettanti la religione: Ad sacrificia Diis offerenda.
Numa morì in età di anni 84 dopo aver fatto molto bene al suo popolo, e fu assai compianto, perchè era giusto e benefico. Come egli aveva ordinato, il suo corpo fu deposto entro un'urna di pietra, ed a suo fianco in un altro sepolcro {29 [29]} furono collocati 24 grossi libri, dove era scritta la storia delle cerimonie da lui instituite in onore degli Dei, ai quali aveva innalzati templi.
Di certo a voi rincrescerà, giovani cari, che un uomo cosi pio non abbia conosciuta la vera religione. E senza dubbio avendo egli avuto un cuore sì buono, che adorava e faceva adorare tante ridicole divinità, che cosa non avrebbe fatto quando avesse conosciuto il Vero Dio Creatore e supremo padrone del cielo e della terra?
VIII. Due re guerrieri. (Dall'anno 670 all'anno 614 av. Cristo).
La provvidenza che destinava Roma ad essere dominatrice di tutta l'Italia, dispose che al pacifico Numa succedessero l'un dopo l'altro due re coraggiosi e guerrieri, i quali dilatassero i confini della potenza romana sopra gli altri popoli italiani. A Numa succedette subito Tullo Ostilio, il cui regno fu segnalato particolarmente da una guerra sostenuta contro agli Albani. Dopo formidabili apparecchi da ambe le parti si venne ad un fatto unico nella storia delle nazioni. Fu deciso che fossero scelti tre Romani e tre Albani a combattere insieme, con patto che il popolo di quelli, i quali riportassero vittoria, darebbe leggi all'altro. Erano in Roma tre giovani fratelli, robusti e guerrieri detti i tre Orazi. Questi furono scelti dai Romani per la decisiva tenzone. Gli Albani dal canto loro scelsero altresì tre fratelli detti i tre Curiazi sicchè erano tre fratelli contro tre fratelli.
Si combattè risolutamente. Due Orazii furono uccisi nel primo scontro, ed i tre Curiazi feriti. Allora l'Orazio superstite e tuttora illeso, fingendo di fuggire, assalì separatamente ed uccise l'uno dopo l'altro i Curiazi, che gli tenevano dietro. Per questo fatto gli Albani divennero sudditi dei Romani; ma non durarono a lungo nella giurata fede. Tullo avendo mossa guerra ai Fidenati, chiamò gli Albani in aiuto. Mezio Fufezio loro dittatore credette essere quella favorevole occasione per iscuotere il giogo romano, ed invece {30 [30]} di tenere il luogo assegnato nella pugna, si ritirò aspettando di vedere da quale parte penderebbe la fortuna. Si accorse Tullo del tradimento; ma affinchè i suoi non si perdessero di animo, disse che Mezio ciò faceva con suo ordine per sorprendere i nemici alle spalle. In questo modo incoraggiati i Romani raddoppiarono i loro sforzi e furono vittoriosi. Allora Mezio si avanzò coi suoi per rallegrarsi con Tullo della vittoria. Tullo senza mostrare di essersi accorto del tradimento fece attorniare Mezio e i suoi Albani dall'esercito romano. Quindi così parlò a Mezio: Poichè la tua fede fu dubbia tra i Romani e i Fidenati, il tuo corpo sia diviso a somiglianza di quella. E fattolo attaccare per li piedi a due carri rivolti a due parti opposte, fu da quelli squarciato.
Dopo il che Tullo ordinò la distruzione della città d'Alba, e ne diede incarico all' Orazio, che era rimasto superstite nella tenzone contro ai Curiazi. Giunto esso in quella sventurata città con buon nerbo di soldati romani comandò a tutti gli abitanti di uscire dalle loro case. Usciti appena, i Romani spianarono al suolo la magnifica città d' Alba, detta la Lunga, perchè posta lungo le radici di un monte e le rive di un lago detto ancora monte e lago Albano. Gli Albani vennero condotti a Roma, dove per grazia loro si permise la costruzione di case sopra un colle detto monte Celio; e così la nazione degli Albani divenne romana.
Lo stesso Tullo dopo avere intimata la guerra ai Fidenati, la mosse eziandio contro ai Veienti, popoli guerrieri abitanti non lungi da Roma, i quali dopo sanguinose battaglie dovettero anche arrendersi alla crescente potenza dei Romani. Questo re bellicoso, avendo trascurate le cerimonie religiose instituite da Numa, fu assalito da una malattia contagiosa, che allora serpeggiava nel Lazio, dalla quale tentò liberarsi con mezzi empi; ma perì nel suo palazzo colpito dal fulmine. Così credettero i romani, persuasi che Dio punisce l'irreligione anche nei personaggi più elevati.
Anco Marzio nipote di Numa, quarto re di Roma, diede principio al suo regno col ristabilire le sacre cerimonie ed il culto degli Dei, trascurato dal suo antecessore.
Malgrado l'amor che aveva per la pace fu costretto a prendere le armi contro ai Latini, i quali dimoravano a poca distanza {31 [31]} da Roma. Costoro avevano fatto grave oltraggio ai Romani. Marzio per sostenere l'onore de' suoi sudditi inviò alcuni araldi, cioè nunzi di guerra, detti feciali, a dichiararla ai rivali suoi. Giunti sulla frontiera del paese dei Latini si fermarono e presero a gridare ad alta voce: «Udite, o dei del cielo, della terra e degli inferni; noi vi chiamiamo in testimonio, che i Latini sono ingiusti; e siccome essi oltraggiarono il popolo romano, così il popolo romano e noi dichiariamo loro la guerra.» Dette queste parole gettarono sul territorio nemico alcune frecce, le cui punte erano state intrise di sangue, e si ritirarono senza che niuno osasse arrestarli. Questo modo di dichiarare la guerra fu di poi in uso presso gli antichi Romani.
Allestito colla massima prestezza un esercito, Anco attaccò i Latini, li sconfisse, e distrusse Pulini loro capitale con altre città. Ma seppe usare generosità verso i vinti, avendo ad essi soltanto imposto di venire ad abitare in Roma, dove permise loro di costruirsi case sopra un colle detto monte Aventino.
Egli non si contentò di aumentare colle sue conquiste il numero dei sudditi e di fortificare la città, ma fece altresì scavare alla foce del Tevere, cioè nel luogo in cui quel fiume si scarica nel Mediterraneo, un porto profondo per accogliervi le navi, che portassero in Roma le provvigioni necessarie alla sussistenza. Questo porto fu appellato Ostia da una parola latina che significa foce o bocca del porto.
Anco Marzio dopo 24 anni di regno morì lasciando due figliuoletti, i quali finirono infelicemente, perchè crebbero affidati ad un cattivo educatore di nome Lucumone e soprannominato Tarquimo.
IX. Tarquinio Prisco e la prima invasione dei galli. (Dal 614 al 576 avanti Cristo).
Un cittadino di Corinto per nome Demarato era venuto a stabilirsi in Tarquinia, città dell'Etruria, donde Lucumone suo figliuolo recossi a Roma, cangiando il nome in quello di Tarquinio. Venutovi colle sue grandi ricchezze e con buon {32 [32]} numero di servi si acquistò riputazione di uomo magnifico e generoso. Anco Marzio, che lo amava assai, morendo lasciavate tutore dei suoi figliuoletti; ma egli in cambio di farsi loro protettore, li mandò in villa e si fece nominar re dal Senato.
Tarquinio per guadagnarsi l'affetto de' suoi sudditi si diede ad abbellire la città con portici, con un circo per gli spettacoli, e soprattutto la risanò dalle acque che stagnavano nel fondo delle valli interposte fra i vari colli. Per questo fine fece scavare canali sotterranei guerniti di muratura detti cloache, i quali dessero scolo alle acque paludose. Fa maraviglia che dopo 24 secoli duri ancora oggidì una parte del maggior canale, denominato cloaca massima. A codeste smisurate spese provvide col bottino raccolto nelle varie guerre da lui condotte felicemente contro ai Sabini e contro ai Latini.
Nella prima guerra appunto che egli ebbe coi Sabini avvenne il celebre fatto di Atto Navio. Tarquinio volendo accrescere le centurie dei cavalieri per potere far fronte al nemico, Atto Navio, celebre augure di quel tempo, gli negava questo diritto. Egli sosteneva che Romolo, avendo ciò fatto dopo aver consultato gli auguri, non si poteva senza il consenso dei medesimi introdurre alcuna innovazione. Sdegnate il re, a fine di porre ad esperimento il sapere dell'augure lo interrogò, se poteva recarsi ad effetto quanto egli nelhi mente rivolgeva. Navio dopo averne fatto prova cogli augurii rispose, che certamente si poteva. Il re allora deridendolo gli disse come egli ravvolgeva in mente, se si potesse tagliare con un rasoio una cote (pietra da arrotare il ferro). Fallo pure, risposegli l'augure: e vuolsi che l'abbia tagliata. Se ciò è vero, possiam credere che questa sia stata cosà concertata tra il re e l'indovino per conciliare agli auguri maggior credito presso il popolo.
Già da 30 e più anni Tarquinio regnava, quando i due figliuoli di Anco, male sofferendo di essere stati privati del regno dal loro tutore, pagarono due pastori perchè andassero ad ucciderlo. Fingendo essi di aver querela fra loro si presentarono al re per ottenerne giustizia. Mentre il re badava ai discorsi dell'uno, l'altro colla scure lo percosse nel capo e lo stese morto al suolo. Ma Tanaquilla sua moglie, fatte chiudere le porte del palazzo, diede voce che il re fosse {33 [33]} solamente ferito ed incaricò frattanto il genero Servio Tullo di prendere in sua vece le redini del governo. Quando poi ne fu conosciuta la morte, Servio già regnava di fatto.
Sotto il regno di Tarquinio l'Italia fu invasa da un numero straordinario di barbari, che la riempierono di terrore. Erano costoro una colonia di quei Celti, che andarono ad abitare di là dalle Alpi e diedero il nome di Gallia a quel vasto regno che oggidì appelliamo Francia. Questi Galli soliti a vivere nelle foreste e nelle tane erano selvaggi e feroci a segno, che con vittime umane facevano sacrifizi alle loro divinità: uccidevano con gioia i loro nemici e qualsiasi forestiero, il quale caduto fosse nelle loro mani: e mangiandone con gusto la carne, ornavano coi teschi le capanne e l'entrata delle loro caverne.
La battaglia era per essi supremo diletto, e tanto erano bramosi di vincere l'avversario col solo valore personale, che spesse volte nel calore della mischia gittavano l'elmo e lo scudo, e combattevano nudi. Vivevano di frutta di alberi e di bestiami; non conoscevano diritto se non quello della forza; non avevano città; i luoghi delle loro adunanze erano aperte campagne od attendamenti. Questa era la nazione cui la sventurata Italia ad immenso suo danno doveva dare ricetto.
Circa sei secoli avanti l'era volgare questi barbari pel loro gran numero non avendo più di che campare nei propri paesi stabilirono una migrazione verso l'Italia; vale a dire una parte di quella nazione risolse di trasferirsi dal proprio paese in Italia. Vecchi e fanciulli, mariti e mogli con equipaggio da guerra, con carri e bestiami in numero sterminato, guidati dal loro re di nome Belloveso si avviarono verso le Alpi, che si dirizzavano scoscese ed altissime ad impedire loro il passo. Valicati con grandissimi sforzi questi alti monti, cominciarono ad impadronirsi del paese dei Taurini; quindi si spinsero innanzi fra i Liguri e più in là contro gli Etruschi. Costretti a combattere per salvare la vita propria e quella dei figliuoli e delle mogli, in battaglia parevano lioni. Spargendo da per tutto lo spavento si fermarono nelle pianure poste tra il Ticino e l'Adda, occupando la sinistra del Po, dove fondarono la florida città di Milano. (An. av. Cristo 600). {34 [34]}
Parecchie altre migrazioni si fecero in Italia dai Galli, i quali fermarono le loro stanze gli uni qua, gli altri là. I Boi ed i Lingoni, traversate le Alpi pennine, cacciarono gli Etruschi e parte degli Umbri, occupando la destra del Po, e qualche tempo dopo vi fondarono Parma, Piacenza e Bologna. Cosi nello spazio di dugent' anni mezza la Gallia si versò nell'Italia, e una gran parte di quel paese, che si proponeva a tutte le altre nazioni per modello di civiltà, ricadde nella barbarie; la sola forza brutale teneva luogo della ragione e quindi i costumi decaddero nella condizione più deplorabile.
Tuttavia quei pochi italiani, che sfuggirono alle spade nemiche e che rimasero confusi coi barbari, a poco a poco mansuefecero la rozzezza degli stranieri. Anzi per buona sorte una parte assai considerabile dell'Etruria si serbò illesa da tal peste. Laonde quando i Romani cominciarono a stendere sopra l'Italia le loro conquiste, gli Etruschi non mancavano di savie leggi, di florido commercio ed avevano già fatto gran progresso nelle arti e nelle scienze. La qual cosa mentre ci mostra essere pericolosissimo il mescolamento dei buoni coi cattivi, ci ammaestra altresì che i buoni, fermi nella virtù, possono spargere ottimi principii di morale nei cuori rozzi e disordinati, e procurare gran bene alla società.
X. Servio Tullo e Tarquinio il Superbo ultimi re di Roma. (Dal 576 al 500 avanti Cristo).
I figliuoli di Anco non poterono conseguire il trono come si aspettavano, ed in loro vece, come si disse, ottenne la corona Tullo, detto Servio, perchè figliuolo di una serva. Servio divenuto re, attese con grande zelo a migliorare la sorte dei Romani. Ingrandì considerabilmente la città, riformò gravi abusi nella amministrazione della giustizia, togliendo al popolo i mezzi di sentenziare intorno agli affari di grande importanza a pluralità di voti. Perciocchè secondo le leggi di quel tempo avveniva, che uomini rozzi e senza lettere proferivano sentenze complicatissime, e perciò spesso assolvevano quelli i quali dovevano condannarsi, e talora condannavano quelli {35 [35]} che si dovevano assolvere. Egli stabilì parimenti una legge con cui obbligava ciascun cittadino a presentarsi ogni quinquennio nel campo di Marte a dare ragguaglio della propria famiglia e dei proprii beni. Con questo mezzo potevasi avere un giusto computo delle persone atte alle armi. Così fatto censimento ossia registro di cittadini fu detto Lustro; parola che venne poscia usata ad esprimere lo spazio di cinque anni.
Quest'ottimo principe dopo parecchie guerre terminate gloriosamente, e dopo aver fatto gran bene a suoi sudditi fu vittima di un tradimento tramatogli dalla snaturata sua figliuola Tullia, ed effettuato da Tarquinio di lei marito. L'ambiziosa e malvagia donna volendo porre sul trono Tarquinio, procurò di guadagnarsi il favore del Senato, quindi fece barbaramente trucidare il vecchio genitore, per avere la soddisfazione di veder il marito sul trono.
Tarquinio soprannominato il Superbo a cagione della sua grande crudeltà e superbia, dopo questo orrendo assassinio regnò con una serie di misfatti. Egli si circondò di guardie, si stabilì solo giudice di tutti gli affari; perseguitò, esiliò, mise a morte parecchi senatori e molti fra i ricchi, confiscandone le sostanze. Faceva la guerra, la pace, le alleanze non consultandone punto il Senato. Ma senza saperlo egli aveva nella propria casa l'istrumento con cui la provvidenza voleva punire tante scelleratezze.
A quel tempo viveva in Roma un giovanetto chiamato Giunio, di cui Tarquinio aveva fatto morire il padre e il fratello spogliandoli de' loro beni. Giunio per isfuggire alla sventura de' suoi parenti si finse pazzo, e gli fu dato il soprannome di Bruto, il che voleva dire Bestia. Tarquinio credendo aver poco da temere dal povero Bruto permise, che si tenesse in sua casa per servire di trastullo ai fanciulli ed agli schiavi. Presto per altro vedrete, che sotto a quella vile apparenza stava nascosto un animo forte e coraggioso.
Intanto Tarquinio per cattivarsi in qualche maniera l'affetto dei Romani cominciò la costruzione di un magnifico tempio sul monte Tarpeo. Mentre se ne scavavano le fondamenta fu trovata la testa di un romano detto Tolo, morto da alcuni anni, ed ivi sepolto; onde quel tempio ricevette il nome di Capitolium vale a dire Testa di Tolo, che noi {36 [36]} voltiamo in italiano Campidoglio. Lo stesso nome fu di poi dato a quel colle che ancora oggidì è così appellato. La fortezza del Campidoglio era fabbricata sulla sommità del colle, che trovandosi nel centro di Roma poteva servire a difesa della città. Dietro al Campidoglio era la rocca Tarpea, così nominata da quella fanciulla, che ai tempi di Romolo era ivi stata uccisa; da essa venivano precipitati i traditori della patria.
Tarquinio tutto intento alle cose, che solleticavano l'ambizion sua, trascurava indegnamente l' educazione di Sesto e di Arunte suoi figliuoli, i quali perciò divennero malvagi quanto il loro padre. Ma ricordatevi che spesso Iddio punisce nella vita presente i figli indisciplinati e la negligenza dei genitori. Il peggiore di que' figli era Sesto. Un giorno costui, avendo veduta una sua cugina di nome Lucrezia, ebbe la sfacciataggine di farle una grave ingiuria. Ella fece chiamare Collatino suo marito, il quale venne a lei con Bruto suo amico: espose loro l'insulto ricevuto e nell'eccesso del dolore, piangendo e chiedendo che le fosse riparato l'onore, quasi fuor di senno, si trafisse con un pugnale e morì. -
Allora Bruto, deposta l'apparente stupidità, fece giurare al padre ed al marito di Lucrezia di sterminare Tarquinio e tutta la sua famiglia. Prese quindi le armi, si diede a correre per Roma gridando: «Chi ama la patria a me si unisca per iscacciare Tarquinio e gl'infami suoi figli, autori di tanti mali.» La sollevazione fu generale, e Tarquinio, il quale allora trovavasi all'assedio di Ardea, città del Lazio, si avviò tosto verso di Roma, che gli chiuse le porte in faccia. A quel punto scorgendo inutile ogni ulteriore tentativo risolvette di prendere la fuga per ricoverarsi colla sua famiglia presso agli Etruschi.
Ecco, miei cari, una storia la quale deve insegnarci che i malvagi sono ordinariamente puniti del male che fanno, e tanto più severamente quanto più sono ricchi e potenti.
Sette re governarono Roma nello spazio di 240 anni; l'ultimo fu Tarquinio detto il Superbo per distinguerlo dall'altro Tarquinio soprannominato Prisco ovvero il Vecchio. {37 [37]}
XI. Abolizione del governo regio e stabilimento della Repubblica.
Di mano in mano, che i Romani crescevano in numero ed in potenza, estendevano il loro dominio sopra molti paesi d'Italia, di modo che i popoli vicini o spontaneamente o per forza eransi con loro uniti. Ma il dominio dei Romani si estendeva solo sopra una piccola parte della nostra penisola. Il resto dell' Italia era in pace.
Intanto cacciato Tarquinio, dichiarato reo di tradimento chiunque ardisse proteggerne il ritorno, i Romani decisero di governarsi a repubblica, la quale forma di governo differiva solo dalla monarchia in questo, che i re governavano a vita, laddove nella repubblica erano eletti due magistrati con autorità suprema, la quale poteva conservarsi solamente un anno. I due magistrati prendevano il nome di Consoli da una parola latina, che significa provvedere; poichè il loro officio era appunto di provvedere alla salute della repubblica, vocabolo con cui sono indicati gli affari pubblici o comuni.
Giunio Bruto e Collatino, autori della cacciata di Tarquinio, furono i primi ad essere investiti della nuova carica consolare; ma Collatino, come parente dei Tarquinii, divenne sospetto al popolo e dovette presto rinunciare il consolato a Valerio Pnbblicola, uomo tenuto da tutti in grandissimo credito.
XII. Guerre dopo l'espulsione di Tarquinio. Porsenna a Roma. (Dall'anno 506 al 493 avanti Cristo).
I Tarquinii avendo invano provato la via delle negoziazioni per risalire sul trono, tentarono una nuova rivoluzione in Roma. I due figliuoli di Bruto, degeneri dalla virtù paterna, si lasciarono adescare a quella rivolta. Ma scoperti e condotti in Senato furono condannati dallo stesso Giunio {38 [38]} Bruto, il quale, obbligato dalle leggi, dovette a grande suo dolore non solo condannare nel capo gli amati suoi due figliuoli, ma essere ancora spettatore del loro supplizio.
Tarquinio vedendosi fallito questo colpo suscitò altri popoli ad aiutarlo, e si venne ad una accanita battaglia. Bruto avendo ravvisato nelle schiere nemiche Arunte, secondo figlio di Tarquinio, si gittò contro di lui; lo stesso fece Arunte contro di Bruto. Si scontrarono insieme con tal impeto, che ambidue caddero morti nel medesimo istante l'un dall'altro trafitti. Tutti piansero Bruto, e la morte di lui fu riguardata come una calamità pubblica.
Tarquinio respinto dai Romani eccitò l'Italia tutta contro di Roma. Porsenna re di Chiusi, città dell'Etruria, fu il primo a porgergli aiuto, non perchè amasse l'iniquo Tarquinio, ma per avere occasione di muovere guerra ai Romani, i quali divenendo ogni giorno più potenti destavano gelosia e timore. Porsenna pertanto con un esercito numeroso e munito di ogni sorta di macchine da guerra andò ad assediare la città di Roma, persuaso di poterne costringere i cittadini ad assoggettarsi alle sue armi. L'entusiasmo della libertà spinse i Romani ad atti eroici. Io ve ne accennerò i principali.
Trovavasi sul Tevere un ponticello di legno, pel quale era facile penetrare nella città. Porsenna se ne accorse, e spedì tosto un gran numero di soldati per impadronirsene. Quelli che stavano alla guardia del ponte fuggirono, e soli rimasero a contrastarne il passo tre Romani, uno dei quali appellavasi Orazio soprannominato Coclite, perchè era cieco di un occhio. Questo valoroso cittadino quando vide gli stranieri avanzarsi sopra il ponte ordinò ai due compagni di tagliarlo prontamente dietro di lui, ed egli solo rimase dall' altra parte a combattere contro l'intero esercito. Come poi si accorse che era tagliato il ponte, si gettò nel Tevere e fra i dardi dei maravigliati nemici passò nuotando all'altra sponda.
Stupì Porsenna a tanto coraggio; e risolvette di soggiogare i Romani colla fame, vale a dire facendo sì che niuna sorta di commestibile potesse entrare in Roma. Per la qual cosa la scarsezza de' cibi si fece in breve sentire a segno, che un cittadino di nome Muzio deliberò di sacrificare la propria vita a salvezza della patria. Si travestì da soldato {39 [39]} etrusco e si avanzò fino alla tenda del re per ucciderlo ma invece ne ammazzò il segretario, il quale indossava abiti somiglianti a quelli del suo Signore.
Arrestato e condotto alla presenza di Porsenna, ed interrogato che cosa lo avesse indotto a tanto misfatto, rispose: «Il desiderio di salvare la mia patria; e sappi che trecento giovani romani giurarono al pari di me di dare la morte al tiranno.» Ciò detto corse a porre la sua destra sopra un ardente fuoco, lasciando che si abbruciasse per castigare quella mano, la quale erasi ingannata nell'uccidere il segretario in luogo del re. Porsenna stupefatto a tale eroismo rimandò Muzio libero a Roma, il quale in memoria di quella coraggiosa azione ricevette il soprannome di Scevola, cioè monco.
In questa occasione eziandio si segnalò una giovane romana di nome Clelia. Costei essendo stata data in ostaggio ai nemici ardi gettarsi a nuoto nel Tevere e tornarsi fra i suoi.
Porsenna, ammirando il valore di tanti prodi, amò meglio essere loro alleato che nemico. Conchiuse perciò un trattato di pace co' Romani e visse di poi con loro in buon accordo, e sempre n'ebbe segni di benevolenza. Infatti il suo figlio Arunte, essendo stato sconfitto presso la città di Arida, le sue genti fuggiasche vennero con bontà accolte dai Romani.
Porsenna ritornato nella città di Chiusi occupò il resto de' suoi giorni a far fiorire le scienze e le arti ne' suoi stati. Tarquinio vedendosi da Porsenna abbandonato andò a cercare contro i Romani nuovi nemici, i quali non ebbero miglior riuscita dei primi. Finalmente scorgendo inutile ogni tentativo si ritirò a Cuma, ove morì di rammarico.
In quel frattempo cessò di vivere Valerio soprannominato Pubblicola, cioè amico del popolo. Egli morì così povero, che si dovette fargli la sepoltura a spese del pubblico. Tale deve essere il pensiero di chi amministra le cose pubbliche: pensare a dirigere tutto con rettitudine e con giustizia, e non ad accumular ricchezze. {40 [40]}
XIII. Contese tra i patrizi ed i plebei. I dittatori e i tribuni del popolo. (Dall'anno 493 al 488 av. Cristo).
Roma divenuta repubblica, lungi dal provare la felicità di un buon governo, si accorse che in luogo di un padrone doveva sopportarne molti, i quali la facevano da tiranni. Si professavano amici del popolo, ma giunti al potere non badavano che a farsi ricchi e ad opprimere il povero popolo il quale carico di debiti vedeva i suoi campi, le sue case e la sua propria vita posta in vendita. Spesso benemeriti cittadini errano maltrattati, imprigionati, e talvolta battuti fino a sangue. Le quali prepotenze, usate da chi vanta vasi benefattore dell'umanità, cagionarono un malcontento generale, e in breve si venne ad un'aperta ribellione.
I Latini, che erano già stati vinti da Anco Marzio, approfittando delle intestine discordie dei Romani, non vollero più riconoscere l'autorità di Roma, e contro quella impugnarono le armi. Laonde il Senato fu costretto di stabilire una nuova carica, appellata dittatura, da una parola latina che significa dettare; perchè appunto il Dittatore aveva diritto di dettar le leggi. Esso era eletto dai due consoli e la sua carica non poteva protrarsi oltre a sei mesi.
Primo dittatore fu Larzio, il quale conchiusa una tregua coi Latini riuscì colla sua prudenza ad acquetare la plebe e ristabilire l'unione dei patrizi, che erano i più ricchi, coi plebei, ossia col basso popolo.
L'anno seguente i Latini presero le armi, e perciò i Romani dovettero eleggere un secondo dittatore. Fu eletto Aulo Postumio, il quale andò contro ai Latini, ed incontratili presso al lago Regillo, or detto lago di Castiglione, pienamente li sconfisse.
Qui devo farvi notare come, uscito appena Larzio di carica, le oppressioni ricominciarono così violente, che alzatosi un grido d'indignazione la maggior parte della plebe uscì di Roma e si ritirò sopra un vicino monte. Di là fece sapere ai senatori, che non voleva più stare soggetta a padroni più spietati dello stesso Tarquinio. {41 [41]}
I patrizi rimasti quasi soli in città si trovarono in grave affanno; perchè non avevano più chi li servisse e chi li difendesse. Anche la plebe si trovò pentita, perciocchè priva di danaro fa ben presto ridotta allo estremo della miseria. Intanto i nemici di Roma si apparecchiavano ad assalirla profittando delle discordie dei cittadini. In questa occasione un cittadino detto Menenio Agrippa, da tutti amato per le sue belle maniere di trattare, si avanzò in mezzo ai ribelli, ed osservando tutta quella moltitudine esacerbata, pensò di parlare con un apologo, ovvero con una bella similitudine. «Un tempo, egli disse, le membra dell' uomo si ribellarono al ventre e ricusarono di servirlo. I piedi non volevano più camminare; le mani non più operare; la bocca rifiutava ogni sorta di cibo; nè i denti volevano masticare. Che avvenne? Non ricevendo più un membro conforto dall'altro il ventre giunse presto ad un'estrema debolezza, e le altre membra egualmente.
Allora queste conobbero che, mentre esse servivano al ventre, da lui ricevevano la vita; perciò tra loro si riconciliarono. Simile relazione è tra di voi ed il Senato: voi siete le membra, egli è il ventre: voi gli dovete somministrare l'alimento; ma questo alimento è quello stesso che dà pure a voi la vita. Non può l'uno sussistere senza dell'altro.» Il popolo fece vivi applausi alle parole di Agrippa, e risolvè di rientrare in città a patto che fossero aboliti i debiti e messi fuori di carcere i debitori. Inoltre per avere un appoggio contro la tirannia dei grandi volle, che si stabilissero fra' plebei ogni anno alcuni magistrati, i quali dovessero sostenere gl' interessi del popolo e questi furono detti tribuni della plebe. Due soli tribuni della plebe ebbero i Romani nei primi tempi: ma il loro numero fu più innanzi portato fino a dieci. Essi duravano in carica un anno; la loro persona era inviolabile, ed avevano il potere di modificare le deliberazioni dei consoli e del senato, di approvare o rigettare qualunque legge.
In quel tempo medesimo furono istituiti gli edili, i quali, siccome a' nostri dì, erano incaricati della decenza e sicurezza delle case pubbliche e private, dovevano altresì presiedere alla fabbricazione degli edifizi pubblici, e invigilare alla polizia della città. {42 [42]}
In questa maniera Roma mitigando la sua ferocia raccoglieva dagli Etruschi e da altre nazioni vicine il mezzo di promuovere le scienze e le arti in modo, che gli uni potessero attendere al commercio ed alla coltura dei campi, gli altri pensare all'amministrazione dello Stato e alla difesa della patria.
XIV. Coriolano e Tullo Anzio. (Dall'anno 488 al 485 av. Cristo).
Dove noi vediamo ora la campagna di Roma, era anticamente il paese dei Volsci, popoli che furono molto tempo formidabili ai Romani, e fecero loro toccare molte sconfitte. In un fatto d'armi tra Volsci e Romani si segnalò un cittadino romano di nome Marzio. Vedendo questi, che i Romani erano quasi interamente disfatti, con ammirabile prodezza si oppose al nerbo dell' esercito dei Volsci, li sconfisse e s' impadroni di Corioli loro capitale, onde gli venne dato il glorioso nome di Coriolano.
Era egli un giovane amante della patria, e segnatamente conosciuto pel grande rispetto che nutriva per sua madre. Tuttavia dopo molti servigi renduti ai Romani cadde loro in sospetto, quasi che ambisse di essere fatto re; fu perciò costretto ad uscire di Roma per andarsene in esilio. Il dolore che provò per l'ingratitudine de' suoi concittadini, il rincrescimento di dover vivere lontano dalla madre, dalla moglie e da' suoi figliuoli lo posero talmente fuori di se, che andò ad unirsi coi Volsci a danno di Roma. Giunto ad Anzio, città principale dei Volsci, andò direttamente alla casa di Anzio Tullo loro re. Col capo coperto, senza parlare si pose a sedere nel luogo più onorevole della casa. I domestici corsero ad informarne il loro padrone, il quale da alto stupore compreso si avanzò, chiedendo allo straniero: Chi sei? Allora Coriolano si scoprì e disse: Io sono Coriolano oggetto del tuo odio e della tua stima. Bandito da Roma mi offro a te; e se la tua repubblica non vuole servirsi di me, io ti abbandono la mia vita. Non temere, rispose Tullo {43 [43]} stringendogli la mano, la tua confidenza e pegno di sicurezza: nel darti a noi ci hai dato più di quello, che ci togliesti. Condottolo poscia nel palazzo, concertarono insieme per allestire un esercito, e marciare tosto contro Roma.
Alla nuova che Coriolano veniva alla volta di Roma con forte esercito di Volsci, il terrore invase l'animo di tutti i cittadini; ne eravi generale tanto abile che potesse stare a fronte di Coriolano. Per la qual cosa senza pensare a difendersi gli mandarono l'una dopo l'altra varie ambasciate, le quali non ebbero che una fiera e minacciosa ripulsa. Allora ricorsero ad uno spediente, che riusci bene ai Romani e funesto a Coriolano. Gl'inviarono Veturia sua madre, sua moglie co' suoi due figliuoletti, persuasi che l' amore materno e l'affetto di marito e di padre ne avrebbero placato lo sdegno. Coriolano al vedere la madre accompagnata dalla moglie e da' suoi due figliuoli non potè più contenere le interne commozioni, e corse loro incontro per abbracciarli. Allora Veturia fermatasi gli disse: «Prima di abbracciarti dimmi, se io son venuta a stringere al seno un figlio, oppure un nemico; e se io sono schiava o libera in questi tuoi alloggiamenti. Forse il destino mi serbò ad una sì lunga vecchiaia per vedermi un figlio prima esiliato, poi nemico? Come ti regge l' animo di mettere a sangue e fuoco quel terreno stesso, in cui foste allevato e nutrito? Me infelice! Se io non ti avessi generato, Roma non sarebbe saccheggiata: se io non fossi madre, tua moglie e i tuoi figliuoli non paventerebbero le catene.» A così fatte parole Coriolano profondamente commosso colle lagrime agli occhi corre, abbraccia la madre, la moglie ed i figliuoli, dicendo: «Andate; voi salvate Roma, ma perdete il figlio, prevedo la mia sorte, ciò non ostante appago i vostri desideri e non sia mai che una madre abbia pianto invano ai piedi di un suo figliuolo.» Al ritorno di Veturia, Roma si colmò di gioia e fu fatta grande festa.
Coriolano pagò assai cara la condiscendenza usata verso la patria. Imperciocchè i Volsci, sdegnati di vedersi costretti ad abbandonare una vittoria, cui riputavano certa, si volsero contro di lui e lo uccisero.
Questo fatto c'insegna che dobbiamo guardarci dalla collera e dal desiderio della vendetta, perchè queste due passioni {44 [44]} spesso ci conducono in tali cimenti, di cui più non è possibile ritrarre il piede, se non con gravissimo danno.
Liberati i Romani da tale pericolo, i cittadini ricominciarono a suscitare tumulti infra di loro, chiedendo che si approvasse una legge, la quale aveva per iscopo di scompartire i beni della repubblica fra il popolo. Questa legge dicevasi agraria dalla parola latina ager che vuol dire campagna. Essa era stata proposta da un console chiamato Spurio Cassio, il quale sperava di guadagnarsi per simil modo il favore della plebe e giugnere al supremo potere. Ma invece egli fu accusato come traditore della patria, e in pena del suo delitto venne precipitato dalla rupe Turpea. Affinchè cessassero i tumulti fu creato dittatore un uomo molto virtuoso chiamato Cincinnato, che era tutto inteso alla coltivazione della campagna. Egli riuscì colla prudenza e colla mansuetudine a conciliare fra di loro i diversi partiti.
XV. I trecento fabi. - cincinnato l'agricoltore. (Dal 485 al 449).
Nel raccontare le segnalate vittorie dei Romani non devo tacervi le sconfitte che talvolta essi toccavano; giacchè avevano a combattere contro repubbliche italiane governate da uomini peritissimi nell'arte militare. In una occasione in cui i Veienti marciavano minacciosi sopra Roma, una famiglia detta Fabia composta di trecento uomini; pensò di affrontare quegli assalitori. Ma dovettero soccombere allo smoderato loro coraggio; perciocchè colti dai nemici in una imboscata, quei prodi perirono fino ad uno.
I Volsci e gli Equi, popoli essi pure non molto distanti da Roma, vennero a dichiarare la guerra ai Romani. Un console di nome Minuzio andò loro incontro con poderoso esercito, combattè con valore, ma si lasciò rinchiudere coi suoi fra due colli, donde non si poteva più uscire che dalla parte occupata dal nemico; nè era via di mezzo tra il morire di fame o rimaner trucidato. Questa trista novella pose Roma {45 [45]} nella più grave costernazione; nè trovavasi chi ardisse portare soccorso al pericolante esercito.
Allora nuovamente si sovvennero del povero ma valoroso Cincinnato, il quale, come vi ho sopra raccontato, per lo addietro aveva già resi grandi servizi alla patria. Tosto il Senato gli mandò ambasciatori a pregarlo di accettare la dittatura e venire a salvare Roma. Egli fu trovato nel campo che arava; e lasciati non senza qualche rincrescimento i lavori della campagna prese le insegne della dignità offertagli. Partendo disse a sua moglie: Cara Attilia, io temo, che i nostri campi siano in quest'anno mal coltivati per la mia assenza.
Giunto a Roma allestì colla massima prestezza un esercito, e quasi prima che i nemici potessero avvedersene piombò loro addosso. Assalirli, sbaragliarli, vincerli e farli passare sotto il giogo fu una cosa sola. Voi mi dimanderete: Che cosa vuol dire passare sotto il giogo? Passare sotto al giogo era una pena umiliantissima, la quale si dava a quei prigionieri di guerra, che avessero vilmente cedute le armi. Si obbligavano a passare a testa nuda sotto ad un'asta sostenuta alle estremità da due altre elevate a maniera di porta.
I Romani riconoscenti a Cincinnato, che aveva salvato la patria e l'esercito, gli concedettero la gloria del trionfo.
Era questo l'onore più grande che si potesse dare ad un generale. Montava egli sopra un carro magnifico tirato a quattro cavalli, vestito di porpora ricamata di oro, tenendo in mano uno scettro d'avorio, e cinto il capo di una corona d'alloro. Dinanzi al carro camminavano i prigionieri vinti in guerra, ed alcuni soldati portavano le spoglie dei vinti con grandi cartelli, su cui erano scritti i nomi delle città e dei popoli conquistati. Da ogni parte i fanciulli bruciavano preziosi profumi: il popolo affollato, i senatori, i sacerdoti, e tutti gli altri magistrati vestiti delle insegne della loro dignità, fra i più clamorosi applausi accompagnavano il trionfatore. Ma in mezzo a tanta gloria sul carro dello stesso trionfatore stava assiso un povero schiavo, il quale a bassa e cupa voce andava ripetendo: Ricordati che sei uomo. Ciò era per avvisarlo che nulla sono le grandezze del mondo senza la virtù, e che si guardasse bene dal lasciarsi entrare nell'animo punto d'orgoglio tra l'ebbrezza dell'onore. {46 [46]}
Cincinnato riportò due volte l'onore del trionfo, perchè due volte liberò la patria. Nondimeno terminata la guerra fuggiva i pubblici applausi, e ritornava immediatamente alla vita privata in seno alla propria famiglia. Egli condusse onoratamente il resto de' suoi giorni, ascrivendosi a vera gloria il coltivare i suoi terreni e guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
Sedate le guerre esterne, per alcuni disordini, che spesso avvenivano nell'amministrare la giustizia, nacquero dissensioni interne. I Romani di quei tempi avevano bensì alcuni decreti, alcune costituzioni, ma non avendo una legge determinata, spesso la giustizia dipendeva dal capriccio di chi giudicava. Pertanto secondo una proposta fatta da Caio Terentillo Arsa furono scelti tre nobili personaggi, i quali viaggiarono nelle principali città dell' Italia e della Grecia a fine di raccogliere quanto di meglio si fosse potuto trovare negli usi e nelle leggi dei vari paesi; specialmente dell'Attica.
Ritornati quei tre patrizi a Roma, fu affidato a dieci magistrati l'incarico di esaminare quanto essi avevano raccolto, e ridurlo a forma di codice civile, cui fecero scolpire sopra dodici tavole di bronzo. Quei magistrati dovevano durare un anno nella loro carica, e si dissero decemviri dal loro numero. Ma siffatta magistratura avendo abusato del suo potere, ed essendo degenerata in tirannide, dopo due anni venne abolita. Un tristo avvenimento diede motivo a tale abolizione. Era in Roma una virtuosa fanciulla di nome Virginia. Il padre suo Virginio centurione l' aveva promessa sposa ad Icilio fervido difensore della plebe.
Capo dei decemviri in quei dì era Appio, il quale abusando del supremo potere voleva di Virginia fare una schiava, che era quanto dire: comperar quella giovane come si comprerebbe un giumento in pubblico mercato.
Virginio avvertito della cosa venne dall' esercito al foro per difendere la figlia. Perorò, pregò, pianse, implorò l'aiuto del popolo, addusse testimonianze dello stato libero della donzella. Ma Appio volendola assolutamente sua schiava ordinò che a viva forza venisse strappata dalle braccia del padre. Al certo disonore della figlia, Virginio preferisce il sacrificio degli affetti paterni: dà di piglio ad un coltello e qual forsennato lo immerge nel di lei seno. Di poi imprecando al {47 [47]} tiranno e col ferro ancor grondante del sangue dell' innocente torna al campo. A quella vista l'esercito si solleva. Tutta Roma è in rivolta. Per decreto del Senato furono aboliti i decemviri, e ripristinati i consoli. Appio per sottrarsi al supplizio della scure si die disperatamente la morte.
Poco dopo furono suscitate nuove discordie in Roma. Un certo Licinio, Tribuno della plebe, aveva proposto due leggi; una che permetteva ai plebei di contrarre matrimonio con le famiglie dei patrizi, e l'altra che i plebei potessero anche pervenire al Consolato. I Senatori approvarono la prima, e non volevano acconciarsi alla seconda. Intanto appressandosi alcuni nemici, il popolo non voleva combattere. Allora il senato per appagare il popolo propose la creazione di tre tribuni militari, da prendersi fra' patrizi, e fra' plebei, i quali avrebbero tenuto il luogo dei Consoli. Questi tribuni crebbero poi fino al numero di otto. In appresso ai tribuni militari sottentrarono nuovamente i consoli. Siccome poi per la moltitudine degli affari non potevano attendere ad ogni uffizio, si pensò di togliere loro una parte delle cure e di affidarla ad altri magistrati, che vennero creati allora sotto il nome di censori.
XVI. I tiranni di Siracusa. (Dal 425 al 396).
L'isola più grande e più considerabile d'Italia è senza dubbio la Sicilia, posta nella parte più meridionale della penisola, separata dal resto dell' Italia da uno stretto oggidì appellato Faro. Dicono che anticamente la Sicilia fosse unita all'Italia e che quello stretto sia stato cagionato da un grande terremoto, a'cui va molto soggetto quel paese.
L' isola appellavasi primieramente Trinacria, perchè ha figura di un triangolo: e fu poi detta Sicilia dai Siculi, i quali ne furono antichissimi abitatori. Le sue campagne sono fertilissime, ed i Romani ne traevano tanti prodotti, che fu per molto tempo appellata il granaio di Roma.
Gli antichi re di quest' isola solevano appellarsi tiranni, nome che in allora non aveva nulla di crudele, come suona {48 [48]} oggidì; ma semplicemente veniva a dire: uomini valorosi che colle armi o coll'industria fossero saliti al sovrano potere in una città prima libera. Devo per altro confessarvi, che la più parte di quegli antichi sovrani erano veri tiranni, ingiusti, vendicativi, crudeli e stravaganti. La qual cosa ben comprenderete da quanto io vi voglio raccontare di un certo Dionigi tiranno di Siracusa, città principale della Sicilia.
Dionigi non era nato di famiglia reale, ma a forza di astuzie e di frodi riuscì a farsi obbedire da tutti, ora facendo morire segretamente coloro, che gli resistevano; ora accarezzando quelli che potevano favorirlo.
Poco geloso di farsi amare, purchè fosse temuto, quando compariva in pubblico era sempre accompagnato dalle feroci sue guardie, le quali attente ad ogni suo cenno trucidavano senza pietà gl'infelici, che avessero la mala sorte di cadere in disgrazia di lui. Guai a chi non lo avesse lodato o piuttosto adulato in tutte le sue capricciose azioni. Perciò avvenne che in breve si trovò circondato da un numero di vili adulatori, i quali applaudivano ad ogni suo detto, e lodavano tutto che gli fosse tornato a capriccio di fare.
Dionigi aveva altresì la manìa di voler comparir dotto letterato; a questo fine soleva preparare alcuni componimenti, che leggeva in pubblico a fine di riscuotere applausi. Un giorno ebbe a se uno, che non era adulatore, di nome Filossene, e lo richiese del suo parere intorno ad alcuni versi che egli pretendeva essere bellissimi. Filossene colla solita sua schiettezza non gli potè nascondere che a lui que'versi parevano pessimi. Allora il tiranno montato in collera ordinò alle guardie di afferrare l'audace critico e cacciarlo in oscura prigione.
Gli amici di Filossene spaventati della sorte che gli sovrastava si recarono dal tiranno e tanto lo supplicarono, che gli volle perdonare a patto, che il prigioniero acconsentisse di andar la sera medesima a cenare alla sua mensa.
Durante la cena Dionigi, il quale non poteva ancora darsi pace della franchezza di Filossene, lesse di nuovo alcuni versi cattivi come i primi colla speranza, che quegli non osasse questa volta negargli le sue lodi. Ma quanto non rimase confuso allora che Filossene invece di applaudire, come gli altri cortigiani, si volse alle guardie e loro disse ad alta {49 [49]} voce: Riconducetemi in prigione! Con che quell'uomo dabbene voleva dire ch' ei preferiva di andar in prigione piuttosto che parlar contro coscienza. Dionigi il comprese benissimo; ed in luogo di adirarsi ammirò la nobile indole di lui egli permise di dire qualche volta la verità in sua presenza.
Mentre regnava Dionigi vissero Damone e Pizia, per la loro amistà cotanto celebrati. Per una certa sua imprudenza Damone fu dal crudele Dionigi condannato a morte, e soltanto per somma grazia ottenne di potersi recare in patria per assestare alcuni affari domestici ed abbracciar per l' ultima volta la vecchia sua madre; ma a condizione che il suo amico si desse in sicurtà, e fosse disposto a subire la morte ove Damone non fosse ritornato. Era giunto il giorno fissato pel ritorno di Damone e niuno il vedeva comparire. Alcuni biasimavano l'imprudente confidenza di Pizia, ma egli rispondeva: Io sono sicuro die Damone verrà e mi toglierà la gloria di poter morire per lui. Infatto Damone mantenne la parola, e al tempo dato fu di ritorno. Qui sorse una gara perchè l'uno voleva andare alla morte per l'altro. Dionigi quantunque di cuor malvagio rimase tuttavia commosso all'azione magnanima di Pizia; li graziò ambidue e li colmò di elogi e di doni, e li scongiurò di voler anche associare lui stesso alla loro amicizia. Tanto è vero che gli stessi malvagi sono costretti ad ammirare la virtù dei buoni.
Fra' cortigiani del re uno segnalavasi di nome Damocle, il quale magnificava del continuo le ricchezze, la sapienza e la felicità del tiranno. Dionigi sebbene si compiacesse di tali adulazioni, nulladimeno volle con fatti dimostrargli che le grandezze mondane non rendono gli uomini felici. Disse pertanto a Damocle: Io ti cedo il mio posto per tutto quel tempo che vorrai, nè alcuna còsa voglio che ti manchi per farti godere della mia felicità.
Damocle fu da prima collocato sopra un letto di oro coperto di panni doviziosamente ricamati; intorno a lui sorgevano credenze cariche di vasi d'oro e d'argento; molti domestici magnificamente vestiti lo circondavano attenti a servirlo ad ogni cenno: da tutte parti gli aromi spandevano odori, ardevano squisiti profumi. Infine fu servito di un superbo pranzo, in cui si trovava raccolto quanto un gran ghiottone avrebbe potuto bramare. {50 [50]}
Damocle era fuor di se dalla contentezza e sembravagli di trovarsi in un vero paradiso, quando alzati gli occhi vide sopra il suo capo la punta di una spada, la quale attaccata al soffitto per un tenue crine di cavallo al più leggiero urto sarebbe caduta sul suo capo. A questa vista compreso da terrore dimenticò tutta quella apparente felicità, si alzò precipitosamente da mensa, nè volle più fermarsi un istante in quel posto che tanto aveva invidiato. Per simil modo conobbe che molte persone sembrano felici, e in tanto hanno segrete pene da cui a guisa di pungenti spade sono trafitte.
Intanto Dionigi agitato da continui rimorsi cagionati dalle persecuzioni contro a' suoi sudditi, che parte aveva uccisi, parte spogliati d' ogni avere, conduceva infelicissima vita. Diffidente e sospettoso portava sempre sotto l'abito una corazza di ferro per timore di essere ferito; e faceva visitare dalle guardie tutti quelli che entravano nel suo palazzo per assicurarsi, non avessero armi nascoste. Il barbiere un giorno disse la vita del re essere nelle sue mani, e Dionigi il fece tosto morire sul timore che un giorno o l'altro non gli segasse la gola radendogli la barba. Allora egli volle che la regina sua moglie e le principesse sue figliuole gli rendessero quel servigio; ma presto diffidò anche della sua propria famiglia e si ridusse a radersi la barba da sè stesso per cessare ogni apprensione di tradimento. Le crudeltà che aveva commesse facevangli vedere dappertutto nemici pronti a trucidarlo; nè avrebbe potuto prendere riposo, se non avesse dormito in un letto circondato da una fossa larga e profonda, la quale non si poteva attraversare se non per un ponticello, cui egli aveva grande cura di alzare prima di coricarsi.
Tuttavia non potendo calmare le noie ed i terrori, provò di abbandonarsi agli eccessi del mangiare e del bere; sicchè, fatta una grave indigestione, morì in età di 63 anni, nel 360 prima dell'era volgare.
Allo sciagurato Dionigi succedette suo figliuolo detto Dionigi il giovine per distinguerlo dal genitore. Egli non era cosi malvagio come il padre, ma era tanto indolente ed incostante, che ogni giorno cangiava di propositi. Un suo cognato di nome Dione, persuaso del grande vantaggio che avrebbo procurato un maestro savio ad un sovrano, indusse Dionigi a far venire da Atene Platone. {51 [51]}
Dionigi era impaziente dell'arrivo di sì esimio filosofo, e per alcuni mesi provò sommo diletto nell'udirne le lezioni, anzi parve che volesse mettere in pratica le massime di saviezza di quel celebre maestro. Se non che i suoi cortigiani, cioè i suoi adulatori, più amanti della crapula che della scienza gli fecero mutare pensiero e lo consigliarono di allontanare dalla corte Platone, ed esiliare Dione che ve lo aveva chiamato.
Ma guai a chi disprezza gli avvisi degli uomini savi! Nella reggia alle scienze sottentrarono nuovamente lo stravizzo e la licenza, ed ecco di nuovo la crudeltà e l'oppressione verso dei sudditi. Tante barbarie risolverono Dione a prendere le armi per liberare la patria dall'oppressore. Allestì un esercito di prodi amici; di Grecia venne in Siracusa, e costrinse Dionigi a fuggire in altri paesi. Costui dieci anni dopo tentò nuovamente d'impadronirsi del regno; mi cacciatone per la seconda volta si riparò a Corinto, dove per più anni menò vita abbietta, abbandonandosi a quei vizi che lo avevano disonorato sul trono. Ridotto ad estrema miseria fu costretto di aprire una scuola ed insegnare grammatica ai fanciulletti a fine di campare la vita. Si dice che quando passava per le vie di Corinto, avvolto in un mantello di grosso panno, fosse dal popolo beffeggiato ed ingiuriato non per essere povero, il che sarebbe stato biasimevolissimo, ma perchè è degno di disprezzo chi pei suoi vizii è cagione della propria miseria.
Ora che vi ho raccontato la storia di due tiranni di Siracusa, ritorniamo alle cose dei Romani.
XVII. Guerra di Veio. - Camillo. - I galli senoni a Roma. (Dall'anno 396 al 321 avanti Cristo).
In quei tempi i Veienti erano gli avversari di Roma meglio esercitati nelle armi che tutti gli altri popoli d'Italia. Essi avevano sempre dato che fare ai Romani, e Veio loro capitale aveva il primato sopra la stessa Roma per grandezza, ricchezza e potenza. {52 [52]}
Gelosi perciò i Romani risolvettero di abbatterli e andarono a cingere di assedio la stessa loro capitale. Accanite e feroci erano ambe le parti: gli uni per assalire, gli altri per difendersi. L'assedio durò ben dieci anni con esito incerto. Le sortite degli assediati, i frequenti attacchi dei contadini avevano diradato a segno le file degli assedianti, che già erano in procinto di ritirarsi.
In questo estremo fu nominato Dittatore Camillo, e a lui venne affidata la difficile impresa di quell'assedio. Questo coraggioso generale, dopo aver più volte tentato invano l'assalto della città, fece scavare una via sotterranea, la quale metteva nella fortezza. In simile guisa, prima che i Veienti se ne avvedessero, i Romani riuscirono a penetrare entro alle mura nemiche. Dato un generale assalto, Veio cadde in loro potere. Ne riportarono ricco bottino, e per questa gloriosa conquista Camillo fu condotto a Roma in trionfo.
Ma quanto mai è fugace la gloria del mondo! Sovente accade che coloro i quali oggi gridano evviva, domani gridino morte. Ciò avvenne a Camillo. Alcuni malevoli, mossi da invidia per gli onori da quel prode conseguiti, lo accusarono quasi che ambisse di farsi re, e lo costrinsero ad andarsene in esilio. Ma i Romani non tardarono a pentirsi della loro ingiustizia verso di un tanto uomo, quando si videro i Galli alle porte della loro città.
Vi ho già parlato di una invasione di Galli, che ai tempi di Tarquinio il vecchio vennero a stabilirsi in varie parti d'Italia. Un grande numero di quelli detti Seno-Galli si stabilirono vicino agli Umbri, dove costrussero una città che da essi fu appellata Senegallia ora Sinigallia. Costoro, guidati da Brenno loro re, invasero varie parti d'Italia, e penetrati nell'Etruria andarono ad assediare la città di Chiusi alleata di Roma.
Erano i Galli uomini di alta statura, coraggiosi oltre ogni credere, e d'indole brutale e feroce. I cittadini di Chiusi spaventati da quei formidabili conquistatori dimandarono soccorso dai loro alleati. Il Senato spedì tre ambasciatori per invitare i Galli a rispettare gli amici di Roma. Le accoglienze di Brenno furono piene di cortesia; egli loro domandò per quale cagione si fossero condotti a lui. Noi, gli risposero, siamo venuti per sapere in che cosa i Chiusini {53 [53]} hanno offeso il re dei Galli; poichè in Italia non si muove guerra senza giusto motivo. E Brenno a loro: Non sapete, che il diritto dei valorosi sta nella spada? I Romani medesimi con quale diritto usurparono eglino molte città? Ma una ragion di guerra abbiamo pur noi. Il re di Chiusi negò di far parte ai Galli delle terre deserte, le quali i suoi sudditi non possono coltivare.
I legati Romani accolsero freddamente le ardite parole del conquistatore, ed essendo seguita una battaglia tra i Galli ed i Chiusini, i legati non esitarono a prendervi parte, ed uno di loro uccise un Gallo spogliandolo delle sue armi. Queste indegne maniere di operare accesero Brenno di sdegno, il quale mandò a farne querela a Roma. I Romani giudicando aver nulla a temere da quei barbari non si degnarono mai di rispondergli. Di che montato Brenno in grande furore, risolvette di avviarsi coll'esercito contro Roma per farne terribile vendetta. I paesi pei quali passava tremavano di spavento. Giunto alle rive del fiume Allia incontrò l'esercito romano spedito contro di lui. La battaglia fu accanitissima, ma funesta ai Romani; quarantamila dei quali restarono sul campo, gli altri furono messi in fuga. Allora Brenno senza alcuna resistenza con incredibile prestezza pervenne alle porte di Roma, che trovò quasi vuota di abitanti: perciocchè all'avvicinarsi di quei formidabili nemici eransi i cittadini in massima parte dati alla fuga, ad eccezione di quelli i quali per vecchiezza o per infermità non avevano potuto muoversi.
I Galli entrati trionfanti in città trovarono i vecchi senatori, che imperturbabili sedevano sulle loro sedie d'avocio. Uno de' Galli stese la mano e tirò la barba di uno di questi senatori per nome Papirio, il quale giudicando essere quello un affronto intollerabile gli diede tale un colpo col suo scettro di avorio sul capo, che lo uccise sull' istante. Questo fu cagione di una grande strage; Papirio fu ucciso pel primo; non si risparmiarono nè donne, nè vecchi, nè fanciulli. Fu appiccato il fuoco alle case, le quali tutte rimasero incenerite, cosicchè Roma divenne un mucchio di rovine.
I più prodi Romani eransi ritirati nella fortezza del Campidoglio, che fu tosto assediata dai Galli. Mentre Brenno {54 [54]} incalzava l'assedio, intese che il valoroso Camillo, invitato da'suoi, veniva per salvare la patria e che con forte esercito era giunto alle porte di Roma. Allora i Galli stimarono bene fare la pace coi Romani, e costrettili a pagare loro una grossa somma di danaro, carichi di spoglie, abbandonarono la rovinata città e corsero a difendere le loro terre assalite dai Veneti, abitanti delle rive dell'Adriatico in vicinanza del sito ove più tardi sorse Venezia[4].
Si racconta da altri che i Romani assediati in Campidoglio avevano patteggiato di dare mille libbre d'oro ai Galli, affinchè questi si ritirassero. Mentre si pesava l'oro, i Galli non solo usarono pesi falsificati, ma alle querele dei Romani aggiunsero l'insulto. Brenno pose in sulla bilancia anche la spada gridando: Guai ai vinti! Intanto sopraggiunto Camillo co'suoi, interruppe l' alterco dicendo: Col ferro e non coll'oro devono i Romani redimere la loro patria. Venuto quindi alle mani costrinse l' esercito nemico ad allontanarsi da Roma.
Partiti i Galli, Camillo, dimenticando l'ingiuria fattagli da'suoi concittadini col mandarlo in esilio, divenne padre del popolo soccorrendo gli uni, incoraggiando gli altri a risarcire i danni cagionati dai nemici. Già la città risorgeva dalle sue rovine, allora che un'orribile pestilenza, dopo avere desolati molti paesi dell'Italia, si dilatò fino a Roma. Grande numero di cittadini perirono di quel morbo, da cui colto lo stesso Camillo, vi lasciò la vita.
XVIII. Guerre sannitiche e le forche caudine. (Dall'anno 321 al 280 avanti Cristo).
Avevano i Romani appena ristorata la città e riparati i mali dai nemici cagionati, quando insorsero nuove guerre e non meno delle antecedenti sanguinose.
Lunga e funesta fu quella che dovettero sostenere contro ai Sanniti. Ecco quale ne fu la cagione. I popoli della Campania {55 [55]} avevano mandato ad implorare la protezione de' Romani contro alle infestazioni dei Sanniti, ed il Senato di Roma ordinò a questi che cessassero dalle ostilità. Essi rifiutarono superbamente di accondiscendere, e la guerra fu dichiarata.
I due consoli Cornelio e Valerio Corvo[5] presero il comando dell' esercito. Era questi il più valoroso ed il più esperto capitano del suo tempo. Per la qual cosa non ostante la singolare perizia dei Sanniti nelle armi, i Romani furono sempre condotti alla vittoria. Non eguale sorte toccò a Cornelio, giacchè lasciatosi rinchiudere in alcuni stretti passi stava per cadere nelle mani de' nemici. Ma un altro capitano romano, di nome Decio, accampatosi sopra una prossima collina, assalì i nemici con tanto impeto, che ne uccise trenta mila.
Poco dopo questa vittoria l' esercito di Cornelio si ammutinò, e già si avanzava contro Roma, quando il Settato mandò loro incontro Valerio, il quale colla sua affabilità seppe placare gli animi dei ribelli ed allontanare cosi una guerra civile.
Terminata questa prima guerra coi Sanniti, se ne accese un'altra coi Latini. Siccome questo popolo nei costumi era molto somigliante ai Romani, così ad evitare la confusione, che avrebbe potuto nascere nelle battaglie, fu da' Romani imposta la pena di morte a chi fosse uscito dalle file. Venuti a fronte i due eserciti, Mezio capitano de' Latini si avanzò a sfidare un cavaliere romano a duello. I Romani per tema di castigo se ne stavano tutti taciturni, e niuno osava affrontarsi. Ma T. Manlio, figliuolo del console, pieno di giovanile ardire, spiccossi dalla sua schiera, e venuto alle mani con Mezio lo uccise. Spogliatolo quindi delle sue armi, in mezzo agli applausi degli amici se ne venne al padre. Conosceva questi quale scandalo sarebbe nato nella milizia, qualora il figliuolo fosse andato impunito della sua disubbidienza; e perciò anteponendo la giustizia all' amore paterno, fattolo condurre in presenza di tutto l'esercito, gli {56 [56]} fece troncare la testa. Dopo essergli stati resi gli onori funebri, si appiccò la pugna tra i due eserciti. Stava incerta la vittoria, quando gli auguri mandarono a dire, che per vincere era mestieri che il capitano dell' ala, che avrebbe cominciato a cedere, si fosse sacrificato agli Dei infernali. Non andò guari che l'ala sinistra de' Romani mostrò di piegare. Allora Decio che ne aveva il comando si lanciò colle sue armi in mezzo ai nemici sacrificandosi per la patria. I Romani a quella vista, ripreso coraggio, sbaragliarono i Latini e ne menarono tale strage, che appena la quarta parte campò da morte.
Vinti i Latini, si riaccese una seconda guerra coi Sanniti. Guidava l'esercito romano il console Postumio, uomo di grande valore. Egli teneva per certa la vittoria, ma questa volta avvenne il contrario; imperciocchè colto da uno stratagemma si lasciò condurre tra due montagne in un passo sì angusto, che riusciva impossibile ad un esercito il moversi e combattere. Postumio avviluppato in quella gola fatale si vide assalito da una grande quantità di nemici, che gli attraversavano la strada, mentre dall'alto delle rupi i Sanniti scagliavano frecce addosso ai Romani e facevano rotolare sopra di essi enormi sassi.
I miseri non potendo più opporre al nemico alcuna resistenza, sfiniti dalla fatica e dalla fame, si videro costretti a chiedere per grazia la vita. Ponzio capitano dei Sanniti fu generoso, e la concesse a condizione che i Romani consegnassero le armi, e passando sotto al giogo giurassero di non più combattere contro ai Sanniti ed ai loro alleati. Condizioni umiliantissime, cui tuttavia Postumio stimò bene di sottoporsi per conservare quell'esercito alla repubblica. Egli primo di tutti, spogliatosi del manto consolare e delle armi passò sotto il giogo alla presenza dei Sanniti.
Cosiffatto avvenimento è conosciuto sotto il nome di forche caudine da Caudio (ora Ariola) città situata tra Capua e Benevento nell' Italia meridionale, vicino alla quale i Romani furono sottoposti a quella ignominia. E questa l'unica volta che i soldati romani siano stati costretti a passare sotto al giogo: e ne furono sì pieni di vergogna, che camminarono in silenzio verso di Roma, nè vollero entrarvi se non di notte, andando ciascuno a nascondersi nella propria casa. {57 [57]}
Mentre i Sanniti stavano tranquilli sulla parola data dai Romani, questi violando la promessa misero in piedi un numeroso esercito, e li assalirono all'impensata. Si opposero essi arditamente agl'iniqui assalitori, ma questa volta toccò loro la peggio; in due battaglie campali perdettero ben 60,000 soldati; Ponzio loro capitano con sette mila dei suoi fu pure condannato a passare sotto il giogo.
Stanchi i Sanniti di tante sanguinose battaglie si sottomisero finalmente ai Romani. Anche gli Etruschi ed i Galli, detti Circumpadani perchè abitavano intorno al Po, si piegarono alla potenza romana.
Dai fatti óra narrati, cari amici, non vorrei che imparaste ad esempio de' Romani a non mantenere la fede data, quando vi torni a conto di fare il contrario; anzi abbonite la mala fede, perciocchè l' uomo onesto, quando in cose giuste, impegna la parola, deve a qualunque costo mantenerla.
XIX. Pirro e Fabrizio. (Dal 280 al 263 avanti Cripto).
Un fatto in apparenza di poco rilievo produsse funestissime conseguenze ai Tarantini, popoli che abitavano la parte più meridionale dell'Italia. Ciò avvenne per un insulto fatto dai cittadini di Taranto ad alcune navi romane rifuggitesi nel loro porto. Furono mandati da Roma ambasciatori a chiedere soddisfazione, e questi stessi vennero gravemente oltraggiati. Pel che i Romani risolsero di far valere le loro ragioni colle armi. I Tarantini conoscendosi incapaci di combattere con un popolo, il cui nome faceva ormai tremare tutta Italia, ricorsero ad un principe straniero di nome Pirro, re di Epiro, paese della Grecia settentrionale. Giovane intrepido e vago di gloria erasi Pirro già segnalato con molte vittorie; ed era sommamente ansioso di misurare le sue forze con quelle de' Romani. Postosi alla testa di formidabile armata approdò in Italia, ed unitosi ai Tarantini andò a scontrare i nemici sulle rive del fiume Liri, oggidì Garigliano. {58 [58]}
Gnidava l'esercito romanu un console chiamato Levino, capitano valoroso, il quale assalì con tale impeto i nemici, che ben sette volte ruppe le loro file; ma sette volte fu dagli Epiroti respinto, cosicchè dubbiosa rimaneva la vittoria, quando Pirro fece avanzare un grande numero di elefanti che seco avea condotti. Questi animali sostenevano sopra la loro schiena certe piccole torri di legno, dall'alta delle quali alcuni soldati scagliavano frecce sul nemico. Gli elefanti poi che restavano feriti, mandavano urla spaventevoli, correvano furiosi atterrando e calpestando gli uomini e i cavalli che loro si facevano incontro.
I Romani, i quali non avevano mai veduti elefanti, ne furono così spaventati, che si diedero a precipitosa fuga; e lo stesso Levino dovette la salvezza alla celerità del suo cavallo. Quindici mila Romani caddero morti, ottomila furono fatti prigionieri. Ma anche Pirro ebbe a deplorare grave perdita. Egli stesso rimase ferito, tredici mila de' suoi furono mietuti dalle spade nemiche. Alla vista di tanti morti e di tanti feriti dicesi che Pirro esclamasse: Se ottengo un'altra vittoria simile a questa, io sono perduto. Egli si mostrò valoroso in battaglia, e seppe usare nobilmente della vittoria. Fece curare i feriti e seppellire i morti; lodò il coraggio dei Romani, e mirando que' prodi estinti, ma tutti colpiti davanti, indizio che non avevano mai voltate le spalle al nemico, andava esclamando: Mi sarebbe facile conquistare tutto il mondo, se io fossi re dei Romani.
Questo principe si affezionò tanto agli Italiani, che sebbene vincitore mandò Cinea suo ministro con doni magnifici per offerir loro una pace onorevole. Ma i Romani non potevano acquietarsi di quella battaglia perduta, e incoraggiati dal senatore Fabrizio rifiutarono i regali e le proposte di Pirro, dicendo che avrebbero trattato di pace quando egli avesse sgombrata l'Italia.
Caio Fabrizio era povero, ma commendevolissimo per probità, frugalità e valore. I Romani specchiavansi in lui come in un modello di virtù. Si cibava di soli legumi e dei frutti di un orticello cui egli coltivava colle proprie mani. Per la grande sua prudenza fu inviato a Pirro a fine di riscattare i prigionieri.
Pirro, che aveva più volte udito a parlare di lui, provò {59 [59]} vivo piacere in vederlo, e si studiò ai iarseio amico con doni e con promesse. Ma egli da magnanimo francamente rispose: «Se mi riputate uomo onesto, perchè tentate di corrompermi? Se mi credete capace di tradire i miei doveri, che volete fare di me?» Il re pieno di stupore volendo mettere ad esperimento il coraggio di Fabrizio gli fece venire vicino un elefante, che minacciava di percuoterlo e pose in opera altri artifizi per atterrirlo. Ma egli senza muoversi, nè punto sbigottirsi, sorridendo disse al re: «Questi terrori possono sopra di me nè più nè meno dei regali, che ieri mi offeriste.» Attonito Pirro a tanta nobiltà e a tanta fermezza d'animo appagò i desideri di lui, e gli diede i prigionieri da condursi a Roma senza riscatto.
Intanto i Romani, ristorate le loro perdite, crearono console il valoroso Fabrizio, il quale di buon grado si pose alla testa di un nuovo esercito per tentare con ogni sforzo di respingere Pirro. I due eserciti stavano a fronte l' uno dell'altro presso Benevento; gli apparati erano formidabili da ambe le parti, quando il medico di Pirro, scostatosi di soppiatto dal campo, si presentò al console e gli promise di avvelenare il suo padrone, se gli dava una generosa ricompensa.
La proposizione di quel traditore mosse a sdegno l'intemerato Fabrizio, il quale scrisse immediatamente una lettera a Pirro per avvisarlo di non fidarsi di quell'uomo malvagio e conchiudeva: «Punisci questo traditore, e da questo fatto impara quali siano i tuoi amici e quali i nemici.» Il re si accertò del fatto e, scoperta la verità, nell'eccesso dello stupore, «ammirabile Fabrizio, esclamò, è più facile far cangiare direzione al sole, che deviar te dalla via dell'onore.» Volendo poi in qualche maniera compensare la generosità di Fabrizio, gli mandò tutti i soldati che poco prima aveva fatti prigionieri.
Finalmente si venne a battaglia campale, e questa volta la vittoria fu dei Romani. Essi a poco a poco eransi assuefatti alla vista degli elefanti, anzi, trovato modo di ferirli e rivolgerli contro agli stessi Epiroti, piombarono con tale impeto sui nemici, che ventitrè mila ne uccisero sul campo, e gli stessi alloggiamenti caddero nelle loro mani.
Pirro, forzato dai Romani ad abbandonare l'Italia, passò {60 [60]} prima in Sicilia; ma poco dopo alcune turbolenze il richiamarono in Epiro. Morì in Argo colpito da una tegola lasciatagli cadere sul capo da una vecchia, di cui stava per uccidere il figliuolo. Da ciò si vede che talvolta Iddio si serve dei più deboli strumenti per punire eziandio i grandi del mondo. Dicesi che Pirro prima di lasciare la Sicilia abbia con dolore esclamato: «Che bel campo lasciamo ai Romani ed ai Cartaginesi!»
Questa guerra fruttò ai Romani il dominio sopra quasi tutta l'Italia meridionale, e la fama del loro valore cominciò a dilatarsi presso alle nazioni straniere.
Ma Roma non avrebbe certamente potuto conservare il frutto di tante vittorie, se la politica del Senato non avesse saputo inventare un mezzo per tenere a freno i popoli vinti. Questo mezzo fu il sistema di fondare colonie nei paesi conquistati. Ogni volta che essi acquistavano nuove terre, ne distribuivano una parte alla plebe più bisognosa ed ai soldati veterani. In questo modo liberavano Roma dai pericoli, cui suole essere condotta una città da un popolo numeroso e stretto dalla miseria, e nello stesso tempo raffrenavano i vinti e ne impedivano le ribellioni.
XX. Conquiste dei Romani fuori d'Italia o la prima guerra punica. (Dal 263 al 218 avanti Cristo).
Le conquiste fatte dai Romani nello spazio di cinque secoli erano estese a tutti i paesi d'Italia, così che cinquecento anni dopo la fondazione di Roma erano considerati come i soli padroni della penisola. Ma sebbene essi fossero tenuti pei più prodi di que' tempi, tuttavia incontravano gravissime difficoltà ad uscire d'Italia, perchè affatto inesperti della nautica ossia della scienza che ammaestra a camminare sul mare.
Credo che vi farà piacere conoscere il modo con cui si possono fare viaggi lunghissimi sopra il mare, e perciò voglio ingegnarmi di porgervene un'idea. Per camminare sopra {61 [61]} il mare si là uso di vascelli, che rassomigliano a quello barche, le quali vediamo galleggiare sopra i nostri fiumi, ma grossi in modo, che vi si possono formare parecchie camere ove mangiare, dormire e collocare grande quantità di merci. I vascelli hanno lunghe travi, dette alberi, elevate nella parte superiore di essi, ai quali si attaccano pezzi di tela grossa detti vele, che gonfiate dal vento tanno con grande velocità camminare le navi, o vascelli, appellati anche bastimenti. Per dare movimento alle navi si fa anche uso di remi, che sono fatti a guisa di lunghe stanghe, colle quali i marinai da ciascun lato del naviglio fendono l'acqua e lo spingono avanti. I bastimenti che andavano a vele ed a remi, prendevano anticamente il nome dal numero degli ordini dei rematori. Dicevansi pertanto triremi, quadriremi, e fino a settiremi, secondochè avevano tre, quattro o più ordini di rematori. Ogni nave era armata nella parte anteriore di uno sperone di ferro o di rame detto rostro da una parola latina che significa becco. Esso di fatto nei combattimenti serviva a forare ed anche a squarciare con un urto violento le navi nemiche.
Abilissimi nella nautica erano in quei tempi i Cartaginesi, padroni di quasi tutta la parte dell'Africa bagnata dal Mediterraneo. La loro capitale era Cartagine, fondata due secoli prima di Roma. Ricca, potente, guerriera, floridissima pel suo commercio, per le arti e pei mestieri, posta dirimpetto all' Italia e da essa divisa soltanto per un tratte del Mediterraneo, era considerata quale padrona del mare. I Romani, come già vi ho detto; divenuti padroni dell'Italia udivano con invidia a parlare della magnificenza di Cartagine e della prodezza dei Cartaginesi, e aspettavano una occasione che servisse di pretèsto per condurre le loro legioni contro a quella formidabile rivale. L' occasione non tardò molto a presentarsi.
In Siracusa era salito sul trono un re chiamato Gerone, successore di Dionigi il tiranno, il cui nome credo non avrete ancora dimenticato. Quel principe avendo mosso guerra ai Mamertini, altro popolo della Sicilia, si unì coi Cartaginesi, padroni della maggior parte di quell' isola. I Mamertini dal canto loro, certi di non poter far fronte a cosi potenti nemici, fecero ricorso ai Romani. I quali volevano {62 [62]} bensì loro accondiscendere, ma non avendo navi da ciò, non sapevano come spedire soldati in Sicilia. La fortuna venne in loro aiuto. Impadronitisi di una galera dei Cartaginesi, che la tempesta aveva gettata sulle spiagge d'Italia, in poco tempo ad imitazione di quella costrussero cento venti navi, su cui parecchie legioni romane poterono passare lo stretto di Sicilia.
La sorte delle armi fu propizia ai Romani, che, fatti arditi per alcune vittorie riportate per terra sopra i Cartaginesi, allestirono altre navi e li assalirono anche per mare. Il combattimento fu lungo ed accanito, la strage grande da ambe le parti. Finalmente la vittoria stette pei Romani. Duilio console e generale dell'esercito romano conseguì gli onori di un trionfo navale, in cui si portarono dinanzi a lui i rostri delle navi prese ai nemici. In memoria di quel trionfo s'innalzò nel foro romano una colonna detta rostrale perchè ornata di rostri di navi.
Animati i Romani da questi prosperi successi deliberarono di portare le loro armi in Africa. Era questa la prima volta che i romani uscivano dei confini d'Italia. Capo di quella spedizione era il console Regolo, uomo abile, coraggioso e assai commendato per probità. Egli da prima riportò una strepitosa vittoria navale sopra i Cartaginesi, loro togliendo più di cento navi; e giunto in Africa riuscì ad impadronirsi di molte città.
I Cartaginesi vedendosi vinti per mare e per terra chiesero pace; ma Regolo non la voleva concedere se non a durissime condizioni. Di che ebbe presto a pentirsi. I Cartaginesi ridotti alla disperazione si accinsero a difendersi con indicibile ardore. Sotto agli ordini di Santippo, generale Spartano di somma capacità, raccolsero grande numero di soldati e sopra tutto molti elefanti (poichè l'Africa abbonda di questi animali) con innumerevole cavalleria fatta venire dalla Numidia e dalla Spagna.
Regolo pieno di baldanza, invece di protrarre l'attacco, volle accettare la battaglia in luogo a lui svantaggioso: perciò il suo esercito fu quasi interamente distrutto, egli stesso fatto prigioniero e condotto a Cartagine carico di catene.
Dopo tale sconfitta i Romani non mancarono di fare nuovi {63 [63]} tentativi per rifarsi delle loro perdite; ma invano: poichè le cose loro andarono e per mare e per terra di male in peggio. I Cartaginesi lieti di queste prospere imprese entrarono in isperanza di ottenere la pace dai Romani a condizioni migliori. A questo effetto mandarono a Roma ambasciatori, e con essi lo stesso Regolo già da quattro anni rinchiuso in oscura prigione, persuasi che avrebbe sollecitato il Senato ad accondiscendere. Ma lo inviarono con giuramento che, qualora non si fosse venuto ad un accordo, egli sarebbe ritornato a Cartagine.
Giunti gli ambasciatori a Roma furono accolti in Senato, tutti i senatori erano disposti a dare il voto per la pace, soltanto Regolo rinunziando all' utile proprio, pieno di amore di patria, asserì che non dovevasi accettare alcuna condizione di pace, se non quando Cartagine avesse ceduto a Roma.
Il Senato aderì al consiglio di Regolo, ma lo consigliò a non più partire da Roma, perchè i Cartaginesi lo avrebbero fatto morire. La moglie, i figliuoli piangenti il supplicavano a non più allontanarsi da loro. Ma egli aveva giurato di ritornare a Cartagine, e preferì di ricondursi presso a' suoi nemici; sebbene fosse certo che gli avrebbero fatto soffrire crudelissimi tormenti, piuttosto che rendersi colpevole di uno spergiuro. Infatto i Cartaginesi, sdegnati perchè quella trattazione era tornata inutile, presero Regolo, gli tagliarono le palpebre, lo esposero alla sferza di ardente sole, e per saziare la loro barbarie il posero in una cassa orrida di acute punte di ferro, le quali, ovunque il misero si volgesse, lo trafiggevano; e quivi morì.
Ripresero tosto le armi Cartaginesi e Romani; si combattè con accanimento e con perdite gravissime da ambe le parti, ma da ultimo i Romani prevalsero, e i Cartaginesi chiesero nuovamente la pace. Roma stanca anch'essa, la concedette alle stesse condizioni già proposte da Regolo, cioè:
1° Che i Cartaginesi pagassero mille talenti d'argento spesi in guerra, e in dieci anni altri duemila e dugento.
2° Sgombrassero da tutta la Sicilia e da tutte le altre isole poste tra l'Italia e l'Africa.
3° Non potessero muovere guerra agli alleati di Roma, nè condurre alcun legno da guerra in paese Romano. {64 [64]}
4º Fossero tostamente spediti a Roma i prigionieri ed i disertori senza verun riscatto.
Cartagine, indebolita come era, accettò queste dure condizioni, e cosi dopo 24 anni di combattimenti ebbe termine la prima delle tre grandi guerre dei Romani coi Cartaginesi dette guerre puniche da una parola latina che vuol dire cartaginese.
XXI. Annibale in Italia o la seconda guerra punica. (Dal 218 al 211 avanti Cristo).
Un illustre generale cartaginese di nome Amilcare erasi reso assai celebre nella prima guerra punica, ed in parecchi combattimenti era stato vincitore contro ai Romani. Ma in battaglia navale essendo stato sconfitto, e non potendo immantinenti vendicare l'onor militare, prese un suo figlio ancora fanciullo, chiamato Annibale, il condusse in un tempio, e dinanzi all' altare degli Dei il fece giurare di voler essere nemico dei Romani per tutta la vita. Empia promessa, ma che egli non dimenticò mai finchè visse.
Annibale fatto adulto, malgrado la pace conchiusa tra Roma e Cartagine, risolvè di attaccare i Romani, e con una armata di ben cento cinquanta mila uomini traversò il Mediterraneo, penetrò nella Spagna, assalì e distrusse Sagunto, città alleata dei Romani, e ciò per farsi strada a venire in Italia. Quindi valicò i Pirenei, monti che dividono la Francia dalla Spagna, e si avanzò verso la Gallia Transalpina. Ma giunto appiè delle Alpi vide che esse innalzavansi ai suoi occhi a guisa di muro altissimo, ove niente altro scorgevasi che neve, ghiaccio, sassi enormi, altezze inaccessibili; nessuna strada, anzi neppur traccia di sentiero. Tutti questi ostacoli non valsero a rallentare il corso di quell'ardito conquistatore. Con grande fatica e colla perdita di trenta mila de' suoi varcò le Alpi, e come fu sopra una delle più alte cime, donde si potevano vedere le belle e ricche campagne d'Italia, le additò a' suoi soldati. Giunto presso a Torino venne a zuffa coi cittadini, cui pienamente sconfisse, distruggendo quasi affatto questa torte città. {65 [65]}
Presso al Ticino in un luogo detto Clastidio, ora Casteggio, incontrò il primo esercito romano, guidato dal console Scipione, il quale cercava di porre un argine a' suoi progressi. Scipione fu vinto e ferito, e tutto l'esercito sbaragliato.
Il console Sempronio si arrischiò di tentare nuova battaglia presso la Trebbia, fiume che nasce negli Apennini, e mette nel Po vicino alla città di Piacenza. Colà i romani, a cagione del luogo svantaggioso, toccarono pure una sconfitta ancora più funesta di quella del Ticino. Penetrato Annibale nell' Italia centrale, ebbe a fronte il console Flaminio. Presso al lago Trasimeno, ora lago di Perugia, si diede principio da ambe le parti ad un ferocissimo combattimento, ma nulla potè resistere alle spade cartaginesi. Flaminio cadde morto nella mischia, gli uni incalzati dai nemici si precipitarono nel lago, gli altri, preso il cammino dei monti, ricaddero in mezzo ai Cartaginesi, da cui volevano fuggire. Insomma quasi tutto l' esercito romano peri.
Si accorsero allora i Romani, che queste tre sanguinose sconfitte provenivano da mancanza di abile capitano, e si giudicò che la prudenza del dittatore Fabio Massimo avrebbe potuto riparare le perdite de' suoi antecessori. Esso fu soprannominato il temporeggiatore, perchè solo pose termine alle vittorie di Annibale col tendergli agguati e coll' assalirlo con maturato senno alla spicciolata.
Fabio riuscì a chiudere l'esercito cartaginese in una gola di montagne presso Falerno, città dell'Italia meridionale. Ma Annibale capitano non meno coraggioso, che accorto, seppe trarsi da quel pericolo con uno stratagemma. Fece legare grossi fastelli di sarmenti secchi alle corna di duemila buoi, e, appiccatovi il fuoco, sul far della notte cacciò quegli animali verso le alture occupate dai Romani. Costoro impauriti a tale spettacolo abbandonarono i loro posti. Annibale colse il momento favorevole, e nel silenzio della oscurità usci co' suoi dallo stretto. Al farsi del giorno Fabio non trovò più nemici da combattere.
Annibale adirato perchè perdeva tempo e fatica senza poter venire a campale battaglia mandò a dire a Fabio: «Se tu sei quel gran capitano, quale si dice, vieni nelle pianure ed accetta la battaglia.» Fabio gli fece rispondere: {66 [66]} «Se tu sei quel gran capitano, quale ti credi, forzami a darti battaglia.»
Mentre dà Fabio tenevansi i Cartaginesi a bada, i Romani ebbero tempo di radunare nuove genti e di mettere in piedi un esercito, il quale se fosse stato capitanato da Fabio avrebbe avuto miglior fortuna. Ma essendo trascorsi i sei mesi della sua dittatura, gli sottentrarono i consoli Paolo Emilio, valente capitano, e Varrone, uomo impetuoso e poco esperto di guerra.
Quest' ultimo, insuperbitosi per alcuni vantaggi ottenuti sopra Annibale, gli presentò battaglia nella pianura di un villaggio detto Canne, dove l'esercito romano fu compiutamente sconfitto. Emilio ferito nel combattimento morì poche ore dopo. Varrone dovette la salvezza alla velocità del suo cavallo. Ottanta senatori, grande numero di cavalieri, cinquantamila soldati restarono sul campo.
Un ufficiale di Annibale il consigliava a correre immediatamente su Roma, e come vide rifiutato il suo consiglio soggiunse: Generale, voi sapete vincere, ma non sapete approfittare della vittoria. Difatto se dopo la sconfitta di Canne Annibale fosse andato a Roma, la guerra sarebbe stata finita, e la potenza dei Romani abbattuta per sempre.
Pervenuta a Roma la notizia del disastro di Canne, la costernazione fu universale: grida e gemiti da tutte parti: niuno sapeva a che partito appigliarsi. In mezzo a questa generale costernazione quel Fabio, che aveva combattuto Annibale con tanto vantaggio, fu il solo che abbia conservato il consueto buon giudizio. Ei convocò i senatori, che il terrore aveva dispersi, e inspirò in tutti tale ardire e tale speranza, che ogni cittadino chiedeva di essere soldato. Si arrotarono anche gli schiavi, cosa sino allora non mai veduta.
Annibale credendo di essere a buon segno coll'aver cosi umiliata e scompigliata la repubblica romana, si arrestò col suo esercito nella città di Capua; dove, dandosi coi suoi soldati alle delizie ed ai piaceri, passò tutto l'inverno. Quando poi volle riporsi in viaggio e marciare su Roma, si accorse, ma troppo tardi, che i soldati avevano perduto l'abitudine delle fatiche e dei disagi. La qual cosa deve insegnarci che l' ozio trae seco i vizi, e che soltanto un lavoro assiduo rende gli uomini virtuosi, coraggiosi e forti. {67 [67]}
Annibale, perduta ogni speranza di poter abbattere Roma, si allontanò da quella città, dopo di averla appena veduta, e pieno di sdegno andò a nascondersi vicino a Taranto, alla estremità dell'Italia.
XXII. Scipione in Africa e fine della seconda guerra punica. (Dal 211 al 200 avanti Cristo).
Roma mancava tuttora di un capitano da mettere a fronte di Annibale, e le perdite dai Romani sofferte si attribuivano sempre all'inabilità dei generali. Un rivale degno di Annibale fu Scipione, soprannominato l'Africano per le insigni conquiste da lui fatte nell'Africa. Alle prerogative di grande capitano Scipione accoppiava una rara onestà, ed era cosi affabile e benevolo, che vinceva colla dolcezza quelli, che non poteva vincere colla forza. Suo padre era stato ucciso dai Cartaginesi nella Spagna, e ciò eragli sprone al coraggio. Emulo del generale cartaginese, il quale per battere i Romani in Italia era andato ad assalirli nella Spagna, egli pure colà, all'età di soli ventiquattro anni, assalì i Cartaginesi già fattisi padroni di quel vasto regno. Scipione, guidando ogni cosa con prudenza e con valore, sconfìsse i Cartaginesi e ridusse la Spagna a provincia romana.
Tornato a Roma e fatto console, per costringere Annibale ad uscire dall'Italia, reputò ottimo consiglio passar coll'armata in Africa e portare lo spavento alle porte di Cartagine, nel tempo stesso che essa aveva un esercito vicino a Roma. I Cartaginesi opposero due potenti eserciti a Scipione, il quale colle armi e con istratagemmi pienamente li sconfìsse. Quaranta mila Cartaginesi furono uccisi e seimila fatti prigioni.
Atterriti a cosiffatte vittorie i Cartaginesi richiamarono dall'Italia Annibale, perchè venisse a salvare la patria in procinto di cadere in mano dei nemici. È impossibile esprimere il rincrescimento di Annibale a questi ordini di Cartagine. Amaramente pentito di non essere marciato su Roma dopo la battaglia di Canne, versando lacrime di dolore, abbandonò {68 [68]} le bellissime contrade d'Italia, da lui colle armi occupate per sedici anni.
Giunto in Africa, alla vista della patria indebolita dalle guerre e atterrita dal nome di Scipione, tuttochè avesse in piedi un poderoso esercito, chiese un colloquio al generale romano per trattare la pace. Scipione facilmente vi acconsentì, ansioso di vedere quel grande uomo che formava la maraviglia del suo tempo. I due illustri capitani si abboccarono al cospetto de' due eserciti, e rimasero alquanto in silenzio guardandosi l'un l'altro con iscambievole ammirazione. Annibale parlò il primo, e propose condizioni che Scipione non potè risolversi ad accettare. Si narra che prima di separarsi Scipione dicesse ad Annibale: Chi pensi tu che sia il più grande capitano finora vissuto?
Annibale rispose: Alessandro.
- E dopo Alessandro chi è il maggiore?
- Pirro.
- Dopo Pirro?
- Sono io stesso.
- Or che saresti tu se vincessi Scipione?
- Io sarei al di sopra di Alessandro e di Pirro[6].
Ciò detto si separarono per annunziare ai propri soldati che bisognava venire alle mani.
Il giorno seguente si venne a battaglia; i soldati di Annibale fecero prodigi di valore, ma la fortuna aveva voltate le spalle ai Cartaginesi. Il suo esercito fu disfatto intieramente, egli stesso con alcuni cavalieri si ritirò a Cartagine, dove da trentasei anni non aveva più posto piede. Allora i Cartaginesi ridotti alla disperazione chiesero pace al Senato romano, che la concedette a condizioni ancora più dure di quelle imposte nella prima guerra punica. In questo modo ebbe fine la seconda guerra di questo nome.
Lo sfortunato Annibale dopo aver sacrificato tutto se stesso al bene della patria cadde in gelosia, poscia in odio a'suoi concittadini. Esiliato dall'ingrata sua patria, non avendo più sicura la vita, cercò asilo primieramente presso Antioco, re di Siria e nemico de' Romani, e quindi presso Prusia re di Bitinia. Costui ebbe la viltà di proporre ai Romani di {69 [69]} dare loro nelle mani un uomo, cui egli aveva promesso di proteggere.
Annibale saputo il tradimento si diè la morte col veleno prima che cadesse nelle mani de'soldati spediti a catturarlo.
Più avventuroso fu Scipione vincitore di Annibale e domatore di Cartagine. Egli fu ricevuto in Roma cogli onori del trionfo, e per ricordare ai posteri la memoria delle sue grandi vittorie gli fu dato il soprannome di Scipione Africano.
Questo grande uomo, dopo avere prestato molti servigi alla patria, passò il resto della vita nell' amore de'suoi concittadini. Tuttavia egli non potè fuggire l'invidia di alcuni malevoli, che lo costrinsero ad abbandonare la patria. Allora si ritirò con una scelta di amici in una campagna vicino alla città di Linterno, ove attese unicamente alle scienze, che egli aveva sempre coltivate anche in tempo delle sue imprese militari.
Giovani cari, tutti i grandi uomini anche in mezzo alle gravi loro occupazioni attesero colla massima cura allo studio, perchè l'uomo costituito in dignità, se è ignorante, per lo più viene disprezzato.
XXIII. Archimede il matematico.
Mentre infieriva la seconda guerra punica, nella città di Siracusa avvenne un fatto che io non voglio passarvi sotto silenzio. Gerone re di quella città era morto, ed alcuni Siracusani avevano ucciso Geronimo suo nipote. Per la qual cosa Siracusa era di nuovo caduta in potere de'Cartaginesi. I Romani mandarono Marcello per assediarla, e se ne sarebbero prestamente impadroniti ove non fosse stato colà un dotto meccanico di nome Archimede, uomo pregiato in tutta l'antichità, specialmente per lo studio che aveva fatto delle matematiche.
Egli aveva inventato alcune terribili macchine, le quali calandosi in mare, a guisa di un grande braccio, levavano in alto una nave, e, rovesciandola come si farebbe di un guscio di noce, la sommergevano. Aveva altresì fabbricato certi specchi detti ustorii, ossia ardenti, coi quali raccogliendo {70 [70]} i raggi del sole in un punto e facendoli riflettere sopra le navi degli assedianti, vi appiccava il fuoco, anche a grande distanza.
Inoltre aveva fatto una sorprendente scoperta, quella cioè di una specie di fuoco, che ardeva nell'acqua, e nulla il poteva smorzare. Finalmente inventò una macchina di considerabile grandezza, con cui si lanciavano pietre, giavellotti, travi, macigni con tanta forza e si aggiustatamente, che gli assedianti dovevano stare molto lontani dalle mura per non esserne colpiti. In simile guisa l'industria di un uomo solo impediva ad un esercito numeroso di entrare in quella città.
Ma tutto questo non potè fare che la città non fosse presa dopo lungo ed ostinato assedio. I Romani trucidarono barbaramente tutti i Siracusani caduti nelle loro mani. Marcello, che onorava le scienze, desiderava di salvare Archimede, e raccomandò a' suoi soldati di non fargli alcun male. Questi, durante il saccheggio, mentre la città era tutta a ferro e a fuoco, stava inteso con tutto l' animo a considerare certe figure di geometria; quando all'improvviso gli si fa innanzi un soldato ordinandogli di seguitarlo e di recarsi dal generale romano. Archimede lo pregò di attendere un istante finchè fosse sciolto il suo problema; ma il soldato che non curavasi nè di problemi, nè di figure, interpretò l'indugio di Archimede per un rifiuto, e lo trapassò colla spada.
Un uomo di tanta virtù meritava sorte migliore. Marcello rimase afflittissimo allora che gli fu recato l'annunzio della morte di quel grand'uomo, ed ordinò che gli si facessero magnifici funerali, e gli fosse eretto un monumento.
L'uomo virtuoso è stimato da tutti, anche dai nemici.
XXIV. Catone il Maggiore. La rovina di Cartagine o la terza guerra punica. (Dall'anno 182 all'anno 146 avanti Cristo).
Viveva in quel tempo in Roma un uomo di vita rigida ed austera, di nome Porzio, soprannominato Catone, vale a dire astuto; nome che assai gli conveniva perchè era tenuto {71 [71]} pel più scaltro degli uomini del suo tempo. Egli copri le più insigni cariche di Roma, e finalmente fu creato Censore. Questa carica durava cinque anni; l'uffizio annessovi era di tenere il registro de'cittadini romani, del loro patrimonio, ed inoltre il registro de'cavalieri e dei senatori. Egli aveva l'autorità di cancellare dal numero dei cavalieri e de' senatori chi colla condotta si fosse reso indegno di quel grado.
Catone, siccome uomo frugale, si opponeva con tutto il rigore al lusso ed alla mollezza, vizi dannosissimi alla società, che già cominciavano ad introdursi fra i Romani. Egli andava sempre ripetendo che bisognava distruggere Cartagine, altrimenti Roma avrebbe sempre avuto una formidabile rivale. A forza di udire a ripetersi questa cosa i Romani risolvettero di effettuarla, e spedirono in Africa un console di nome Censorino. Questi al suo arrivo comandò ai Cartaginesi che gli dessero in mano trecento personaggi, e gli consegnassero le navi, le spade e gli scudi che si trovavano a Cartagine. I Cartaginesi furono costretti ad accondiscendere, perchè non avevano mezzi da sostenere la guerra. Ma quando quel console diede ordine di uscire dalla città, dicendo francamente che era venuto per appiccarvi il fuoco e distruggerla, i Cartaginesi montarono in tanto furore, che vollero difendersi fino alla morte. Mancava ferro per fabbricar armi; l'oro e l'argento servì loro di materia. I fanciulli lavoravano per aiutare i loro padri, e le donne si tagliavano i capelli a fine di fare corde per le navi, che si stavano costruendo. Perciò tutti gli assalti de' Romani tornavano inutili. Sono indicibili i gagliardi sforzi degli assedianti, e già i Romani stavano per levare l'assedio, quando venne loro in soccorso il tradimento di un certo Farneade, generale della cavalleria cartaginese. Questo traditore, adescato dalle promesse del generale romano, mostrò agli assedianti un luogo segreto per entrare nella città. Dopo una resistenza accanita ma inutile, la città intera cadde in potere di Scipione Emiliano, figliuolo adottivo dell'altro Scipione, che allora si trovava alla testa de' Romani. Abusando della vittoria egli distrusse la più grande, la più ricca, la più florida delle città, fondata anticamente dai Fenici molti anni prima di Roma. Questa guerra, che finì colla rovina di Cartagine, nella storia è appellata terza guerra punica. {72 [72]}
Nello stesso anno, in cui cadde Cartagine, fu pure dai Romani distrutta la città di Corinto per opera di Mummio, e poco dopo per mano dello stesso Scipione fu incenerita anche Numanzia, la città più forte della Spagna, che aveva seguite le parti dei Cartaginesi.
Intanto le vittorie luminose, che i Romani avevano riportate sopra le più potenti nazioni della terra, traevano in ammirazione i popoli che abitavano in luoghi lontanissimi da Roma; e tutti si davano premura di fare alleanza coi Romani: Lo stesso Giuda Maccabeo, quell'uomo valoroso, di cui lungamente vi parlai nella Storia Sacra, sbalordito dalle gloriose imprese che i Romani compievano in pace ed in guerra, mandò a Roma due illustri personaggi per conchiudere coi Romani un trattato di amicizia. Giunti in quella metropoli del mondo furono introdotti nel Senato, dove parlarono cosi: Giuda Maccabeo, i fratelli suoi ed il popolo giudaico ci mandarono a stabilire con voi alleanza e pace, affinchè ci scriviate tra i vostri alleati ed amici.
Questo discorso semplice, ma espressivo piacque al Senato Romano, il quale fece scrivere la risposta sopra una tavola di bronzo, affinchè restasse presso a quel popolo in perpetuo monumento di pace e di amicizia. Era del tenore seguente: «Vengano tutti i beni a' Romani ed alla nazione de' Giudei per mare e per terra in eterno: le armi nemiche siano sempre da loro lontane. Chi fa guerra a' Giudei, la fa altresì ai Romani; questi due popoli saranno tra di loro perfetti amici, e si presteranno reciprocamente soccorso qualora ne sia il bisogno.»
In simile guisa quel popolo di Dio cominciò ad unirsi ai Romani, coi quali fra poco lo vedremo congiunto per formare un popolo solo con una legge sola, colla medesima religione cristiana.
XXV. Rivoluzione de' gracchi. (Dall'anno 140 al 121 avanti C).
Con grande mio rincrescimento devo ora raccontarvi una guerra, non più de' Romani con popoli stranieri, ma una guerra civile, cioè tra Romani medesimi. {73 [73]}
Questo popolo, non avendo più nazioni potenti da combattere, si diede in preda all' ozio ed ai passatempi. Così disoccupata la plebe cominciava ad invidiare la sorte dei ricchi, desiderosa di porre le mani sopra i loro averi; ciò era un vero ladroneccio, perchè colui, il quale con giusti mezzi e titoli ha acquistato sostanze, è giusto che se le goda.
Due giovani fratelli, noti sotto il nome di Gracchi, chiamati uno Tiberio, l'altro Caio, diedero mano l'un dopo l'altro ai malcontenti. Cornelia loro madre li amava molto quando erano piccini a cagione della saviezza ed obbedienza loro. Ma fatti adulti le furono cagione di grandi affanni. Tiberio Gracco divenuto tribuno del popolo propose la legge agraria, che obbligava i ricchi a dare ai poveri una parte delle loro terre. Dispiacque tale proposta al senato, che la rifiutò. Ma Tiberio radunò una folla di popolo per eccitarlo alla ribellione. Il console Minuzio Scevola si sforzò invano di calmare gli spiriti. Si venne alle mani ed il sangue cittadino scorse per le vie di Roma. Tiberio con più di trecento de' suoi amici cadde estinto. Fu questa la prima volta che Roma nelle sedizioni interne vide scorrere il sangue de' suoi figli: trista conseguenza cagionata da chi ricusa di sottomettersi al legittimo governo.
Caio Gracco dissimulò qualche tempo il dolore che provava per la morte del fratello, finchè, divenuto anch'esso tribuno della plebe, mise in campo le medesime leggi già proposte da Tiberio. Perciò egli pure qual ribelle fu condannato a morte, ed a chi gli avesse recisa la testa furono promesse tante libbre di oro, quante quella ne avrebbe pesato. A quella notizia Gracco fuggi di Roma; ma vedendosi vicino a cadere nelle mani de' nemici, si fece uccidere da un suo schiavo. Un uomo avendo trovato il corpo di Gracco ne tagliò la testa, ne trasse le cervella, la empiè di piombo fuso, perchè pesasse di più, indi la presentò al Senato, e n'ebbe in dono diciassette libbre di oro, senza che fosse scoperto l'inganno.
Così perirono i due Gracchi, i quali sarebbero stati amati come buoni ed onesti giovani, quando non avessero voluto conseguire colla violenza ciò che un cittadino non deve pretendere. {74 [74]}
XXVI. Guerra giugurtina. - Mario a Vercelli. (Dal 120 al 100 avanti Cristo).
Vi feci già notare come i Romani non essendosi più occupati con assiduità nell'esercizio delle armi, si erano dati all'avarizia, vizio abbominevole che conduce l'uomo alle più vili azioni. Il Senato romano, già tanto glorioso per la sua probità, degenerò, e giunse fino a vendere la giustizia. Mentre andavasi perdendo l'antico valore, si dovettero sostener molte guerre, in cui si segnalò un uomo famoso di nome Caio Mario. Egli era nato da poveri contadini in Civernate presso Arpino, e durante la sua giovinezza lavorò la terra a giornata per altri. Di aspetto feroce, alto della persona, bruttissimo nella faccia, era di complessione forte e robusta. Datosi alla milizia erasi già segnalato in parecchie battaglie nella Spagna, e particolarmente nell'Africa in una guerra sostenuta contro un re di Numidia di nome Giugurta figliuolo adottivo del re precedente. Per giungere al trono costui aveva ucciso un suo cugino e cercava di ucciderne anche un altro che ancora rimaneva. Aderbale (era questo il nome del cugino superstite), temendo non potersi difendere da tale nemico, implorò l'aiuto del Senato romano, il quale divise il regno tra i due cugini; ma Giugurta macchiandosi di un novello omicidio s'impadronì anche della parte, che era stata assegnata ad Aderbale. Allora il Senato gli spedi contro Q. Metello, il quale impadronitosi di grande parte del territorio di Giugurta lo costrinse a chiedere aiuto ai popoli vicini. A Q. Metello nel comando succedette Mario, che dopo fieri combattimenti terminò la guerra mediante il tradimento di Bocco re di Mauritania, il quale consegnò ai Romani Giugurta suo suocero. Mario in quella guerra diede molte prove di perizia militare e di coraggio; ma le sue prodezze si manifestarono specialmente nella guerra contro ai Cimbri e contro ai Teutoni (Tedeschi) popoli barbari venuti dal settentrione dell'Europa.
I Teutoni in numero di trecento mila, traendosi dietro su grandi carri i vecchi, le donne ed i fanciulli della loro {75 [75]} nazione, cominciarono a spargersi per le Gallie. Due eserciti Romani, che ardirono affrontarli, furono totalmente disfatti. Non conoscendone la preziosità, i barbari gettarono nel Rodano, gran fiume delle Gallie, tutto l'oro e l'argento caduto nelle loro mani. Si disponevano a continuare le loro stragi, allorchè Mario altrettanto feroce, ma più perito dei barbari, si avanzò contro di loro fino alle Acque Sestie, oggidì Aix di Provenza. Colà seppe avviluppare così destramente i nemici in una imboscata, che quasi tutti rimasero ivi sepolti.
Questa vittoria procurò la salvezza dell'Italia, e Mario fu eletto console per la quinta volta. Ma i Teutoni erano soltanto vinti a mezzo; perciocchè i Cimbri, forzato il passaggio delle Alpi e cacciatisi innanzi ai Romani, andarono ad accamparsi nelle pianure poste tra l'Adige e Milano, dette allora Gallia Cisalpina. Mario vi accorse colle sue genti e si accampò nelle pianure dette Campi Raudii, che si estendono tra Vercelli ed il Ticino.
I Cimbri, i quali ignoravano ancora la sconfitta dei Teutoni, mandarono deputati al Console, intimandogli di cedere ad essi ed ai loro fratelli alcune terre dell'Italia per istabilirvisi. Quegli ambasciatori a metà nudi, con elmetti in testa sormontati da penne di pavoni, avvolti in pelli con aspetto feroce al pari delle bestie, cagionarono maraviglia e stupore ai Romani. Mario andò loro incontro e disse: «Chi sono questi vostri fratelli, di cui parlate? Sono i Teutoni, risposero.» Alla quale risposta tutta l'assemblea si mise a ridere. «Non vi date pensiero di loro, disse Mario, essi posseggono la terra, che noi abbiamo loro dato e la occuperanno eternamente.»
I deputati punti da cotale ironia risposero che si pentirebbero dell'insulto, e che ne sarebbero puniti prima dai Cimbri, quindi dai Teutoni, appena fossero arrivati. «Sono arrivati, soggiunse Mario: eccoli per l'appunto, e prima di partire voglio che li abbracciate e li salutiate.» Nello stesso tempo fece condurre al loro cospetto i re Teutoni carichi di catene. A quella vista i legati si ritirarono coperti di confusione.
Tre giorni dopo si appiccò la battaglia, in cui i Cimbri rimasero totalmente disfatti. Ma quando Mario volle impadronirsi dei loro alloggiamenti, li trovò occupati dalle donne {76 [76]} barbare. Scorgendo esse i propri figliuoli in procinto di cader in potere dei vincitori li strangolarono colle trecce dei loro lunghi capelli; poi vedendo accostarsi i soldati romani, nè potendo più combattere, si appiccarono tutte ai timoni dei propri carri; niuna essendovi che volesse sopravvivere alla disfatta della propria nazione. I cani stessi, dopo la morte dei loro padroni, ne difesero i corpi con tanta rabbia, che a fine di evitare i loro morsi fu necessità ucciderli a colpi di freccia. Cosi l'Italia fu liberata da quell'invasione di barbari, i quali sarebbero stati invincibili, quando avessero avuto la disciplina degli eserciti romani; ma essi sapevano soltanto combattere furiosamente e con coraggio.
Mario fu colmato dai Romani di grandi onori, e considerato come un nuovo fondatore di Roma e il salvatore dell'Italia. Fortunato lui se si fosse dimostrato in pace, quale era stato in guerra! Ma egli si lasciò trasportare dalla superbia, vizio abbominabile che cagiona la rovina degli uomini e delle nazioni.
XXVII. Alleanza degli Italiani contro Roma, Mario e Silla. (Dall'anno 100 all' 88 avanti Cristo).
La distruzione di Cartagine, la sottomissione della Spagna, le conquiste fatte nell'Asia, il dominio esteso sopra tutta l'Italia, la sconfitta data da Mario ai Teutoni ed ai Cimbri lasciarono i Romani senza competitori. Tanta fortuna fece loro presto svanire ogni idea di moderazione e di virtù, ed alla frugalità, alla generosità degli antichi sottentrò la gozzoviglia, l'avarizia, l'oppressione, la tirannia. Tutti coloro, che non godevano del diritto di cittadinanza, erano dai Romani tenuti come schiavi.
Il diritto di cittadinanza romana era una qualità di grande pregio. I cittadini erano quelli che nominavano i consoli e gli altri magistrati; niuno poteva condannarli a morte, nemmeno percuoterli con verghe, senza ordine espresso del popolo romano radunato. Questa prerogativa fece inorgoglire i Romani a segno, che giudicando schiavi gli altri popoli, s'impadronivano dei loro beni; e si giunse fino a {77 [77]} stabilire con legge che niun forestiere potesse più fermarsi in Roma. Un'irriverenza, un risentimento verso di un cittadino romano costava talvolta la vita ad un italiano[7].
Stanchi i popoli di tanta oppressione ricorsero al Senato romano chiedendo di poter anch'essi godere del diritto di cittadinanza; poichè essi pure dovevano pagare i tributi e concorrere ai bisogni della guerra con danaro e con soldati. Il senato rifiutò la dimanda; e questa fu la cagione che da tutte le parti si levasse un grido solo: Alle armi, alle armi. Questa guerra fu detta sociale, cioè guerra di più popoli uniti insieme. I Marsi erano alla testa della lega, e Pompedio Silone, uomo valorosissimo, fu creato generale in capo delle forze alleate. Il centro dei confederati fu la città di Corfinio, ora S. Pellino, situata tre miglia alla destra del fiume Aterno o Pescara. I Romani spaventati da questa sollevazione posero in piedi quante genti poterono, armando ancora grande numero di schiavi, e ricorrendo alle nazioni estere loro amiche.
Fomentavano il timore dei Romani alcuni funesti segni che gli autori antichi riferiscono essersi in quel tempo veduti. Una corona solare comparve subitamente a vista di Roma; il vulcano, che è presso Napoli, fece una straordinaria eruzione, vale a dire mandò fuori una grande quantità di fuoco; i simulacri delle divinità stillarono sudore dal volto; i topi corrosero parecchi scudi d'argento; i cani ulularono a guisa di lupi; l'idrofobia, morbo volgarmente detto rabbia, si spiegò negli armenti; si videro animali a piangere; si udirono voci sotterranee, e simili altre cose, le quali sebbene fossero prive di significato in rapporto alla guerra, tuttavia dai Romani erano avute come indizi di imminenti sventure.
Essi tentarono da prima di reprimere la rivoluzione e si diedero battaglie sanguinosissime; ma il Senato accortosi essere le cose ridotte a tristo partito, stimò di accondiscendere alle giuste richieste degli Italiani. Cominciò dal concedere la cittadinanza ai popoli rimasti fedeli ai Romani, quindi alle città che vollero deporre le armi, e in fine a {78 [78]} tutti indistintamente. Questo fatto è notabilissimo nella storia, perchè tutta l'Italia si uni con Roma e divenne un popolo solo. D'allora in poi, quando si radunavano i comizi, la folla del popolo, che accorreva da tutte le parti dell'Italia a Roma, era si grande, che non potendo essere contenuta nel campo di Marte o nel Foro, in gran numero salivano sui tetti de' templi e delle case per vedere almeno da lontano ciò che si faceva.
Nella guerra contra gli alleati ebbe molta parte un uomo che stimo bene di farvi conoscere. Era costui Giunio Cornelio Silla, d'indole ostinata ed audace, e nemico implacabile di Mario. Divenuto console cominciò col mettere a prezzo la testa di quel prode capitano, sotto pretesto ch'egli avesse favorito gli Italiani contro al Senato: accusa priva di fondamento, perchè Mario aveva condotto gli eserciti romani contra gli alleati durante la guerra. Tuttavia l'accusa di Silla fu creduta giusta da molti, e Mario di età già avanzata, di sanità cagionevole, fu costretto di fuggire e nascondersi in una palude, donde venne tratto e condotto in prigione. Quivi fu mandato per ucciderlo uno schiavo, uno dei Cimbri da lui vinti. Il prigioniero sguardatolo con fierezza gli disse: Hai tu coraggio di uccidere Mario? il barbaro impaurito si diede alla fuga, gittando la spada e lasciando il carcere aperto. Così Mario potè uscire liberamente e rifugiarsi nell'Africa.
Colà si abbattè in un questore romano incaricato d'invigilare sopra il littorale di Cartagine. Costui alla vista di un vecchio di tetro aspetto, con capelli irti e bianchi, gli dimandò chi fosse. «Questore, rispose, va a dire ai tuoi padroni, che hai veduto Mario assiso sulle rovine di Cartagine.» Colle quali parole egli paragonava la sua sventura col disastro di quella grande città.
Intanto un avvenimento inaspettato obbligò Silla a portare la guerra contro a Mitridate, padrone di un regno dell'Asia minore detto Ponto. Per odio contro ai Romani quel re aveva fatto trucidare centomila Italiani, che abitavano nel suo regno. A quell'annunzio Silla si portò coll'esercito in Asia per punire le atrocità del barbaro Mitridate. Mario allora credendosi sicuro tornò senza indugio in Roma alla testa di una truppa di schiavi e di pastori; ed unitosi al console Cinna, malvagio al pari di lui, commisero la più infame {79 [79]} delle azioni, facendo morire senza pietà tutti gli amici di Silla. Ma la vendetta del cielo non tardò molto a piombare sopra quei due carnefici della patria. Mario morì di una malattia, che egli stesso erasi cagionato colla crapula, vale a dire con eccessi nel mangiare e nel bere; Cinna poi fu trucidato per mano de' suoi soldati. Mentre commettevansi tante barbarie, Silla ritornava col suo esercito vittorioso, non già per difendere la patria, ma per esserne il flagello. Trasportato dall'odio e dal furore entrò in Roma, comandò che fossero messi a morte tutti i partigiani di Mario; e per compiere più presto la desiderata strage fè' un elenco di questi, detto tavola di proscrizione. Coloro che erano ivi registrati furono detti proscritti, ovvero condannati, perchè ognuno aveva ordine di ucciderli ovunque li incontrasse.
Disfatti così i suoi avversari, Silla si fece nominare dittatore perpetuo, e riunì in sua mano i poteri civile e militare. Ma dopo avere esercitata per due anni la dittatura, e dopo avere con leggi depressa la parte popolare, ordinando che i tribuni non potessero aspirare a pubblici onori, sazio di sangue cittadino rinunziò spontaneamente al potere e ritirossi a Cuma, dove si abbandonò a due vizi turpissimi, quali sono la intemperanza e la disonestà. Questa scostumatezza gli cagionò una malattia assai crudele, che lo condusse ad essere rosicchiato vivo dai vermi.
In tale modo finirono Mario e Silla, ambidue salvatori, flagelli e carnefici della patria. Questi due generali furono uomini di grande valore; ma loro mancò la religione che ne temperasse la ferocia.
XXVIII. Guerra servile. - Guerra mitridatica. Cicerone e Catilina. Primo triumvirato, Pompeo, Cesare e Crasso. (Dall'88 al 61 aranti Cristo).
Mentre tutte le terre d'Italia si univano alla repubblica romana, e la guerra degli alleati si andava estinguendo, altre turbolenze sorsero per una rivoluzione di uomini fatti prigioni in battaglia e condotti a popolare l'Italia. Costoro {80 [80]} non erano ammessi ai diritti civili; che anzi nelle fiere e nei mercati erano comperati e venduti a guisa di giumenti, e dicevansi servi, ossia schiavi. Il perchè la loro ribellione suole denominarsi guerra servile.
Spartaco, nativo di Tracia, era tenuto schiavo nella città di Capua. Di là fuggito si mise alla testa di altri uomini audaci e risoluti al par di lui, e in breve si trovò capitano di oltre sessantamila combattenti. Quattro eserciti romani spediti contro di loro furono sbaragliati e posti in fuga. Finalmente un generale di nome Crasso con buon numero di prodi li assalì, e dopo molti ostinati combattimenti li vinse. Essi furono compiutamente battuti, e lo stesso Spartaco perì colle armi in mano nella Sicilia. Tuttavia parecchie squadre di quegli schiavi sfuggiti alle spade romane andavano qua e là saccheggiando i paesi e le città d'Italia; ma vennero totalmente sterminati da Pompeo, generale di bella fama; il quale e per la sua militare perizia, e per altre splendide doti, erasi meritato il favore del popolo romano. Egli fu ezandio mandato contro ad un grande numero di corsari, vale a dire assassini di mare, i quali infestavano i navigatori e le spiagge del Mediterraneo; e ne riportò compiuta vittoria.
Intanto che queste cose succedevano Mitridate tentò nuovamente la sorte delle armi contro ai Romani. Pompeo fu mandato contro di lui; Mitridate fu vinto e costretto a prendere la fuga cogli avanzi del suo esercito. Ritornato trionfante a Roma, Pompeo godeva in pace della gloria de' suoi trionfi nell'amore e nell' amicizia di tutti i buoni, quando Catilina nobile romano pose a rischio le sorti della patria. Questo indegno cittadino, carico di debiti e di delitti, erasi posto alla testa di buon numero di giovani sfaccendati, i quali non avendo nulla da perdere, aspettavano soltanto un capo che li guidasse nelle ribalderie. Il loro disegno era di uccìdere i consoli e la maggior parte dei senatori, impadronirsi dell'erario. pubblico, appiccare il fuoco ai quattro angoli della città, e così sotto colore di libertà mettere Roma a sangue e a fuoco.
Ma il console Marco Tullio Cicerone, uomo di grande senno e dottrina, scoprì la congiura, e fece condannare a morte i congiurati. Catilina uscito precipitosamente da Roma corse nell'Etruria, dove raccolto il suo esercito di ribelli, {81 [81]} combattè accanitamente. La fortuna non gli fu propizia; le sue soldatesche vennero sbaragliate; ed egli, che pur coraggioso era, restò trafitto combattendo.
Quel Marco Tullio Cicerone fu il più celebre oratore latino. Egli era nato nella città di Arpino, e ancora giovane fu fatto questore, quindi edile e pretore, e finalmente console; e fu nel suo consolato che scoprì e dissipò la congiura di Catilina. Del che i Romani riconoscenti gli diedero il sopranome di padre della patria.
Altro personaggio egualmente celebre fiorì a questo tempo in Roma e fu Marco Ponzio Catone, assai rinomato per la esemplarità de' suoi costumi. Da fanciullo si mostrava modesto e severo nelle parole, negli atti, nel guardo e nei medesimi trastulli. Rideva poco; era fermo nelle sue risoluzioni: non poteva tollerare nessuna adulazióne. Studiò filosofìa sotto ad un dotto maestro di nome Antipatro, abitante nella città di Tiro. Coltivò in modo particolare l'eloquenza. Era molto frugale nel mangiare e nel bere. A fine d'acquistare robustezza, d'estate stava col capo scoperto ai cocenti ardori del sole, e d'inverno si esponeva alla neve, al vento e al gelo. Nei viaggi camminava sempre a piedi; nelle infermità usava soltanto due rimedi: dieta e pazienza. Giovanetto ancora fu fatto tribuno dei soldati, che seppe rendersi ubbidienti coll'istruirli e col persuaderli. Se ciò non bastava, con severità li puniva. Nella guerra di Spartaco si rese assai celebre, ma rifiutò i doni militari, che gli furono offerti dopo le battaglie. Pel suo disinteresse, pei suoi bei tratti e pe' nobili costumi ottenne la questura. La prima cosa che egli fece in quella carica fu di rimuovere dai pubblici impieghi tutti coloro, che fossero trascurati nel compierli. La dignità di senatore, la sua scienza, la sua diligenza, il suo vivere semplice, la sua affabilità lo rendevano caro a tutti e lo facevano proclamare modello di virtù.
Amico di Catone era pure in Roma altro personaggio, che divenne ancor più celebre di Pompeo e di Cicerone, e fu Giulio Cesare. Egli era d'intrepido coraggio, parlava con somma eleganza, ma era ambizioso senza paragone e desiderava di far parlare di sè e di acquistarsi onore e gloria. Giunto al consolato ottenne il governo delle Gallie per cinque anni, e portò la guerra nella Gallia Transalpina, oggidì Francia, {82 [82]} e di là uno all' isola di Bretagna, oggidì Inghilterra, dove le armi romane non erano ancora penetrate.
Amico di Cesare e di Pompeo era Crasso, celebre per le sue ricchezze, e già conosciuto pel valore dimostrato nella guerra degli schiavi. Questi tre personaggi per avere liberato Roma e l'Italia dalle invasioni dei nemici e dalle guerre intestine furono riconosciuti per veri padroni della repubblica. Eglino si unirono insieme di buon accordo a fine di governare l'impero, che si estendeva ormai a tutti i paesi in quel tempo conosciuti; e questo governo fu appellato primo triumvirato perchè composto di tre uomini. Crasso era bensì un valente capitano, ma il più avaro dei Romani. L'avidità del bottino lo impegnò in una guerra contro ai Parti, popoli bellicosi, che abitavano al di là della Mesopotamia, dove i Romani malgrado il valore e la loro intrepidezza rimasero battuti e vinti. Si narra che il re dei Parti, quando gli fu presentata la testa di Crasso, ordinasse che ne fosse riempiuta la bocca d'oro fuso, dicendo: «Conviene saziare dopo morte quest'uomo di quel metallo, di cui fu insaziabile durante la vita.»
XXIX. Guerra tra Cesare e Pompeo. Cesare padrone della Repubblica. - Sua morte.
Rimasti così Cesare e Pompeo soli padroni della repubblica vennero anch'essi in discordia, poichè ciascuno voleva solo comandare. In quel momento Cesare trovandosi nelle Gallie si mosse col suo esercito contro di Pompeo, il quale era in Roma. Vi stupirete, o giovani, come due amici tanto intimi siano così presto divenuti rivali e nemici. Ciò avvenne perche la loro amicizia era solamente appoggiata sull'ambizione; e voi dovete ritenere, che la vera amicizia non può durare, se non si fonda sulla virtù. Pompeo non osando affrontare il suo avversario uscì di Roma seguito da molti soldati e dalla massima parte dei senatori e si ritirò nella Grecia.
Cesare inseguendo l'esercito di Pompeo lo raggiunse in una pianura della Tessaglia detta Farsaglia. Colà seguì un {83 [83]} tremendo combattimento. Erano Romani contro Romani, Italiani contro Italiani; il sangue scorse orribilmente; ma la fortuna fa per Cesare; e Pompeo a stento potè salire sopra una nave e fuggire in Egitto. Colà un re traditore, di nome Tolomeo, niente commosso dalla sventura di quel gran capitano gli fece barbaramente tagliare la testa per farne dono a Cesare; il quale a tale miserando spettacolo non potè trattenersi dal piangere, e mandò chi facesse prigione il crudele Tolomeo. Questi tentando di fuggire, nel varcare il Nilo annegò.
Ritornato Cesare a Roma e divenuto il solo padrone della repubblica, i partigiani di Pompeo si aspettavano una terribile vendetta; ma egli invece di vendicarsi concedette generale amnistia, vale a dire un generoso perdono a tutti quelli che si erano uniti a Pompeo per combattere contro di lui. Solamente Catone non volle affidarsi alla clemenza del vincitore. Per tema di cadere nelle mani di lui, egli si uccise volontariamente in Utica (oggidì Biserta), dove si erano riuniti gli amici di Pompeo. Dal luogo ove morì Catone fu detto Uticense, per distinguerlo da Catone maggiore ossia il vecchio, detto anche il Censore.
Cesare non solo perdonò a' suoi nemici, ma per rendersi grati i cittadini fece eziandio distribuire grano, danaro e terre ai veterani, vale a dire a quei soldati, che invecchiati nel mestiere delle armi erano incapaci di sostenere le fatiche militari. Prese poscia il titolo di dittatore perpetuo, che è quasi lo stesso che quello di re assoluto. Egli si faceva amare dal popolo per la sua dolcezza e per la sua beneficenza, e ovunque passava riscuoteva vivi applausi. Ma gli eccessi per lo più non durano; e noi veggiamo che coloro, i quali oggi vanno per le vie schiamazzando e gridando evviva, domani si arrogano il diritto di gridare muora. Una moltitudine di malcontenti, queglino stessi a cui Cesare aveva perdonata la vita, tramarono di uccidere il Dittatore. Cassio e Bruto erano capi dei ribelli. Questi due scellerati risolvettero di trucidare Cesare non appena si fosse recato in Senato. Cesare non faceva male ad alcuno, e non credeva che altri osasse farne a lui; e benchè sospettasse della congiura tramatagli, volle condursi secondo il solito in Senato. Entratovi, parecchi senatori si gettarono sopra di lui, {84 [84]}c lo trafissero coi loro pugnali. Quel grand'uomo tentò sulle prime la difesa; ma nel vedere Bruto avanzarsi per ferirlo gli disse: Anche tu, o Bruto, figliuol mio! Quindi conoscendosi attorniato da nemici armati, si coprì il volto colla toga e cadde morto dopo aver ricevuti ventitre colpi di pugnale.
Gli uccisori di Cesare credevano, che i Romani avrebbero fatto plauso al loro delitto, ma fu l'opposto. Da tutte parti il popolo dimandava perchè il Dittatore fosse stato messo a morte. Marco Antonio, intrinseco amico di Cesare, valorosissimo soldato dell'esercito di lui, nell'amarezza del suo dolore ne fece portare il cadavere sulla pubblica piazza, e convocò il popolo a rimirare ancora una volta quell'uomo che a diritto si poteva chiamare il benefattore della patria. Le lagrime ed i sospiri risuonarono per tutta la città, finchè il dolore cangiatosi in furore si corse alle armi per uccidere gli autori di quel misfatto.
Bruto e Cassio fuggirono da Roma, e noi fra poco vedremo a quale sventura li abbia condotti il loro delitto.
XXX. Secondo triumvirato. - Caduta della Repubblica e principio del governo imperiale. (Dal 61 av. Cr. all'anno 1 dall'era volgare).
Ottaviano nipote e figliuolo adottivo di Cesare dimorava in Grecia, allora che ne seppe la morte. Aveva appena diciassette anni, quando venuto in Italia gli fu significato che il Dittatore lo aveva istituito suo erede. Le belle sue maniere, la memoria dello zio, le ricchezze di cui faceva parte agli altri, servirono a cattivargli in breve il favore di tutto il popolo.
Antonio luogotenente di Cesare era allora console, e dopo la morte di questo, per tutto il tempo del suo consolato, esercitò in Roma un'assoluta autorità. Deposta che ebbe questa dignità, non volendo esso deporre il comando dell'esercito, il Senato per opera specialmente di Cicerone gli oppose il giovine Ottaviano con un forte esercito di veterani. Antonio fu vinto da questi presso Modena, e il suo {85 [85]} esercito fu sbaragliato. Egli allora ricorse ad un certo Lepido, comandante di un florido esercito, uomo ricco, ma inabile al maneggio degli aftari, e di cui nulla avevasi a temere. Questi due capitani uniti insieme si avviarono alla volta di Ottaviano; ma venuti con lui a parlamento presso la città di Modena, conchiusero di associarsi per governare a modo loro la repubblica. Questa seconda unione di potere in tre persone fu detta secondo Triumvirato.
I nuovi triumviri protestarono da prima che non volevano far male ad alcuno; ma poi scrissero un editto di proscrizione, pel quale erano condannati a morte parecchi cittadini, e tra questi anche alcuni loro amici, benefattori, parenti e fratelli. Cicerone, il più grande oratore Romano e uno dei più grandi benefattori della patria, fu compreso fra i proscritti: gli venne troncata la testa mentre fuggiva, e posta su quello stesso luogo, donde tante volte intrepidamente aveva sostenuta la maestà delle leggi, repressa l'audacia dei malvagi.
Mentre il sangue cittadino scorreva per le piazze di Roma e delle altre città d'Italia, Bruto e Cassio avevano raccolto in Grecia buon nerbo di truppe per opporsi ad Antonio e ad Ottaviano. Lo scontro de' due eserciti fu a Filippi città della Grecia, fondata da Filippo, padre di Alessandro il Grande. La battaglia fu terribile, Cassio si uccise nella zuffa, e Bruto per non cadere vivo nelle mani de' nemici si die' anch'esso volontariamente la morte. Si narra che qualche tempo prima di questa battaglia Bruto una notte, mentre stava leggendo, si vide al fianco un'ombra, la quale da lui interrogata chi fosse, gli rispose: Io sono il tuo genio cattivo; ti attendo a Filippi; e che la notte precedente alla pugna questa di nuovo gli comparve per annunziargli il prossimo suo fine. Si può credere che i rimorsi, da cui era agitato Bruto per l'uccisione del suo amico e benefattore, gli rappresentassero all'immaginazione que' fantasmi, poichè i rimorsi sono i più crudeli carnefici dei colpevoli.
Voglio qui farvi notare un errore commesso da molti eroi del paganesimo. Pensavano essi di trovare in una volontaria morte il rimedio ai mali della vita. Ora la religione, il buon senso, le leggi e gli stessi filosofi pagani condannarono il suicidio, vale a dire l'uccisione di se stesso; perchè la vita {86 [86]} essendoci donata dal Creatore, Egli solo ne è padrone; e la cristiana religione reputa un grande eroe colui, che sa reggere al peso delle sventure.
Dopo la battaglia di Filippi, Ottaviano ed Antonio si divisero tra loro l'impero senz'avere alcun riguardo a Lepido. Ottaviano ebbe l'Occidente, vale a dire l'Italia, le Gallie, la Spagna con tutti gli altri paesi vicini a questi, e già sottomessi a Roma. Antonio scelse l'Oriente, cioè la Grecia, l'Egitto e tutti i paesi dell'Asia già soggiogati dai Romani.
Intanto l'ambizioso Ottaviano più astuto, ed anche più virtuoso del suo collega, preparavasi a tentare l'impero del mondo. Contribuì assai a far risplendere la virtù di lui la mala vita di Antonio. Costui invece di occuparsi del governo de'suoi popoli si abbandonò all'ozio ed alla crapula e lasciossi affascinare dai vezzi di una regina d'Egitto chiamata Cleopatra.
Ottaviano all'opposto si dava attorno a distruggere i partigiani di Bruto, che non erano morti a Filippi. Attendeva con tutte le forze a promuovere l'ordine ed a procacciarsi coi benefizi l'amore de' Romani. Quando poi si accorse che Antonio per la disonorevole sua condotta era caduto in disistima, marciò contro di lui dopo allestita una flotta, vale a dire un'armata di circa trecento navi. Antonio scosso dal pericolo risvegliò l'antico suo coraggio e, raccolte tutte le sue forze, si mosse ad incontrare Ottaviano. Lo scontro delle due armate fu nella Grecia presso al promontorio di Azio, e perciò questo fatto fu detto battaglia d'Azio, avvenimento assai notabile perchè da esso fu deciso il destino di tutto il Romano impero.
La battaglia fu con vigore sostenuta per qualche tempo da ambe le parti; ma poscia cominciò a cedere da quella di Antonio, il quale vedendo Cleopatra a fuggire abbandonò l'armata per tenerle dietro, ed Ottaviano riportò vittoria. Quelli che non furono vinti, vedendosi abbandonati dal loro capitano, si arresero spontaneamente. L'infelice Antonio dopo essere andato qua e là vagando per qualche tempo, venuto in Alessandria, si diede volontariamente la morte. Cleopatra alla notizia della morte di Antonio procurò di farsi mordere da un aspide, specie di serpe molto velenoso, e poco dopo spirò. Tremende conseguenze della disonestà! {87 [87]}
Ottaviano ginnto in Roma depose ogni pensiero di guerra, e tutto si occupò nel consolidare il suo governo e nel rendere la pace al mondo già da tanti anni dalle guerre agitato e sconvolto. Siccome il nome di Dittatore era venuto in dispregio, egli prese il modesto titolo d'Imperatore, vale a dire comandante, titolo col quale i soldati d'ordinario salutavano il loro capitano dopo la vittoria. Aggiunse eziandio al nome di Ottaviano quello di Augusto, e con questo nome parve altresì prendere nuovi costumi. Alle guerre civili, alle proscrizioni, alle stragi sottentrò l'ordine, la sicurezza e l'abbondanza. La pace che in quel tratto di tempo tutto il mondo godeva, l'universale aspettazione in cui vivevano le nazioni di un maestro, il quale dal cielo venisse ad addottrinare gli uomini, indicavano prossimo il sospirato momento predetto ne' libri santi, in cui tutti i popoli della terra per mezzo di un Salvatore dovevano essere chiamati alla conoscenza del vero Dio.
Pertanto circa l'anno del mondo 4000, di Roma 752, del regno di Augusto 45, nacque il Messia. Augusto senza saperlo concorse all'adempimento de' divini decreti; poichè egli ordinò un censo, ossia la numerazione di tutti i sudditi del vastissimo Romano impero; la qual cosa obbligò Maria SS. e S. Giuseppe a recarsi in Betlemme, città della Giudea. Quivi secondo le profezie nacque Gesù Cristo Salvatore del mondo. {88 [88]}
EPOCA SECONDA. L' ITALIA CRISTIANA. Dal principio dell' era volgare fino alla caduta del Romano impero in occidente nel 476
I. L'impero d'Augusto. (Dall'anno 1 al 13 dopo Cristo).
Finora abbiamo considerato l'Italia nelle sue relazioni colla repubblica Romana, e veduto questa potenza sorgere da umili principii, crescere a segno che ai tempi, di cui qui intendo di parlarvi, era divenuta padrona di quasi tutto il mondo in quei tempi conosciuto.
Voglio per altro che voi, miei cari amici, notiate lo straordinario ingrandimento di questa potenza non essere da attribuire ai soli Romani, perchè noi potemmo osservare come la maggior parte di quei prodi, i quali, si segnalarono nella gloria Romana, erano corsi a Roma dalle varie parti d'Italia. Laonde Roma si potrebbe meglio appellare centro ove concorsero gli eroi, anzichè esserne la patria.
Ora imprendiamo la storia del Romano impero, che vi tornerà forse più dilettevole di quanto abbiamo finora narrato, sia perchè abbiamo più certe e più copiose notizie, sia perchè gli avvenimenti sono più svariati e di maggior importanza. {89 [89]}
Primo imperatore dei Romani, come vi raccontai, fu Cesare Ottaviano, il quale, ritornato a Roma vittorioso di Antonio, fu accolto con indicibile applauso dal popolo e dal Senato. Andò egli stesso a chiudere le porte del tempio di Giano, per mostrare che tutte le guerre erano terminate. Egli fu soprannominato Augusto, vale a dire grande, ed agosto fu in suo onore appellato il mese dell'anno che prima dicevasi sestile. Gli furono decretati i titoli d'imperatore, di console, di tribuno, di censore e di padre della patria. Il popolo voleva obbligarlo ad accettare la dittatura perpetua, ma egli il pregò a non volergli addossare tale dignità, e proibì rigorosamente che lo chiamassero Dittatore.
Da quel tempo Augusto si applicò unicamente al bene dei suoi sudditi, e mostrossì cortese ed affabile verso ai suoi stessi nemici. Un giorno egli trovò un suo nipote, che leggeva un volume di Cicerone, di cui egli aveva permessa la morte. Il fanciullo sorpreso tentava di coprir il libro colla veste. Augusto glielo tolse di mano, e, lettane qualche pagina, lo restituì al nipote dicendo: Costui, flgliuol mio, fu un uomo dotto e amante della patria.
Spesso camminava a piedi per Roma, trattava famigliarmente con tutti, e accoglieva con bontà chi a lui ricorreva. Ad un uomo che voleva porgergli una supplica tremava tanto la mano, che ora la offeriva, ora la ritirava. Di che Augusto scherzando gli disse: Pensi tu forse di dare una moneta ad un elefante? Questo diceva alludendo agli elefanti, che si facevano vedere al popolo, i quali raccoglievano essi medesimi colla tremenda loro proboscide il danaro che davasi per vederli. Indi subito accolse la supplica e favorì la dimanda.
Un vecchio militare citato in giudicio correva grave pericolo della vita; per la qual cosa si recò da Augusto, affinchè lo aiutasse. Egli tosto scelse un buon avvocato, perchè lo difendesse. Allora il soldato scoprendosi le cicatrici esclamò: «Quando tu eri nel pericolo alla battaglia d'Azio, non mandai uno a fare le mie veci, ma io stesso combattei per difendere la tua vita.» Arrossì Augusto, e prese egli stesso la difesa dell' accusato con tanto calore, che il medesimo andonne assolto.
Passeggiando un giorno per Roma incontrò un artefice, {90 [90]} che aveva ammaestrato un corvo a dire: Ti saluto, o Cesare vincitore, imperatore. Augusto maravigliatosene, diede una grossa somma per avere quell'ingegnoso uccello.
Un altro artefice istruì egli pure un corvo a proferire lo stesso saluto, ma quell' uccello, simile a certi giovani che si annoiano dello studio, non faceva alcun profitto. Laonde il suo maestro andava dicendo: Ho perduto il tempo e la fatica. Tuttavia gli riuscì finalmente di fargli apprendere il desiderato saluto. Come Cesare lo intese, disse: Ne ho abbastanza di questi salutatori in casa. Allora il corvo aggiunse le parole, colle quali il padrone soleva lagnarsi: Ho perduto il tempo e la fatica. Al che Augusto si mise a ridere e comprò l'uccello a gran prezzo.
Molti altri fatterelli di simil genere si raccontano di Augusto. Non v'incresca che ve ne narri ancora alcuno. Un maestro di grammatica faceva versi in onore di lui, e quando quel principe usciva di palazzo glieli offeriva, sperandone qualche ricompensa, ma sempre invano. Augusto vedendo ripetersi più volte la cosa medesima scrisse egli eziandio alcuni versi in greco e li diede a quel maestro. Egli nel leggerli cominciò a farne le maraviglie colla voce, col volto e col gesto. Quindi avvicinandosi al cocchio di Augusto, trasse fuori i pochi danari che aveva nella borsa per darli al principe; e disse che avrebbe dato di più, se più avesse avuto. Alle quali parole tutti si misero a ridere, ed Augusto chiamato il maestro gli fece contare una competente somma di danaro.
Egli andava guardingo nel contrarre amicizie, ma contrattene, le conservava fedelmente. Suo intimo amico fu un cavaliere romano appellato Mecenate, il quale colla prudenza e coi consigli impedì ad Augusto di fare male ad altri, ed eccitollo ad esercitare molte buone opere. Fortunato colui che ha un buon amico e che sa valersi de' suoi consigli! Augusto lo esperimentò. In un trasporto di zelo un giorno era in procinto di proferire una sentenza, con cui parecchi cittadini erano condannati a morte. Era anche presente Mecenate, il quale tentò di avvicinarsi a lui per fargli cangiar proposito; ma non potendosegli avvicinare per la grande quantità di gente, scrisse in un biglietto: Alzati, o manigoldo, e lo gettò ad Augusto. Questi appena lo ebbe letto, subito si alzò e niuno più fu condannato. {91 [91]}
Mentre si applicava al bene dei suoi sudditi con liberalità e con giustizia, spendeva assai tempo nello studio. Dormiva meno di sette ore; e se avveniva, che si svegliasse in quel frattempo chiamava alcuni giovanetti, che gli facessero lettura finchè ripigliato avesse il sonno.
Egli promosse talmente le scienze e le arti, che non mai fiorirono cotanto presso i Romani, quanto sotto al suo regno, che perciò venne chiamato il secolo di Augusto ed anche l'età d'oro. Fra la schiera degli uomini letterati, che si resero celebri in quella epoca, risplendettero in modo particolare Catullo, Tibullo, Virgilio, Orazio, Ovidio e Fedro nella poesia. Nella storia Properzio, Giulio Cesare, da noi sopra ricordato, Sallustio, T. Livio, Cornelio Nipote. Nell'arte oratoria M. T. Cicerone e Q. Ortensio. Nella filosofia lo stesso Cicerone, che se ne può dire il padre presso i Romani. Poco progredirono i Romani nella scultura, pittura e musica, ma a perfezione recarono l'architettura, nella quale in modo speciale s'illustrò Vitruvio.
Quantunque Augusto si dedicasse unicamente a formare la felicità dei suoi popoli, non pensatevi tuttavia che fosse amato da tutti. Ci sono uomini tanto scellerati da attentare alla vita di quelli medesimi, che l'hanno data a loro stessi. Fu pertanto tramata una congiura, che tendeva a dare la morte all'imperatore, e ne era capo un certo Cinna, già condannato a morte e graziato dallo stesso Augusto.
L'imperatore, essendone stato informato, mandò a chiamar Cinna, e trattolo nella camera più segreta di sua casa, se lo fece sedere accanto. Quindi fattosi promettere che non lo avrebbe interrotto, gli raccontò ad una ad una le grazie ed i favori che gli aveva fatto. E tu, o Cinna, sai tutto questo, conchiuse, e vuoi assassinarmi? A questi detti Cinna esclamò, che non aveva mai immaginato tanta scelleratezza. Tu non attendi la parola, ripigliò Augusto: eravamo intesi che non m'avresti interrotto. Sì, te lo ripeto, tu vuoi assassinarmi.
Dopo di ciò gli espose tutte le circostanze, gli nominò i complici della congiura; al quale racconto Cinna restò si ripieno di terrore, che non poteva più proferire sillaba. Augusto gli fece i più vivi ed affettuosi rimproveri della sua perfidia, e conchiuse dicendo: «O Cinna, ti perdono la vita una seconda volta; te la concedetti quando eri mio {92 [92]} dichiarato nemico, te la concedo ancora oggi, che vuoi renderti traditore e parricida. D'ora innanzi siamo amici, e porgiamo al popolo romano un grande spettacolo, io quello della generosità, tu quello della riconoscenza.»
Augusto volle inoltre che Cinna fosse fatto Console per l'anno seguente, e fu ben ricambiato della sua clemenza. Cinna divenne l'amico più fedele del suo principe; nè più si ordirono cospirazioni contro di lui.
Intorno a quel tempo andò a Roma Archelao per succedere a suo padre Erode il Grande nel regno della Giudea, e l'ottenne. Ma invece di essere il padre del popolo, come deve essere un buon sovrano, ne divenne l'oppressore; perciò fu citato a Roma. Convinto dei delitti imputati, fu mandato in esilio a Vienna nel Delfinato. Allora il regno di Archelao fu ridotto ad una provincia romana, governata dagli uffiziali dell'imperatore.
Così lo scettro ossìa la sovrana autorità presso al popolo giudaico cominciò a cessare di pieno diritto, quando Erode il Grande fu creato re dai Romani; cessò di fatto quando la Giudea fu fatta provincia romana ed unita alla Siria; le quali cose secondo la profezia di Giacobbe dovevano avverarsi alla venuta del Salvatore[8].
II. Avversità e morte di Augusto.
Augusto prima di finire i suoi giorni ebbe a sopportare gravissime avversità. Molti parenti e molti amici da lui colmati di favori lo pagarono della più mostruosa ingratitudine.
Fra le stesse vittorie riportate dai suoi generali ebbe una terribile rotta cagionata da un capitano chiamato Varo. Quest'uomo, ambizioso ed ingordo di danaro, era stato spedito al governo della Germania. I Germani, nome che significa uomini di guerra, abitavano la parte orientale dell'Europa dal Reno (fiume che nasce nel monte S. Gottardo e va a scaricarsi nel mare Germanico) fino ad un altro fiume detto Vistola, che trae sorgente nell'Austria e versa le sue acque {93 [93]} nel Baltico. Nel paese compreso tra questi due fiumi eravi un'immensa foresta, nota sotto il nome di Ercinia o Selva Nera, a cagione della sua estensione e densità. Varo non potendo facilmente ammassare tesori presso quei poveri popoli, aggravavali colle più dure imposizioni; finchè un capo di quei barbari, chiamato Arminio, uomo feroce, ma di gran coraggio, tirò in agguato tutto l'esercito romano. Egli si finse amico di Varo, e colla promessa di dargli in mano certi tesori, cui diceva sapere egli solo dove fossero nascosti, lo attirò colle sue legioni in mezzo alla Selva Nera.
Colà il romano esercito nel buio della notte venne improvvisamente assalito dai Germani, e senza nemmeno poter fare uso delle armi, fu quasi interamente trucidato. Allora Arminio condannò ad orrendi supplizi quei soldati che erano caduti vivi nelle sue mani, e per eccesso di barbarie proibì sotto severe pene, che si desse loro sepoltura.
Sparsa quella notizia, tutta l'Italia fu presa da massimo spavento, e ognuno temeva che i barbari si movessero verso l'Italia innanzi che alcuno potesse loro opporsi. Roma trovavasi sommamente costernata, e lo stesso Augusto senza fine addolorato si vestì a lutto, si lasciò crescere la barba ed i capelli, il che era segno del maggior cordoglio che dare potesse un Romano, e qua e là correndo come forsennato, esclamava: Varo, rendimi le mie legioni!
Finalmente Augusto indebolito dall'età, dalle fatiche e dal dolore cagionatogli dalla sconfitta della Selva Nera, abbandonò Roma per ritirarsi in campagna e godere alquanto di quiete. L'ultimo giorno di sua vita chiese uno specchio, fecesi acconciare i capelli, e, sontuosamente vestito si volse a' suoi amici dicendo: Non ho fatto bene la mia parte? eglino risposero che sì. Or bene, ripigliò Augusto, la commedia è finita, battete le mani. Così morì in Nola, città della Terra di Lavoro, in età di anni 76, nel 57 del suo regno, 13 di Gesù Cristo.
Questo imperatore fu nei primi anni del suo regno crudele, ma le buone azioni fatte negli anni posteriori lo fecero avere in grandissima venerazione presso a' suoi sudditi anche dopo morte. {94 [94]}
III. Crudeltà di Tiberio e di Caligola.
(Dal 14 al 41 dell'Era volgare).
Al pacifico Augusto succedette nell'impero il crudele Tiberio. Costui seppe nascondere la ferocia del suo cuore finchè non ebbe il sommo potere. Quando poi se ne trovò in possesso, non vi fu crudeltà che non commettesse. Un generale di nome Germanico, nipote di Tiberio, combatteva vittoriosamente i Germani, e Tiberio geloso della gloria di lui, lo richiamò a Roma sotto colore di fargli godere la gloria del trionfo. La grazia di Germanico, la sua affabilità, le replicate vittorie da lui riportate, lo avevano reso l'idolo del popolo Romano.
Di che Tiberio vieppiù ingelosito, mandollo nelle parti d'Oriente contro ai Parti, perchè sedasse nuovi tumulti, ma intanto erasi accordato segretamente con Pisone e con sua moglie Plancina, affinchè avvelenassero al più presto possibile quell'uomo valoroso. Egli pertanto dopo aver riportate molte vittorie cadde ammalato nella città di Antiochia, e in breve si accorse che gli era stato propinato il veleno. Tutto il popolo Romano pianse amaramente questo giovane eroe. Le ceneri di lui vennero portate a Roma, e quando furono deposte nel sepolcro di Augusto, si fece all'improvviso un cupo silenzio ed i magistrati, i soldati ed il popolo si posero a gridare, che la repubblica era perduta.
Seiano, prefetto della guardia pretoriana, cioè di quei soldati che erano incaricati d'invigilare alla sicurezza dell'Imperatore e della Città, e che erano in grande parte strumento delle sue crudeltà, cadde in sospetto a Tiberio, il quale lo fece subito condannare a morte insieme colla moglie, coi figliuoli e cogli amici.
Un detto, un gesto, uno sguardo, che non avesse piaciuto all' Imperatore, erano delitto di morte. Ed annoiatosi a poco a poco di quelle condanne particolari ordinò che fosse fatto morire senz'altro processo chiunque venisse accusato. Allora tutta Italia fu piena di lamenti; in ogni parte regnava il terrore. Ma Dio, che veglia sopra il destino degli {95 [95]} uomini, può, quando vuole, mettere fine alle scelleratezze loro. Por darsi in preda ad ogni sorta di stravizi negli ultimi anni di vita Tiberio ritirossi nell'isola di Capri, dove alfine indebolito dalle sue dissolutezze, cadde in un totale sfinimento di forze. Allora un certo Macrone, abituato nei delitti, gli gittò un guanciale sulla faccia, e lo soffocò nell'anno 37 dell'era volgare.
Nell'anno diciottesimo del regno di Tiberio, mentre in Italia avevano luogo tante inaudite barbarie, compievasi nella Palestina un avvenimento che doveva far cangiar faccia all'universo. Gesù Cristo Salvatore del mondo, dopo aver predicato il Vangelo fino all'età di trentatre anni, con una morte volontaria e con una risurrezione gloriosa consumò l'opera della redenzione del genere umano. Pilato governatore della Giudea riferì a Tiberio la storia della passione, del risorgimento e dei miracoli di Gesù Cristo. Tiberio ne informò il Senato e propose che Gesù Cristo fosse dai Romani posto nel novero degli déi. Ma il Signore del cielo e della terra non doveva essere confuso colle ridicole divinità dei pagani. Il Senato, offeso perchè non era stato il primo a fare tale proposta, rigettò la dimanda del principe.
I tristi esempi di Tiberio furono seguiti da Caligola, di lui successore. Esso era figliuolo del prode Germanico, ma privo affatto delle virtù del padre. Non avvi stranezza, che non abbia fatto, non delitto, in cui non siasi bestialmente immerso. Ascoltate, ma con ribrezzo.
Nelle sue stravaganze volle che gli fossero resi onori divini; perciò diede a se stesso il nome di varie divinità. Ora prendeva il nome di Marte, ora di Giove, di Giunone, di Venere, e vestito dell'abito di queste divinità riceveva adorazioni e sacrifizi. Si fece fabbricare un tempio, in cui fu riposta una sua statua d'oro magnificamente vestita. Dinanzi a quella dovevano prostrarsi i suoi adoratori; grande numero di sacerdoti ogni giorno a lei sacrificavano. La dignità di pontefice era tra le prime di Roma; ed egli volle che sua moglie e di poi il suo cavallo fossero sommi pontefici. Voi fate senza dubbio le maraviglie di tante sciocchezze, pur vedrete ancora di peggio.
Per quel suo cavallo nudriva una passione sì strana, che ordinò gli fosse costrutta una stalla di avorio ed una mangiatoia {96 [96]} d'oro, e fosse coperto con una gualdrappa (ossia coperta) di porpora, e portasse appeso al collo un monile di gemme preziose. Affinchè poi nessuno strepito turbasse il sonno di quella bestia prediletta, faceva stare guardie tutta la notte intorno alla stalla. Aveva destinati parecchi servi e domestici, i quali erano incaricati di provvedere quanto poteva occorrere al magnifico Incitato, che cosi addimandavasi il cavallo idolatrato; e qualunque personaggio fosse andato a far visita ad Incitato era lautamente accolto.
Trattenete il riso, se potete! Un giorno l'imperatore invitò quel cavallo alla sua tavola, ove era apparecchiato un sontuoso pranzo; gli fece porre innanzi dell'orzo dorato, che probabilmente non gli piacque tanto quanto il solito cibo; gli versò egli stesso del vino in una coppa d'oro, nella quale bevette lo stesso imperatore. Quel pazzo principe aveva stabilito di conferire a quella bestia la dignità di console, se fosse vissuto quanto ei sperava.
Le follie, le stravaganze conducono naturalmente alla crudeltà, e Caligola fu altresì uno dei principi più crudeli. Non avendo più danaro da scialacquare egli metteva a morte i più onesti cittadini, a fine di appropriarsi i loro beni. Nè potendo tuttavia saziarsi del sangue umano andava bestialmente esclamando: «Ah! vorrei che il popolo romano avesse una sola testa per tagliarla di un colpo solo.» Io passo in silenzio molte altre scelleratezze di questo principe, perchè fanno troppo ribrezzo. Vi basti il dire, che egli non aveva più un amico; perciò da tutti abborrito, fu da un certo Cherea trucidato in una solennità, mentre andava al teatro, nell'anno 41, dopo quattro anni di regno.
Così morirono Tiberio e Caligola, principi da tutti maledetti, perchè i malvagi sono temuti in vita, ma odiati dopo morte.
IV. I primi martiri. (Dall'anno 42 al 68 dopo Cristo).
A Caligola succedette nell'impero Claudio, primo di questo nome. Egli era poco atto al governo; tuttavia in principio del suo regno mandò ad effetto alcune belle opere, per cui {97 [97]} fece concepire al popolo romano buona speranza di sè; ma lasciandosi di poi guidare da cattivi consiglieri, commise molti delitti. Quindi sul finire della sua vita a danno di suo figliuolo volle adottare Nerone e stabilirlo successore al trono.
Se io volessi raccontarvi ad una ad una le nefandità di questi imperatori, o meglio di questi oppressori del genere umano, dovrei ripetervi quanto di più empio e di più crudele si trova nella storia delle altre nazioni. Era pertanto di somma necessità che venisse un Maestro, il quale colla santità della dottrina insegnasse ai regnanti il modo di comandare, ed ai sudditi quello di ubbidire. Questo fece la religione di Gesù Cristo. Richiamatevi qui a memoria la famosa visione di Nabuccodonosor, con cui Dio rivelava a quel principe quattro grandi monarchie, delle quali l'ultima doveva superare tutte le altre in grandezza e magnificenza; questa era il Romano impero.
Ma una piccola monarchia, raffigurata in un sassolino, doveva atterrare questa grande potenza, e sola estendere le sue conquiste in tutto il mondo per durare in eterno. Questa monarchia eterna, da fondarsi sopra le rovine delle quattro antecedenti, era la religione Cattolica, la quale doveva dilatarsi per tutto il mondo in modo, che la città di Roma, già capitale del Romano impero, diventasse gloriosa sede del Vicario di Gesù Cristo, del Sommo Pontefice.
Primo a portare questa santa Religione in Italia fu san Pietro, Principe degli Apostoli, stabilito Capo della Chiesa dallo stesso nostro Salvatore. Egli, che aveva già tenuto sette anni la sede apostolica nella città di Antiochia, l'anno quarantesimo secondo dell'Era Cristiana venne a stabilirsi in Roma, città in quel tempo data in preda ad ogni sorta di vizi, perciò niente affatto disposta a ricevere una religione che è tutta virtù e santità. Tuttavia Dio, che è padrone del cuòre degli uomini, fece sì, che il Vangelo fosse ricevuto in molti paesi d'Italia, in Roma e nella stessa corte dell'Imperatore. Ma una furiosa persecuzione mossa da Nerone insorse contro ai predicatori del vangelo.
Quel principe aveva già fatto condannare a morte migliaia di cittadini. Britannico suo fratello, Agrippina sua madre, Ottavia sua moglie, il dotto filosofo Seneca di lui Maestro furono vittima di questo mostro di crudeltà. Egli {98 [98]} fece appiccare il fuoco a parecchi quartieri della città, vietando severamente che l'incendio si smorzasse; e mentre globi di fiamme e di fumo s' innalzavano da tutte parti, Nerone in abito di commediante sali sopra una torre, d'onde vedendo tutta Roma in combustione, se ne stava cantando sulla cetra l'incendio di Troia, cioè quel famoso avvenimento, di cui si parla nella storia Greca.
Accortosi poi Nerone che quel disastro metteva il colmo all'indignazione dei Romani contro di lui, ne riversò tutta la colpa sopra i Cristiani. Non potrei qui ridirvi, o giovani cari, a quali spaventosi supplizi i generosi Cristiani siano stati condannati. Alcuni coperti di pelli di bestia erano divorati dai cani: altri vestiti di tuniche intonacate di pece e di zolfo erano accesi a maniera di fiaccole per far lume durante la notte; non pochi crocifissi da carnefici, moltissimi lapidati dalla plebaglia.
Tali tormenti, non è vero? atterriscono gli uomini più intrepidi; pure tanto coraggio Iddio infondeva nel cuore di quei Cristiani, che si videro deboli donne, vecchi ed anche teneri fanciulli andare incontro alle torture, impazienti di morire per la fede. A coloro che sopportarono così tremendi supplizi fu dato il nome di Martiri, che vuol dire testimoni, perchè davano la vita per testificare in mezzo ai tormenti la divinità della Religione di Gesù Cristo.
S. Pietro primo Papa subì il martirio in questa prima persecuzione, e fu crocifisso col capo all'ingiù sul monte Gianicolo. Il giorno stesso s. Paolo, condotto tre miglia al di là di Roma nel luogo detto Acque Salvie, ebbe troncata la testa.
Ora che vi ho raccontato i tormenti da Nerone fatti patire ai martiri della fede, voglio narrarvi quale fine abbia fatto egli stesso. Dopo di aver esercitato ogni sorta di crudeltà si mise a fare il cocchiere, vale a dire a guidare cavalli nei giuochi del circo e ad esercitare il basso mestiere di commediante, e giunse al punto da porsi a capo di una squadra di libertini, coi quali notte tempo assaliva e maltrattava i passeggieri.
Tante follie unite a tante crudeltà gli attirarono addosso l'odio ed il disprezzo di tutti, sicchè fu proclamato nella Spagna un altro imperatore di nome Galba. A siffatta notizia {99 [99]} Nerone dalla paura parve tratto fuori di senno; gettò a terra con violenza la tavola sopra cui pranzava, ruppe in mille pezzi due vasi di cristallo di gran prezzo, e dava della testa nelle muraglie. Frattanto gli viene recata la nuova che il Senato lo aveva condannato a morte. Allora ira l'oscurità della notte esce dal palazzo, corre di porta in porta ad implorare soccorso da' suoi amici. Ma tutti lo fuggono, perchè i malvagi hanno solo cattivi amici, che li abbandonano appena si accorgono delle loro sventure. Tuttavia tentando di salvarsi in qualche modo, monta sopra un cavallo, si fa coprire con un vile mantello, e fra le maledizioni passa sconosciuto in mezzo a' suoi nemici, che gli gridano morte da tutte parti. Oppresso nella fuga da ardente sete, e costretto a bere acqua limacciosa nel cavo della mano esclamò: Sono questi i liquori di Nerone!
Giunto alla casa villereccia di un suo servo, di nome Faonte, tentò di nascondersi. Ma subito si accorse che il suo asilo era circondato dai soldati, i quali cercavanlo a morte. Allora non sapendo più a quale partito appigliarsi, a tutta voce si mise a gridare: Non è egli peccato che un sì buon cantante perisca? Ciò detto, per iscansare il pubblico supplizio, si trapassò da se stesso con un pugnale la gola. Fine degna di questo mostro, che in soli tredici anni di regno trovò modo di far inorridire del suo nome i tiranni medesimi. Nerone morì in età d'anni trentuno, il giorno stesso in cui alcuni anni prima aveva fatto uccidere sua madre. Egli fu l'ultimo imperatore della famiglia di Augusto. (Anno di Cristo 68).
V. Imperatori proclamati dalle legioni e la battaglia di Bebriaco. (Dal 68 al 70 dopo Cristo).
Galba erasi già avanzato nelle Gallie, quando eziandio il Senato ed il popolo il proclamarono imperatore. A questa notizia egli venne a Roma, e al proprio nome aggiunse il titolo di Cesare, col quale si contraddistingueva il capo dell'Impero. Ma potè soltanto tenere il trono otto mesi, dopo cui gli fu {100 [100]} troncata la testa in una sommossa, eccitatasi per alcune sue crudeltà, da un certo Ottone, compagno de' misfatti di Nerone, che allora ambiva l'impero.
Ottone, innalzato all'impero da una sedizione militare, non potò acquistarsi l'amore de' suoi sudditi, perciocchè troppo erano conosciuti i disordini della sua giovinezza. Di più l'esercito Romano, che militava nella Germania, scelse un suo generale di nome Vitellio e lo creò imperatore: cosicchè si videro due imperatori ad un tempo contendersi il supremo dominio. Le parti erano ambedue terribilmente forti e da numerose soldatesche sostenute. Quando Ottone udì che Vitellio si avanzava verso Roma colle sue genti gli andò incontro e scontrollo a Bebriaco, ora Canneto, fra Mantova e Cremona. Sì grande era nei due eserciti il desiderio di combattere, che in tre giorni seguirono tre grandi battaglie sempre vantaggiose ad Ottone, finchè Valente e Cecina, famosi generali di Vitellio, unendo insieme le loro forze, diedero nel tempo stesso un generale attacco alle schiere nemiche. L'esercito di Ottone fu disfatto, ed egli stesso, degno seguace di Nerone, si ritirò nella sua tenda, ove disperato si diè la morte. Così Vitellio senza contrasto potè entrare trionfalmente in Roma e salire sul trono de' Cesari.
Dopo il fatto d'armi di Bebriaco, mentre una parte dell'esercito doveva partirsi da Torino e ricondursi in Bretagna, accadde che un insolente soldato Batavo prese ad insultare con parole ingiuriose un artefice Torinese per cagione del prezzo di un suo lavorìo. Un Britanno alloggiato in casa dell'artefice prese vivamente la difesa del suo ospite. In breve si aumentò il numero dei tumultuanti, e i Britanni (Inglesi) prendendo le parti del loro legionario, venivano già alle mani coi Batavi, che difendevano il loro milite, quando si interposero due coorti pretoriane prendendo le parti dei Britanni. Parecchi rimasero uccisi da ambe le parti; e i Batavi vedendosi costretti a partirsene appiccarono il fuoco alla città di Torino, che in grande parte incenerirono. Ciò non ostante i Torinesi continuarono a mantenersi fedeli ai Romani imperatori. {101 [101]}
VI. Vespasiano e la distruzione di Gerusalemme. (Dal 70 al 79 di Cristo).
Fate pure le maraviglie, chè or giungiamo finalmente alla storia di un principe, il quale posso accertarvi non essere stato il flagello dell'umanità; anzi tanto Vespasiano, quanto suo figliuolo Tito procurarono tempi più tranquilli all'Italia. Vespasiano fino dai tempi di Nerone era stato spedito in Palestina per acquetare alcuni tumulti insorti tra i Giudei, i quali, ora per un motivo, ora per un altro ribellavansi ai Romani. Da abile generale egli aveva già soggiogato colle armi tutto quel paese; e solo rimanevagli ad impadronirsi di Gerusalemme, quando gli eserciti Romani di Oriente, sdegnosi di servire ad un crapulone quale era Vitellio, proclamarono imperatore Vespasiano, universalmente conosciuto per uomo coraggioso, abilissimo nel fatto delle armi, affabile e cortese con tutti, perciò amato da tutti. Riconosciuto imperatore Vespasiano con una parte dei suoi si partì alla volta d'Italia. Quando fu annunziato a Vitellio, che i soldati di Vespasiano erano già penetrati nel campo di Marte ed in Roma stessa, egli non pensò più ad altro se non a mangiare e a bere fino ad ubbriacarsi.
Mentre da tutte parti risuonavano grida di evviva al novello imperatore, lo stupido Vitellio si andava strascinando come poteva meglio per le sale del suo palazzo gridando ad alta voce: Soccorso, soccorso; ma niuno gli rispondeva, perchè gli stessi infimi servi erano fuggiti. Egli erasi appena appiattato in un canile, quando i soldati che andavano in cerca di lui, trattolo fuori del suo nascondiglio, lo misero a morte.
Divenuto così Vespasiano tranquillo possessore dell'Impero adoperò tutte le sue sollecitudini per riparare i gravi disordini introdotti da tanti malvagi imperatori che lo precedettero. Scacciò dal Senato quelli che lo disonoravano coi loro vizi; riformò vari abusi nei tribunali, e riordinò la milizia {102 [102]}
Egli abboniva sommamente la mollezza. Un giovane eletto ad una carica, venutogli innanzi tutto profumato per ringraziaenelo, l'Imperatore sapendo che colui, il quale si occupa della coltura del corpo, per lo più manca delle virtù della mente, lo rimproverò dicendogli: Invece di profumi amerei meglio che mandaste odore di aglio. Voleva con ciò dire, che egli amava più un giovane rozzo e incivile, che un vano damerino; e lo rivocò dall'impiego.
Quando Vespasiano lasciò Gerusalemme ne affidò l'assedio al valoroso Tito suo figliuolo. Quella infelice nazione resistette al nemico fino agli estremi. I Giudei persuasi essere quello il secolo, nel quale secondo le profezie dovesse venire il Messia, e credendo eziandio che il regno di quell'aspettato Liberatore fosse temporale, si ostinavano a difendersi contro ai Romani. Inoltre prestavano fede a vari impostori, che di quando in quando si andavano spacciando pel Messia. Quando udivano a dire, che il Messia era già venuto, e che era Gesù Cristo da loro condannato e messo in croce, viepiù si sdegnavano. Intanto crescevano i disordini tra di essi e le dissensioni erano fomentate dalle varie sette, e da quegli impostori che si qualificavano pel Salvatore. Nelle ostilità antecedenti erano già periti trecentomila Giudei, e nel lungo assedio per ferro, fuoco e fame ne morirono più di un milione.
Tito finalmente espugnò Gerusalemme, mandò a vendere centomila Ebrei come schiavi; la città ed il tempio furono arsi e distrutti. Così si avverò la minaccia da Gesù Cristo fatta alcuni anni prima ai depravati Ebrei quando disse: Di Gerusalemme e del magnifico suo tempio non rimairà pietra sopra pietra. Molte curiose particolarità di questo memorabile avvenimento avete già letto nella storia ecclesiastica, che credo non abbiate ancora dimenticato.
Vespasiano aveva molte buone qualità, ma gli si rimprovera il difetto di avarizia: la quale dimostrò particolarmente nell'occasione, in cui alcuni deputati di una città andarono a partecipargli di avere raccolta una grossa somma di danaro a fine di innalzargli una statua d'oro. «Collocatela qui, loro rispose presentando il concavo della mano, ecco qui la base della statua bella e pronta.» In fatti egli si fece dare quella somma: azione poco onorevole per un imperatore. {103 [103]} Egli esercitò eziandio vari atti di crudeltà, condannando alla morte molti illustri personaggi di Roma. Per la qual cosa essendo poco dopo caduto gravemente ammalato, molti riguardarono tale avvenimento come castigo del rigoroso supplizio fatto patire agli altri. Morì d'anni 79 dopo averne regnato dieci; e fu il primo imperatore che dopo Augusto morisse di morte naturale.
VII. Tito e l'eruzione dei Vesuvio. (Dal 79 all'81 dopo Cristo).
Tito, figliuolo e successore di Vespasiano, fu di gran lunga migliore del padre. Gli storici lo sogliono chiamare la delìzia del genere umano. Egli desiderava essere da tutti amato, anzichè temuto; e fu così clemente e buono verso i suoi sudditi, che durante il suo regno ninno fu condannato a morte. Sempre intento a fare del bene era grandemente afflitto quando non aveva occasione di esercitare qualche buona azione. Una sera richiesto da' suoi amici perchè fosse malinconico, Cari amici, rispose sospirando, ho perduta una giornata! - Perchè? ripigliarono. - Perchè oggi non ho fatto opera buona.
Il regno di Tito fu segnalato da grandi calamità. Una violenta peste desolò molti paesi d'Italia; un nuovo incendio ridusse in cenere parecchi quartieri di Roma, la quale dopo l'incendio di Nerone cominciava a ripigliare l'antico suo splendore. Ma l'avvenimento più di ogni altro deplorabile fu una eruzione del monte Vesuvio, di quel vulcano che mette fumo e fiamme anche ora, a poca distanza da Napoli. Forse voi non avete ancora una giusta idea dei vulcani, perciò voglio dirvi quello che gli eruditi asseriscono di questi monti spaventevoli.
Un vulcano è una montagna, la quale contiene, grande quantità di materie bituminose e solfuree. Allora che quelle materie sono poste in moto da un fuoco sotterraneo, e che arde naturalmente in seno alla terra in modo a noi sconosciuto, esse producono scoppi terribili, mandano fuori da ogni parte, a distanza anche di parecchie miglia, turbini di {104 [104]} cenere, pietre calcinate, bitume bollente, il quale raffreddandosi diventa duro al pari della pietra, e si appella comunemente lava. Nell'Italia noi abbiamo due di questi Vulcani, il monte Etna nella Sicilia, ed il Vesuvio vicino a Napoli.
L'eruzione del Vesuvio, che segui ai tempi di Tito, fu certamente un gran disastro. Cominciarono a farsi sentire violenti scosse di terremoto con fragori sotterranei somiglianti al tuono; all'intorno il terreno pareva infuocato ed arso; l'acqua del mare agitata da cima a fondo minacciava di uscire dal suo letto; tutto spirava costernazione e terrore. Quando in pieno mezzodì cominciarono ad uscire da quell'avvampante montagna neri e densi globi di fumo misto con cenere. Nel tempo stesso si videro lanciate in aria enormi pietre, che con tremendo fracasso dall'alto precipitavano giù pei fianchi della montagna. Dopo di ciò apparvero fiamme miste con cenere e con fumo, a segno che, facendo velo al sole, cangiarono il giorno in tetra notte.
Un uomo coraggioso chiamato Plinio, soprannominato il naturalista od il vecchio (per distinguerlo da suo nipote, detto Plinio il giovane), comandava la flotta Romana presso di Miseno, città distante nove miglia dal Vesuvio. Per osservare da vicino quel terribile fuoco, mentre tutta la gente fuggiva, egli si avanzò verso del luogo, ove maggiore era il pericolo; ma la sua curiosità gli costò la vita; che rimase soffocato dall'odore dello zolfo e dalle ceneri.
Plinio il giovine, corse eziandio un gravissimo rischio in quella città. Sua madre gli diceva: Fuggi, mio figlio, io sono vecchia ed inferma, avrò cara la morte, qualora io sappia che tu sei in luogo sicuro. Madre, rispondevale il generoso figliuolo, io sono risoluto di perire o di scampare con esso voi, nè vi abbandonerò giammai. Più volte essi vennero coperti dalla cenere, ma fortunatamente poterono salvarsi. Così la pietà del figliuolo era dalla Provvidenza ricompensata colla salvezza della madre e di se medesimo (V. Plinio, lib. VI, lett. 16).
Durante questa eruzione due illustri città, appellate Ercolano e Pompei, restarono sepolte sotto altissimi mucchi di cenere, e il sito delle medesime giacque sconosciuto fino al 1710, tempo in cui vennero scoperte sotto al villaggio di Portici presso Napoli a grande profondità. {105 [105]}
Vi si trovarono pitture preziose, utensili di casa, statue, monete, noci, uva, olive, grano, pane, ed in una prigione si vide persino il cadavere di un infelice cinto ancora dalle catene. Queste cose poterono per si lungo spazio di tempo conservarsi, perchè non erano esposte all'influenza dell'aria e delle stagioni, altrimenti sarebbero state di leggieri guaste e rovinate. Il medesimo villaggio di Portici è fabbricato sulla lava, che coperse la città di Ercolano.
Tito si occupava indefessamente per riparare a tante calamità, cui i suoi sudditi andarono soggetti, ed avrebbe senza dubbio fatto gran bene, se una morte immatura non lo avesse tolto di vita dopo soli due anni di regno. Dicono che sia stato avvelenato da suo fratello Domiziano, il quale ambiva di succedergli nel trono; in fatti ne fu il successore.
VIII. Domiziano e Apollonio il Mago. (Dall'anno 81 al 96 dopo Cristo).
A fatica si può concepire come Domiziano, figliuolo di Vespasiano, fratello dell'ottimo Tito, sia stato d'indole sì perversa. In lussuria e crudeltà fu un secondo Nerone, rassomigliando piuttosto ad un carnefice, che ad un imperatore. Egli ordinò che non se gli potessero innalzare statue se non di oro e di argento; e pretese di essere adorato come un Dio. La qual cosa sdegnando di fare molti illustri senatori ed altri ragguardevoli cittadini, furono fatti morire. Parecchi de' suoi valorosi capitani, solo perchè gli cagionavano invidia col loro valore, furono condannati a morte. Presiedeva egli stesso ai supplizi, e metteva ogni studio ad aggiugnere pene e spasimi ai condannati.
L'anno secondo del suo regno pubblicò un editto, che condannava a morte tutti i cristiani; e d'allora in poi volse tutto il suo furore nel perseguitarli e farli morire. Il console Flavio, suo cugino, abbracciò la fede cristiana con tutta la sua famiglia, e per questo solo motivo fu condannato nel capo, e la stessa sua moglie Domitilla, parente dell'imperatore, mandata in esilio. S. Giovanni l'Evangelista dall'Asia fu condotto a Roma, e presso la porta Latina per sentenza {106 [106]} dell'Imperatore immerso in una caldaia d'olio bollente, da cui però venne prodigiosamente liberato.
Tante barbarie suscitarono da tutte parti congiure contro il feroce imperatore. Un uomo straordinario di nome Apollonio, della città di Tiano, comunemente detto il mago, fomentava anch' egli la ribellione a favor di un generale chiamato Nerva. Lo seppe Domiziano, e comandò che fosse arrestato e condotto a Roma. L'Imperatore nel rimirare il sembiante di lui, lo strano suo vestimento, la lunga barba, i bianchi capelli, si spaventò. Egli è un demonio, esclamò. Io ben veggo, rispose freddamente Apollonio, che gli dei non ti sono cortesi, perchè tu non sai distinguere i mortali dagli immortali. Interrogato poscia intorno alla congiura, egli negò tutto. Non ostante in pena della sua arroganza gli furono recisi la barba ed i capelli, e venne messo in carcere. Della qual cosa niente intimorito, disse al suo confidente Dami: Il mio destino è superiore a quello del tiranno, egli non potrà farmi alcun male.
Difatto egli trovò modo di fuggire, e si ritirò in Efeso, città dell' Asia minore. Un dì facendo un discorso in presenza di molto popolo, fra le undici ed il mezzodì, repentinamente ruppe il ragionamento, e mutato nell'aspetto quasi convulso: Percuoti, esclamò, percuoti il tiranno! Stato alcuni istanti in profondo silenzio, soggiunse: Il tiranno è spento, io ve lo giuro. Fu creduto pazzo dagli astanti, ma la cosa era proprio avvenuta così. Domiziano era stato allora trucidato nel proprio palazzo.
Mi accorgo che più cose vi arrecano maraviglia, e che perciò vorreste dimandarmi: Che cosa sono i maghi? Appollonio disse la verità?
Vi risponderò in breve. Anticamente i maghi erano filosofi, vale a dire uomini che si davano grandissima premura per lo studio della scienza. Più tardi questa parola fu usata a significare certi uomini, che si vantavano di far miracoli, predire l'avvenire, ma che in sostanza erano veri ciarlatani. Perciocchè i veri miracoli e le vere profezie possono soltanto venire da Dio, il quale non le permette giammai in conferma della menzogna.
In quanto poi ad Apollonio io credo ch'egli abbia benissimo potuto, anche di lontano, sapere l'ora della morte di {107 [107]} Domiziano, perchè consapevole e forse complice della tramatasi congiura, informato del giorno o dell'ora in cui doveva effettuarsi. Sicchè nulla di soprannaturale succedette nei fatti del mago Apollonio.
IX. Quattro imperatori buoni. (Dal 96 al 161 dopo Cristo).
Quando vi dico esservi stati degli imperatori buoni, uopo è che intendiate soltanto di quella bontà naturale, che può avere un uomo pagano. Imperciocchè quasi tutti gli uomini virtuosi del paganesimo andarono soggetti ai vizi della crapula, della lussuria e dell'ambizione. La sola cattolica religione, perchè divina, è capace di sollevare l'uomo a portare vittoria sopra questi vizi e a praticare la temperanza, l'onestà e la modestia. I quattro imperatori, di cui voglio ora parlarvi, sono Nerva, Traiano, Adriano e Antonino, dei quali vi racconterò le principali azioni.
Al feroce Domiziano succedeva Nerva, uomo di provata bontà, il quale ne' due anni del suo regno si occupò nel riparare ai mali, che Domiziano aveva cagionati all'impero. Alla sua morte designò Traiano per successore.
Questi, nato nella Spagna, primo tra i romani imperatori di nascita non italiana, fu uno de' migliori sovrani, che abbia avuto Roma pagana. Il suo regno è segnalato per le vittorie riportate contra i Daci, oggidì Transilvani e Moldavi, e per aver ridotti i loro paesi in provincia romana. Queste vittorie ritornarono di grande vantaggio, perchè cosi francavano l'impero da un grave tributo, cui il debole Domiziano erasi obbligato verso a quei barbari, acciocchè lo lasciassero in pace. Fece anche molte conquiste nelle parti d'Oriente e finì di vivere in Selinunte, città dell'Asia minore, detta di poi Traianopoli, vale a dire città di Traiano. (Anno 117).
Si racconta di questo principe un tratto di bontà, che io non voglio ommettere. Mentre egli passava in pubblica piazza una donna si rivolse a lui a fine di ottenere un favore che credeva giusto. Essendo stata aspramente ributtata dall'Imperatore, arditamente ella esclamò: Perchè dunque siete {108 [108]} nostro principe? Tali parole fermarono Traiano, il quale tornando indietro ascoltò con pazienza la buona donna e le concedette quello che dimandava.
Sebbene in questo principe si ammiri la saviezza del governo, tuttavia gli si rimproverano il disordine della ubbriachezza e molti altri difetti. Anzi è annoverato fra i persecutori della religione cristiana; ed appunto nell'anno ottavo del suo regno fu suscitata la terza persecuzione, in cui parecchi illustri personaggi furono condannati a morte solo perchè erano cristiani.
Adriano, successore di Traiano, è altresì annoverato tra i più chiari imperatori romani. Egli amava la pace, la giustizia, la sobrietà e coltivava con ardore le scienze. La sua memoria era così prodigiosa, che letto un libro, di subito ripetevalo da un capo all'altro. Egli riedificò la città di Gerusalemme sotto il nome di Elia per ricordare il nome di sua famiglia, che era Elio; ma proibì per sempre agli Ebrei di andare colà per abitarvi. Adriano morì dopo venti anni di regno. (Anno 137).
Antonino, figliuolo adottivo di Adriano, fu il migliore di questi quattro imperatori. Egli vien soprannominato Pio per la sua bontà, e fu il primo imperatore che, conoscendo la ragionevolezza della cattolica religione, lasciasse libertà ai cristiani di professarla, e perciò il primo che non li abbia perseguitati. Questo pacifico intervallo diede campo ai ministri del Vangelo di far conoscere in lontani paesi la religione di Gesù Cristo, la cui luce si andava così spandendo per ogni luogo.
Antonino morì nell'età di anni 73 dopo averne regnati venti, e la morte di lui fu riguardata come una pubblica calamità non solo per l'Italia, ma per tutto il Romano impero. Gli fu innalzato un monumento che esiste ancora oggidì e porta il nome di colonna Antonina. Marc'Aurelio, di lui successore, nell'occasione che fu consacrata questa colonna, fece coniare una medaglia, la quale rappresenta da una parte il ritratto di Antonino, dall'altra la colonna stessa con questa iscrizione: Divo Pio. vale a dire al divino Pio.
Così, mentre i malvagi son tenuti in esecrazione presso ai posteri, i buoni si conservano in grata memoria tra le lodi e le benedizioni degli uomini. {109 [109]}
X. Marco Aurelio e la Legione Fulminante. (Dal 161 al 180 dopo Cristo)
Marc'Aurelio era degno successore del saggio Antonino, di cui era figliuolo adottivo. Fin dall'infanzia erasi applicato allo studio della filosofia, e si considerava come un padre, di cui erano figliuoli tutti i sudditi; perciò impiegava tutte le sue cure per la pace e per la tranquillità di essi. Sotto al suo regno l'Italia ebbe a godere di una perfetta tranquillità. Una cosa per altro riuscì di gran danno, e fu l' aversi associato nel governo un suo fratello di nome Lucio Vero, principe dispregevole, privo di valore e di virtù, rotto ad ogni sorta di vizi. Allora si videro per la prima volta nel tempo stesso due sovrani nel Romano impero, il che avrebbe tosto prodotti gravi perturbazioni, se dopo alcuni anni Lucio Vero non fosse morto di stravizzo. Sebbene fosse uomo così spregevole, tuttavia Marc'Aurelio lo fece annoverare fra gli Dei.
Questo imperatore riportò molte vittorie contro ai barbari, ed estese le sue conquiste sino al di là del Danubio presso alle montagne della Boemia. Mentre colà accanitamente si combatteva, avvenne che l'esercito Romano si lasciò cogliere nelle insidie dai barbari. I Romani erano chiusi nella gola di due montagne; e davanti avevano il nemico di gran lunga superiore; di più, essendo nel bollor della state, in breve la sete divenne tra essi tanto crudele, che uomini e cavalli cadevano a terra sfiniti od arrabbiati.
Per buona ventura trovavasi in quell'esercito una legione di Cristiani, vale a dire un corpo di circa seimila soldati. Costoro instruiti nel Vangelo che insegna di ricorrere a Dio nei bisogni della vita, in quelle strettezze abbassarono le armi, e postisi ginocchioni innalzarono a Dio fervorose preghiere dirimpetto al nemico che li motteggiava. Si vide allora ad un tratto coprirsi di nuvole il cielo, ed una dirotta pioggia cadere nel campo romano. All'inaspettato prodigio tutti levarono la faccia all' insù ricevendo cosi l'acqua a bocca aperta; tanto era ardente la loro sete. Dipoi empierono i loro elmi e bevettero essi ed i cavalli. I barbari giudicarono quel momento favorevole per attaccare {110 [110]} i nemici, ma il cielo armandosi a pro dei Romani, scaricò sopra di essi una terribile grandine, la quale accompagnata da tuoni e fulmini scompigliò talmente le loro file, che rimasero vinti. Le schiere cristiane, alle cui preghiere era attribuito questo celeste favore, ricevettero il nome di legione fulminante. In memoria del fatto si innalzò in Roma un monumento, che sussiste ancora ai nostri dì, in cui si vede scolpito in bassorilievo questo avvenimento così glorioso al Vangelo.
Sebbene Marc'Aurelio fosse fornito di buone qualità, tuttavia aveva posta fede a molte calunnie da uomini malvagi disseminate contro ai cristiani; perciò fin dal principio del suo regno aveva mosso contro di loro la quarta persecuzione, in cui fu sparso molto sangue cristiano. Dopo il prodigio della pioggia sopra narrata, pieno di riconoscenza verso ai cristiani, scrisse in vero a loro favore al Senato, affinchè non fossero più perseguitati. Tuttavia tre anni dopo si riaccese la persecuzione, ond' è che anche Marc'Aurelio viene annoverato fra i persecutori del cristianesimo.
Questo imperatore morì nel 180 in età d'anni 59. Raccontano, che Comodo suo figliuolo abbialo avvelenato per succedergli nel trono. A questo principe tenne dietro una lunga serie di altri imperatori, i quali tutti coi loro vizi disonorarono se stessi e il trono.
XI. Quattro imperatori malvagi e la decadenza dell'impero. (Dal 180 al 222 dopo Cristo).
Vi ho poc'anzi raccontata la vita di quattro imperatori buoni; ora devo parlarvi di quattro imperatori malvagi, che furono veri flagelli dell' Italia. Io mi contento di esporvi soltanto alcuni tratti della loro barbarie, poichè troppo difficil cosa sarebbe il narrarli tutti. I loro nomi sono Comodo, Settimio Severo, Caracalla, Eliogabalo. Comodo più mostro che uomo prese ad imitare le crudeltà degli antichi tiranni. I suoi furori gli affrettarono la morte. In un eccesso di collera avendo condannato a morte sua moglie, essa il prevenne {111 [111]} e lo fece strangolare nel proprio palazzo. Cosi la crudeltà tornò a danno di chi n'era l'autore. (A. 193).
Gli uccisori di Comodo offrirono tosto l'impero a Pertinace, nativo di Alba città del Piemonte. Egli si era pei suoi meriti sollevato ai primi gradi della milizia. Presentatosi ai Pretoriani promise di dare a ciascuno di loro una somma corrispondente a due mila trecento franchi. A quel patto i Pretoriani lo proclamarono imperatore, presentandolo al Senato, che dovette necessariamente riconoscerlo. Ma non andò guari che tutti divennero malcontenti di lui. Quelli, che gli avevano offerto l'impero, non si credevano sufficientemente ricompensati; i Pretoriani poi in grazia del danaro ricevuto datisi ai bagordi, nè più volendo ubbidire, si sollevarono, corsero al palazzo e lo trucidarono dopo 87 giorni di regno.
Appena morto, due ricchi personaggi Didio e Sulpiciano si recarono al campo dei Pretoriani, e là amendue a gara offersero danaro per l'impero. I soldati ridevano di tale incanto; e Didio, che superò Sulpiciano col promettere ad ogni Pretoriano franchi quattro mila ottocento, venne acclamato imperatore. Ma il popolo sdegnato al vedere posta all'incanto in favore dei Pretoriani la dignità imperiale, odiava Didio e lo insultava pubblicamente; donde discordie e risse. Finalmente gli stessi cittadini presero le armi, sfidarono a battaglia i Pretoriani, che non osarono accettarla. Allora si rivolsero agli eserciti, che militavano nelle varie parti dell'impero, e li pregarono di venire a liberare Roma dai Pretoriani e dall'Imperatore.
Tre pretendenti all' impero si presentarono: Pescennio capitano dell'esercito nella Siria in Oriente, Clodio Albino comandante delle legioni della Britannia e Settimio Severo capo delle legioni della Pannonia (oggidì Ungheria). Questi, siccome più vicino a Roma, vi giunse il primo. Il Senato depose Didio, ed i Pretoriani lo ammazzarono dopo 66 giorni di regno. Severo, dopo avere sconfitto Pescennio e Clodio, rientrò in Roma, mandò in esilio, mise in prigione ed anche a morte una grande parte degli amici de' suoi rivali; riordinò i Pretoriani introducendovi molti dei suoi più fidi soldati, e sicuro di essi regnò col terrore.
Geta figliuolo di lui, giovinetto di ottimo cuore, di soli {112 [112]} sette anni, al vedere ventinove senatori condannati a morte atroce, se ne mostrava col padre afflittissimo. Severo se ne accorse, e gli disse accarezzandolo: Figlio mio, questi sono altrettanti nemici da cui ti libero. Geta replicò: Questi infelici non hanno figliuoli, parenti od amici? Ne hanno moltissimi, gli fu risposto. Allora Geta esclamò: Saranno adunque in maggior numero quelli, che piangeranno le nostre vittorie, che quelli i quali parteciperanno della nostra allegrezza.
Questo savio riflesso non valse a moderare la crudeltà di Severo, il quale anzi vi aggiunse la ferocia contra ogni sorta di sudditi. Fra le altre cose ordinò che fossero messi a morte tutti i cristiani; e cosi ebbe luogo la quinta persecuzione, che fu violentissima. Migliaia di cristiani finirono la vita fra atroci tormenti; migliaia furono privati d'impieghi, di sostanze e rinchiusi in oscure prigioni; migliaia mandati a confine. Il tiranno follemente si argomentava di poter distruggere il cristianesimo, e all' opposto ne moltiplicava i fedeli, perchè il sangue de' martiri era feconda semente di novelli credenti.
Intanto Severo giunto al colmo della empietà in una spedizione contro ai Britanni lasciò la vita nella città di Jork nell'Inghilterra. Caracalla suo figliuolo aveva tentato di assassinarlo, ma fallitogli il colpo, dicesi che gli procurasse col veleno la morte. (Anno 208).
Il parricida assiso sul trono del genitore nulla ebbe di umano, eccetto le sembianze. Cominciò dall'uccidere suo fratello Geta, e lo trucidò di propria mano tra le braccia della madre, accorsa per impedire l'orrendo fratricidio; ed ella stessa restò intrisa del sangue dell'infelice figliuolo.
Dicono che abbia messo a morte più di ventimila persone, perchè erano amici di Geta. Mettete insieme quanto fecero Nerone, Caligola, Tiberio, ed avrete un giusto concetto degli orrori e delle infamie di Caracalla. Ma le empietà degli uomini hanno il loro termine. Egli aveva condannato a morte il prefetto delle guardie pretoriane di nome Macrino, il quale accertatosi che era destinato a morte spietata, fece trucidare lo stesso Caracalla in età di anni ventinove e gli succedette nel governo.
Poco tempo Macrino potè godere dell'impero, perciocchè {113 [113]} fu dagli stessi suoi soldati ucciso, evenne posto sul trono un giovanetto chiamato Bassiano, più conosciuto sotto il nome di Eliogabalo, ossia sacerdote del sole. Egli fu cosi denominato, perche introdusse in Italia il culto del sole, di cui esso era grande sacerdote, che in lingua siriaca dicesi Eliogabalo.
Questo monarca, dato ad ogni sorta di vizi e di stravaganze, creò un senato di donne, egli stesso vestiva da donna e lavorava nella lana. Volle che in tutta Italia si celebrassero le nozze del sole colla luna, facendone pagare le spese ai sudditi. Intanto abbandonava il governo dello Stato ai suoi cuochi, ai cocchieri ed ai buffoni. Accortosi che tali disordini lo avevano fatto cadere in abbonimento ai sudditi, egli attendendosi da un momento all'altro la morte, teneva in pronto una quantità di cordoni di seta per istrangolarsi, e un grande numero di spade a lamine d'oro, per trafiggersi in qualsivoglia occorrenza. Aveva altresì fatto costruire una torre, ai cui piedi era un pavimento di pietre preziose, acciocchè, occorrendo, avesse la soddisfazione di precipitarsi giù e rompersi il capo nella più splendida maniera, che gli fosse possibile.
Ma tutte queste precauzioni riuscirono vane, poichè stanchi i sudditi di quel mostro, il trucidarono; e in segno di abbonimento il Senato decretò, che il suo corpo fosse gittate nel Tevere, e la sua memoria condannata ad infamia eterna.
Questa fu la vita dei quattro imperatori malvagi, i quali con tanti loro misfatti contribuirono grandemente a precipitare sempre più l'impero nell'abisso dell'immoralità e del disordine.
XII. Alessandro Severo. - I tre gordiani. (Dall'anno 222 al 240 dopo Cristo).
Un regno di pace e di prosperità per l'Italia e per tutto il Romano impero fu quello di Severo Alessandro. Eliogabalo l'aveva adottato per successore; ma perchè era di ottimi costumi e da tutti amato, ne ebbe gelosia, e tentò {114 [114]} di farlo ammazzare. La qual cosa per buona sorte non gli riuscì. Ucciso Eliogabalo, esso fu con gioia universale proclamato Imperatore.
La mansuetudine e la giustizia erano le caratteristiche sue virtù. Persuaso che la sola religione è sostegno degli imperi, la sola che possa formare la felicità dei popoli, si mise a praticarla egli stesso, e a farla rispettare universalmente. Nel suo palazzo aveva fatto costruire un tempietto, in cui fece riporre le immagini dei benefattori più insigni dell'umanità. Vi si vedeva Alessandro il grande, Abramo, Orfeo, Gesù Cristo; mescolanza al tutto bizzarra, ma che dimostra la buona intenzione di quel principe. Amava il cristianesimo, udiva volentieri a parlare del Vangelo, e aveva fatto scrivere a grandi caratteri nel suo palazzo queste belle parole del Salvatore: Non fate agli altri quello, che non vorreste fosse a voi fatto. Massima questa che non dovrebbesi mai dimenticare.
Egli era affabile con tutti, e perdonava facilmente a chiunque lo avesse personalmente offeso. Un senatore di nome Ovinio fu accusato di aver aspirato all'impero, e il delitto si provò chiaramente. Alessandro il fece venire alla sua presenza e dissegli: Ovinio, io vi sono obbligatissimo della buona volontà, che avevate di alleggerirmi di un peso, da cui mi sento oppresso. Dopo di ciò lo condusse in senato, lo associò all'impero, volle che gli fosse dato albergo nel suo medesimo palazzo. Che più? in una guerra accorgendosi che Ovinio era stanco, gli offerì il proprio cavallo, camminando egli stesso a piedi. Confuso Ovinio da tanta generosità, dimandò di ritirarsi per menare una vita privata, ed Alessandro acconsentì, pago di avere colmo di benefizi un suo nemico.
Il regno di Alessandro è segnalato da un avvenimento notabilissimo. Un semplice soldato persiano di nome Artaserse, fattosi proclamare re di Persia, mandò a Roma una pomposa ambasciata di quattrocento giovani persiani dei più ben fatti e con tutta eleganza vestiti. Presentatisi costoro ad Alessandro, gl'intimarono baldanzosamente che cedesse immantinenti i paesi che i Romani possedevano in Asia.
Severo fu sdegnato di quell'arrogante comando, e postosi egli stesso alla testa di un esercito, si avviò nella Mesopotamia, {115 [115]} quella provìncia, di cui parla spesso la Storia Sacra e che oggidì si appella Dierbeck. Dopo molte sanguinose battaglie, Alessandro riusci a respingere i Persiani; obbligandoli a rispettare le frontiere dell'impero; di poi ritornò a Roma per ricevere gli onori del trionfo.
Di questo principe devo farvi notare il grande amore e il grande rispetto che egli professava verso di Mammea sua madre. La venerava egli stesso, e voleva che dagli altri fosse rispettata; nelle feste, nei pubblici spettacoli la voleva sempre seco; anzi in tempo di guerra, nelle più pericolose battaglie erale sempre accanto, ed ella era abbastanza coraggiosa e virtuosa da non iscostarsi mai dall'amato figliuolo.
Questo principe era d'indole e di cuore assai buono, ma troppo attaccato al culto degli Dei. Voleva che tutti i suoi sudditi li adorassero. I cristiani, che riconoscono un solo e vero Dio, rifiutavano di obbedire. Questa è la cagione per cui durante il suo regno non pochi cristiani riportarono la palma del martirio. Ma la persecuzione fu assai più crudele sotto al successore di Alessandro, che fu Giulio Massimino.
Egli era un semplice soldato barbaro, di statura e forza gigantesca. Aveva più di sei piedi, circa tre metri di altezza, quaranta libbre di carne appena bastavano a soddisfare il vorace suo appetito, e un grosso barile di vino non poteva estinguergli la sete. Dicono che egli corresse velocemente come un cavallo. In gioventù era stato pastore sulle montagne della Tracia, oggidì Rumania, ed aveva dato saggio d'incredibile valore contro alle bestie feroci ed ai masnadieri. Questa fortezza straordinaria lo portò in breve ai primi gradi della milizia Romana. Severo stesso gli aveva conferito il grado di generale con altri titoli onorevoli; ma quell'ingrato, invece di servirsi dei favori ricevuti a pro del suo benefattore, gli suscitò contro una ribellione, nella quale Alessandro venne trucidato insieme con la madre.
Allora Massimino si proclamò imperatore, ed è il primo tra i barbari che abbia occupato l'impero. Il suo regno fu un complesso di barbarie e di crudeltà. Bastava che alcuno parlasse della sua origine, perchè fosse tosto condannato a morte. Egli è l'autore della sesta persecuzione, e si annovera tra i più feroci nemici del cristianesimo. {116 [116]}
Ordinò di spogliare i templi degli Dei, volendone il provento per lui e pe' suoi soldati, la maggior parte de' quali arrossivano di trarre profitto da quei sacrilegi. Questo disprezzo per la religione il fece cadere in abbonimento universale. Una sollevazione scoppiò in Africa, e Gordiano vi fu salutato Imperatore. Il Senato lo riconobbe e gli associò il suo figliuolo Gordiano II. Ma poco appresso i due Gordiani furono sconfitti ed uccisi dall'esercito di Massimino. Il Senato allora conferì la dignità imperiale a due senatori Claudio Pupieno e Decimo Celio; ma il popolo li ricusò ambidue e volle per imperatore Gordiano III, figliuolo di Gordiano II. Massimino a tale notizia correva furioso verso Roma, se non che giunto in Aquileia, città posta sulla sponda dell'Adriatico, fu trucidato dai medesimi suoi soldati in un col figliuolo.
Cominciava Gordiano appena a regnare, quando dovette andare in Oriente contro ai Persiani. Colà Filippo, capo dei pretoriani, fece assassinare Gordiano, e venne egli stesso proclamato Imperatore dai soldati.
Al vedere, o giovani, l'imperatore nominato ora dai pretoriani ed ora dagli eserciti, quando dal Senato e quando dal popolo, forse direte: Non vi era una legge, che determinasse la successione all'impero e che così prevenisse tanti mali? Presso ai Romani mancava veramente questa legge. Presso di noi è legge, che il figliuolo primogenito succeda nel regno al padre defunto; questa successione si chiama legittima. Imparate a rispettarla.
XIII. Filippo. - Decio e i barbari. (Dal 240 al 251 dopo Cristo).
Dopo Gordiano III salì sul trono Filippo, che governò lodevolmente l'impero. Si crede che egli abbia abbracciata e professata la religione cristiana. Questo è certo, che durante il suo regno i cristiani furono lasciati in pace. Regnando Filippo fu celebrato con indicibile festa l'anno millesimo della fondazione di Roma. Anche ogni cento anni solevasi solennemente celebrare in Roma l'anniversario della {117 [117]} fondazione di quella città; ma questa volta, oltre all'anno detto secolare, cioè che dava principio ad un altro secolo, occorreva eziandio l'anno millesimo da tale fondazione; pel che vi fu una solennità straordinaria con innumerabile concorso di gente.
L'anno duecento quarantanove un certo Marino erasi fatto proclamare Imperatore dall'esercito nella Pannonia. Filippa spedi un generale di nome Decio per sedare il tumulto; ma invece fu egli stesso dall'esercito proclamato imperatore. A siffatto annunzio Filippo corse con un altro esercito, e venne alle mani con Decio, vicino a Verona, dove perde la vita. Suo figlio rimasto a Roma vi fu ucciso dai pretoriani.
L'impero di Decio è segnato da una crudele persecuzione, da lui eccitata contro ai cristiani, ed è la settima tra le dieci sanguinose suscitate nei tre primi secoli dell'era volgare. Fu pure sotto al regno di Decio che comparvero sulle frontiere dell'Italia innumerevoli squadre di barbari, detti comunemente Goti. Siccome in questa storia ci accadrà più volte di parlare di questi popoli, così sarà bene che ve li faccia conoscere.
Nel raccontarvi la spedizione di Varo in Germania vi feci osservare, che quel paese era nella maggior parte coperto da folte selve, e che parecchi uomini vi abitavano, altri in mezzo alle selve, nelle tane come le volpi, altri nelle spelonche delle montagne a maniera di orsi, altri poi dimoravano in capanne sulle riviere dei laghi e dei fiumi. Quelli che invasero le provincie romane al tempo di Decio abitavano quel tratto di paese, ch' è tra la Vistola e l'Elba. Osservate questi luoghi sopra una carta geografica e vi tornerà di non poco aiuto a ritenere i fatti che sono per raccontarvi.
Que' barbari erano divisi in cinque grandi tribù, ovvero grandi famiglie, conosciute sotto al nome di Vandali, Longobardi, Gepidi, Ostrogoti e Goti d'Occidente. Ciascuna tribù aveva un capo, da cui tutti dipendevano, ed al primo segno di lui si mettevano in cammino, ordinati in grandi colonne, traendosi dietro padri, mogli, figli sopra carri e facendo lunghissimi tratti di strada.
Appena Decio seppe che que'barbari avevano traversato il Danubio e si avanzavano nelle provincie romane con orrendi guasti, si affrettò di andarli a combattere con parecchie {118 [118]} legioni. In sul principio ebbe molto favorevole la sorte delle armi, e giudicava già quasi sua la vittoria; ma essendosi inconsideratamente inoltrato in una palude, fu oppresso dalla folla dei combattenti e perì insieme colla maggior parte delle sue genti.
Allora le legioni sparse qua e la si radunarono ed elessero Imperatore un generale chiamato Gallo. Questi, desideroso di por fine alla guerra co' barbari, conchiuse con loro un trattato di pace, in forza di cui: 1° permetteva che essi portassero seco tutto il bottino che avevano fatto e conducessero in ischiavitù tutti i prigionieri; 2° si obbligava di pagare loro ogni anno una grossa somma di danaro. A queste condizioni i Goti soddisfatti acconsentirono di ritirarsi dall'altra parte del Danubio. Ma non tardarono molto a ritornare nelle provincie romane e cagionarvi gravissimi disastri.
XIV. Scompiglio del Romano impero. (Dall'anno 252 al 284 dopo Cristo).
Di mano in mano che il Vangelo spandeva la benefica sua luce nelle varie parti del mondo, il Romano impero andavasi sfasciando, e si stabiliva così il cristianesimo sulle rovine dell'idolatria. Roma, per tanto tempo capitale del romano impero, si preparava a divenire la città eterna e la capitale del mondo cattolico.
Da Gallo a Diocleziano avvi una rapidissima successione d'imperatori, il cui regno fu di corta durata, perchè l'uno dopo l'altro trucidati. Gallo venne ucciso da Emiliano, trucidato il quale, fu proclamato imperatore Valeriano.
Valeriano si adoperava per ristabilire la disciplina nei soldati, ma si lasciò ingannare dai sacerdoti idolatri i quali lo persuasero a distruggere il cristianesimo se voleva vincere in una guerra coi Persiani. È questa l'ottava persecuzione, in cui, fra molti altri, riportarono glorioso martirio il diacono s. Lorenzo, che fu bruciato vivo sopra una graticola, e s. Sisto II papa, il quale fu decapitato l'anno 261.
Valeriano intanto imprese la guerra, ma con esito infelicissimo, perciocchè in una battaglia ebbe la peggio e cadde {119 [119]} in mano di Sapore re di Persia, il quale poselo in catene e lo sottomise a grandissime umiliazioni. Si dice che quando montava a cavallo il costringesse a curvarsi dinanzi a lui, e ponendogli il piede sul dorso se ne servisse come di staffa per salire in sella. Per ultimo fu scorticato vivo, provando cosi prima di spirare in grande parte i tormenti, che egli aveva fette patire ai cristiani.
Gallieno, figliuolo e successore di Valeriane, prese le redini del governo. Questo principe, invece di occuparsi del regno, menava la vita nelle dissolutezze e ne' passatempi; perciò i Persiani, i Goti ed altri barbari poterono assalire da varie parti il romano impero. In tempi tanto disastrosi molte provincie, non potendo altrimenti provvedere alla loro difesa, pensarono di eleggersi per capo qualche nobile personaggio, cui diedero pure il nome d'Imperatore, e, cosa non mai udita, si videro trenta imperatori contemporanei, ai quali la storia diede il nome di trenta tiranni. L'indolente Gallieno governò l'Italia per mezzo di un suo rappresentante di nome Tetrico.
Immaginatevi a quanti disastri andò soggetto il romano impero in questo scompiglio di cose! Tuttavia que'mali non durarono lungo tempo; Gallieno venne ucciso in Milano, ed i trenta tiranni, senza venire a spargimento di sangue, cessarono l'un dopo l'altro di vivere. A Gallieno succedeva Claudio II, principe buono, ma dopo un regno assai breve, mori di peste, lasciando la corona ad Aureliano. Questi si adoperò per ristorare i mali da tutte parti piombati sopra i suoi sudditi. Diede grandi esempi di valore nel combattere i Vandali ed altri barbari penetrati in Italia; portò le armi in Oriente contro ai Persiani; assali Palmira, città famosa nell'antichità, fondata dal re Salomone sotto il nome di Tadmor. Questa città era la sede di Zenobia, donna di eroico valore, la quale per molte conquiste fatte si gloriava del titolo di regina d'Oriente. Era costei di nascita e di religione ebraica, e quando ebbe cognizione del Vangelo favori molto il cristianesimo, e volea farsi istruire per abbracciarlo; ma sgraziatamente cadde in cattive mani, cioè ebbe a maestro un eretico di nome Paolo di Samosata, il quale invece di guidarla alla verità, la trasse all'errore.
Dopo lunga resistenza i cittadini di Palmira dovettero {120 [120]} arrendersi, e Zenobia fatta prigioniera fu condotta dinanzi ad Aureliano. Questi le dimandò con piglio severo, come mai avesse osato muovere guerra agli imperatori romani. Zenobia diede questa schietta risposta: «In voi ravviso un imperatore, perchè sapete pur vincere, ma i vostri predecessoti non mi sembravano degni di questo titolo augusto.» L'imperatore trattò questa regina con tutti i riguardi dovuti ad un grande infortunio, e le assegnò per dimora una casa di campagna vicino a Tivoli, dove ella terminò tranquillamente i suoi giorni come dama romana.
Aureliano nei primi anni del suo regno non era contrario ai cristiani, ed aveva gran rispetto pel sommo Pontefice. I cristiani d'Antiochia ricorsero a lui perchè desse il suo parere intorno alla dottrina dell'eretico Paolo, il quale turbava quella città. Il principe ordinò che ognuno dovesse stare a quanto giudicherebbe il vescovo di Roma, fin da quei tempi riconosciuto capo della cristianità. Ma qualche tempo dopo Aureliano sottoscrisse un terribile editto, coi quale fulminava la pena di morte contro a tutti i cristiani. Questa fu la nona persecuzione, la quale per altro non fu molto lunga, perciocchè Aureliano venne dal proprio segretario ucciso nel 278.
Dopo la morte d'Aureliano niuno più osando addossarsi il peso dell'impero, il Senato elesse un senatore chiamato Tacito, il quale di mal animo accettò una dignità divenuta tanto pericolosa; e in fatti a capo di alcuni mesi mori assassinato.
Allora l'esercito proclamò imperatore Probo, generale degno di questo nome. Durante il suo regno, che fu di sei anni, tenne lontani i barbari e gli altri nemici dalle provincie romane. Egli morì, come quasi tutti i suoi antecessori, ucciso dai soldati. (Anno 283).
Caro parve degno di succedergli nel trono; ma poco dopo la sua esaltazione fu colpito dal fulmine. Carino e Numeriano, di lui figliuoli, riuscirono a salire sul trono, ma tosto furono trucidati. (Anno 284).
Vedete, miei cari giovani, quanto sia vero che le cariche e gli onori del mondo non fanno la vera felicità. L'uomo può soltanto reputarsi felice quando pratica la virtù. {121 [121]}
XV. Diocleziano e l'era dei martiri. (Dal 284 al 318 dopo Cristo).
Erano per compiersi tre secoli, da che il cristianesimo veniva da tutte parti combattuto, quando Diocleziano mosse contro ai cristiani la decima persecuzione, che di tutto le precedenti fu la più sanguinosa. Questo principe di basso legnaggio soltanto per via delle armi era giunto a conseguire il trono. Non potendo da solo governare l'estesissimo suo impero, adottò Massimiano per figliuolo e lo fece suo compagno d'armi. Datogli quindi il titolo di Imperatore Augusto, gli affidò il governo dell'Italia e di altri paesi, riserbando a sè il governo dell'Oriente, cioè della Grecia, della Macedonia, dell'Asia fino al Tigri e dell'Egitto, e stabili sua dimora in Nicomedia, oggidì Isnikmid, città dell'Asia minore. Massimiano poi andò a stabilirsi in Milano. Questi imperatori, chiari ambidue per valor militare, non avevano altro di mira che l'ambizione e la vana gloria. Di indole barbara, dissimulatori, crudeli, si adoperavano di comune accordo per distruggere i cristiani, da essi considerati come nemici dell'impero, unicamente perchè disapprovavano la viziosa loro condotta, e ricusavano di inchinarsi alle false divinità per adorare il solo vero Dio Creatore del cielo e della terra. Città intere, i cui abitanti erano cristiani, furono arse e distrutte. Una legione detta Tebea, composta di oltre seimila uomini, fu tutta passata a fil di spada nel Vallese, vicino a quel monte che al presente si appella Gran S. Bernardo. Questi martiri avevano alla testa s. Maurizio loro generale, che fino all'ultimo respiro animò i suoi compagni a dare coraggiosamente la vita per la fede.
Mentre l'Italia era bagnata di sangue cristiano, l'impero fu assalito dai barbari, e perturbato da sollevazioni di parecchi sudditi; perciò furono creati due Cesari, cioè due luogotenenti ed eredi dei due imperatori. Il primo fu Costanzo Cloro, principe commendevole e degno per le sue virtù di essere il padre di Costantino il Grande; il secondo fu Galeno, uomo superbo, intrattabile e di pessimi costumi. {122 [122]} Il governo di questi due Cesari unitamente a quello dei due imperatori suole denominarsi tetrarchia, ossia governo di quattro.
Galeno fece tutto quel male che potè alla religione cristiana, obbligò Diocleziano a rinunziare all'impero e a condur vita privata. Diocleziano si ritirò a Salona, piccola città sulle sponde del mare Adriatico, dove fu assalito da una malattia che lo faceva dare nelle più violenti smanie. Si percuoteva da se stesso, si voltolava per terra, mettendo spaventevoli grida: da ultimo bramando di terminare una vita così infelice si lasciò morire di fame.
Non meno funesta è stata la morte di Galerio. Egli aveva anche costretto Massimiano a rinunciare all'impero, e così potè con tutta libertà fare alla nostra Italia tutto il male che un tiranno sa immaginare. Ma la vendetta del Cielo venne eziandio a colpire questo scellerato con orribile malore.
Mi è impossibile dirvi gli eccessi di rabbia e di collera in cui dava il feroce Galerio. Il suo corpo era una sola piaga, che metteva vermi continuamente, e nell'eccesso del furore faceva strozzare tutti i suoi medici. Tuttavia ve ne fu uno, il quale coraggiosamente lo avvisò, che quella malattia non poteva guarirsi con rimedi ordinari. Vi ricordi, o principe, gli disse, quanto faceste patire ai cristiani, e cercate il rimedio de' vostri mali in ciò che ne fu la cagione.
Allora Galerio confessò per vero il Dio de'cristiani, e andava gridando che farebbe cessare la persecuzione. Ma come le sue promesse non erano sincere, ei non fu esaudito. Laonde fra i rimorsi e la disperazione spirò dopo un supplizio di ben diciotto mesi.
Cosi la divina Provvidenza faceva provare a quei persecutori grande parte dei tormenti, che eglino stessi avevano fatto patire ai cristiani. Ma la vita e la morte funesta di quei tiranni fece sì, che più bello e più luminoso comparisse l'impero del grande Costantino, per la cui opera il cristianesimo doveva godere di una pace non mai per lo innanzi provata. {123 [123]}
XVI. Battaglia di Torino. - Costantino a Roma. (L'anno 314 dopo Cristo).
Costanzo Cloro governava col suo coraggio e colle sue virtù la Gallia, la Spagna e la Gran Bretagna. Invece di perseguitare i cristiani, come Galerio e Diocleziano, egli si era loro mostrato sempre favorevole, animato a ciò da Elena sua moglie. Questi due consorti si diedero ogni cura per ben allevare il loro figliuolo Costantino, e lo affidarono ad un savio maestro cristiano, chiamato Lattanzio. Il giovane principe, educato così nella mansuetudine del Vangelo, acquistò fermezza di carattere, cuor grande e liberale, costumi puri ed illibati. Siffatte doti presero sempre maggiore incremento in Costantino, perchè aveva egli fin dalla giovinezza avversione all'ozio, e con assiduità erasi applicato allo studio, seguendo le massime del maestro. Suo padre morendo lo aveva eletto successore, e tutto l'esercito con unanimi applausi approvò e riconobbe il novello imperatore, il quale allora era in età di anni trentadue.
Mentre i vari imperatori guidavano i loro eserciti dispersi nelle varie parti dell'impero, Massenzio, figliuolo di Massimiano, si fece in Roma proclamare Augusto dal popolo.
Ma per la sua crudeltà cadde in odio ai Romani, i quali perciò si volsero a Costantino, allora dimorante nelle Gallie. La pietà ch'egli sentiva pei Romani, ed il sapere che Massenzio disegnava di muovergli guerra, indussero Costantino a calare in Italia, traversando il Monginevra. Giunto a Susa, la trovò ben fortificata e ben difesa. Non volendo perdere tempo nell'assediarla, comandò che le si appiccasse il fuoco alle porte e si desse la scalata alle mura. Vi entrò vittorioso; ma clemente ne impedi il saccheggio. Poi si avviò verso Torino; presso a Rivoli incontrò possenti schiere nemiche; laonde egli dividendo in due parti il suo esercito, le prese in mezzo, le assalì e sconfisse. Invano i fuggiaschi cercavano di ricoverarsi in Torino; questa città loro chiuse le porte, e non le aprì che a Costantino. Questi primi successi mossero altre città a spedirgli deputati {124 [124]} per protestargli ubbidienza; talchè senza ostacolo alcuno entrò in Milano, donde si condusse sopra Verona. In questa città si erano raccolte quelle soldatesche di Massenzio, che andavano ritirandosi coll'avanzarsi di Costantino. Pompeiano, generale di Massenzio, ne usci per opporsegli, ma fu pienamente sconfitto, e vi perdette la vita. Costantino allora s'inoltrò fin sotto Roma, donde Massenzio non era mai uscito, perchè i suoi astrologhi gli avevano predetto, che se ne usciva, sarebbe perito. Egli confidava nel suo esercito, di gran lunga superiore a quello del rivale; confidava nell'oro, con cui sperava di poter corrompere le genti di Costantino; ma erano diversi i disegni del Cielo, che voleva finalmente liberare la sua Chiesa dalle persecuzioni.
La battaglia era inevitabile, e doveva decidere a chi rimarrebbe l'impero. Posto in tale cimento Costantino, che più non credeva alla follia del paganesimo, ma non era ancora fermo credente in Cristo, si rivolse, come egli disse di poi, al Dio creatore del cielo e della terra con vivo desiderio di conoscerlo. Fu esaudito. In sul mezzodì egli, non meno che l'esercito tutto, vide in aria una croce splendida, sulla quale stavano scritte queste parole: Con questo segno vincerai. Perplesso dubitava ancora, quando nella seguente notte Cristo gli apparve, dicendogli che con quella bandiera vincerebbe. Tostamente Costantino fece porre sopra uno stendardo il monogramma, ossia la cifra di Gesù Cristo così fatta ? (PX) e con questo animosamente ingaggiò battaglia contro al tiranno. I soldati romani e gli italiani, ansiosi di essere liberati dalla oppressione di Massenzio, presto piegarono, gli altri combatterono valorosamente, ma in fine rotta la cavalleria, tutto il campo voltò le spalle per rifugiarsi in Roma. I più annegarono nel Tevere, dove lo stesso Massenzio precipitò col cavallo e miseramente perì. Allora Costantino fu dal senato e dal popolo accolto con grande onore e fra mille applausi condotto trionfalmente in città.
Se mai, o giovani, vi accadrà di recarvi a Roma, a poca distanza da un maestoso monumento detto Colosseo, voi troverete un alto e magnifico arco trionfale, appellato Arco di Costantino. Quest'arco fu innalzato dal senato e dal popolo romano in memoria della segnalata vittoria riportata da Costantino sopra Massenzio. L'iscrizione ivi apposta dice precisamente {125 [125]} che la vittoria è dovuta alla potenza di Dio. Costantino fece innalzare una statua, ordinando fosse posta nel luogo più bello di Roma. In mano la statua teneva una grande croce con questa iscrizione: «Con questo segno di salute, stendardo della vera potenza, ho liberato la vostra città dall'oppressione dei tiranni, e ristabilito il senato ed il popolo nell'antico loro splendore.» Finalmente, abolito il supplizio della croce, volle che invece di essere segno d'infamia fosse sul diadema imperiale segno di onore.
XVII. Impero di Costantino il Grande. (Dal 312 al 337).
Costantino fu uno di quegli uomini singolari che rare volte compariscono nel mondo. Il suo lungo regno si può dire una serie non interrotta di vittorie. Quante volte sguainò la spada in guerra, altrettante ne uscì vincitore. Egli cominciò dal pubblicare un editto, in forza di cui era proibito di perseguitare i cristiani; richiamò quelli, che erano stati mandati in esilio per la fede, ordinando fossero loro restituiti i beni, di cui erano stati spogliati.
A sue spese fece costruire molte chiese, procurando che fossero addobbate magnificamente. Si comportava con massimo rispetto coi ministri del santuario; rendeva loro grande onore, provava grande piacere nell'averli seco, riguardando in loro la maestà di quel Dio, di cui sono ministri. Trattò coi modi più rispettosi i romani Pontefici, che per lo innanzi erano sempre stati perseguitati; e considerando le molte spese che dovevano sostenere, come capi della Chiesa, fece loro molte donazioni, affinchè esercitassero con decoro la grande loro dignità.
Avvenne un giorno che parecchi malevoli sforzavansi per fere da lui condannare alcuni Vescovi, ma egli loro rispose: «Come volete mai che io osi giudicare i ministri di quel Dio, da cui dovrò io stesso essere giudicato?» Stabilì poi per legge che nessuno ecclesiastico potesse essere citato nei tribunali avanti ai giudici secolari.
Sotto al regno di questo pio imperatore si manifestò la {126 [126]} eresia degli Ariani, cosi detti da Ario autore della medesima. Costoro negavano la divinità di Gesù Cristo, ma nel seminare i loro errori perturbavano la Chiesa. Costantino si accordò con s. Silvestro papa, perchè fosse convocato un concilio ecumenico, ossia generale, che è una grande radunanza di Vescovi cattolici assistiti dal Papa. La verità venne solennemente proclamata e l'errore condannato. Quest'assemblea è nota nella storia sotto il nome di Concilio Niceno, perchè fu convocata in Nicea, città dell'Asia minore, oggidì Isnik nella Natolia.
In mezzo a queste opere di beneficenza il pio monarca ebbe anche molti disgusti, poichè la vita presente è sparsa di molte amarezze. L'imperatore Massimiano, suocero di Costantino, il quale era stato costretto da Galerio a lasciare il trono, brigava per ritornare al possesso con aperte ribellioni. Non potendovi riuscire altrimenti, aveva tentato invano di assassinare Costantino suo genero. Per questo atroce attentato fu condannato a morte. Il feroce Massimiano volle fare da carnefice a sè medesimo, strangolandosi colle proprie mani.
Un altro competitore di Costantino era Licinio, il quale governava l'impero nelle parti d'Oriente. Costui contro la fede data non cessava dal perseguitare i cristiani. Costantino gli mosse guerra e lo sconfisse. In pena della sua tirannia fu messo a morte, e la sua memoria dichiarata infame come quella de' più malvagi imperatori.
Malgrado tante buone qualità Costantino era tacciato di indole impetuosa, la quale di vero gli fece commettere azioni, di cui fu dolentissimo per tutta la vita. L'imperatrice Fausta, sua seconda moglie, accusò Crispo, figlio di lui e di Minervina sua prima moglio, di aver tentata la sua onestà. Seppe ella colorire il fatto con tali calunnie, che nell'impeto della collera l'imperatore condannò a morte il proprio figliuolo. Ma poco dopo avendo scoporta l'innocenza di Crispo e la perfidia di Fausta, nel trasporto del suo sdegno la fece immergere in un bagno bollente, nel quale fu soffocata. Questi fatti, miei cari amici, dimostrano che i più grandi uomini cadono talvolta in grandi falli, se non sanno frenare gl'impeti del loro sdegno.
Il senato nella maggior parte ancora composto di uomini {127 [127]} idolatri, lo stesso popolo abituato a deliziarsi dello spargimento di sangue cristiano, vedevano di mal animo un imperatore, che pubblicamente professava il cristianesimo, e mirava con disprezzo le assurde pratiche dei pagani. Tutte queste avversità rendettero a Costantino fastidiosa la dimora in Roma, pel che risolse di stabilire altrove la capitale dell'impero. Il luogo scelto fu l'antica città di Bisanzio, costruita in uno stretto tra l'Europa e l'Asia minore. La quale città, perchè da lui riedificata con grande magnificenza, venne detta Costantinopoli, vale a dire città di Costantino.
Tali cose parevano avvenire a caso, ma erano l'adempimento de' divini voleri. Costantino trasportando altrove la sede imperiale lasciò libero il primato di Roma al sommò Pontefice. Per simile guisa il sassolino veduto da Nabucodonosor, vale a dire l'umile religione di Gesù Cristo, atterrava la grande statua, simbolo del romano impero, la cui magnificenza doveva passare nella religione; e Roma, fino allora capitale del medesimo impero, diveniva capitale del mondo cristiano.
Mentre Costantino erigeva Costantinopoli a capitale dei suoi stati, divideva l'impero in due parti: impero d'Oriente e impero d'Occidente. Di poi suddivise queste due grandi parti del romano impero in quattro prefetture; la 1a era la prefettura d'Oriente divisa in cinque diocesi, ovvero Provincie, Oriente, Egitto, Asia, Ponto e parte della Tracia. La 2a era la prefettura d'Illirio, che comprendeva due diocesi, la Macedonia e l'altra parte della Tracia. La 3a quella d'Italia divisa in tre diocesi, Italia, Illirio ed Africa. La 4a quella delle Gallie divisa in tre diocesi, Gallia, Spagna, Britannia. I governatori delle prefetture appellavansi Prefetti, quelli poi che governavano le diocesi prendevano il nome di Rettori, Proconsoli, Vicari.
Costantino, compiuto il grande lavoro della nuova capitale, chiamò da ogni parte gli uomini più dotti. Così in breve quella città divenne la più commerciante, la più ricca e la più abbondante d'insigni personaggi. Ma quel principe non potè godere a lungo le delizie del novello soggiorno, e morì in età di anni 64 nel 337.
Prima di spirare ebbe i suoi ufficiali intorno al letto, e nel rimirarli afflitti e piangenti, con aria di tranquillità loro {128 [128]} disse: «Vedo con occhio diverso dal vostro la vera felicità; e ben lontano dall'affliggermi, godo assai perchè sono giunto al momento, in cui spero di andarne al possesso.» Diede poscia gli ordini opportuni per mantenere la pace nel suo impero; fecesi dar giuramento solenne dai militari di non mai imprendere cosa alcuna contro alla Chiesa, e morì placidamente.
La sua morte fu universalmente compianta, lamentando ognuno nella perdita del monarca quella di un tenero padre.
XVIII. Giuliano l'apostata. (Dal 337 al 365).
Dopo la morte di Costantino i suoi tre figliuoli Costante, Costanzo e Costantino il giovane, seguendo la volontà del padre, si divisero fra di loro l'impero. A Costante toccò l'Italia, che governò colla massima moderazione e giustizia quattordici anni, con dimora ordinaria in Milano. Costantino, malcontento della prefettura delle Gallie toccatagli in sorte nella divisione dell'impero, mosse guerra al fratello, e perì in una imboscata. Costante, che era rimasto padrone di tutto l'impero d'Occidente, fu ucciso da un suo generale di nome Magnenzio, che lo stesso imperatore aveva salvato da morte in una sedizione.
Allora Costanzo, che regnava in Oriente, portò le armi contro a questo usurpatore, e vintolo, tutto l'impero cadde in sue mani. Quindi creò Cesare il giovinetto Giuliano, figliuolo di un fratello del gran Costantino. Ma ingelositosi delle vittorie riportate dal novello Cesare, gli mosse guerra; e nell'impazienza e nello sdegno di non poter tosto raggiungere il suo nemico fu colpito da violentissima febbre, di cui poco stante morì. Prima di spirare ricevette il battesimo, e si mostrò dolente di aver favorito gli Ariani e la loro perversa dottrina, e pentito di aver fatto Cesare l'empio Giuliano.
Questo Giuliano è comunemente detto l'apostata, perchè dopo aver ricevuto il battesimo rinunziò al Vangelo per abbracciare nuovamente il paganesimo. Fin da fanciullo egli lasciava vedere un umore collerico, superbo, ambizioso, ed {129 [129]} uno sguardo truce a segno, che s. Gregorio di Nazianzo, quando scontrassi in lui studente ad Atene, esclamò: Che mostro nutre mai l'impero! guai a' cristiani se costui verrà imperatore! Tanto è vero che una buona o cattiva apparenza è talvolta presagio di una buona o cattiva vita.
Di fatto, giunto Giuliano al potere, divenne un feroce persecutore de' cristiani, e ne' suoi deliri giurò di estinguere la religione di Gesù Cristo. Per riuscirvi egli cominciò a seminare discordie tra i cattolici e gli eretici; poscia si diede a fare, come fanno tutti quelli che cercano di opprimere la religione, cioè a spogliare gli ecclesiastici de' loro beni e dei loro privilegi, dicendo con derisione voler fare ad essi praticare la povertà evangelica.
Imponeva grosse somme ai cristiani per costruire ed abbellire i templi degli idoli; non dava cariche a verun cristiano, nè loro permetteva di potersi difendere davanti ai tribunali. La vostra religione, diceva, vi proibisce i processi e le querele. Finalmente persuaso che la cattolica religione è si pura e santa, che basta il conoscerla per amarla, egli proibì a tutti i cristiani di istruirsi nelle scienze, adducendo che essi dovevano vivere nell'ignoranza e credere senza ragionare.
La maggiore poi delle stravaganze fu di voler rendere menzognera la parola di Gesù Cristo. Egli aveva detto nel Vangelo, che del tempio di Gerusalemme non sarebbe più rimasta pietra sopra pietra, così Giuliano si propose di dargli una mentita col rialzare quel famoso ediflzio. Ma appena scavava le fondamenta, che cominciavano ad uscire globi di fuoco, i quali colla rapidità del fulmine incenerivano tutti i materiali preparati e rovesciavano i lavoranti; così che molti furono dalle fiamme consunti. Allora scornato Giuliano desistè dall'impresa[9].
Confuso, ma non ravveduto, giurò, che appena ritornato da una guerra, che sosteneva contro ai Persiani, avrebbe distrutto il cristianesimo; l'infelice per l'opposto incontrò la morte. Imperciocchè quando pensava di aver quasi riportata vittoria, fu colpito nel cuore da una saetta. Portato fuori {130 [130]} della mischia gli si medicò la ferita; ma i dolori divenendo più acuti, gli fecevano mettere grida da disperato. Allora egli cavandosi colle mani il sangue dalla ferita lo gettava rabbiosamente in aria, dicendo: Galileo hai vinto, Galileo hai vinto! Colle quali parole intendeva d'insultare ancora la divinità di Gesù Cristo, detto Galileo, perchè fino dall'infanzia dimorò in Nazaret, città della Galilea. Cosi ostinato nell'empietà morì d'anni 31, lasciando un terribile esempio a quelli che si accingono a combattere la religione (A. 365).
XIX. L'impero d'Oriente e l'Impero d'Occidente. (Dal 365 al 378).
Per la morte di Giuliano l'esercito si trovò in cattivissima condizione coi Persiani, e per liberarsi da così grande pericolo elesse ad imperatore un prode e pio ufflziale, chiamato Gioviano, che aveva meritato il titolo di confessore per la fermezza mostrata in tempo di persecuzione. Fervoroso cristiano e valente capitano, come fu proclamato imperatore, chiamò intorno a sè l'intiero esercito, e disse che egli era cristiano, nè voleva comandare se non a soldati cristiani. Alle quali parole tutti ad una voce risposero: «Non temete, o principe, voi comandate a cristiani; i più vecchi di noi furono ammaestrati dal grande Costantino, e gli altri da' suoi figliuoli. Giuliano avendo regnato poco non potè a fondo radicare l'empietà e quelli che gli credettero furono sedotti.» Con sì fausti principii Gioviano, date di sè le più grandi speranze, conchiuse una pace onorevole coi Persiani, e fece chiudere i templi dei Gentili. Molte altre cose ravvolgeva nell' animo a bene de' suoi sudditi, allora che giunto in Bitinia venne soffocato dal gaz del carbone acceso nella sua stanza per asciugarla, dopo appena otto mesi di regno.
Sparsa la notizia della morte dell'imperatore le legioni elessero due fratelli chiamati Valentiniano e Valente, che si divisero le provincie, e nuovamente ne formarono due vasti Stati sotto il nome d'impero d'Oriente e impero d'Occidente. Il primo toccò a Valente; ed aveva per capitale {131 [131]} Costantinopoli, stendendosi dalle sponde del Danubio fino all'Eufrate. L'impero d'Occidente si estendeva dalla riva sinistra del Danubio fino alla Gran Bretagna, ed aveva per capitale Milano; e questo toccò al virtuoso Valentiniano.
Valentiniano al valor guerriero accoppiava la fede di buon cattolico. La premura nel premiare e la severità nel castigare facevano si, che egli fosse amato dai buoni e temuto dai malvagi. Egli non aveva per lo addietro esitato d'incorrere la disgrazia di Giuliano per amor della religione. Un giorno quell'apostata entrava in un tempio degli Dei accompagnato da Valentiniano, capitano della sua guardia, quando il sacerdote pagano, secondo il rito dei gentili, avendo asperso di acqua lustrale l'imperatore ed il suo seguito, ne cadde qualche goccia sulle vestimenta di Valentiniano. Questi preso da indignazione alla presenza dello stesso Giuliano tagliò il pezzo, che era stato spruzzato dall'acqua, e diede una ceffata al sacerdote. Questo trasporto di zelo gli cagionò l'esilio.
Egli governava con somma giustizia, risiedeva ora in Milano, ora in Treviri, città della Germania, a fine di poter meglio difendere le frontiere de' suoi Stati continuamente minacciati dai barbari.
Malgrado così belle qualità, aveva un difetto assai dannoso; come quegli che lasciavasi talvolta trasportare a smoderati impeti di collera. Questo vizio gli costò la vita; imperciocchè mentre rimproverava alcuni barbari colpevoli di tradimento, si lasciò andare a tale furore, che gli si ruppe una vena, e morì quasi sull'istante. Graziano, di lui figliuolo, gli succedette nell'impero.
Valente per molti anni erasi occupato più nello spargere il sangue dei cattolici, che quello dei nemici. Ma alla nuova che i Goti, traversato il Danubio, depredavano le sue terre, si pose alla testa di un esercito per andarli a combattere, e andò invece a ricevere il castigo delle sue crudeltà. Il suo esercito fu fatto a pezzi nelle vicinanze di Adrianopoli, città della Rumanìa; egli stesso ferito da un dardo, essendo stato portato in una casa vicina, vi perì consumato dalle fiamme, che i vincitori appiccarono.
Rimasto Graziano solo padrone dell'impero, mostrossi adorno delle più rare virtù. Chiaro in pace formava la delizia {132 [132]} de'suoi sudditi, e valoroso in guerra sapeva difendere i suri Stati. Egli riportò una segnalatissima vittoria contro ai Germani, di cui trenta mila rimasero sul campo di battaglia.
La cosa che procacciò maggior gloria a questo principe fu certo la promulgazione di una legge, quanto contraria al paganesimo, altrettanto favorevole alle religione di Cristo. Con questa legge ingiungeva, che la sola religione cattolica fosse riconosciuta per religione dello Stato. Ordinava inoltre che dalla sala del senato romano fosse tolta la statua e atterrato l' altare della dea Vittoria, sulla quale si facevano i giuramenti e si offerivano sacrifizi; che fossero confiscate le rendite destinate al mantenimento de' sacrifizi e dei ministri gentili; e che cessassero i privilegi conceduti ai sacerdoti pagani. Grande rumore innalzarono contro a siffatta legge i senatori, buona parte ancora pagani, e mandarono uno di loro, che presentasse a Graziano un memoriale pieno di doglianze. Ma altri senatori cristiani fecero una protesta in contrario, dichiarando che essi non interverrebbero più in senato, ove si ristabilisse l'obbrobrio della statua e dell'altare della Vittoria. Graziano mosso anche dall'eloquenza di s. Ambrogio, vescovo di Milano dove egli pure risiedeva, mantenne l'editto.
Allora l'Italia cominciò ad apparire veramente Cristiana; e si potè stabilire quel maraviglioso centro di unità, per cui ai cattolici di tutto il mondo fu dato agio di liberamente ricorrere al Capo della Chiesa universale. Queste cose per lo innanzi avevano sicuramente luogo, ma, per le persecuzioni sofferte dalla Chiesa, non con quella libertà che si vide in appresso.
In quel medesimo tempo parecchie nazioni barbare varcarono le frontiere dell'impero, molestandolo da tutte parti; sicchè Graziano non potendo oggimai sostenere da solo quell'immenso carico, associò all'impero Teodosio, prode uffiziale, e gli offerì l'impero d'Oriente.
Sebbene questo imperatore abbia avuto a sua special custodia l'impero d'Oriente, tuttavia credo che le gloriose azioni, che si raccontano di lui, avvenute la maggior parte in Italia, vi saranno di gradimento. {133 [133]}
XX. Teodosio il Grande. (Dal 378 al 395).
Teodosio, soprannominato il Grande, aveva solamente diciotto anni, quando collocato da Graziano alla testa di un esercito liberò l'impero dai barbari, e costrinseli a ripassare il Danubio. Splendide vittorie lo accompagnavano in ogni parte, sicchè le barbare nazioni atterrite al solo di lui nome dimandarono la pace.
Teodosio era cristiano, ed in sè riuniva le più belle doti, di cui uomo possa andare adorno. Egli vedeva con rincrescimento che gli eretici ariani, favoriti da Valente suo antecessore, turbassero la Chiesa coi loro errori; perciò volle che tutti i suoi sudditi seguissero la vera dottrina del Vangelo, professata dal concilio di Nicea. Scacciò i vescovi ariani dalle loro sedi, e ordinò che i veri cristiani portassero il nome di Cattolici, che vuol dire universali. Ancora oggidì sono appellati cattolici i veri cristiani, che professano la dottrina del Vangelo, e sono governati dal romano Pontefice, Capo della Chiesa di Gesù Cristo.
Teodosio fece molte savie leggi: proibì gli spettacoli dei gladiatori, nei quali combattevano uomini con bestie, o uomini tra di loro, finchè un gladiatore, ovvero combattente rimanesse dall'altro ucciso, senza che tra di essi fosse avvenuta offesa alcuna; cosa veramente barbara e affatto contraria alla carità del Vangelo.
In quel medesimo tempo Teodosio diede al mondo un ammirabile esempio di generosità e di clemenza. Il popolo di Antiochia erasi mosso a ribellione e in disdoro dell'imperiale dignità aveva spezzate e tratte nel fango le statue dell'imperatore. Teodosio sdegnato contro a quella città, da lui ricolma di benefìzi, spedì due commissari con ordine di condannare a morte tutti i colpevoli. Pubblicata la fatale sentenza, non si udivano più che gemiti e grida lamentevoli fra quei cittadini.
I colpevoli furono condannati, e già stavano in procinto di essere giustiziati, quando s. Flaviano. vescovo di quella {134 [134]} città, ottenne si forza di preghiere, che l'esecuzione del supplizio venisse differita finchè egli fosse andato a Costantinopoli per dimandare grazia all'imperatore. Giunto in quella grande metropoli il prelato fu ammesso all'udienza, e fermatosi a qualche distanza da Teodosio, stavasi cogli occhi bassi e mutolo, come soffocato dal dolore. Teodosio tutto confuso ed attonito gli si avvicinò, e fecegli vivi ma teneri rimproveri sull'ingratitudine di que'cittadini. Allora Flaviano con franchezza evangelica, Principe, gli disse, noi meritiamo ogni sorta di supplizi, e se voi riduceste in cenere la nostra città, noi non saremmo bastevolmente puniti. Voi potete non per tanto aggiungere un novello splendore alla vostra gloria col perdonare ai colpevoli, ad imitazione di quel Dio, che tutti i giorni perdona i peccati degli uomini. Egli dunque a voi mi manda per dirvi, che, se voi rimetterete le offese altrui, saranno parimente rimesse le vostre. Ricordivi, o principe, di quel giorno terribile, in cui sudditi e sovrani compariranno dinanzi al tribunale del Giudice supremo, e non vi cada di mente che i vostri falli saranno cancellati dal perdono che avrete agli altri accordato.
A queste parole Teodosio s'intenerì, e versando lagrime, andate, gli rispose, andate, mio buon padre; affrettatevi di mostrarvi al vostro gregge, restituite la calma alla città di Antiochia, annunziando il mio perdono. Tosto Flaviano si diresse alla sua città, ove fu accolto come angelo di pace fra le acclamazioni, e in tutte le chiese di Antiochia risuonarono inni di grazia all'Altissimo Iddio. (Anno 387).
In altra occasione la clemenza di Teodosio venne meno; poichè, mentre egli era in Milano, gli abitanti di Tessalonica, città dell'Illirio, si rivoltarono contro al governatore, lo uccisero, e atterrarono in pari tempo una statua, che Teodosio aveva fatto innalzare al proprio padre. Al primo annunzio di tale rivolta Teodosio si lasciò andare a sì grande eccesso di sdegno, che sull'istante spedì contro ai ribelli un nerbo di soldati, perchè trucidassero senza pietà donne, vecchi e fanciulli, talchè settemila cittadini furono barbaramente scannati.
Sant'Ambrogio, tuttora vescovo di Milano, aveva tentato invano di placare l'ira dell'imperatore; pochi giorni dopo quel monarca agitato dai rimproveri della coscienza, volendo {135 [135]} entrare in chiesa, il santo Vescovo con franchezza apostolica, facendogli intoppo in sulla soglia, fermatevi, principe, gli disse, voi non sentite ancora il peso del vostro peccato. Come entrerete nel santuario del Dio terribile? Come ricevere potrete il corpo del Signore colle mani ancora fumanti di sangue innocente? Ritiratevi, e non aggiungete il sacrilegio a tanti omicidi.
Dovete qui notare che simili atti di barbarie erano puniti con una pena ecclesiastica, in forza di cui i colpevoli erano reputati indegni di unirsi cogli altri fedeli in chiesa, ed erano obbligati a vivere separati dagli altri cristiani, specialmente nelle sacre funzioni. Perciò l'imperatore, buon cristiano e buon cattolico, ben lungi dallo sdegnarsi contro a s. Ambrogio, confessò il proprio peccato, ne fece pubblica penitenza parecchi mesi, e dopo fu ricevuto in chiesa con gli altri fedeli.
Io vi assicuro, o giovani cari, che ammiro grandemente questa religiosa sommessione di un imperatore, il quale con una parola avrebbe potuto fare le più terribili vendette; ma egli riconobbe nella persona del vescovo un ministro di Dio, e a lui volle rendere un solenne omaggio di esemplare sommessione. Felice sant'Ambrogio per la sua fermezza! Non meno felice Teodosio per la sua umiltà!
Mentre queste cose accadevano in Italia, un generale chiamato Massimo, erasi fatto proclamare imperatore nella Bretagna; ed ucciso il giovane Graziano in una sanguinosa battaglia, s'incamminava alla volta di Milano per forzare Valentiniano II a dividere seco l'impero. Questo Valentiniano era fratello del pio Graziano, e trovavasi allora in assai giovanile età per opporsi a quel ribelle generale.
Teodosio, che era stato da alcuni affari chiamato a Costantinopoli, a siffatte notizie raccoglie un esercito, e dall'Oriente ritorna in Italia contro di Massimo. In una battaglia, data presso la città di Aquileia, Massimo fu vinto, fatto a pezzi, e Valentiniano venne restituito sul pacifico suo trono. Ma un altro de' suoi generali, detto Arbogasto, per ambizione del trono gli tramò un'altra congiura, e lo fece barbaramente trucidare.
Nemmeno l'iniquo assalitore potè godersi a lungo il frutto del suo delitto; perciocchè assalito da Teodosio fu sconfitto {136 [136]} insieme con un altro tiranno di nome Eugenio, complice della stessa rivolta. In quella occasione Teodosio stabilì suo figliuolo Onorio, giovane di soli undici anni, imperatore di Occidente, e riserbò l'Oriente al suo primogenito chiamato Arcadio. Cosi furono del tutto separati i due imperi di Oriente e di Occidente.
Teodosio sopravisse soltanto alcuni mesi a questa sua vittoria, e morì pacificamente in Milano fra le braccia di s. Ambrogio nell' anno 395. Questo principe meritò il nome di Grande per la sua fermezza nella fede cattolica, per l'eroico suo valore in guerra, ed in modo particolare per la rara abilità che aveva nel maneggio di grandi affari ecclesiastici e civili; le quali cose ritardarono alquanto la rovina del Romano impero.
XXI. Saccheggio di Roma. (Dal 395 al 410).
Sullo scorcio del quarto ed al principio del quinto secolo dell'era cristiana la nostra Italia fu invasa da un grandissimo numero di barbari, i quali la ridussero ad uno stato deplorabile, forse non mai più veduto. Quei Goti, di cui ebbi già tante occasioni di parlarvi, sebbene siano stati assai volte respinti, tuttavia allettati dall'amenità e dalla dolcezza del nostro clima, e assai più dalle ricche spoglie che ne avevano riportate, di quando in quando facevano terribili scorrerie, guidati ora da questo, ora da quell'altro dei feroci loro capitani.
Segnalatissima fu quella fatta da Alarico, re dei Visigoti, cioè dei Goti d'Occidente. Questo principe erasi posto alla testa di formidabile esercito, e dopo aver fatto immenso guasto nella Grecia e nell'Illirio, provincia bagnata dalle onde del mare Adriatico, superò il passaggio delle Alpi Giulie, e minaccioso si diede co' suoi a scorrere l'Italia.
Il giovane Onorio, che risiedeva in Milano, era di grande pietà, ma poco abile nelle cose di Stato e di guerra. Perciò al rumore della venuta di quei barbari fu preso da tale {137 [137]} spavento, che fuggissi da Milano, e venne a rinchiudersi in Asti, antica e forte città del Piemonte.
Alarico impadronitosi di Milano si condusse prestamente a stringere d'assedio la città, in cui erasi rifugiato l'Imperatore e lo avrebbe costretto ad arrendersi, ove Stilicone, famoso generale di Onorio, non fosse corso a difenderlo. Dopo molti parziali attacchi si venne ad una campale battaglia presso Pollenzo, villaggio della provincia d'Alba, sulle rive del fiume Tanaro. Il combattimento fu ostinatissimo, ed i barbari toccarono la peggio; in grandissimo numero furono uccisi, gli altri posti in fuga. Onorio per ricompensare Stilicone volle che seco montasse sopra un carro magnifico, e facendogli godere gli onori del trionfo, entrò in Roma fra immensa popolazione che lo applaudiva. Questo è l'ultimo trionfo che vide Roma.
I barbari avevano ingenerato tanto terrore ad Onorio, che, non giudicandosi più tranquillo in Milano, trasferì la sede imperiale in Ravenna, città posta all'estremità del golfo Adriatico, e circondata a grande distanza da paludi quasi impraticabili.
Il famoso Stilicone riportò eziandio una gloriosa vittoria contro ai Vandali, popoli che venivano dal settentrione della Germania. Radunatisi costoro sulle sponde del Danubio e della Vistola, discesero in Italia guidati da un loro capitano nomato Radagasio, e s'incamminarono alla volta di Roma. Stilicone li andò ad incontrare a Fiesole, vicino di Firenze, e tra per la fama del suo nome, e tra pel valore de' suoi soldati e la sua perizia strategica, sconfisse pienamente i barbari, i quali furono parte uccisi e parte dispersi nelle varie provincie romane. Radagasio, caduto vivo nelle mani del vincitore, ebbe tronca la testa.
Mentre Stilicone meritava così due volte il titolo di salvatore dell' Italia, i cortigiani di Onorio, mossi da invidia giunsero a fargli credere, che quel prode congiurasse contro di lui per mettere sul trono Eucherio suo figliuolo. L'incauto imperatore credette a questa imputazione, e tosto il fece perire col figliuolo e col resto di sua famiglia. Ma egli stesso e gli altri accusatori di Stilicone non tardarono a pentirsi del loro misfatto; imperocchè Alarico, udita la morte di quel valoroso capitano, si affrettò a ricondurre in Italia un {138 [138]} nuovo esercito di Goti, impazienti di riparare alla disfatta di Pollenzo.
Il timido Onorio, non avendo più un abile generale da opporre ai barbari, implorò la pietà di Alarico e fccegli molte promesse, che poi non mantenne. Di che Alarico montato in furore si pose a devastare l'Italia, marciando verso di Roma per impadronirsene.
Quella grande capitale, miei cari, dal tempo in cui era stata saccheggiata dai Galli guidati da Brenno, non aveva più veduto alcun nemico alle sue porte; laonde tutti i cittadini furono immersi nella più grave costernazione. Roma assediata al di fuori, agitata da parecchi barbari, che tenuti come schiavi si trovavano nell'interno della città, era sul punto della sua rovina. La fame si fece sentire tanto orribilmente, che i cittadini, non avendo più di che cibarsi furono costretti (orribile a dire! ) a pascersi di carne umana.
Al fine una notte gli schiavi Goti aprirono le porte ad Alarico, e diedero l'antica Roma in balia degli assedianti. Allora quella città superba espiò con disastri senza numero l'abuso che aveva fatto della sua passata grandezza. Il vincitore l'abbandonò alla discrezione dei soldati, quasi tutti pagani od ariani. La notte del 24 agosto del 410 la città fu illuminata dalle fiamme del proprio incendio.
Il saccheggio fu spaventevole; gli insulti, il ferro, il fuoco, i supplizi di ogni genere facevano sì, che tutto spirava terrore e spavento: e come se il cielo si fosse unito a punire quella orgogliosa regina del mondo, una furiosa tempesta e un folgorar continuato accrebbero la devastazione. Restarono abbattuti vari templi, e ridotti in polvere quegli idoli altra volta adorati, e dagli imperatori cristiani conservati ad abbellimento della città.
Tuttavia Alarico ebbe grande rispetto per la cristiana religione; e, barbaro quale era, comandò a' suoi soldati di non inseguire quelli, che si fossero nelle chiese ricoverati. In mezzo a quel disordine un capitano goto essendo entrato in una casa per ispogliarla, vi trovò una nobile romana, cui ordinò aspramente di consegnargli tutto ciò che possedeva di prezioso. Quella matrona cristiana senza rispondergli lo condusse in un sito appartato della casa, dove gli fece vedere un'immensa quantità di oggetti d'oro e d'argento del {139 [139]} più magnifico lavoro. Voleva tosto il barbaro impadronirsene: «guardati, gli disse la coraggiosa donna, guardati di far ciò: questi vasi non sono miei, essi appartengono ai santi Apostoli Pietro e Paolo, cui furono consacrati. Io non ho forza per difenderli dalla tua violenza, ma se mai li tocchi, la pena del sacrilegio ricadrà sopra di te.» A queste parole il capitano, compreso di religioso rispetto, rinchiuse tosto con grande cura la sala, che conteneva quel tesoro, e si affrettò ad informare Alarico di quanto gli era successo.
Quel principe per rispetto al cristianesimo ordinò incontanente che quei sacri oggetti fossero riportati presso la tomba degli Apostoli. Si vide allora in mezzo alla desolata città una lunga processione di soldati barbari portare divotamente i vasi sacri sul capo fino alla chiesa di s. Pietro, mentre i Romani pieni di stupore si univano affollati alla processione dei barbari, e s'inginocchiavano umilmente, confondendo in certo modo le grida di' guerra coi cantici religiosi.
Roma in questa maniera umiliata da Alarico, perdette il suo antico splendore, divenne il bersaglio dei barbari, e la maestà del nome romano cadde irreparabilmente. Alarico fece all'Italia tutto il male che gli fu a grado. Proponevasi di gassare in Africa per istabilire un vasto impero, ma in quella che stringeva d' assedio la città di Reggio di Calabria, improvvisamente mori, quando egli giudicavasi all'apice della potenza e della gloria.
All'inerte Onorio succedette un nipote del gran Teodosio, detto egli pure Teodosio, terzo di questo nome. Sebbene sia stato nemico dell'eresia, nulladimeno egli condusse una vita molle, dandosi alla crapula senza curarsi gran fatto degli affari dello stato.
In questo tempo uno sciame di barbari invase l'impero d'Occidente, e non trovandosi più alcuno di quei prodi antichi che lo difendessero, venne tra loro smembrato ed in breve annullato. {140 [140]}
XXII. Ezio ed Attila re degli unni. (Dal 410 al 455).
I Romani di quel tempo, cari giovani, avevano affatto degenerato dal valore degli antenati. Il lusso, gli splendidi palazzi, i giardini deliziosi, una immensa ed inutile quantità di servi, ed ogni sorta di mollezze erano sottentrati alla semplicità ed al marziale coraggio dei gloriosi capitani, i quali spesso lasciavano l'aratro per mettersi in capo delle legioni in difesa della patria. Ciò non ostante vi furono alcuni generali, che si segnalarono per valore e coraggio, tra cui uno di nome Ezio, l'altro Bonifacio.
Ezio era un grande capitano ed un profondo politico, che contribuì a ritardare alquanto la caduta dell'impero d'Occidente. Egli era d'indole altera e molto dominato dall'invidia che il portava a voler comandare da solo.
Bonifacio era al pari di lui abile e valoroso, ma più giusto, più moderato, più generoso, e per questo appunto venne in odio al suo rivale, che tentò di perderlo. Ezio lo accusò di tradimento presso a Placidia imperatrice, madre del giovane Valentiniano; quindi Bonifacio per non rimaner vittima della calunnia di Ezio fu costretto a chiamare in Africa i Vandali dalla Spagna.
Questi barbari, ariani di religione, sotto il comando di Genserico, principe prode, ma fiero nemico de' Cattolici, si diffusero a maniera di torrente nell'Africa, e la riempirono di sangue e di stragi.
Mentre queste cose avvenivano si avanzava verso dell' Italia un nemico che minacciava di riuscire ai Romani più funesto degli stessi Vandali; io dico il feroce Attila, re degli Unni. Questo barbaro aveva estese le sue conquiste dal mare Baltico al Ponto Eusino, ossia Mar Nero, e fino al di là del mar Caspio, nel paese detto Grande Tartaria. Godeva egli di farsi soprannominare flagello di Dio; nome a lui ben dovuto a motivo delle devastazioni, onde il suo cammino era dappertutto segnato. Testa grossa, larghe spalle, occhi piccoli e scintillanti, naso grosso e schiacciato, colore fosco, {141 [141]} andamento minaccioso, ceco il ritratto di quell'orribile mostro. Alla testa di cinquecento mila soldati, come impetuoso torrente, attraversò tutte le provincio poste lungo il Danubio, ed abbattendo eserciti ed atterrando città penetrò nelle Gallio, spargendo da per tutto il terrore..
Il valoroso Ezio non istette inoperoso; egli mise in armi i pia prodi soldati, che potè avere, e con un potente esercito andò ad incontrare Attila, allora che dava il saccheggio alla città d'Orleans. Quella parte dell'esercito di Attila sorpresa cosi all'impensata toccò grave sconfitta. Quanti Unni erano tra le mura della città furono fatti prigionieri, uccisi o precipitati nella Loira. Attila fremendo di rabbia rannodò i suoi e si recò nelle terre che si distendono tra la Senna e la Marna. Ezio lo inseguì in quelle vastissime pianure, e si venne ad una battaglia, di cui non leggesi la somigliante nella storia. Due eserciti agguerriti e numerosissimi stavano di fronte; e le campagne irte di ferri per uno spazio, che potevasi difficilmente misurare coll'occhio, presentavano un fiero spettacolo, il quale ben presto divenne ancora più spaventevole pel furore della pugna.
Gli Unni ebbero la peggio, ed Attila stesso si trovò in grave pericolo; e forse per la prima volta intimorito abbandonò ai Romani il campo di battaglia, ingombro di circa cent'ottanta mila cadaveri de' suoi. Raccontasi che i soldati di Ezio, stanchi delle lunghe fatiche, andarono ad un vicino ruscello per dissetarsi, e al vedere la corrente rigonfia di sangue umano, pieni di orrore se ne allontanarono.
Attila vedendo essergli impossibile ripigliare la guerra, si affrettò di ritornare ne' suoi Stati. Ma nell'anno appresso con più poderoso esercito venne sopra l' Italia per vendicarsi della sofferta sconfitta. Non si può esprimere a parole il guasto da lui fatto. In quell'universale spavento molti Italiani fuggirono in alcune deserte isolette dell'Adriatico, e ivi fondarono una città, cui diedero il nome di Venezia, della quale avrò poi più cose importanti a raccontarvi.
Dopo avere saccheggiata Milano, Attila colle sue genti si avanzava minaccioso verso Torino, i cui abitanti atterriti si apprestavano alla fuga. In si terribile frangente s. Massimo, Vescovo di questa città, ne radunò gli abitanti e con autorità ed affetto di padre ravvivò in tutti il coraggio, esortandoli {142 [142]} a riporre in Dio una piena confidenza. «Afforzate le mura, loro diceva, ma la maggior vostra cura sia nel placare lo sdegno di Dio colla preghiera e colla penitenza. No, Torino non cadrà sotto le armi di Attila, se voi piangendo le vostre colpe placherete l'ira divina eccitata dai peccati degli uomini.» Le parole di s. Massimo si avverarono, ed Attila invece di venire a Torino si volse verso Roma, oggetto primario delle sue brame.
Ezio non aveva potuto mettere in piedi genti, che bastassero per opporsi a sì potente nemico; l'imperatore co'suoi generali tremavano di spavento, ma l'Italia ebbe un uomo che solo la salvò: egli fu s. Leone Papa. Questo grande pontefice alla vista de' mali, che Attila aveva fatto e si preparava a fare per tutta l'Italia, fidato nella protezione del cielo, si vestì pontificalmente, e lo andò ad incontrare vicino di Mantova, dove il Mincio scarica le sue acque nel Po.
Il superbo Attila alla maestà di quel sant'uomo, compreso da profonda venerazione, lo ricevette cortesemente, e come l'ebbe udito, accettate senz'altro le condizioni proposte, ripassò le Alpi, lasciando tutta l'Italia in pace. I soldati di Attila stupiti gli chiesero, come mai tanto si fosse umiliato avanti ad un uomo inerme, quando i più potenti eserciti non gli inspiravano alcun timore. Egli rispose, che, mentre parlava col romano Pontefice, aveva sopra di lui veduto un personaggio vestito di abito sacerdotale, il quale vibrava una spada sguainata, minacciando di colpirlo, se non ubbidiva a Leone. Il tremendo conquistatore per buona fortuna del genere umano non tardò a ritornare nei suoi Stati, dove poco dopo morì per un eccesso di crapula, e con lui sparì il vasto impero da lui fondato.
Ezio lo seguì nella tomba, vittima d'una congiura simile a quella, che esso medesimo aveva più volte ordito ai propri nemici. Egli fu accusato come ribelle presso a Valentiniano, il quale fattolo venire alla sua presenza, senza che ne avesse il minimo sentore, gli immerse egli stesso la spada nel petto. Con questo omicidio Valentiniano si privò dell'unico capitano che potesse opporre a' suoi nemici; e alcuni mesi dopo perì egli medesimo ucciso da uno de' suoi ufficiali, per nome Massimo, che in un istante di collera aveva maltrattato. (Anno 455). {143 [143]}
Questi succedutogli prese il titolo di imperatore, ma regnò soltanto due mesi, durante i quali Roma fu un'altra volta saccheggiata da un altro barbaro, chiamato Genserico, re dei Vandali. Il saccheggio durò quattordici giorni, in cui per buona ventura furono risparmiate le persone e gli edilizi ad istanza del Pontefice s. Leone.
XXIII. Ultimi imperatori d'occidente, e principii di Odoacre. (Dal 455 al 476)
L'impero d'Occidente, che prima comprendeva la metà del mondo allora conosciuto, al tempo di cui vi parlo era quasi affatto caduto in mano de' barbari, i quali lo divisero in una quantità di piccoli regni. L'Italia sola conservava ancora un'ombra del vecchio impero; ma i suoi imperatori appena potevano salire sul trono, che quasi a guisa di fantasmi sparivano. Morto Valentiniano III ottenne l'impero un illustre generale per nome Avito, che riportò molte vittorie contro ai barbari, e sarebbesi acquistata gloria, se non avesse avuto a fare con uno de' suoi generali di nome Ricimero. Costui, goto di nascita, fin dalla prima gioventù si era reso celebre per valore, ed era giunto rapidamente ai primi gradi della milizia. Ambizioso, senza fede, senza onoratezza, egli non,pativa alcuno a sè superiore; obbligò Avito a rinunziare all'impero, ed in vece di lui elesse Maggiorano suo compagno d'armi. Il novello imperatore si segnalò contro a Genserico, re de' Vandali, e lo costrinse ad una pace vantaggiosa. Al senno politico egli accoppiava il valore di grande capitano, e forse sarebbe riuscito a raffermare il vacillante trono de' Cesari, se Ricimero, temendo di vedere la sua gloria oscurata, non lo avesse fatto perire.
Il barbaro Ricimero diede poscia il trono a Libio Severo, la cui inabilità non gli poteva fare ombra di sorta. Sotto a questo fantasma di sovrano Ricimero la fece da tiranno. Accumulò tesori, ebbe un esercito suo proprio, conchiuse trattati particolari, ed esercitò in Italia un'autorità indipendente.
L'Italia gemeva da sei anni sotto la tirannide di Ricimero, {144 [144]} quando Leone I imperatore d'Oriente collocò sul trono di Roma un generale appellato Antemio. Malgrado gli onori onde era colmo l'ambizioso Ricimero non poteva vedere l'Italia in pace, e tentò di muovere i barbari a tumulto. Antemio gli manifestò il suo disgusto, ed egli subito si rivolse contro al suo sovrano, preparandosi a combatterlo.
I Liguri o Genovesi temendo le conseguenze di una guerra civile, spedirono un'ambasciata a sant'Epifanio vescovo di Pavia, perchè interponesse la sua mediazione e riconciliasse il ribelle col suo sovrano. Finse Ricimero di sottomettersi, e intanto si mosse colle sue genti contro ad Antemio, il quale rimase trucidato. Ma Ricimero non potè godere del frutto di questo nuovo delitto, e pochi giorni dopo morì egli pure fra gli spasimi di una dolorosissima infermità nel 474.
In questo tempo venne in Italia un uomo di nome Odoacre, il quale doveva estinguere affatto il cadente impero d'Occidente. Di nazione barbaro, aveva passato la sua giovinezza in una vita errante, raccogliendo intorno a sè parecchi compagni, che si affezionava conducendoli a ruberie. Era da più anni ministro del feroce Attila quando dal Norico, vastissima provincia della Germania, che oggidì dicesi Austria, scese in Italia alla testa di que' suoi venturieri. Arrolatosi nelle guardie imperiali, in breve pervenne ai primi gradi della milizia. Le guardie imperiali, come quasi tutto il romano esercito, altro più non erano che un miscuglio di barbari.
L'imperatore Leone per ritardare la caduta dell'impero d'Occidente mandò un generale per nome Nepote, il quale alla testa di poderoso esercito depose un certo Glicerio, che aveva usurpato il trono, e si fece egli stesso proclamare imperatore. Ma tosto un prode generale, chiamato Oreste, mosso dal desiderio di porre suo figliuolo sul trono, sollevò le guardie contra Nepote, riuscì a detronizzarlo e a far proclamare imperatore Romolo Augusto, che i Romani o per la giovanile età, o per disprezzo dissero Augustolo. Ma alle guardie che avevano cooperato alla elezione di Augustolo in compenso fu data una parte delle terre d'Italia; al che Oreste non volle acconsentire, perchè era un vero latrocinio.
Odoacre saputo questo si offrì per capo ai malcontenti, e promise di soddisfarli, purchè fossero disposti ad obbedirgli. {145 [145]} Tutti i barbari dispersi per l'Italia si unirono gotto ai suoi vessilli. Pavia fu presa d'assalto, e il prode Oreste, che la difendeva, messo a morte.
Allora lo sfortunato Augustolo vedendosi da tutti abbandonato si spogliò della porpora, e il vincitore Odoacre mosso a compassione della sua giovinezza gli lasciò la vita, e gli assegnò un luogo sicuro nel mezzodì d'Italia, dove potè tranquillamente finire l'inutile vita in una deliziosa casa di campagna, sulle spiaggie del Mediterraneo.
Roma si sottomise al nuovo padrone, e i barbari spargendosi per tutta l'Italia l'assoggettarono interamente l'anno 476. Con questa mutazione di cose fu spento l'impero d'Occidente dopo aver durato 507 anni dalla battaglia d'Azio, e 1229 dalla fondazione di Roma. Finì sotto Romolo Augustolo, il quale per un tratto di somiglianza tutto singolare aveva il medesimo nome del fondatore di Roma e quello ilei fondatore del romano impero. La sua rovina si andava da lungo tempo preparando, perciò fu appena sentita nel mondo: cadde egli senza fragore, simile ad un uomo attempato, che, privo di forze e dell'uso delle membra, renda l'ultimo fiato sfinito dalla vecchiezza. {146 [146]}
Usi e costumi degli antichi Italiani [10]
Ordine civile.
RE. - Gli antichi popoli d'Italia per lo più erano governati da un capo, cui davano il nome di re, che vuol dire reggitore. Il suo potere era a vita, e alla morte di lui l'esercito e talvolta il popolo radunato ne eleggevano il successore. Nei primi tempi di Roma il Re era eletto dal Senato e riconosciuto dal popolo. Il Re stringeva in sè il supremo potere militare e civile, ed esercitava anche il pontificato, cioè era anche capo delle cose di religione.
SENATO. - La prima dignità dello Stato, instituita dallo stesso Romolo, e conservata fino alla caduta del romano impero, era il Senato. Era cosi detto dalla parola latina senex, che vuol dire vecchio, perchè quelli che lo componevano dovevano essere di gran senno, e non vi erano ammessi se non ad un'età alquanto avanzata. Il numero dei senatori fu da Romolo stabilito a cento; ma per l'unione dei Sabini questo numero fu portato a dugento, e più tardi fino a quattrocento. Riempievano i postiche restavano vacanti nel Senato quelli che avevano esercitate le prime cariche dello Stato. L'unione de' cento Senatori sabini coi cento Senatori romani, inscritti nello stesso catalogo, diede luogo al titolo di patres conscripti, solito a darsi a tutti i Senatori insieme radunati. Le loro radunanze tenevansi sempre in un tempio, e quelli della Concordia, di Apolline e dell'Onore erano i luoghi consueti. Il Senato era il consiglio supremo dello Stato: i Senatori avevano il potere di far leggi, e di deliberare intorno ai più gravi affari. Tra i Senatori erano scelti i Re, i principali magistrati, i capitani degli eserciti, i consoli, gli ambasciatori.
CAVALIERI. - I cavalieri erano guardie istituite da Romolo, che combattevano a cavallo. Da principio erano trecento, ma coll'andar del tempo crebbero fino a mille ottocento e giunsero a formare la {147 [147]} salvaguardia degli eserciti romani. Da questo corpo derivò un ordine intermedio tra il patrizio ed il plebeo. Niuno era annoverato fra i cavalieri, se non constava ch'egli avesse un determinato reddito per almeno mantenersi un cavallo, che riceveva dai censore e in tempo di guerra dal capitauo supremo dell'esercito.
PATRIZI E PLEBEI. - Formavano l'ordine patrizio i discendenti dei senatori, che dicevansi noscibiles, ovvero nobili. Il resto del popolo romano dicevasi plebe. Ma siccome avveniva talvolta che i plebei fossero oppressi da alcuni dei patrizi, perciò ciascuna famiglia plebea sceglievasi tra i senatori un protettore, cui davano il nome di patrono. Questa voce deriva dal latino patronus, quasi qui patris onus gerit, che fa le veci di padre, perchè egli aveva obbligo di assistere il suo cliente, e di fare ciò che un buon padre fa per la sua famiglia.
TRIBÙ, CURIE, CENTURIE. - Romolo divise il popolo romano in tre modi: cioè in tribù, che da tre giunsero sino a trentacinque; in curie, che erano trenta; in centurie, che erano centonovantatrè.
I COMIZI. - La parola comizio deriva dal latino comitium o coire, che vuol dire radunare. Onde i comizi erano radunanze popolari che si tenevano qualche volta nel foro, o piazza pubblica, ma più spesso in una vasta pianura vicino al Tevere, detta Campo Marzio. Esse avevano per iscopo di ratificare le nuove leggi, di confermare i trattati di pace, di eleggere i principali magistrati, vale a dire i principali impiegati del governo. In questo caso il popolo doveva dare il voto per centurie. Le principali magistrature, ovvero cariche dello Stato, erano la Dittatura, il Consolato, la Censura, la Pretura, la Edilità curale, la Questura ed il Tribunato.
CURULE. - Si distinguevano in Roma due specie di cariche: Curuli e non Curuli. Curuli dicevansi le più alte dignità: ed erano così appellate, perchè coloro che le esercitavano sedevano sopra di una sedia detta curule dal latino currus, carro, che il magistrato conduceva seco ovunque si recasse. Dignità curuli erano la Dittatura, il Consolato, la Censura, la Pretura e l'Edilità curule. Eranvi altri edili inferiori, ma non curuli.
DITTATURA. - Questa parola è latina, da dictare, o dettare, perchè il dittatore dettava leggi e dava ordini con autorità assoluta, come se fosse Re. Questa dignità conferivasi in occasioni straordinarie, e soltanto per sei mesi. Il Ditlatore aveva un luogotenente, detto magister equitum, ossia generale della cavalleria.
IL CONSOLATO era una carica che durava un anno. I consoli erano due, e si chiamavano cosi dalla parola consulere, che vuol dire provvedere, perchè loro apparteneva il sopraintendere al Senato, far eseguire le leggi, guidare gli eserciti in battaglia, insomma il provvedere ai bisogni della repubblica. {148 [148]}
PROCONSOLATO. - Il proconsolato conferivasi per lo più ai consoli usciti di carica, quando erano inviati a governare le provincie lontane da Roma. La loro carica durava un anno e poteva prorogarsi. I proconsoli furono anche detti presidi e propretori.
CENSURA. - I Censori avevano l'incarico di tenere un esatte registro de' cittadini romani: essi vegliavano eziandio alla repressione del lusso ed alla conservazione dei buoni costumi. Ogni cinque anni facevano il censo, ossia la enumerazione del popolo romano, e notavano d'infamia coloro che vivessero disordinatamente. Il censo terminavasi con una cerimonia religiosa, chiamata lustrazione; onde fu detto lustro un periodo di cinque anni.
PRETURA. - PRETORE deriva da praeesse, presiedere, perchè anticamente tutti quelli che esercitavano qualche autorità dicevansi pretori. Più tardi, anno di Roma 387, la pretura divenne una carica particolare. Il numero dei pretori non era fisso; loro principale uffizio era di rendere giustizia e fare le veci dei consoli, quando questi si trovavano alla testa degli eserciti.
EDILITÀ. - Sono detti edili da aede, casa, perchè fra i loro uffizi dovevano avere cura delle fabbriche e degli edifizi in genere. Vi erano gli edili plebei, che facevano le parti della plebe; gli edili curuli che esercitavano la loro autorità seduti sopra un curule, ovvero sedia. Finalmente vi erano gli edili Cereali, così detti da Cerere, divinità che presiedeva alle biade. Essi dovevano aver cura dell'annona o delle sommi nistranze pubbliche. Gli edili curuli erano due, e loro si affidava il deposito delle leggi con obbligo di sovraintendere alla conservazione degli edilìzi e dei pubblici monumenti.
Queste sono le dignità curuli. Non curuli dicevansi tutte le altre magistrature di ordine inferiore, come la Questura, il Tribunato, ed altre.
QUESTURA. - Questura si dice da quaerere, ovvero cercare, perchè era cura speciale del questore di provvedere alle finanze della repubblica. Fra i questori gli uni avevano la custodia del tesoro pubblico e la cura di esigere le imposte, e dicevansi urbani. Gli altri tenevano dietro agli eserciti e provvedevano al loro mantenimento, i quali perciò si appellavano questori militari. Altri poi erano giudici dei più gravi delitti e dicevansi questori del parricidio.
TRIBUNATO. - I Tribuni, vale a dire i capi delle tribù, erano da prima cinque, poscia aumentarono secondo il bisogno. Dicevansi Tribuni del popolo quelli che avevano la tutela dei privilegi del popolo. La loro persona era inviolabile, e avevano il diritto di sospendere colla semplice parola veto (proibisco), le ordinanze e i decreti del Senato, dei dittatori e dei consoli.
CANDIDATI. - Gli aspiranti alle cariche dicevansi candidati dalle vesti candide, colle quali si presentavano ai comizi il giorno della elezione. {1479 [149]}
Ordine religioso.
La religione degli antichi Italiani e dei Romani fu l'idolatria fino alla predicazione del Vangelo. L'idolatria consisteva Dell'ammettere una moltitudine di divinità e nel prestare alle cose insensate quel salto che è dovuto soltanto al sapremo Dio. La prima di queste divinità era Giove, quasi pater iuvans, padre che aiuta, cui sacrifica-ransi diverse specie di animali. I principali ministri del culto religioso erano i Pontefici, i Flamini, i Feciali, gli Auguri, gli Aruspici, i Salii, i Curioni e le Vestali.
PONTEFICI. La parola pontefice si vuole derivata da pontem facere, perchè egli aveva cura di riparare e conservare il ponte Sublicio, sopra cui solevano passare animali ed altre cose destinate ai sacrifizi. La persona del pontefice era sacra, ed aveva autorità sopra tutte le cose di religione. Il capo dei pontefici era detto Pontefice Massimo. La dignità dei pontefici si aveva in si grande venerazione, che loro si dava la precedenza sopra tutti gli altri magistrati, e non chiedevasi conto delle loro azioni in cose di religione. Nel primo giorno di ciascun mese annunziavano al popolo il dì in cui cadevano le none, ovvero le fiere, i mercati e tutte le feste che occorrevano nel corso di quel mese.
FLAMINI. - Si suole derivare questa voce da filo o filamine, perchè ne' sacrifizi cingevansi il capo di una benda tessuta di filo prezioso. Essi erano destinati al culto di alcune speciali divinità, ed erano in numero di quindici. I tre più cospicui presiedevano uno col titolo di Flamen Dialis al culto di Giove, il secondo era dedicato a Marte e dicevasi Martialis, il terzo a Romolo dicevasi Quirinalis.
FECIALI. - I Feciali erano sacerdoti depositari della legge della guerra. Erano così detti da fari, parlare, perchè prima di intraprendere una guerra o qualche grave impresa militare si attendeva sempre da loro risposta e consiglio; ad essi apparteneva il conchiudere i trattati di pace e di guerra.
SALII. -I Salii erano sacerdoti che presiedevano al culto di Marte, dio della guerra. Erano così detti da saliendo, quasi saltando, perchè nel fare i sacrifizi solevano cantare e danzare.
CURIONI. - I Curioni amministravano il culto nelle loro Curie. Romolo avendo diviso il popolo in tre tribù ed in trenta curie, ordinò che ciascuna avesse il suo tempio per fare i sacrifizi e per celebrare le sue feste. I Curioni erano in numero di trenta. Il primo di loro era detto Currione Massimo, ed eleggevasi dal popolo radunato.
AUGURI. - Gli Auguri, così detti da Avium garritus (canto degli uccelli), erano sacerdoti, i quali avevano incumbenza di notare il canto, il volo, il maggiore o minore appetito degli uccelli, colla folle persuasione di conoscere da ciò l'avvenire. {150 [150]}
ARUSPICI. - Gli Aruspici, quasi Harugam vel Hostiam aspicere, considerare gli intestini della vittima, erano altri indovinatori, i quali pretendevano di leggere l'avvenire selle viscere degli animali che sacrificavano.
VESTALI. - Le Vestali, ossia sacerdotesse della dea Vesta, erano vergini destinate a conservare un fuoco sacro, che doveva ardere notte e giorno sopra l'altare di questa dea. La estinzione di questo fuoco riguardavasi quale cattivo presagio. Le vestali facevano voto di castità, e se per disavventura lo avessero violato, venivano rinchiuse in una profonda caverna, ove si lasciavano morire di fame, oppur erano abbruciate vive. Allo stesso supplizio erano condannati coloro che le avessero indotte a violare il loro voto. Le vestali erano tenute in grande venerazione, e quando per istrada incontravano i magistrati, loro concedevano la diritta, e concedevasi il perdono a quei delinquenti, che mentre erano condotti al supplizio si fossero per caso incontrati in qualche vestale.
SATURNALI E LIBAZIONI. - Sebbene i Romani avessero un grande numero di divinità, e a tutte prestassero un culto particolare, tuttavia le loro feste si passavano per lo più in gravi disordini. Tra le feste era celebre quella di Saturno, che celebravasi nel mese di dicembre. Essa durava tre giorni, detti Saturnali, e si passavano in un continuo stravizio; gli schiavi la facevano da padroni. Durante i pranzi si facevano sacrifizi, detti Libazioni, che consistevano nello spargere sopra la tavola vino, o altro liquore in onore degli dei.
CONFESSIONE DEI PECCATI. - Gli antichi pelasgi avevano riti espiatorii, facevano sacrifizi e confessavano ai sacerdoti degli idoli le loro colpe cui mercè si dava sicurezza contro il furor dei venti e del mare, e si prometteva la salute del corpo, la remissione dei peccati e la salvezza dell'anima. V. Atto Vanucci.
Ordine del tempo.
NOMI DEI MESI. - Ne' primi tempi di Roma Romolo, adottando le usanze dei Latini, divise l'anno in dieci mesi. Il primo era marzo, indi aprile, maggio, giugno, quintile, sestile, settembre, ottobre, novembre, dicembre; questi componevano un anno di 304 giorni. Ma Numa Pompilio osservò che con questo modo di computare non potevansi misurare le stagioni e conoscere quando fosse l'estate e quando l'inverno; perciò adottando l'anno etrusco, aggiunse il mese di gennaio e febbraio. Cosi l'anno divenne più regolare composto di 365 giorni. Ma l'anno di Numa non concordava ancora esattamente col sole e colla luna; perciò al tempo di Giulio Cesare vi erano 67 giorni rimasti in dietro. Ciò faceva succedere l'inverno nei mesi estivi e l'estate nei mesi invernali. Quell'imperatore chiamò a Roma un dotto egiziano, di nome Sosigene. Coll'aiuto di quel filosofo Cesare ridusse i mesi quasi come pratichiamo noi, e stabilì che ogni quattro anni {151 [151]} ve ne fosse uno bisestile, cioè di giorni 366. Per regolare i 67 giorni rimasti aggiunse in quell'anno due mesi, uno di 33 giorni, l'altro di 34. Cosi quell'anno fu assai più lungo degli altri, e nella storia è noto sotto al nome di anno Giuliano. Era l' anno di Roma. 707, avanti Cristo 47.
Sebbene questo anno fosse più perfetto degli antecedenti, tuttavia lasciava ancora ogni anno una frazione, che coll'andar del tempo turbava l'ordine delle stagioni. Papa Gregorio nel 1582 stabilì che vi fosse qualche anno bisestile di meno; e questa riforma dal suo autore si chiamò Gregoriana.
I mesi dicevansi gennaio, perchè dedicato a Giano; febbraio, perchè in questo mese si facevano sacrifizi espiatorii pei morti, i quali diceransi in latino Februa; marzo, perchè dedicato a Marte; aprile, perchè in questo mese la terra si apre per le sue produzioni; maggio, perchè dedicato ai maggiori, ossia ai più vecchi; giugno, perchè dedicato alla gioventù. Gli altri mesi furono chiamati secondo l'ordine progressivo, ad eccezione di quintile, che poi il Senato dedicò a Giulio Cesare, denominandolo luglio, e ad eccezione altresì di sestile, consacrato a Cesare Augusto, e detto agosto.
CALENDE, NONE, IDI. - Per indicare i giorni de' mesi usavansi tre nomi, Calende none, e idi. Calenda o calo viene dal greco e significa chiamare, perchè il Pontefice ogni primo giorno del mese radunava il popolo e pubblicamente annunziava le feste religiose, le fiere ed i mercati, che avevano luogo nel corso di tutto il mese. I Greci cominciavano il mese colla luna, donde venne il proverbio, che condurre un affare alle calende greche vuol dire non cominciarlo mai, perchè i Greci non avevano calende.
None significa giorno nono, perchè dalle none agli idi vi erano nove giorni. Idi deriva da un vocabolo antico iduare, dividere, perchè in certo modo dividono il mese in due parti.
Le calende pertanto erano il primo giorno di ciascun mese, le none erano il settimo giorno pei mesi di marzo, maggio, luglio, ottobre: ed il quinto per gli altri otto mesi. Gli idi cadevano otto giorni dopo le none.
Per un'usanza altrettanto incomoda, quanto bizzarra indicavano i giorni, contando non già quanti giorni del mese erano passati, come facciamo noi, ma quanti giorni rimanevano per arrivare ad uno de'suddetti giorni, cioè calende, none ed idi; laonde per indicare il 20 gennaio, dicevasi: il decimoterzo avanti le calende di febbraio, perchè il 20 gennaio trovavasi tredici giorni innanzi al primo di febbraio, che era il giorno delle calende: per indicare il 2 febbraio dicevasi il quarto avanti le none di febbraio; il 9 di marzo, settimo avanti gli idi di marzo.
NOMI DEI GIORNI. - I giorni prendevano vari nomi, secondo le cose che in quelli venivano comandate o proibite. Dicevansi giorni festivi, dies festi, quelli in cui era proibito ogni lavoro, e tutti dovevano esclusivamente occuparsi in opere di religione; ad sacrificia diis offerenda. Giorni di lavoro, dies profesti, quelli in cui era permesso, {152 [152]} anzi comandato il lavoro. Giorni di radunanza, dies comitiales, erano que'giorni, ne'quali solevasi far radunare il popolo. Nundinae o giorni novesimi erano chiamate le pubbliche fiere ed i mercati che si tenevano in Roma di nove in nove giorni, e dove le genti di campagna venivano per vendere e provvedersi di quanto loro faceva mestieri. Dies atri, giorni di cattivo augurio, e tale reputavasi il giorno immediatamente dopo le calende, gli idi e le none.
ORE DEL GIORNO. - Il giorno dividevasi in dodici ore più o meno lunghe, secondo la stagione, nel modo che era praticato dagli Ebrei. L'ora prima cominciava al levar del sole, la terza terminava circa le ore nove del mattino; la sesta a mezzo giorno; la nona tre ore dopo; la duodecima verso al cadere del sole.
VEGLIE DELLA NOTTE. - La notte scompartivasi in quattro veglie di ore tre ciascuna: la prima cominciava al cader del sole; la seconda circa le nove di sera; la terza a mezza notte; la quarta circa le tre del mattino.
OROLOGI. - Ne' primi tempi di Roma non eravi misura fissa del tempo; solamente verso la fine della prima guerra punica, cioè ducento cinquant'anni prima degl'era volgare, fu recato a Roma dalla Sicilia il primo orologio a sole, che era una specie di meridiana. Un secolo dopo, cioè centocinquantanni prima dell'era volgare, comparvero le clessidre, che sono orologi ad acqua od a polvere.
Ordine della milizia.
SOLDATI. - Presso gli antichi Italiani e presso ai Romani tutti erano soldati, ad eccezione di quelli che erano destinati al culto religioso. Il servizio militare cominciava a diciassette anni, e ciascuno poteva esservì chiamato sino all'età di 46, se pure non fosse già pervenuto a qualche magistratura. Quando i consoli volevano levare soldati, pubblicavano un editto e inalberavano uno stendardo sul Campidoglio. A quel segnale ammogliati e senza moglie, purchè fossero in istato di portare armi, si assembravano divisi in tribù nel luogo indicato, che d'ordinario era il Campo Marzio. Là erano chiamati quelli che si stimavano acconci al bisogno, e chi avesse opposto difficoltà correva pericolo di vedere i suoi beni confiscati, e se stesso ridotto alla condizione di schiavo.
LEGIONI. - L'esercito dividevasi in legioni, la legione in dieci coorti, la coorte in tre manipoli, il manipolo in due centurie. Così che ogni legione era composta di 31 manipoli e 60 centurie; l'intera legione era di sei mila uomini. Fatta la leva de'soldati, ne toglievano uno da ciascuna legione, affinchè pronunziasse ad alta voce la formola del giuramento militare, che tutti gli altri ripetevano dopo di lui. La legione era comandata da sei tribuni militari, che davano gli ordini alternativamente; i subordinati ai tribuni erano i centurioni, ovvero ufficiali di una compagnia composta di 100 uomini. {153 [153]}
ARMI DELLA FANTERIA. - Arma comune a tutti i soldati romani era una corta spada a due tagli e bene affilata. Il soldato romano armato alla leggera aveva, oltre la spada, sette giavellotti o frecce lunghe tre piedi almeno, un piccolo scudo di legno ed un elmo di cuoio. Il soldato di arma pesante portava, oltre i giavellotti ordinari altri giavellotti di cinque o sei piedi di lunghezza, aventi il ferro uncinato, i cui colpi erano pericolosissimi. Coprivagli il capo un elmo di bronzo, che lasciava scoperta la faccia; vestiva una corazza di maglie o piccole lamine di bronzo, ed attaccava al braccio sinistro per mezzo di striscie di cuoio lo scudo, largo due piedi e mezzo, alto quattro. Così il soldato abbassandosi un poco poteva mettersi intieramente al coperto.
ARMI DELLA CAVALLERIA. - Le armi della cavalleria consistevano in una lunga spada, in una picca, e qualche volta in alcuni giavellotti.
MACCHINE DA GUERRA. - Usavansi eziandio diverse macchine che tenevano luogo di artiglieria. Oltre l'ariete e le torri movibili, impiegavano le baliste e le catapulte per lanciare grossi giavellotti, pietre, fiaccole ardenti. La forza di queste macchine era maravigliosa. Un giorno la pietra di una catapulta, essendo stata male collocata, andò a colpire uno de' sostegni, e di rimbalzo colpì l'ingegnere che la regolava. Il colpo fu così violento, che fece a brani e disperse tutte le membra dell'ingegnere. Per formare la così detta testuggine i soldati romani imbracciavano certi scudi quadrati solidissimi, li sospendevano sopra il loro capo, e li congiungevano in modo da comporre una specie di tetto, sul quale rotolava quanto i nemici avessero gettato. Così ordinati avvicinavansi alle muraglie da abbattersi. Per rompere quel tetto di scudi ci volevano travi e pesanti macigni. I Romani usavano anche certe gallerie di legno, formate di grosse travi e rivestite di terra e di pelli fresche di bue per preservarle dal fuoco. Al coperto di queste gallerie si accostavano senza grave pericolo al muro o alla torre che si volevano atterrare.
INSEGNE MILITARI. - Le primitive insegne militari de' Romani non erano che un faccetto di fieno legato alla cima di un'asta. Più tardi vi piantarono invece alcune tavolette rotonde, sulle quali erano effigiate le divinità con sopra una mano od altro emblema di argento. Da Mario in poi ciascuna legione ebbe per insegna un'aquila d'oro. Il tamburo non era conosciuto: usavano soltanto delle trombe di rame di varia grandezza.
ALLOGGIAMENTI. - I Romani in paese nemico non mancavano mai di fortificare il loro campo, fosse pure per una sola notte. Intorno al medesimo girava una fossa profonda nove piedi, circa tre metri, ed una palizzata formata di travicelli insieme incrocicchiarti. Fra le tende ed i trinceramenti passava una distanza di 200 passi, (metri 350), per cui in caso di attacco le tende rimanevano al sicuro dai dardi e dalle fiaccole de'nemici. Nelle mosse i soldati, oltre a tre o quattro travicelli {154 [154]} per la palizzata del campo, portavano viveri per quindici gioni. Consistevano essi in una certa quantità di grano, che essi tritavano con una pietra, quando volevano farne del pane: più tardi fu provveduto il biscotto. Dovevano anche portare vari altri arnesi. Per essi le armi non erano un carico; ma le riguardavano in certo modo come loro proprie membra.
DISCIPLINA MILITARE. - Le leggi della disciplina militare erano severissime. Chiunque in una mossa si fosse allontanato a segno di non udire il suono della tromba, era considerato come disertore. Abbandonare il proprio posto stando in sentinella, combattere fuori di linea senza permissione, rubare la più piccola moneta, erano altrettanti delitti che meritavano la morte. Falli più lievi punivansi col bastone, colla privazione del soldo, con comparire al pubblico in vestimento donnesco; e quest'ultimo castigo era riserbato ai vili. Nessuno poteva mangiare avanti il segnale che se ne dava; nè davavi fuorchè due volte al giorno. I soldati pranzavano ritti in piedi e assai frugalmente. La loro cena era un poco migliore, e negli ultimi tempi della repubblica furono provveduti di sale, di legumi e di lardo. Ordinariamente bevevano acqua pura o temperata con qualche goccia di aceto.
ESERCIZI MILITARI. - I soldati romani non erano mai lasciati oziosi. Indurati dall'infanzia ai lavori dell'agricoltura, continuavano sotto le bandiere militari ad esercitarsi in faticosi lavori. Erano avvezzati a lunghi cammini carichi del peso di sessanta libbre (circa 20 chilog.) e a correre e a saltare tutti armati. Negli esercizi facevansi loro prendere armi di doppio peso di quello che avevano le ordinarie, e questi esercizi non erano mai interrotti. In tempo di pace venivano occupati a dissodare terreni incolti, a innalzare fortezze, a scavare canali, a costruire città, a formare strade, che talvolta da Roma prolungavansi a remotissime distanze. Ora quale maraviglia se soldati di quella tempra riportavano sì segnalate vittorie e soggiogavano tante nazioni?
RICOMPENSE E ONORIFICENZE MILITARI. - Le principali ricompense militari erano la corona ossidionale o per assedio, aggiudicata a chi avesse liberata una città od un campo assediato; la corona civica, concessa a chi avesse salvata la vita di qualche cittadino; la corona murale, accordata a chi fosse giunto il primo sulle mura nemiche nell'occasione di un assalto. I Romani tenevano in grande conto queste corone per la solennità, con cui facevasene la disiribuzione dal generale alla presenza di tutto l'esercito.
Le ricompense riserbate al generale dopo una vittoria consistevano nel titolo d'imperatore o di generale vittorioso, e nel grande o piccolo trionfo, secondo la maggiore o la minore importanza delle sue imprese. {155 [155]}
Monete. - Pesi. Misure di capacità e di lunghezza.
MONETE. - Le monete più antiche, di cui si abbia cognizione, sono l'asse o soldo romano di rame del valore di un decimo del denaro, corrispondente a cinque centesimi.
Il denaro era d'argento, notato colla lettera X e valeva dieci assi, ossia cinquanta centesimi. Il quinario, cinque assi (V).
Il sesterzio era la quarta parte del danaro, corrispondente a due assi e mezzo, ossia due soldi e mezzo.
I Romani avevano anche la libella, lira corrispondente ad un'asse, ossia 5 centesimi. La mezza lira, detta sembella. L'aureo o il soldo d'oro valeva 25 danari, ossia franchi 12, 50. La Zecca delle monete era nel tempio di Giunone Moneta, onde moneta fu eziandio appellato il danaro.
Gli antichi non facevano uso di monete copiate, ma trafficavano tra di loro scambiando le mercanzie, ovvero pagandole con metalli valutati a peso. Servio Tullio, sesto re di Roma, fu il primo che facesse coniare il rame, imprimendovi la figura di una pecora, onde venne il nome di pecunia.
PESI. - Il peso ordinario era la libbra, corrispondente a 327 grammi.
La libbra, detta anche asse e quadrantul, dividevasi in dodici oncie. Due oncie dicevansi sextans, o sesta parte della libbra; tre oncie, quadrans, quarta parte della libbra; quattro oncie, triens, terza parte; cinque oncie, quincunx; sei oncie, semis, mezza libbra: sette oncie, septunx; otto oncie, bes o bessis; nove oncie, dodrans; dieci oncie, decunx; o dextans; undici oncie, deunx. Mezz'oncia, semuncia; un terzo, duella; un quarto, sicilicus. I moltipli della libbra erano: dipondium, due libbre; tressis, tre libbre; quadrassis, cinque; sexcassis, sei; septassis, sette; octassis, otto; nonussis, nove; decassis, dieci; vigessis, venti; trigessis, trenta: centassis, cento libbre.
MISURE DI CAPACITÀ. - La principale misura pei liquidi era l'anfora, detta anche cado di ventisei litri. L'anfora dividevasi in due urne: in tre modii; in otto congi; in quarantotto sestarii; in novantasei emine; in cento novantadue quartarii; in cinquecento settantotto ciati; in duemila trecento quattro cucchiai. Il cucchiaio è quel tanto che suole inghiottire un uomo in una boccata. La misura comune era il congio, che corrisponde a circa tre litri e quattro decilitri. Il ciato conteneva un decilitro di vino, ed è quel tanto che ordinariamente un uomo moderato può bere in un fiato. La principal misura pei solidi era il moggio o staio, la cui capacità era il terzo dell'anfora, poco più di otto litri.
MISURE DI LUNGHEZZA. - L'unità di misura di lunghezza era il dito, spessore del dito ordinario di un uomo; il pollice, ossia la larghezza del pollice; il palmo, o tre pollici, o la larghezza della mano; {156 [156]} il piede, o dodici pollici, ossia centimetri 34; palmipiede, la larghezza di un palmo e di un piede, cioè quindici pollici; cubito, ossia un braccio corrispondente ad un piede e mezzo, ossia centimetri 50; il passo, o cinque piedi, corrisponde a m. 1, 50; la pertica, a dieci piedi; lo stadio, equivalente a cento venticinque passi, ossia m. 188; otto stadii formavano mille passi, ossia il miglio romano, corrispondente a chilometri 1, m. 475.
Il miglio era indicato sulle strade da una pietra miliaria, su cui era scritta la distanza di quel luogo dalla capitale del regno. Quando i Romani divennero i soli padroni dell'Italia, le pietre delle strade portavano scritta la distanza di quel punto da Roma.
MISURE DI SUPERFICIE. - La misura ordinaria di superficie era il iugero, così detto, perchè era quanto in un giorno potesse arare un bue; comprendeva quattrocento quaranta piedi in lunghezza e centoventi in larghezza. Il mezzo iugero chiamavasi atto quadrato. Il iugero romano equivaleva ad are ventiquattro e metri sessantotto.
Giuochi. - Gladiatori. - Giuochi scenici. Arti e scienze.
GIUOCHI. - Gli antichi erano amantissimi de'pubblici giuochi. I principali di essi erano la lotta, la corsa a piedi e a cavallo, la corsa de'carri, il combattimento navale ed il combattimento delle bestie feroci. Questi giuochi si facevano ordinariamente in un luogo detto circo, che era un vastissimo recinto, intorno a cui potevano stare molte migliaia di spettatori. Talvolta il loro numero ascendeva a duecento o trecentomila, e tutti dalle gallerie che mettevano nel circo potevano partecipale di que'pubblici divertimenti. Pei combattimenti navali l'acqua era portata nell'interno del circo da acquedotti a bella posta scavati, e vi formavano una specie di lago. Pei combattimenti delle bestie feroci ne veniva condotta a Roma una incredibile quantità. Pompeo in un sol giorno fece comparire nel circo seicento leoni. Alle volte gli spettatori medesimi uccidevano le fiere a colpi di freccia: talora le facevano venire a zuffa le une contro le altre, ovvero contro ad uomini che esercitavano quel mestiere di propria elezione, o vi erano stati condannati, come spesso accadeva ai cristiani. Essi per altro non si difendevano, anzi aspettavano con animo quieto e generoso di essere sbranati, ascrivendosi a gloria di morire per la fede.
GLADIATORI. - Un altro genere di spettacolo non meno barbaro, non meno gradito al popolo romano, era quello dei gladiatori. In origine i gladiatori erano prigionieri di guerra, o malfattori condannati a morte. Vi fu di poi chi fece il gladiatore per mestiere, o mosso dal guadagno o dal piacere di battersi. Quando un gladiatore rimaneva ferito, gli spettatori gridavano habet, è ferito, ed essi erano arbitri della sua vita. Se volevano salvarlo premevano il pollice, se volevano che morisse sotto i colpi del vincitore, rovesciavano il poilice, {157 [157]} e l'infelice doveva sottoporsi alla fatale sentenza. L'imperatore Traiano diede una festa, nella quale combattevano nell'anfiteatro dieci mila gladiatori. Questi atroci spettacoli non cessarono fino al regno di Onorio, nell'occasione che un santo solitario, chiamato Telemaco, essendosi lanciato fra i gladiatori per separarli, cadde egli stesso morto, ucciso da uno di costoro. Un cosi eroico sacrifizio della carità cristiana fu cagione che finalmente si proscrivessero quei giuochi, i quali da tanti secoli disonoravano l'umanità. L'anfiteatro fatto costruire da Vespasiano e da Tito, bagnato le molte volte dal sangue dei martiri, esiste ancora oggi in parte, conosciuto sotto il nome di coliseo o colosseo.
GIUOCHI SCENICI. - La terza specie di spettacoli erano i giuochi scenici, i quali consistevano specialmente in commedie, mimiche, rappresentate su teatri di straordinaria ampiezza. Il più bel teatro di Roma poteva capire sino a 80,000 spettatori, ed era costruito di marmo all'aria aperta.
LEGGI. - Le antiche leggi degl'Italiani non sono molto conosciute. Per lo spazio di circa duecento cinquant'anni la volontà del Re era legge presso ai Romani. La prima costituzione fu la legge agraria, così detta, perchè trattava e regolava il riparto da farsi tra la plebe delle terre conquistate sopra i popoli vinti. Questa legge fu fatta dal console Spurio Cassio nell'anno 260 di Roma. Ma la prima che prese il nome di legge o diritto romano fu quella delle dodici tavole. Per avere una legislazione stabile i Romani incaricarono dieci illustri e dotti personaggi di viaggiare e cercare in Italia, nella Grecia i migliori codici di que'tempi. Al loro ritorno, estrassero quanto fu trovato più adattato ai paesi nostri, e prendendo per base le leggi e le usanze in vigore presso i Romani, composero una specie di codice nell'anno 300 di Roma e ne distribuirono la materia in dodici parti, facendo scrivere ossia incidere ciascuna parie sopra una tavola di avorio. Le leggi fatte di poi hanno sempre avuto per base le dodici tavole. Le leggi romane, erano poche in numero, ma severissime. Esse davano al padre la facoltà di battere, vendere ed anche uccidere i propri figliuoli, senz'altro motivo che la sua volontà. Eravi una legge che vietava l' uso del vino alle donne, ed una donna che aveva violata quella legge fu condannata dalla propria famiglia a morir di fame.
Un'altra legge metteva la persona del debitore in balìa del creditore, che poteva caricarlo di catene, batterlo quanto gli piacesse, finchè fosse saldato il suo debito. I vinti in battaglia erano tenuti siccome schiavi. Costoro si compravano, si vendevano a guisa di bestie da soma; il padrone poteva aggravarli di lavoro, straziarli, ucciderli quando gliene fosse venuto talento. Se la vecchiezza o l'infermità rendeva lo schiavo inetto al lavoro, poteva sbrigarsene, facendolo uccidere o gettandolo in qualche isola del Tevere, ove l'infelice moriva di stento. Questi e molti altri tratti d'inumanità, che sovente leggonsi nella storia de'popoli antichi, dimostrano quanto fosse necessaria {158 [158]} la luce del Vangelo, la sola atta a diradare le folte tenebre della barbarie, in cui i popoli dell'antichità anche più inciviliti trovavansi involti.
ARTI. - Gli antichi Etruschi avanzavano gli altri popoli italiani nelle arti e nel commercio. Coltivavano molto la scultura, l'architettura; lavoravano maestrevolmente l'oro e l'argento. Presso i Romani non era così; sempre occupati in guerra, poco badavano alle arti ed al commercio. Sul principio della prima guerra punica ristretto uso facevano delle navi. Le staffe da cavallo erano loro sconosciute, e nelle strade eranvi pietre a bella posta collocate, sopra cui salivano i cavalieri per montare a cavallo.
ALFABETO E NUMERI, - I Romani ricevettero dagli Etruschi le lettere dell'alfabeto e i numeri coi rispettivi nomi. L'alfabeto però era composto di sole lettere maiuscole; le minuscole furono introdotte più tardi a comodità di chi scrive. Di queste lettere si servivano eziandio pei calcoli. Eccone i nomi ed il valore: I uno, V cinque, X dieci, L cinquanta, C cento, D cinquecento, M mille. Tutte le operazioni di aritmetica erano basate sopra queste lettere. Le cifre arabiche furono introdotte in Europa nel secolo decimosecondo.
PRIME SCRITTURE. - Le memorie antiche ci dicono che le prime scritture si facevano con un punzone di ferro sopra pietre lisciate o sopra mattoni appositamente preparati. Di poi si trovò più agevole scrivere sopra le foglie più robuste di alcuni alberi. La palma e la malva ne erano scelte di preferenza. Ma questo genere di scrittura, sebbene assai più facile che sopra la pietra, non era tuttavia di molta durata. Fu invece trovato che la corteccia di due alberi, detti Tisia e Fisira, era più forte e più duratura. Di questi si fece uso fino a tanto che furono introdotte le lastre di piombo, le tavolette, la pergamena, il papiro.
TAVOLETTE. - Le leggi e gli atti pubblici in Italia si scrivevano anticamente sopra foglie, sopra lastre di piombo o di rame; ma per iscrivere libri o lettere usavansi delle tavolette, della pergamena, o del papiro. Le tavolette erano di cedro, di bosso o di avorio, intonacate di cera. Per iscrivere adoperavano, come sui mattoni, un punzone, detto stilo, il quale aveva un'estremità appuntata per segnare le lettere; l'altra parte era piatta e serviva ad appianare le incisioni quando occorreva fare qualche correzione.
PERGAMENA. - In vece di tavolette venne più comodamente usata la pergamena ed il papiro; ma invece di stilo si faceva uso del calamo, ossia di una canna temperata come le penne che usiamo noi. La pergamena si ricavava dalle pelli di pecora o di vitello. Era cosi chiamata perchè fu inventata a Pergamo, città dell'Asia Minore. In questa città vi era una biblioteca, fondata da Eumene, che conteneva duecento mila volumi scritti su questa carta. {159 [159]}
PAPIRO. - Il papiro era una canna selvatica dall' Egitto, dove cresceva fino all'altezza di cinque metri. A similitudine delle cipolle aveva una quantità di pellicole, l'une alle altre sovraposte, le quali venivano separate colla punta di un ago. Queste pellicole si congiungevano bagnandole coll'appiccaticcia acqua del Nilo per ridurle in fogli, che levigati sotto ad un torchio, erano venduti in rotoli di venti cadano. Ai tempi di Alessandro il Grande il papiro fu sostituito alle foglie degli alberi. La biblioteca di Tolomeo Filadelfo aveva settecento mila volumi scritti sul papiro.
STENOGRAFIA. - È questa parola greca, che significa scrivere in fretta, ed è l'arte con cui uno scrive in cifre ed in segni colla stessa velocità con cui si parla. Questa scienza era già conosciuta presso ai Greci, presso gli Ebrei e presso gli antichi Italiani; ma consisteva soltanto in alcune lettere o abbreviazioni convenzionali, come per es. U. C. voleva dire: Urbis conditae, ossia dalla fondazione della città di Roma. S. P. D. Salutem plurimam dicit. Vi augura stabilissima sanità. C R. Cittadino Romano. P. pose. F. fece. R. I. P. Requiescat in pace. Ma Cicerone introdusse segni convenzionali, che usati in vece delle lettere alfabetiche, fanno che con assai maggior prestezza e precisione si possa scrivere.
LINGUA OSCA- - La più comune e la più antica lingua parlata dagli Italiani, di cui abbiasi memoria, è la lingua Osca, o Tosca che ha poca affinità colla lingua latina e colla lingua italiana. Fino alla fondazione di Roma sembra essere stata costantemente parlata e scritta. Dappoi si conservò nei dialetti di vari paesi. Ai tempi di Augusto la lingua Osca era ancora da molti parlata.
LINGUA LATINA. - La lingua Latina era quella che anticamente era parlata in quella parte d'Italia, che appellavasi Lazio. Quando Roma estese le sue conquiste in Italia si parlavano tre lingue, Osca, Greca, Latina. Il Lazio, essendo come il centro d'Italia, prevalse sopra le altre e poco per volta coltivata ed ingentilita divenne come la madre delle scienze e la maestra delle nazioni. La legge agraria, le leggi delle dodici tavole erano già scritte in latino. Questa lingua, usata dai primi Romani, giunse al suo perfezionamento al 600 e continuò a fiorire per due secoli, sino all'ottocento di Roma.
I primi scrittori latini comparvero sul cominciare della seconda guerra punica. Ma l'epoca veramente gloriosa per la lingua latina, e perciò appellata secolo d'oro, fu il secolo d'Augusto. La maggior parte delle opere classiche, che usiamo nelle nostre scuole e che formeranno mai sempre la gloria dell'umano ingegno, furono scritte in quel secolo. Dopo il secolo d'oro la lingua latina cominciò a decadere, e col cadere del Romano impero in Occidente, cessò affatto di essere lingua parlata. Ma il latino fu chiamato lingua classica, lingua dei dotti, perchè si ha come fonte di ogni bel sapere. Le opere più celebrate in tutta l'antichità in fatto di scienza sono scritte in latino. La Chiesa Cattolica usa tuttora questa lingua nella liturgia e nei concilii. Il Romano Pontefice suole comunicare le sue leggi {160 [160]} ed i suoi ordini in questa lingua. Il latino fu ed è tuttora la lingua della Chiesa Cattolica. Chi possiede questa lingua in ogni paese del mondo può con parole manifestare i suoi pensieri.
Abiti, abitazioni, vitto e funerali.
ABITI. - L'abito de'Romani era l'indusium o camicia, la tunica ossia sopraveste e la toga. La tunica era una veste corta che scendeva fino al ginocchio, e serravasi alla vita con una cintura. La toga era una veste lunga da ogni parte chiusa senza maniche, la quale avviluppava tutto il corpo, lasciando solamente scoperto il capo ed il braccio destro. Quando il fanciullo giungeva ad una certa età, specialmente se di nobile condizione, era vestito di una toga detta pretesta, orlata di rosso A diciassette anni deponeva la pretesta per indossarne un'altra detta toga virile. Quel giorno il giovine era condotto da un grande numero di amici sulla pubblica piazza, e da quel giorno cominciava ad essere considerato quale cittadino romano. Alla guerra i cavalieri si spogliavano della toga per vestire un manto detto clamide. L'abito del soldato di fanteria ed anche del viaggiatore era il saio (sagum): per ripararsi dalla pioggia portavasi un cucullus, ossia cappuccio, che copriva la testa e le spalle. Non usavano calze, ma le persone delicate od infermicele coprivansi le gambe con fasce di stoffa o con istivaletti.
ABITAZIONI. - Le città degli antichi Italiani non erano altro che un ammasso di capanne, le quali talora si trasportavano da un luogo all'altro. Ai tempi della fondazione di Roma vi erano già moltissime città costruite con pietre, con mattoni, e ben fortificate. È molto antico l'uso del vetro e del cristallo, che impiegavano in ogni sorta di lavori, facendone anche delle colonne; ma non sapevano formar lastre per finestre, cui supplivano i poveri con tele o con pergamene, i ricchi con pietre trasparenti tagliate a sottilissime lastre, che dicevano speculari. Le invetriate furono conosciute soltanto ai tempi di Teodosio il Grande. Presso gli antichi non adoperavansi chiavi, nè serrature per chiudere le case: gli usci degli appartamenti di dentro erano chiusi da una stanga di ferro; gli scannelli e le credenze erano sigillate col marchio, ovvero castone dell'anello destinato a suggellare le lettere, ed ogni volta che le aprivano dovevano ripetere tale operazione.
CONVITI E PRANZI. - Gli antichi si nutrirono per molto tempo di farina d'orzo in vece di pane. Fino ai tempi della seconda guerra punica ignorarono l'uso dei molini, e perciò tritavano il frumento con due pietre. I Romani furono i primi che introdussero in Italia il lusso dei banchetti. A mensa stavano adagiati sopra letti disposti
intorno a certe tavole aggiustate nel triclinio che era la sala del pranzo, cosi chiamata perchè intorno alla tavola ordinariamente erano tre di questi letti (tre-clini ossia letti). I conviti componevansi di tre portate: alla prima erano cinghiali tutti intieri, circondati da {161 [161]} altri cibi atti a stuzzicare l'appetito, de' quali facevano sempre parte le uova. Di qui venne il proverbio: ab ovo impie ad malum, vale a dire dall'uovo, che indicava il principio della mensa, sino alla mela, ovvero alle frutta, che solevansi portare in fine. Nella seconda portata vi aveva ogni sorta di pasticceria e di manicaretti, ed in questi consisteva il meglio del pranzo. Studiavansi di presentare i volatili più rari e più difficili a trovarsi, come la gru, il pavone, il papagallo e simili. Nell'ultima portata venivano le frutta ed i confetti come si usa fra noi. Al vino melato della prima portata succedevansi altri vini cosi gagliardi da non potersi bere puri.
RE DEL CONVITO. - Preparato il pranzo, si tirava a sorte chi dovesse regolarlo, e colui che veniva scelto chiamavasi Re del convito. Costui ordinava le libazioni, i brindisi, il numero di tazze, che ognuno doveva vuotare, e chiunque non adempiva quegli ordini era condannato a tracannarne una tazza di più.
Chi avesse preso fiato bevendo il suo vino era condannato a berne un'altra tazza, ancorchè fosse alterato dal vino od anche ubbriaco. Durante il pasto si eseguivano concerti musicali, talora danze od anche combattimenti di gladiatori. Presso ai Romani il pasto principale era la cena, la quale facevasi verso il tramonto del sole. I loro pranzi non erano che una seconda colezione: poi s'introdusse l'uso della merenda; e finalmente la gente di buon tempo mangiava un'ultima volta dopo cena.
Questi divoratori di professione per reggere a tanti pasti non avevano altro mezzo fuorchè rigettare, e ciò che reca maraviglia è questo, che i medesimi filosofi, i quali avevano fama di sobrii e di onesti, non si vergognavano di provocarsi anch'essi al vomito dopo cena a fine di potere nuovamente mangiare.
Questa era la vita dei Romani degenerati. In quel tempo di corruzione ogni sorta di vizio prese forza tra i popoli italiani. In Roma non si dimandava più altro, nè di altro si ragionava, se non di pane e circensi, cioè di gozzoviglie, di pranzi, di giuochi, di spettacoli. Tali cose accelerarono grandemente la rovina del romano impero. La sola santità del cristianesimo riusci a porre un freno a tanti vizi che avvilivano l'umanità.
FUNERALI. - In ogni tempo e presso a tutte le nazioni i doveri della sepoltura furono riguardati come cosa sacra. Quando un romano era per esalare l'ultimo fiato, i parenti più prossimi attorniavano il suo letto per ricevere l'ultimo suo respiro e chiuder pietosamente gli occhi al medesimo. Appena morto lo chiamavano tre volte per nome, gli mettevano un obolo nella bocca, perchè potesse pagare il tragitto del fiume Stige, il quale credevano che tutti dovessero passare per andare ai Campi Elisi, cioè al favoloso paradiso immaginato dai pagani.
I funerali non si celebravano prima dell'ottavo giorno. Un suonatore di flauto apriva il cammino, seguivano le trombe, quindi una schiera di prefiche, vale a dire di donne pagate a piangere l'estinto. Portavansi rovesciate tutte le insegne onorifiche dell'estinto, quindi {162 [162]} le immagini di cera de'suoi antenati: venivano appresso i figliuoli del defunto ed altri parenti. Tutto il corteggio vestiva a lutto, portando le donne le chiome scarmigliate.
Il cadavere era processionalmente portato sopra un feretro pomposo e circondato da grande numero di fiaccole accese, e deponevasi nel foro, dove il figliuolo del morto, o qualche altro de' suoi più stretti parenti saliva sulla tribuna e ne recitava l'orazione funebre. Ne'tempi più antichi si sotterravano i cadaveri: più tardi si costumò abbruciarli. I parenti più prossimi, volgendo altrove la faccia, appiccavano il fuoco al rogo. Consumato dalle fiamme il cadavere, le ceneri e le ossa, versandovi sopra latte e vino, erano chiuse dentro di un'urna, e l'urna era collocata in una tomba. Prima di chiudere la tomba solevasi dare ad alta voce all'estinto l'ultimo saluto con queste parole: Addio per sempre noi ti seguiremo tutti seconde l'ordine della natura. {163 [163]}
EPOCA TERZA. L'ITALIA NEL MEDIO EVO.
Dalla caduta del Romano impero in occidente nel 476 alla scoperta del nuovo mondo nel 1492.
I. Odoacre primo re d'Italia. - Invasione de'goti. (Dal 476 al 493).
La storia che imprendo a raccontarvi, miei buoni amici, dicesi del Medio evo, ossia dell'età di mezzo. Con questo nome si designa comunemente quello spazio di tempo, che dalla caduta del romano impero in Occidente va fino alla scoperta del nuovo mondo fatta da Cristoforo Colombo nel 1492.
In questo lungo spazio di tempo l'Italia fu continuo ludibrio de' barbari, i quali in varie epoche e da diversi paesi la vennero ad assalire, e con danno immenso degli italiani la fecero loro preda. Erano i barbari uomini senza leggi, senza politica e quasi senza religione. In ogni loro questione la forza teneva luogo di ragione e di diritto. Già vi raccontai come Odoacre, quell'antico ministro del feroce Attila, era venuto in Italia con molte schiere di barbari, ed erasi fatto riconoscere per primo re d'Italia nel 476. Poichè il nome d'imperatore era caduto in discredito in Occidente, egli si contentò del titolo di patrizio di Roma, che ottenne dall'imperatore d'Oriente.
Sebbene barbaro di nazione Odoacre mostrò capacità e virtù degne del grado, cui aveva saputo innalzarsi. È nondimeno {164 [164]} tacciato di essersi usurpate le proprietà dei vinti per darle a' suoi soldati. Egli aveva loro promessa la terza parte delle terre d'Italia, affinchè lo eleggessero re e la promessa adempì appena salito sul trono. Questa potrebbesi reputare una vera ingiustizia, ove egli non fosse stato in certa maniera giustificato dallo scarsissimo numero di uomini che abitavano l'Italia, e dal grande bisogno che vi aveva di nuove braccia per coltivare le campagne abbandonate.
Nello spazio di pochi anni, che passò in Italia, depose la fierezza propria di tutti barbari, e benchè professasse l'eresia degli ariani, tuttavia si mostrò molto favorevole al cattolicismo. La moderazione di questo re è dovuta alla relazione che mantenne con un santo solitario di nome Severino, il quale abitava sulla sponda del Danubio vicino alla città di Vienna. Quando Odoacre veniva co' suoi in Italia, rapito dalle maraviglie che da tutte parti si raccontavano di questo solitario, volle andare in persona a visitarlo. Vi andò sotto modeste sembianze, penetro nella grotta dove il santo era come sepolto. Per la bassezza di quella abitazione il principe, di statura altissimo, dovette starvi col capo chino per non urtare nella volta. Odoacre non aveva cosa nelle sue vesti che potesse manifestare chi egli si fosse; nondimeno nel licenziarlo Severino lo salutò per nome, e gli predisse tutta la serie delle sue imminenti vittorie. «Tu vai in Italia, gli disse, e vai vestito di povere pelli, ma in breve diverrai padrone di grandi ricchezze, il tuo regno sarà di 14 anni.
Allora che Odoacre si trovò difatto re d'Italia si rammentò dell'uomo di Dio, e gli scrisse domandandogli, quale cosa avrebbe potuto fare di suo maggior gradimento. L'umile Severino non volendo rifiutare la liberalità di un principe, lo pregò del richiamo di un bandito, e ne fu tostamente appagato.
Odoacre era divenuto pacifico re d'Italia, quando un capo barbaro di nome Teodorico con una moltitudine di Ostrogoti, andando in cerca di paesi da conquistare, minacciava le frontiere. Devo qui notarvi che gli Ostrogoti erano una parte di quei Goti, di cui ebbi già altre volte occasione di parlarvi. Essi venivano da una regione detta Scandinavia, {165 [165]} che oggidì si appella Svizera e Norvegia e giunti al Danubio si divisero tra loro, recandosi altri verso l'Oriente, altri verso l' Occidente. I primi furono detti Ostrogoti, cioè Goti orientali, gli altri Visigoti, cioè Goti occidentali.
Per meglio comprendere con quanta facilità gli Ostrogoti abbiano potuto rendersi padroni d'Italia, è bene che io vi faccia ancora notare che alla caduta del romano impero in Occidente gl'imperatori d'Oriente, non essendo più in grado di difendere l'Italia, l'avevano abbandonata; onde lo stesso imperatore Zenone acconsentì volentieri a Tepdorico che venisse a conquistarla. Alla notizia di queir innumerevole turba di nemici, Odoacre radunò le sue genti, e andò ad accamparsi sulle rive dell'Isonzo (fiume dell'Illirio) per difendere i suoi Stati. Il suo esercito era numeroso, ma dopo le conquiste lo aveva lasciato in ozio, da cui nacquero molti vizi, di modo che que' soldati erano piuttosto pronti a fuggire, che a combattere. Toccata colà una grave sconfitta nell'agosto del 489, Odoacre raccolse un secondo esercito, e andò ad affrontare il nemico sulle rive del fiume Adige, vicino alla città di Verona, dove seguì la grande battaglia, che doveva decidere della sorte di que' due famosi guerrieri.
Vuolsi che nella mattina di quel giorno memorando Teodorico si recasse sotto la tenda, in cui la madre e la sorella si erano ritirate colle donne del loro seguito, e che le pregasse di dargli la più bella veste che esse avessero fatto colle loro mani, perciocchè presso gli antichi popoli le donne di qualunque grado usavano occuparsi a filare la lana ed a tessere panni per gli abiti de' loro mariti e de'loro figliuoli. Teodorico rivolgendo poscia un pietoso sguardo alla genitrice, «signora, le disse, la vostra gloria è legata colla mia; si sa che siete la madre di Teodorico, e tocca a me di mostrare, che sono degno vostro figliuolo.»
Dette queste parole, andò a porsi alla testa de' suoi soldati, ed appiccò una terribile battaglia, l'esito della quale fu con grande vigore contrastato. Anzi fu un momento in cui gli Ostrogoti quasi disfatti, avvolgendo nella ritirata il medesimo loro re, tentavano di andare a cercarsi salvezza nei loro quartieri, quando la madre di Teodorico movendo contro ai soldati gridò ad alta voce: «Soldati, dove mai volete correre? se fuggite quale scampo vi rimane ancora? {166 [166]} volete che i nemici possano dire che i soldati di Teodorico siansi dati a vergognosa fuga?»
Queste parole riaccesero il coraggio nell' animo dei fuggitivi, i quali radunatisi intorno al loro re ritornarono alla pugna e riportarono compiuta vittoria. Odoacre venne ancora altre volte alle mani co'nemici, ma ne fu sempre sconfitto. Ciò non ostante si fortificò nella città di Ravenna, ove sostenne un lungo assedio con raro valore. Finalmente per la mancanza de' viveri fu costretto alla resa. Nel capitolare egli pose per condizione di condividere con Teodorico il regno d'Italia. Teodorico gli accordò quanto chiedeva; ma pochi giorni dopo il perfido in un solenne banchetto fece trucidare Odoacre, suo figliuolo e tutti quei del suo seguito, che vi erano stati invitati.
II. Regno di Teodorico. (Dal 493 al 526)
Teodorico, divenuto re per via d'un assassinio, faceva temere assai pei poveri italiani, che, ora per un motivo, ora per un altro, erano continuamente perseguitati ed oppressi. Tuttavia in breve tempo l'amenità del nostro clima, e qualche resto dell'antica civiltà italiana gli fecero deporre grande parte di sua fierezza, così che si occupò con molto zelo a ristorare le città e a riparare alla miseria, in cui molti dei suoi sudditi erano caduti. Conquistò eziandio diversi paesi confinanti coll'Italia; cacciò varie torme di barbari, che cercavano d'invadere i suoi Stati. L'agricoltura, il commercio, la pubblica tranquillità man mano comparvero in questa terra, già da un secolo fatta teatro delle invasioni nemiche. Per le quali cose l'Italia era divenuta molto scarsa d'abitatori. Per ripopolarla egli spedì s. Epifanio vescovo di Pavia a riscattare i romani, che giacevano schiavi fuori d'Italia, ed invitò gli esiliati a fare ritorno in patria.
Teodorico era ariano, ma rispettava molto i Papi e la cattolica religione; sicchè i cattolici durante quasi tutto il suo regno godettero pace, e poterono liberamente praticare {167 [167]} la loro fede. Ma siccome un re che non ha la vera religione, nemmeno può avere la vera moralità, cosi Teodorico sul fine della vita divenne sospettoso e crudele.
Obbligò papa Giovanni I di andare a Costantinopoli per chiedere a Giustino imperatore, che gli ariani suoi sudditi potessero liberamente professare le loro credenze, e fossero ristabiliti nelle loro chiese state chiuse, minacciando che egli tratterebbe i cattolici d'occidente in quella guisa che Giustino avrebbe trattato gli ariani in Oriente. Al papa Giovanni aggiunse quattro senatori. Si appressava il sommo pontefice a Costantinopoli, e tutta la città colla croce e con doppieri venne ad incontrarlo alla distanza di dodici miglia. Giustino stesso inginocchiato a' suoi piedi gli prestò l' onore che si conviene al Vicario di Gesù Cristo. Il Pontefice espose all'imperatore gli intendimenti di Teodorico, e Giustino considerato il pericolo dei cattolici d'Occidente, promise di lasciare in pace gli ariani d'Oriente, ed accomiatò il Papa, facendogli ricchi doni per le chiese di Roma. Giovanni rientrato in Italia si recò a Ravenna per ragguagliar Teodorico dell'esito felice della sua ambasciata; ma Teodorico tra per gelosia degli onori fatti al papa, tra perchè il papa non avesse chiesto (e chiedere non lo poteva) che venissero restituiti all'arianismo coloro che lo avessero abbandonato per farsi cattolici, fece imprigionare il Pontefice, il quale poco appresso morì di stento in carcere.
Era a quei tempi insigne in Italia Severino Boezio, uomo dedito alle lettere, alla filosofia ed alla teologia, il quale applicando alla verità cattolica i suoi studi filosofici aveva scritto contra l'eresie di Ario e di Eutiche. Creato console da Teodorico, si era lealmente adoperato a vantaggio del regno; ma poi accusato di tener segrete pratiche con Giustino per ridonare la libertà ai romani incontrò, sebbene innocente, lo sdegno del sospettoso Teodorico, che lo fece porre in carcere, dove in capo a sei mesi venne ucciso.
Suocero di Boezio era Simmaco, discendente da famiglia patrizia, senatore venerato per virtù e sapere. Teodorico sospettando che Simmaco, addolorato per la morte del genero, potesse tramare contro di lui, lo invitò di venire a Ravenna, dove sotto colore di finti reati lo privò di vita.
Siccome Boezio e Simmaco erano e vivevano da buoni {168 [168]} cattolici, cosi Teodorico divenne abbominevole presso di tutti i buoni; tanto più che egli aveva ordinato che si dessero agli ariani le chiese dei cattolici. Ne aveva sottoscritto il decreto, quando colto da un flusso di ventre nel termine di tre giorni e nel dì stesso destinato all'occupazione delle chiese perdette il regno e la vita. Corse fama che pochi giorni prima essendogli stato portato a mensa un grosso pesce, gli parve divedere nella testa di quell'animale la stessa testa di Simmaco, che coi denti e cogli occhi lo minacciasse.
III. Amalasunta, Vitige, Belisario e Totila. (Dal 526 al 550).
Teodorico prima di morire fece riconoscere Alarico suo nipote re d'Italia di soli otto anni, sotto la tutela di sua madre Amalasunta. La quale a fine di assicurarsi un appoggio invocò la protezione dell'imperatore di Costantinopoli, e tutta si adoperò per dare una buona educazione al giovine principe. Ma i barbari annoiati di vedere il loro re più occupato delle lettere, che delle armi, lo tolsero di mano alla madre, e lo diedero compagno ad alcuni giovani scostumati. Il misero Alarico fatto così preda di malvagi consigli, diedesi alla crapula e ad altri vizi, i quali in breve tempo il condussero alla tomba non avendo ancora valicato il diciottesimo anno.
Amalasunta addolorata per la morte del figliuolo e desiderosa di provvedere un novello appoggio alla sua autorità sposò un principe suo cugino di nome Teodato; ma costui per governare liberamente fece strangolare la novella sposa in un bagno. Allora l'imperatore Giustiniano per vendicare la morte della sua alleata mandò in Italia Belisario, generale di alto grido, che già si era segnalato in una guerra gloriosamente terminata in Africa. Come si fece vedere in Italia, molte città gli aprirono le porte; pel che egli potè venire difilato a Roma, ed entrarvi pacificamente senza il minimo contrasto.
I Goti, accorgendosi che avevano un padrone incapace di governarli, si crearono re un altro valoroso capitano di nome {169 [169]} Vitige, e misero a morte Teodato. Il novello principe corse tosto a cingere di assedio la città di Roma, donde fu costretto di allontanarsi dalle genti di Belisario. Dopo molte e sanguinose battaglie Vitige, disperando di poter più oltre resistere in campo aperto, andò a fortificarsi in Ravenna. Belisario sollecitamente lo insegni, e diedesi a cingere d'assedio quella città, cui riuscì a sottomettere colla fame. Vitige tratto in inganno cadde nelle mani di Belisario.
Allora i Goti per esser sicuri di avere un uomo valoroso e capace di governarli offerirono lo scettro a Belisario. Questi non volle tradire la causa del suo sovrano, e lo rifiutò, assicurando che egli voleva con fedeltà governare a nome dell'imperatore. Caricò pertanto molte barche delle spoglie d'Italia e conducendo prigioniero Vitige, la moglie, i figliuoli di lui ed i più nobili dei Goti, fece gloriosamente ritorno a Costantinopoli per condurre il suo glorioso esercito contro ai Persiani.
Dopo la partenza di Belisario i Goti si radunarono ed elessero a re d' Italia un generale per nome Ildebaldo, il quale fu ucciso dopo un anno di regno. A costui succedette Erarico il quale in breve fu eziandio trucidato dai Goti.
Totila solo era l' uomo capace di regnare e di sostenere alquanto il vacillante trono dei Goti. Egli era duca del Friuli, vale a dire di quella provincia della Venezia, che giace tra le Alpi Giulie e l' Adriatico, ed erasi già segnalato in molti fatti d' arme sotto al regno di Ildebaldo suo zio, e di Erarico.
Totila (anno 541) era giovine prudente e coraggioso; niun pericolo rallentava le sue imprese; ma per le vittorie di Belisario e per le intestine discordie il suo regno era ridotto ai paesi racchiusi tra le Alpi ed il Po. Inoltre egli si trovava alla testa di una nazione abbattuta dalle sconfitte; perciò se riportò molte vittorie dovette piuttosto riconoscerle dalla fortuna e dagli errori dei generali Greci, che non dalla forza delle sue milizie. Tuttavia molti per la fama del suo valore, unendosi a lui ingrossarono assai il suo esercito, ed egli potè avanzarsi verso il mezzodì dell'Italia, impadronirsi di molte città, ed occupare Benevento, Cunia e Napoli. L'imperatore di Costantinopoli teneva Totila in conto di tiranna e di barbaro; tuttavia presso ai Romani {170 [170]} egli ebbe vanto di indole generosa ed umana. Entrato in Napoli fece distribuire viveri al povero popolo, che si moriva di fame; ma colla tenerezza e colle cure di un padre il quale solleva gli ammalati suoi figliuoli, e non coll'ostentazione di un vincitore, il quale si occupa solo della sua gloria. Forni eziandio di danaro e di vetture i soldati nemici, perchè potessero andare dove loro fosse in grado, facendoli accompagnare dalle sue soldatesche fino là dove non avessero più nulla a temere. L' esatta disciplina dei Goti, la generosità di Totila fecero si che di buon animo le città d'Italia gli aprissero le porte.
Alla nuova di queste gloriose vittorie l'imperatore Giustiniano spedi nuovamente Belisario in Italia, ma con pochi soldati e con pochi danari, tanto che non potè impedire al re Goto d'impadronirsi di quasi tutta la penisola e della stessa Roma, la quale venne più volte presa dai barbari e ripresa dai Greci. Si afferma che Totila volesse eziandio atterrare le mura e parecchi altri belli edifizi di quella superba città sul timore che i greci potessero ancora aver modo di fortificarsi contro di lui; ma essendo stato supplicato da Belisario di risparmiare quei monumenti delle antiche glorie romane, egli preferi al proprio interesse la riverenza dovuta a quelle preziose memorie.
Non voglio qui omettere un fatto che dimostra come questo principe barbaro rispettasse la religione. Nel corso delle sue vittorie capitò nel regno di Napoli vicino al monte Cassino. Avendo ivi udito a parlare delle maravigliose virtù di s. Benedetto, volle egli far prova se questo santo uomo avesse il dono della profezia. Si fece annunziare, ma in luogo di andare egli stesso mandò uno dei suoi ufficiali in abito reale e con tutto il corteggio di un sovrano. S. Benedetto come vide di lontano quell'ufficiale, figliuol mio, gli disse, deponi quell'abito, esso non è tuo. L'ufficiale e tutti quelli che lo accompagnavano si prostrarono riverenti a' pie del santo, e non si rialzarono se non per correre ad annunziare al re l'accaduto. Vi andò Totila in persona e appena da lungi ravvisò il santo abate prostrossi a terra egli pure, e sebbene s. Benedetto gli dicesse ben tre volte di levarsi, egli non osò farlo; cosi che il santo fu costretto a rialzarlo. Allora s. Benedetto colla libertà di un profeta gli {171 [171]} rappresentò i suoi doveri e i suoi falli, e dopo avergli presagito le sue vittorie e insieme ogni altro più notabile avvenimento, aggiunse che sarebbe morto l'anno decimo dei suo regno. Preso Totila da estremo spavento si raccomandò alle sue orazioni, poi si ritrasse in silenzio[11].
Tornando ora a Belisario, dico che egli riconoscendo la prevalenza delle forze di Totila, e da Costantinopoli non ricevendo più alcun aiuto di soldatesche, si vide costretto a partire d'Italia. Ritornato a Costantinopoli finì la vita oscuro e dimenticato.
IV. Totila e Narsete. - Caduta dei goti. - I franchi. (Dal 550 al 568).
Partito Belisario rimase Totila tranquillo possessore d'Italia, la quale potè estendere le sue conquiste in altri paesi. Posta in piedi una possente armata, impadronissi della Corsica, della Sardegna e della Sicilia; e già si preparava a passare nella Grecia, quando l'imperatore risolse di fare l'ultima prova per ricuperare quanto Belisario aveva perduto. Quest'ardua impresa fu affidata ad un vecchio generale ottuagenario di nome Narsete, accortissimo e peritissimo capitano. Questi ben fornito di danaro dopo aver radunato un numeroso esercito, costeggiando per terra l' Adriatico, entrò in Italia ed andò ad incontrare Totila in Toscana alle falde dei monti Apennini. Narsete mandò a Totila un araldo, ossia messaggero per invitarlo alla resa, offrendogli il perdono da parte dell' imperatore. Totila rispose che non altro accettava che la guerra, e che era preparato a vincere o a morire. Cui di nuovo disse l' araldo: qual tempo fissi tu alla pugna? l'ottavo giorno, rispose Totila.
Al giorno posto si venne ad una battaglia campale che riusci funesta ai Goti. Dopo moltissime prove di valore e grandissimo spargimento di sangue da ambe le parti perì Totila insieme col fior delle sue schiere. I Goti scampati dalla battaglia si ridussero in Pavia, e crearonsi a re Teia il più valoroso dei loro uffiziali; il quale assalito da Narsete {172 [172]} alle radici del Vesuvio presso Napoli, mori in una sanguinosa battaglia dopo aver fatto prodigi di valore. Non ostante la morte del loro re i Goti continuarono a combattere vigorosamente, sicchè la battaglia durò ancora tre giorni. Ritiratisi finalmente e radunato il consiglio mandarono a dire a Narsete di essere pronti a deporre le armi, ma di non volere rimanere punto sudditi dell' impero. «Noi, dicevano, vogliamo uscire dell' Italia, e andarcene a vivere cogli altri nostri fratelli. Perciò fateci libero il passo, dateci le vettovaglie bastanti, e lasciateci portar via il danaro che abbiamo nelle nostre case.» Narsete stette alquanto esitante, poi accondiscese. In simile guisa finì la monarchia Gota in queste nostre contrade, dopo aver durato 78 anni. I Goti che rimasero ancora fra noi a poco a poco deposero la loro ferocia e divennero Italiani.
Mentre ardeva la guerra tra i Greci ed i Goti, vennero i Franchi ad assalire l'Italia settentrionale. Erano costoro popoli della Germania, i quali in antico abitavano le sponde del Reno. Alla decadenza del Romano impero in Occidente invasero le Gallie, e dopo esserne stati più volte cacciati riuscirono a fermarvisi stabilmente nel 451. Farete bene di non dimenticare che dai Franchi si denominò poi Francia, e non più Gallia il paese, che scelsero per loro dimora. Questi Franchi tentarono d'impadronirsi dell'Italia, ma ne furono respinti dal valoroso Narsete, il quale appunto venne dichiarato esarca, cioè governatore generale, ed ebbe la sua sede in Ravenna. In mezzo alle guerre che imprese questo pio generale non dimenticò mai i doveri di buon cristiano, e di buon cattolico.
Egli conservò la pace in Italia per lo spazio di anni quattordici, amato dai buoni, e temuto dai suoi nemici. Nondimeno è tacciato di avarizia; e dopo aver accumulato immense ricchezze morì in età d'anni 95 nel 567. Vuolsi che Sofia imperatrice di Costantinopoli, invidiosa della gloria di Narsete, dall'Italia lo richiamasse alla corte con parole ingiuriose, dicendo che quel vecchio non era più buono se non a filare colle donne, e che egli rispondessele che col suo filo avrebbe ordita una tela, da cui difficilmente ella avrebbe saputo disbrigarsi, e che perciò invitasse i Longobardi a calare in Italia. {173 [173]}
V. Invasione dei longobardi. (Dal 568 al 573).
Morto Narsete, l'Italia restò quasi senza governo, sicchè parecchi popoli barbari ambivano di venire ad impadronirsene. Uno di questi, che abitava sulle rive del Danubio, si dispose per primo ad invadere le nostre contrade. I novelli conquistatori dicevansi Longobardi, e diedero il loro nome a quel paese che oggidì chiamasi Lombardia. Questi Longobardi adunque, allettati dai racconti che alcuni venturieri di loro nazione avevano fatto della dolcezza del clima e della fertilità delle terre d'Italia, scesero dalle Alpi, conducendo seco mogli, fanciulli e vecchi, carra, buoi, e giumenti. Essi erano riputati i più valorosi ed i più crudeli di tutti i barbari. Il loro re era un guerriero feroce ed intrepido di nome Alboino. Il quale apparve sulle Alpi Giulie che chiudono l'ingresso dell'Italia dal lato dell'Oriente, e dall'alto di quelle montagne salutò con un grido di gioia quel paese cui tendevano le sue conquiste. Senza combattere egli s'impadronì di tutta l'Italia superiore. Il terrore precedeva il suo esercito, i popoli fuggivano al suo avvicinarsi, e per cercare qualche scampo, pigliando ciò che avevano di più prezioso, andavano a nascondersi nei boschi e sulle montagne.
La sola città di Pavia osò opporre agli invasori lunga e vigorosa resistenza. Gli intrepidi abitanti, sperando di essere soccorsi dall' esarca di Ravenna, per tre anni respinsero gli assalti dei barbari; onde Alboino pieno di furore giurò che in quella sciagurata città non avrebbe risparmiato nè uomini, nè donne, nè vecchi, nè fanciulli, e che tutti coloro i quali non fossero periti di fame sarebbero caduti sotto i colpi di spada. Potete quindi immaginarvi qual fosse lo sgomento di quegli infelici, allora che si videro costretti ad aprire le porte ai vincitori: niuno dubitava non fosse giunto per lui l'ultimo giorno. E già il principe Longobardo tutto furioso trovavasi alla entrata della città, quando gli cadde il cavallo improvvisamente. Le grida, le spronate, le battiture a nulla giovavano per farlo rizzare: frattanto odesi una voce a gridare: «Che fai? rinuncia al tuo giuramento, {174 [174]} ricordati che questo popolo è cristiano; perdonagli e andrai avanti.»
Questo impreveduto accidente produsse un felice cangiamento nell'animo del conquistatore, il quale confuso e commosso rientrò in se stesso, calmò il suo sdegno e perdonò appieno a quel popolo col solo patto di assoggettarsi al suo dominio. Allora si rialzò di terra il suo cavallo; ed egli essendosi quindi recato al magnifico palazzo da Teodorico fatto edificare, ne fu talmente rapito dalla bellezza e dalla magnificenza, che lo scelse a sua dimora dichiarando Pavia capitale del regno Longobardo.
Malgrado questa moderazione, miei cari amici, non credete che. l'indole di quel principe divenisse più mite; poichè cessati i pericoli della guerra egli si diede in preda alle più brutali passioni. La crapula, vizio comune a quei barbari, divenne il suo passatempo più gradito; e come or vi racconterò fu la cagione della sua morte. Dovete sapere che i Longobardi nei loro paesi adoravano una divinità detta Odino, ed erano persuasi che la ricompensa dei guerrieri in paradiso dovesse essere il bere di uno squisito liquore nei crani dei loro nemici; perciò nei grandi conviti solevano servirsi di queste tazze orrende, se loro veniva dato di poterne avere.
Alboino prima di venire in Italia aveva ucciso il re doi Gepidi, chiamato Cunimondo, il quale era padrone di una parte della Germania, e poi aveva sposato Rosmunda figliuola di lui. Ora avvenne che Alboino avendo un giorno dato un gran banchetto ai capi del suo esercito, divenuto mezzo ubbriaco, ordinò che gli venisse recato il cranio di Cunimondo, cui egli riguardava come il più prezioso ornamento della sua tavola. Quindi empiutolo di vino squisito, in mezzo alle urla forsennate dei suoi compagni di stravizi, ebbe il diabolico pensiero di porgerlo a Rosmunda, la quale sedeva alla stessa mensa, aftinchè, egli diceva, la regina bevesse con suo padre. A tale vista ed a tale proposta Rosmunda tremò, e toccando colle labbra l'orribile vaso, disse: sia fatta la volontà del re. Ma giurò in cuor suo di farne atroce vendetta.
E per vero pochi giorni dopo introdusse due ufficiali negli appartamenti del re, e nel momento che egli oppresso {175 [175]} dall' ubbriachezza giaceva in profondo sonno, lo fece uccidere con cento colpi. Ecco a quali strani eccessi conducono i vizi della crapula e del libertinaggio. Notate però che Rosmunda e quei due ufficiali commisero una malvagia azione, come quelli che non erano padroni della vita del loro re; e che con quella uccisione si resero colpevoli di un grave misfatto. Il quale fu pure terribilmente punito dal cielo; poichè passò poco tempo che ad uno di quegli uccisori furono cavati gli occhi e Rosmunda e l'altro cooperatore morirono di veleno. I malvagi non godono a lungo del frutto del loro delitto.
VI. Autari e Teodolinda. (Dal 573 al 590)
Morto Alboino i Longobardi si radunarono in Pavia, ed elessero per loro re uno dei più illustri dell' esercito per nome Clefi. Il regno di costui durò solo due anni, ed egli fu ucciso da un suo cortigiano. Dopo Clefi ebbe luogo un interregno di dodici anni; cioè per lo spazio di dodici anni non fu più eletto alcun re. Qui parmi opportuno di farvi brevemente conoscere come i Longobardi di mano in mano conquistavano nuove provincie ne affidavano il governo a un duca, il quale aveva l' amministrazione di tutti gli affari militari e civili. Sotto ai duchi stavano gli Sculdasci o Centenari, di cui ognuno reggeva un distretto di 144 famiglie o fare con autorità pari a quella del duca, benchè meno estesa. Sotto agli Sculdasci erano i Decani, ossia capi di 12 famiglie; ogni famiglia poi era ancora retta da un capo, detto arimano[12].
Ogni uomo atto a portare le armi era obbligato a servire in guerra, ed ogni giovane appena decorato delle armi diventava capo-famiglia, e veniva designato col nome sopra detto di Arimanno o Esercitale, cioè atto a servire negli {176 [176]} eserciti. Tutto lo Stato poi era governato dal re e dall'assemblea. Alla morte di un re se ne eleggeva un altro tra i duchi, il quale capitanava gli eserciti, presiedeva l' assemblea, proclamava le leggi, e giudicava le cause di maggior momento. All' assemblea apparteneva eleggere il re, approvare le leggi ed anche giudicare le cause gravi. Essa componevasi di tutti gli arimanni, i quali si radunavano insieme quando si avevano a trattare affari di rilievo.
Alla morte di Clefi, durante l'interregno di dodici anni, siccome sopra vi ho detto, ciascun capo di provincia, ciascun duca governò i sudditi compresi nel proprio distretto; eglino si moltiplicarono fino a trentasei, e si divisero i beni della corona. La qual cosa cagionò gravi disordini e gravi mali all' Italia, perciocchè ciascuno voleva essere indipendente, e non sapevasi a chi ricorrere in occasione di litigi. Laonde per assicurare la pace interna e per avere un capo che li difendesse contro ai Greci, che minacciavano di togliere loro l'Italia, i duchi medesimi si radunarono, e restituendo alla corona i beni che le avevano tolto, si elessero Autari figliuolo di Clefi. Fu questi uno dei più illustri re Longobardi, pel cui senno e valore si potè consolidare la vacillante loro monarchia, mercè le molte vittorie riportate da lui contro ai suoi nemici. Ei dilatò i confini del suo regno, ed essendo trascorso coll'esercito sino a Reggio di Calabria, spinse il cavallo verso di una colonna che sorgeva in mare, e toccandola coll' asta esclamò: Fin qui saranno i confini dei Longobardi.
L'avvenimento più notabile del suo regno fu il suo matrimonio con Teodolinda, figliuola di Garibaldo re di Baviera. Autari desiderava di conoscerla prima delle nozze; perciò invece d'inviare altri si travestì e accompagnò egli stesso l'ambasciatore spedito per dimandare la mano della donzella. Giunti al cospetto del duca di Baviera, esposero il motivo della loro venuta, e Garibaldo, cui erano già note le prodezze del re d'Italia, di buon grado acconsentì. Ma Autari per vedere Teodolinda prima di partire rivoltosi al duca, fa, gli disse, che noi vediamo quella tua figliuola, che deve essere nostra regina, perchè tengo commissione particolare dal nostro re di dargliene contezza. Garibaldo {177 [177]} fece venire la fanciulla, la cui semplicità ed avvenenza palesavano luminose virtù nell'animo di lei. Autari allora voltosi al duca, poichè, soggiunse, noi la vediamo tale da stimarla veramente dègna di essere nostra regina, fa che riceviamo dalla sua mano, come è in uso presso di noi, un bicchiere di vino. Il duca acconsentì e Teodolinda versò il vino prima all'ambasciatore, poscia ad Autari; ed appunto in quella occasione poco mancò che Autari fosse conosciuto; perciocchè l'età sua giovanile, la bella statura, il biondo crine e l'elegante aspetto diedero a sospettare che egli fosse il re stesso d'Italia, di cui fingevasi ambasciatore.
Ritornando egli nel suo regno fu accompagnato da un nobile corteggio di Bavari sino al confine delle Alpi, e nell'atto che essi volevano prendere commiato per tornare al loro paese, Autari piantando con un gran colpo un' azza, ossia una scure nel tronco di un albero, esclamò: «Così colpisce Autari re dei Longobardi.»
Teodolinda divenuta regina dei Longobardi ebbe grande e benefica parte nelle vicende d'Italia: essa era cattolica, dei Longobardi altri erano ariani, vale a dire seguaci dell' eresia di Ario, altri pagani. Nondimeno tre anni da lei passati con Autari bastarono a conciliarle gli animi di tutti. Sicchè Autari essendo morto in Pavia nel cinquecentonovanta senza lasciar prole, i Longobardi proposero a Teodolinda di eleggersi un marito, quale a lei meglio gradisse, ed eglino lo avrebbero tenuto per loro re. Ella scelse Agilulfo duca di Torino, principe fra gli Italiani il più ammirato per valore, e per virtù, e parente del re defunto.
VII. Agilulfo, Teodolinda e s. Gregorio Magno. (Dal 590 al 625).
Quando la virtuosa Teodolinda decise di scegliersi a marito e re Agilulfo, tacque il suo divisamente; e fattolo pregare di venire alla sua corte, da Pavia andò ad incontrarlo fino alla terra di Lomello oggidì Lomellina.
Quivi dopo cortesi accoglienze fece recare un nappo, {178 [178]} bevette ella prima, poi l'offerì ad Agilulfo, perchè esso pure bevesse; questi nel restituirle il nappo le baciò la mano, secondo l'uso dei Longobardi. Non è questo, disse allora Teodolinda, il bacio che io devo attendere da quello, che io destino per mio marito e mio re; la nazione Longobarda mi concede il diritto di darle un sovrano, ed essa per bocca mia t'invita a regnare sopra di noi. Allora i Longobardi si radunarono in un campo vicino a Milano, fecero montare Agilulfo sopra uno scudo, ed elevatolo alla vista di tutto il popolo, secondo che costumavan di fare, l' acclamarono re d'Italia.
Una cosa segnalò l'esaltazione di Agilulfo al trono, e fu la sua consacrazione colla corona di ferro, di cui vi farà certamente piacere di udire la storia. Nell' anno 326 santa Elena, madre dell' imperatore Costantino, scoprì sul monte Calvario la croce ed i chiodi, con cui fu crocifisso il nostro Salvatore. Con due di essi fece lavorare un diadema, ossia una corona, e un freno, mandando l'uno e l'altro in dono a suo figliuolo.
Il chiodo, che aveva servito pel freno o morso, fu poscia donato da s. Ambrogio alla Chiesa di Milano, ove tuttora si venera come preziosa reliquia. Il diadema passò da Costantino ai romani pontefici; e s. Gregorio Magno papa ne fece dono alla pia Teodolinda, la quale lo presentò alla basilica di s. Giovanni Battista in Monza. Questo diadema, chiamato corona di ferro, è tutto d'oro, girando solamente nell'interno di esso una lamina sottilissima di ferro formata col santo chiodo. L' altèzza della corona di ferro è di cinque centimetri, il diametro, cioè la larghezza interna, è di centimetri quindici. Con questa corona s'incoronarono i re Longobardi; poi quasi tutti i sovrani che si chiamarono re d'Italia: e si conserva gelosamente in Monza, città distante dieci miglia da Milano. Primo ad essere incoronato colla corona di ferro fu Agilulfo.
S. Gregorio Magno, di cui vi ho testè parlato, fu innalzato alla dignità di sommo Pontefice. Vi raccontai nella Storia ecclesiastica le grandi cose operate da questo Papa a pro dell' Italia e di tutta la cristianità. Ora accennerò soltanto quello ch'egli fece in riguardo dei Longobardi.
Vedendo egli con cuore addolorato le persecuzioni che quei barbari muovevano contro ai cattolici, volle adoperarsi {179 [179]} efficacemente per convertirli. Si recò in persona alla corte di Agilulfo, e d'accordo colla pia Teodolinda ottenne la conversione del duca; perciocchè questa principessa seppe guadagnarsi talmente l' affetto del marito, e fargli comprendere le bellezze della cattolica religione che egli abiurò pubblicamente l'arianismo; esempio che venne seguito dai capi dell'esercito. Allora i Longobardi corsero a schiere per rinunziare ai loro errori ed abbracciarono la religione degli Italiani, cominciando nel tempo stesso ad imitarne i costumi. Così la Chiesa, favorita dall'autorità civile, faceva vere conquiste e diradava le folte tenebre dell'ignoranza e della barbarie.
In quel medesimo tempo s. Colombano, di nascita Irlandese e fondatore di un novello ordine di monaci, dopo di aver aperti molti monasteri in patria e nella Francia, si recò in Italia. Agilulfo lo accolse favorevolmente, e, gli assegnò una cappella, dove ora è la città di Bobbio: di più gli diede una estensione di terreno lungo e largo cinque miglia. Il santo uomo vi fondò un monastero, dove i monaci attendevano alla pietà, allo studio e a dissodare i terreni incolti della valle della Trebbia.
Agilulfo poco prima di morire radunò in Milano i capi della nazione, e in loro presenza in maniera solenne fece coronare successore suo figliuolo Adaloaldo. La morte di Agilulfo avvenne nel 615.
Ma Adaloaldo divenuto pazzo, fu deposto, e Teodolinda continuò ad essere il sostegno del trono dalla morte di Agilulfo al 625, quando con rincrescimento universale ella cessò di vivere. Non fu mai donna che abbia avuto tanta influenza negli affari politici d'Italia quanto Teodolinda: essa beneficò i suoi sudditi; per sua cura quasi tutti i Longobardi abbracciarono il cattolicismo, e visse da buona cattolica affezionatissima alla Santa romana Chiesa.
VIII. Rotari - L'editto longobardo. (Dal 625 al 712).
Morto Adaloaldo, i Longobardi venerando le virtù di Teodolinda nell'anno 625 acclamarono a re Ariovaldo, genero di lei. Dopo la morte di Ariovaldo fu eletto re Rotari {180 [180]} il cui regno divenne celebre per le leggi che pel primo promulgò in favore dei sudditi. Egli raccolse le antiche consuetudini dei Longobardi, e facendo ad esse alcune modificazioni formò un codice, ossia un corpo di leggi detto editto, la quale parola significa legge pubblicata. L'editto pubblicato nel 644 ci porge una chiara idea della vita civile de' Longobardi prima che si fondessero, per così dire, coi vinti Italiani, ed io colla scorta di tanto documento ve ne darò un cenno, restringendomi al Mundio, alla Meta, alla Faida ed alle Guidrigild. Mundio chiamavasi la tutela che l'arimano, o capo-famiglia esercitava sulla moglie, sui figli che ancor non avessero cinte le armi, e sopra i servi. Il mundio dava al capo di casa l'autorità di comporre i litigi, che sorgevano tra i membri della famiglia e le persone estranee, e di percepire il provento delle fatte composizioni. Quando poi gli era chiesta una figliuola a nozze, il richiedente doveva pagargli il mundio pel diritto che egli acquistava sopra la promessa consorte.
Oltre il mundio lo sposo con quel atto doveva sborsare al padre della sposa una somma più o meno cospicua secondo le sue facoltà, che addimandavasi Meta. Così non la donna portava la dote al marito, ma questi doveva pagarla al padre della sua futura compagna.
Presso i Longobardi non vi avevano schiavi propriamente detti: i loro servi lavoravano i campi e dicevansi aldii. ? In generale essi erano trattati bene, contraevano matrimoni tra loro, e potevano per volere del re o del duca venire affrancati, cioè entrare nel numero degli uomini liberi.
Ma i Longobardi avevan recato seco dai loro paesi insieme col mundio la cosi detta Faida, cioè diritto ed obbligo della vendetta. Questo diritto regolava le successioni, e si estendeva fino alla settima generazione. La religione cristiana non tardò a farli accorti che la Faida era una mostruosa barbarie in sè; e che privare i deboli, i minorenni e le donne delle sostanze paterne per ciò solo che non potevano maneggiar la spada, era grave ingiustizia. Laonde Rotari negli articoli dell'editto, che riguardano la parte criminale, sostituì alle pene del talione, messe in opera antecedentemente, il guidrigild, ossia i compensi. Così per es chi uccide un uomo libero pagherà il gnidrigild di 900 {181 [181]} soldi; chi ammazza un aldio sborserà all'arimano, a cui appartiene, soldi 60. Di 282 articoli solo 14 decretano la pena di morte, da cui non può liberarsi chi offende l'onore della donna, chi abbandona la propria bandiera o si ribella allo Stato. Quanto al modo di amministrare la giustizia i Longobardi sceglievano fra gli arimani i più onesti, e a questi buoni uomini (che tale era il loro nome) affidavano le loro cause nel distretto del Ducato e della centuria a cui appartenevano. Questi buoni uomini applicavano la legge e davano sentenza inappellabile a nome delle fare o famiglie di cui erano i rappresentanti. A fine di scoprire la verità eglino ammettevano non le difese degli avvocati, ma il giuramento ed i giudizi di Dio. Chi in sua difesa adduceva più testimonii o sacramentali che giurino per lui, vinceva la lite; se dall'un lato e dall'altro era pari il numero dei giuranti, allora si veniva alla prova del giudizio di Dio. Questa consisteva nel sottoporre il reo a passare sopra carboni accesi, od impugnare un ferro rovente, o nel battersi coll'avversario. Se da tali prove usciva illeso, il reo dichiara vasi innocente e assolto. E perchè le donne ed i deboli non potevano reggere a siffatti cimenti, bisognava che si cercassero chi per loro ne sostenesse i giudizi. Costoro che si pigliavano a cuore l'onore degli inabili alla prova del Giudizio di Dio dicevansi campioni; il pegno deposto dalle parti per assicurare i giudici che non mancheranno di comparire nel tempo dato, si chiamava gaggio, parole che restarono nel corpo della nostra lingua comune. Voi, cari giovanetti, vedete che le leggi longobarde non dimostrano ancora un grado di molta civiltà in questi barbari già di fatto convertiti dall'arianesimo e dall'oddinismo alla santa nostra religione. Tuttavia non potrete non riconoscere in esse la benefica influenza del Vangelo, che impone la estinzione degli odi, l'onore ed il rispetto a tutti, e inspira il sentimento della dignità che ha l'uomo.
Dai buoni uomini si trasse a' dì nostri l'istituzione dei giurati; ma questi non danno quel frutto di giustizia che forse porgevano i buoni uomini a' tèmpi di Rotari e da poi. E per non dilungarci ad altre cose, che dire dei giudizi di onore o duelli che tutti i giorni udiamo farsi tra noi? Miei cari giovanetti, i duelli non sono altro che una continuazione {182 [182]} di quelle lotte, che vi ricordai or ora, essere state solite farsi dai campioni dei Longobardi per sostenere l'onore delle donne e dei deboli. La Chiesa fin d'allora non cessò dal condannare i giudizi di Dio, e contro i duellanti colla Chiesa le civili nazioni protestarono sempre. Sciagurato chi pensa di aver Dio in aiuto nello esporre volontariamente la propria persona al pericolo della morte; insensato chi facendosi giudice e ad un tempo tenta colla spada o con una rivoltella in mano di decidere della propria innocenza!
A Rotari succedettero altri re che non nomino, perchè nissuno fece illustri imprese, ma tutti pigri ed oziosi attesero solo a godere, trascurando intanto gli affari dello Stato. Così fu sino a Liutprando che regnò sopra i Longobardi per lo spazio di 32 anni.
IX. Regno di Liutprando. (Dal 712 al 744).
Che se i re Longobardi ponevano in non cale le cose d'Italia, più ancora le trasandavano gli imperatori d'Oriente. Quanto più essi occupavansi per combattere i Persiani, i Saraceni ed altri nemici di quelle provincie, tanto meno badavano agli affari d'Occidente. Quella parte d'Italia che loro ancora ubbidiva lasciavasi governare da prefetti, che vi si mandavano; anzi avvenne che mòrto un prefetto non si davano neppur pensiero di nominargli il successore. Così che gli italiani cominciarono a nominarseli da se stessi.
Per la non curanza dei Greci e dei Longobardi accadde che parecchi si crearono duchi indipendenti nelle provincie da loro governate, e che altre città cominciarono a non più ubbidire nè agli uni, nè agli altri. Fra queste città si novera Roma, la quale era bensì sottomessa a un governatore greco, ma questi nè per dignità, nè per ricchezze, nè per soccorsi poteva competere col sommo Pontefice. In Roma il papa sovrastava per la sua dignità spirituale, e pei continui benefizi che compartiva, al popolo. Egli lo aveva alcune {183 [183]} volte felicemente difeso dai barbari; egli procurava che a Roma affluissero le elemosine del mondo cristiano, e le spendeva in opere pubbliche ed in soccorso dei poveri. Laonde la città tenendo in poco conto il rappresentante del Greco imperatore, si consultava e si reggeva secondo il parere del supremo Gerarca suo vero benefattore. Il governatore imperiale avea il nome, il Papa aveva la realtà del comando.
Liutprando cominciò il suo regno coli'aggiungere nuove leggi al codice Longobardo; e Gregorio II il suo pontificato col provvedere alla sicurezza di Roma, rifacendo a sue spese una.parte delle diroccate mura della città.
Questo periodo di tempo è assai celebre per la nuova eresia introdotta da Leone Isaurico imperatore di Oriente. Creatosi giudice delle cose di fede, egli pubblicò un editto, in cui ordinava quindi innanzi fossero vietate, e si dovessero togliere tutte le sacre immagini esistenti nelle terre soggette all'impero. Per questa eresia egli ebbe il soprannome di Iconoclasta che vale spezzatore di immagini.
All'esecuzione di queir editto si oppose in Roma il pontefice Gregorio, il quale scrisse anche lettere risentite all'imperatore; ma questi rispose insistendo con più calore, e minacciando di deporlo dal trono pontificale. Allora Gregorio indirizzò ai cristiani una lettera, con cui comandava di conservare le immagini divote, e di opporsi all'empio disegno del sovrano. Sdegnato per questa opposizione l' imperatore spedì più e più volte sicari a Roma, incaricati di uccidere Gregorio; ma il popolo come seppe insidiata la vita di lui, si sollevò ed uccise alcuni dei sicari. Inviperito vie più Leone di queste cose ordina ai pochi soldati imperiali esistenti in Italia, di recarsi a Roma per arrestare il Papa; ma il popolo romano e di altre provincie italiane si armano e pongono in fuga gl'imperiali.
Nuove forze raccoglie Esilarato, duca di Napoli, e si avvia contra Roma, ed il popolo lo sconfigge; prende Esilarato col figliuolo e li mette a morte; poi caccia di Roma il governatore imperiale. Gl'Italiani si erano accesi di tanto sdegno contro Leone, che già disegnavano di nominarsi un altro imperatore, ma Gregorio vi si oppose.
Di quest'odio universale contro ai Greci si valse Liutprando {184 [184]} per assalire molte città e terre dipendenti dall'imperatore, e già aveva incominciato ad occupare pur quelle del ducato romano, quando Gregorio prese a proteggere queste ultime. Liutprando le donò al pontefice, affinchè non più ricadessero sotto al dominio imperiale.
Leone accortosi ornai che così andava perdendo quella parte d'Italia, che era sua, offrì a Liutprando molte castella e terra a condizione che egli movesse contra Roma per ristabilirvi il dominio imperiale. Già si appressava alla città il re Longobardo, quando Gregorio uscì ad incontrarlo, e gli mostro il grave suo torto. Alle paterne ammonizioni del Pontefice rimase Liutprando così commosso, che gli si gittò ai piedi, invocando perdono; poi solo entrò in Roma e sopra il sepolcro del principe degli Apostoli depose il manto reale e quanto aveva di prezioso, facendone dono a san Pietro.
Poco appresso morì Gregorio II, e gli succedette Gregorio III, che in un concilio di 93 vescovi scomunicò gli Iconoclasti. Di lì a poco passò ancora di questa vita Leone Isaurico, che ebbe per successore Costantino Copronimo suo figliuolo, peggiore del padre. Ad istigazione di lui si mosse nuovamente Liutprando contro di Roma e contro alle terre da essa dipendenti. Allora il Pontefice vedendosi quinci assalito dai Longobardi, e quindi insidiato dagli imperiali, chiese soccorso a Carlo Martello re dei Franchi. Costoro erano quel popolo che, come già vi dissi, venuto dalla Germania si era impadronito della Gallia. L'autorità di Carlo Martello bastò perchè il re Longobardo rinunziasse alla sua folle impresa; se non che Liutprando dovette poco stante rinunziare eziandio alla vita.
Ma prima di esporvi i fatti di Carlo Martello e dei suoi successori venuti in Italia, stimo bene di darvi un cenno del dominio temporale dei Papi, che si andò formando e consolidando in quei tempi all'Italia tanto calamitosi. {185 [185]}
X. Dei beni temporali della chiesa e del dominio del sommo pontefice. (Dal 700 al 750).
Cari giovani, voi avrete udito sovente a parlare ora in biasimo, ed ora in lode dei beni temporali della Chiesa e del dominio del sommo Pontefice; gioverà quindi darvene una giusta idea.
La Chiesa è la società dei credenti, governata dai propri pastori sotto la direzione del sommo Pontefice. L'interrogare se questa società abbia diritto di sussistere e vivere, sarebbe lo stesso come interrogare se la verità abbia il diritto di esistere e diffondersi sulla terra. Ora per vivere è necessario il pane quotidiano, che ogni dì domandiamo al Signore; ed a questo pane hanno diritto quei pastori, che si consacrano al bene delle anime.
Donde mai la Chiesa traeva questo pane?
Dalle oblazioni spontanee dei fedeli, i quali erano padroni d'impiegare le loro sostanze come volevano. Nei primi tempi iella Chiesa si facevano collette nelle chiese, ed i cristiani offerivano i loro doni agli Apostoli ed ai loro successori. L'uffizio di distribuire queste oblazioni fu commesso ai diaconi, i quali così provvedevano anche alle vedove, agli orfani e generalmente ai poveri. Se si offerivano beni stabili, questi si solevano vendere sì per provvedere ai bisogni urgenti, e sì perchè non fossero involati dal governo pagano, il quale non solo i beni, ma la vita istessa toglieva ai cristiani.
Quando poi Costantino riconobbe la verità della religione cristiana, egli stesso, come buono e ricco fedele, faceva del proprio edificare sacri templi, li ornava, loro offerendo pei medesimi copiose limosino. Frattanto la Chiesa cominciò ad accettare in dono ed a ritenere beni stabili senza più venderli; perciocchè gli imperatori avendola conosciuta per vera ed esistente non le potevano negare quei diritti e quei mezzi di sussistere, che un governo non può negare ai privati; anzi sentirono il dovere di proteggerla e onorarla.
Ma la Chiesa deve inoltre essere libera, perciò indipendente {186 [186]} nell'esercizio de' suoi doveri spirituali. Chiamata a diffondere il Vangelo nel mondo, non può mutarlo per accondiscendere alle voglie dei principi terreni; ma deve predicarlo quale fu predicato da Cristo Signore. Gesù Cristo perchè lo annunziava con piena libertà fu posto in croce: gli Apostoli perchè lo bandivano con massima franchezza sostennero tutti il martirio, ed i Papi? di trentadue che si contano anteriori a Costantino, trentadue morirono per la fede, e martiri furono molti vescovi e molti sacerdoti. La Chiesa adunque ed il suo Capo supremo furono liberi ed indipendenti nei primi secoli, ma a costo della vita.
Viene Costantino, il quale riconosce la religione cristiana come discesa da Dio per la salvezza degli uomini; ad un tempo riconosce e venera san Silvestro come principe dei pastori e centro della religione, e supremo monarca del regno spirituale. Quindi per uno di quei consigli, che non si spiegano secondo la saviezza del mondo, trasporta il suo trono ai confini d'Europa nella città di Bisanzio, rinunziando alla splendida Roma per la povera Bisanzio, che volle denominata Costantinopoli. Ciò fatto niun imperatore ebbe dipoi residenza in Roma; e quando Teodosio creò due imperi, uno in Occidente, l'altro in Oriente, Milano e non più Roma fu la Capitale dell'impero occidentale. Vennero di poi i barbari a fondare un regno in Italia, ma ora risiedettero a Ravenna, ora a Pavia. Così che da Costantino in poi gli imperatori, i re e principi non vennero più a Roma se non come viaggiatori, e Roma divenne la sede del sommo Pontefice, la stanza del Capo dei cattolici. Ciò non ostante i Papi non possedevano ancora su Roma un dominio temporale, quale già ottenevano sopra le cinque città di Ancona, di Umana, di Pesaro, di Fano e di Rimini, dette la Pentapoli: tuttavia vi godevano di una sovranità morale, che presto si convertì in vero dominio.
Di fatto Leone Isaurico, come abbiam detto, imperatore d'Oriente, avendo dichiarato guerra alle sacre immagini, pretèndeva che Papa Gregorio II le spezzasse in Roma, sperdesse le reliquie dei martiri, e così negasse l'intercessione dei santi presso Dio. Gregorio risolutamente negò di ubbidire, e Leone perseverando nella perfidia mandò suoi ministri per deporre il Papa, mandò aicarii per ucciderlo a {187 [187]} tradimento, mandò soldatesche per arrestano a viva fona, e per ispogliare le chiese. Ed il popolo? il popolo romano sempre a difendere la persona e la vita di Gregorio, e colle armi respingere i soldati imperiali. Finalmente il senato ed il popolo si dichiararono indipendenti da un tiranno eretico e persecutore. Roma allora si diede al Papa, come molte altre città si erano già date ai pontefici, perchè sotto il loro governo trovavano pace, giustizia e soccorsi, dove che i principi laici riponevano il diritto nella spada. Pipino e Carlo Martello re di Francia, siccome presto sarò per raccontarvi, fecero anche dono ai papi di varie città, e Garlomagno solennemente riconobbe e confermò tutte quelle donazioni.
Per tal modo Roma fu liberata dal trono imperiale per dare luogo al solo trono pontificale; Roma divenne indipendente dall'impero e propria dei Pontefici, senza che questi la conquistassero coi raggiri o colle armi. Così i Pontefici acquistarono una città ed un territorio abbastanza grande per essere liberi ed indipendenti a casa loro, ma abbastanza piccolo da non divenire mai potentati tremendi come sono quelli della terra.
Gli antichi Greci colla loro autorità vengono a confermare le tre massime: che un oracolo religioso deve essere libero ne' suoi giudizi; che per essere libero abbisogna dell'indipendenza; e che per essere indipendente deve abitare in città propria ed in proprio territorio. Infatti l'oracolo di Delfo, rinomatissimo in tutta l'antichità, era cattolico presso i Greci, perchè da tutti venerato, e da tutte le parti andavasi a visitarlo e consultarlo: ma affinchè fosse libero i Greci vollero la città ed il contado di Delfo indipendenti dagli Stati della Grecia, e per conseguenza l'oracolo risiedesse in paese suo. A fine di ottenere vie meglio il loro intento vari Stati greci mantenevano a Delfo ambasciatori, che formavano il così detto Consiglio amfizionico, incaricato di tutelare l'indipendenza e il dominio dell'oracolo e della città contra le usurpazioni e gli insulti sì dei privati, sì delle repubbliche. Avvenendo un'usurpazione, il consiglio giudicava e condannava il reo; se questi avesse ricusato di ubbidire, era scomunicato, e tutti lo potevano ammazzare. Ove poi contro al reo bisognasse venire alle armi, il consiglio invitava gli Stati federali, si faceva la guerra, e la guerra si chiamava sacra. {188 [188]}
Come l'oracolo religioso era cosa cattolica, ossia universale per tutti i Greci, così la città, il contado, il tempio e le ricchezze di Delfo non appartenevano punto ai cittadini di Delfo, ma all'intera nazione greca. Così la pensavano i Greci rispetto all'oracolo di Delfo; e così voi, o giovani, pensare dovete rispetto all'oracolo cattolico del Vicario di Cristo.
Sebbene cosiffatto regno non sia molto vasto, tuttavia perchè ne è sovrano il romano Pontefice, capo di tutto il cat-tolicismo, le potenze cattoliche si diedero sempre massima premura per conservarlo; pel che si mantenne ognora florido, e come tale da ben 1200 anni si conserva.
Ai nostri giorni a taluno pare sia cosa incompatibile che il Papa, capo della religione, sia anche re temporale. Ciò sembrerà a voi ben altrimenti, se richiamerete alla memoria come gli antichi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Melchisedecco, Eli, Samuele e moltissimi altri siano stati capi della religione e principi ad un tempo delle cose temporali.
D'altra parte tanto l'autorità spirituale, quanto l'autorità temporale vengono ambedue da Dio. Perchè dunque non si potranno conciliare insieme? tanto più che ogni potere temporale per camminare con giustizia deve regolarsi in modo da non fare cosa alcuna contra il potere spirituale stabilito da Dio?
Che se per una supposizione in questi tempi il romano Pontefice non fosse re, ed egli come capo del cattolicismo dovesse comandare qualche cosa contraria ai voleri di quel sovrano, di cui fosse suddito, potrebbe forse aver libera relazione colle potenze cattoliche di tutto il mondo, quando (come per disavventura potrebbe accadere) restasse suddito di un re eretico o persecutore del cristianesimo?
Riguardo poi ai beni temporali della Chiesa ed al dominio temporale del sommo Pontefice, noi possiamo fare alcuni riflessi, che vi prego di non dimenticare. E primieramente è di vera necessità che il Papa dimori in un paese libero ed indipendente, affinchè possa liberamente giudicare le cose di religione. 2° Questo dominio temporale non solamente appartiene ai sudditi degli stati romani, ma si può chiamare proprietà di tutti i cattolici, i quali come figli affezionati in ogni tempo concorsero, e devono tuttora concorrere per conservare la libertà e le sostanze al capo del cristianesimo. {189 [189]} 3° Nella stessa guisa poi che un figliuolo deve amare l'onore di suo padre, rispettarne e farne rispettare le sostanze; così noi cattolici, tutti figliuoli del medesimo Iddio, nati ed educati nella medesima religione, tutti dobbiamo professare il medesimo interesse per la libertà, per l'onore, per la gloria e per le sostanze del nostro padre spirituale, che è il romano Pontefice, Vicario di Gesù Cristo.
Nel progresso di questa storia non mancherò di accennarvi le principali vicende, a cui i beni della Chiesa ed il dominio temporale del sommo Pontefice andarono soggetti.
XI. Contese dei re longobardi coi papi e ricorso di questi ai franchi. (Dal 744 al 773).
Gregorio III, Leone Iconaclasta e Carlo Martello morirono nell'anno 741 e Liutprando nel 744. Il re franco nel prendere parte alle cose degli Italiani aveva conchiuso con Liutprando una tregua di venti anni. A costui succedette il duca del Friuli, di nome Rachis, il quale nel 749 ruppe la tregua, e minacciò nuove vessazioni in Italia; sicchè il papa Zaccaria andò a rimproverargli la ingiustizia del suo procedere, esponendogli nello stesso tempo la tregua fatta col suo antecessore, e che egli aveva violata. Quel re, tuttochè barbaro, depose il suo furore, e sinceramente pentito del male fatto, rinunziò al trono e si rese monaco.
Astolfo, uomo ambizioso, capace di cominciare le cose, non di continuarle, gli fu successore. Ruppe di nuovo la tregua giurata dai suoi predecessori, andò ad impadronirsi di Ravenna, e assali la stessa città di Roma. Di bel nuovo il romano Pontefice Stefano II va ad incontrarlo alle porte della città, gli si avvicina e lo prega di ritirarsi; egli accondiscende e giura altra tregua che doveva nuovamente durare vent'anni.
Ma chi comincia a mentire una volta, mentisce poi ad ogni occasione. Il re dei Longobardi violando la data parola non mancò di assalire Roma di bel nuovo, e dopo di averle cagionato gravi mali la sottopose ad un grave tributo. In {190 [190]} quei dolorosi frangenti il romano Pontefice non sapendo pia a chi rivolgersi per sollevare le calamità dei suoi popoli, ordinò pubbliche preghiere e digiuni universali. Egli intanto, nudi i piedi, con un grande crocifisso sopra le spalle, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal clero e dal popolo asperso di cenere, rompendosi in lagrime e facendosi portare innanzi appesa ad una croce la carta della tregua infranta dal re. Quindi, senza che alcuno osasse insultarlo, col corteggio di molti prelati ed altri sacerdoti traversa l'Italia, e frettolosamente pel gran s. Bernardo si reca in Francia.
Pipino, figliuolo di Carlo Martello, era succeduto al padre nel governo dei Franchi, e dimoravasi in campagna, quando gli venne annunziato essere giunto il Pontefice a visitarlo. Pipino alla vista di un Papa coperto di cenere e di cilicio, che umilmente lo scongiura di scendere in aiuto degli oppressi Italiani, tutto commosso lo abbraccia, lo bacia e gli pre-mette efficace soccorso.
XII. Pipino e Carlo Magno in Italia. Caduta del regno longobardo.
Pipino, radunato prestamente un numeroso esercito, s'incamminò verso l'Italia, i cui confini allora giungevano fino a quella linea, ove è al presente la Sacra di s. Michele. Quivi trovò chiusa la via da due ordini di trinceramenti, detti le Chiuse; donde il nome di Chiusa, che un paesello colà vicino tuttavia conserva. Da una parte vi erano i Longobardi, che si estendevano nelle pianure di Torino; dall'altra i Franchi, accampati nella gola che tende verso Susa. Il re Astolfo confidando nel suo coraggio pensò di assalire i nemici per allontanarli dai loro trinceramenti; ma ne fu respinto per modo, che i Franchi oltrepassati i trinceramenti dei Longobardi si misero ad inseguire i nemici col massimo ardore e li costrinsero a indietreggiare per andarsi a rinserrare eoi loro re in Pavia.
Astolfo ridotto a strettezze domandò pace al re dei Franchi con promessa di restituire le città prèse al Papa, e di risarcirlo {191 [191]} dei danni, che i suoi sudditi avevano patito. Pipino accondiscese alle proposte di Astolfo, e persuaso della sincerità di lui, ricondusse in Francia il suo esercito.
Ma Astolfo pareva nata per rovinare l'Italia e compiere la caduta del trono dei Longobardi. Egli mentitore e spergiuro violò le promesse fatte al re di Francia; e Pipino calò di nuovo sopra l'Italia e sottopose Astolfo a dure condizioni, una delle quali fu di sborsargli una grossa somma di danaro per ricompensarlo delle spese di guerra. Se non che i giorni di Astolfo volgevano al fine; andando un dì alla caccia cadde di cavallo, e la caduta fu la cagione che tosto morisse, lasciando un trono disonorato e vacillante. I Longobardi elessero per successore un loro capitano per nome Desiderio, il quale eziandio continuò a molestare i Papi e gli altri principi d'Italia, che da lui non dipendevano; la qual cosa diede motivo ad uno dei figliuoli di Pipino, detto Carlomagno, di mettere in piedi due poderosi eserciti e spedirli in Italia. Fece marciare l'uno pel gran s. Bernardo, l'altro guidato da lui stesso per la solita via del Moncenisio e della Novalesa. Giunto tra il monte Caprario e il Pirchiriano, oggidì Sacra di s. Michele, incontrò il re Desiderio, e suo figliuolo con agguerrito esercito e difeso da alte fortificazioni innalzate ad impedirgli il cammino.
Quivi si combattè prodemente da ambe le parti. Adelchi (era questo il nome del' figliuolo di Desiderio) con una mazza in mano correva a cavallo in mezzo ai nemici, facendone terribile strage. Dicesi che Carlomagno già volesse trattare di accordi e ritornarsene indietro, se per buona ventura non gli fosse stato additato un luogo per cui passare, verso Giaveno, non difeso dai nemici.
In questa guisa Carlomagno potè prendere i Longobardi alle spalle, sbaragliarli e metterli in fuga. Tuttavia costoro si raccolsero presso Pavia, e vennero ad una seconda decisiva battaglia, l'esito della quale fu una compiuta vittoria pei Franchi. Vuoisi che dal gran macello fattosi colà di Longobardi quel luogo sia di poi stato denominato Mortara, come a dire: mortis ara, monte di morte.
Dopo questi fatti Desiderio e suo figliuolo tentarono ancora alcuni sforzi, ma tutti invano: lo stesso Desiderio e sua moglie caddero nelle mani di Garlomagno, il quale usò {192 [192]} loro molti riguardi, contentandosi di mandarli in Francia, dove finirono i loro giorni in opere di pietà.
Così cadde il regno dei Longobardi, dopo di aver dorato circa 305 anni da Alboino a Desiderio; esso ebbe principio da un barbaro, che lo acquistò con prodezze di valore, e fini con poca gloria. Laonde possiamo dire, che la mala fede e gli spergiuri di quei sovrani, e la loro avversione ai romani Pontefici ne cagionarono la rovina.
Credo bene di farvi qui notare come i Papi nel ricorrere ai Franchi per aiuto non chiamarono stranieri o nemici in Italia, come taluni vorrebbero far credere, ma essendo i Re di quella nazione conosciuti per veri cattolici, i quali si gloriavano appunto del titolo di difensori della Chiesa, furono invitati a venire in aiuto del Capo dei cristiani e di tutti gli Italiani; di venire cioè a liberare l'Italia dalle mani dei Longobardi, che erano barbari, forestieri ed oppressori dei Papi e dell'Italia. Per questi fatti i Papi si devono piuttosto appellare benefattori della religione e di tutti gli Italiani.
XIII. Regno di Carlomagno o il secondo impero d'occidente. Riordinamento d' Italia. (Dal 774 all'814).
La caduta dei Longobardi e la venuta di Garlomagno in Italia, miei cari giovani/è una delle più importanti epoche della storia; perchè con essa venne a stabilirsi un nuovo impero d'Occidente. Sarà facile il richiamarvi alla memoria come dalla caduta del Romano impero in Occidente, avvenuta nel 476, la povera Italia fosse continuamente vittima di nazioni barbare, le quali a null'altro attendevano che a signoreggiarla e predarla. Mentre una quantità di quei barbari invadeva l'Italia, altri si diffondevano in diverse parti meridionali di Europa; così che quei paesi, i quali facevano anticamente parte del Romano impero, erano tutti passati l'uno dopo l'altro sotto il dominio di alcuna delle nazioni barbare, che lo avevano invaso.
Perciò l'Italia era quasi tutta occupata dai Longobardi, la Gallia dai Franchi, la Spagna dai Visigoti e poi dagli Arabi: tutti popoli barbari, ma forti guerrieri, che studiavano {193 [193]} di fondare stabili regni nei paesi conquistati colla forza. Eranvi eziandio altri popoli del pari barbari e feroci, che minacciavano di uscire dalla Germania per invadere quei medesimi paesi, che i loro antichi fratelli avevano già prima conquistati.
Da ciò voi potete facilmente comprendere come l'Europa occidentale si trovasse nella più trista condizione, quando Carlomagno, di cui vi ho poco fa parlato, figliuolo di Pipino re dei Franchi, fu dalla Provvidenza suscitato a ristabilire l' ordine in questi paesi. Questo grande uomo era degno di far cangiare l'aspetto al mondo, ed il suo regno, che fu lungo e glorioso, è certo il più ragguardevole di tutte le signorie del medio-evo; poichè in esso presero principio molti di quegli Stati, che vediamo presentemente in Europa. Dopo le gloriose vittorie riportate sopra i Longobardi egli restituì al Papa tutte le città e tutti i paesi che gli avevano tolto i barbari, ed essendosi recato a Pavia, prese il titolo di re dei Franchi e d'Italia, ponendosi sul capo la corona di ferro, che aveva servito ad incoronare i re Longobardi.
Carlomagno fece anche varie mutazioni riguardo al governo civile dell'Italia. Abolì molti ducati, li divise in distretti, e pose dei conti a governarli coll'autorità che avevano i duchi. Le contee di frontiera, perchè potessero servire di difesa, furono da Carlomagno stabilite più vaste e più potenti. Esse denominaronsi Marche, e i conti che le governavano furono detti marchesi o marchioni.
Questo nuovo ordine di cose ebbe il nome di vassallaggio o feudalità, vale a dire fede data, perchè era strettissimo dovere di ciascuno di mantenersi fedele agli obblighi scambievoli. Così le città, i villaggi, i castelli d'Italia furono divisi fra una quantità di signori, i quali si occupavano a mantenere la tranquillità tra i mercanti e coltivatori dei loro dominii. Erano essi denominati padroni, e davasi il nome di servi ai loro sudditi. Il conte o il duca, potenti abbastanza, perchè altri signori andassero ad implorare il loro soccorso, portavano il titolo di sovrano o superiore, e gli altri a lui sottomessi dicevansi vassalli, vale a dire beneficati.
Quando un vassallo andava a rendere omaggio al suo signore, cioè ad obbligarsi a servirlo e ad aiutarlo, secondo il costume feudale, piegava il ginocchio dinanzi a lui in {194 [194]} segno di sommissione, e poneva le mani nelle sue per far conoscere che egli rinunziava ad usare di sue forze senza la permissione di lui.
Se non che, mentre Carlomagno aggiungeva quasi tutta l'Italia al suo regno ed era intento a rendere stabile la potenza dei Papi, altri nemici più formidabili dei Longobardi tentavano di scacciare i Franchi dalla Germania, di cui erano antichi abitatori. Erano questi i Sassoni, dai quali fu poi detta Sassonia quella regione della Germania, che oggidì si appella ancora col medesimo nome. Questi Sassoni sotto la condotta del terribile loro capo Vitichindo avevano già devastato parecchie provincie della Francia, e specialmente quelle poste sulle sponde del Reno. Essi avevano fino allora ostinatamente rifiutato d'istruirsi nella religione cristiana, anzi avevano fatto morire in mezzo ai supplizi diversi coraggiosi missionari, che avevano avuto ardire d'inoltrarsi fra le loro selvagge tribù per predicare il Vangelo. Carlomagno marciò contro di essi, facendo loro toccare molte sanguinose rotte in varii scontri, in cui egli fece prodezze da eroe; e dopo lunga ed ostinata lotta riuscì a soggiogarli del tutto. Vinti, e finalmente illuminati dalla luce delle verità del Vangelo, essi ricevettero il battesimo.
La stessa fortuna che aveva favorito il figliuolo di Pipino nelle sue spedizioni contra i Sassoni, non l'abbandonò contro agli altri popoli della Germania, i quali tutti furono superati da lui, e forzati a lasciarsi governar da ufficiali che egli mandava a fare le sue veci nei vari paesi. Le nazioni Slave, popoli anche della Germania, avevano osato minacciare l'Italia, mentre Carlomagno era occupato a combattere i Sassoni; ma soggiacquero alla medesima sorte, e furono costretti a venerare la fede cristiana e a rispettare la potenza di Carlomagno.
Questo imperatore, giunto ad un'età avanzata, pareva all'apice della gloria e della potenza, poichè regnava ad un tempo sulla Germania fino al fiume Elba; su tutta la Gallia, sopra grande parte della Spagna, su parecchie isole del Mediterraneo e sull'Italia. Mancavagli soltanto il titolo d'imperatore, che in quel tempo riguardavasi come superiore a quello di tutti i re della terra; tanto era ancora viva la memoria dogli imperatori romani, che furono per lungo tempo {195 [195]} i padroni del mondo. Questa gloria doveva toccare eziandio a Carlomagno. Chiamato egli in Italia da Leone III sommo Pontefice per ordinare alcuni affari, che riguardavano il bene della Chiesa e la pace della penisola, egli si arrese prontamente all'invito, e ridottala in pace andò a Roma.
Era l'anno 800 ed il giorno di Natale, che, come sapete, è una delle più grandi solennità della Chiesa cattolica. Il Papa celebrava la messa, e Carlomagno vi assisteva co' due suoi figliuoli Carlo e Pipino. Finita la sacra funzione il Papa si volse al re, gli pose sul capo la corona imperiale, gridando ad alta voce: «A Carlo piissimo, Augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria.» A tali parole il popolo e i sacerdoti franchi e romani, che empievano la chiesa, lo salutarono fra mille applausi col titolo d'imperatore. Da quel punto i suoi vasti stati presero il nome d'impero d'Occidente, già stato abolito dal tempo, in cui Odoacre, vinto Romolo Angustolo, erasi fatto re d'Italia.
D'allora in poi il nome di Carlomagno fu conosciuto e venerato nei più lontani paesi. Gli stessi Greci, che a buon diritto riguardavano i popoli dell'Europa come barbari, cominciarono a parlarne con rispetto. L'imperatrice Irene, che regnava a Costantinopoli, fu sollecita di stringere alleanza con lui. I popoli barbari, gli arabi ed altre nazioni andavano a gara per dare segni di stima e di venerazione al novello imperatore d'Occidente.
Carlomagno, giunto al colmo della gloria, amato dai suoi sudditi, morì nell'814 in età d'anni 72, dopo di averne regnato 47 e 14 come imperatore. Egli fu ammirabile in tutto: rimunerava la virtù, puniva il vizio qualora ne fosse mestieri. Era intrepido in guerra. Amava la religione, e nelle battaglie più pericolose faceva fare grandi preghiere, e spesso avveniva che i cappellani dell'esercito passassero l'intera notte per udire le confessioni dei soldati, che il seguente giorno dovevano venire alle mani coi nemici. Era semplice di costumi, sobrio, instancabile; dormiva poco; in tempo di mensa facevasi leggere le storie antiche, oppure un libro di s. Agostino, intitolato la Città di Dio. Egli pose ogni cura per ravvivare fra noi le arti, le scienze, la civiltà, la virtù. Tutte queste belle qualità gli procurarono il soprannome di Grande, che la storia?li conservò in tutti i secoli. {196 [196]}
XIV. Scompartimento dell'Italia. - Origine e prime glorie di Venezia. - I successori di Carlomagno. (Dall' 814 all' 843).
Carlomagno fino dall'806, sentendo aggravarsi dal peso degli tnni, aveva voluto provvedere all'avvenire col dividere fra i tre suoi figliuoli la sua vasta monarchia. A Carlo suo primogenito assegnò la Francia settentrionale e quasi tutta la Germania. A Lodovico il più giovine diede la Francia meridionale e quanto possedeva nella Spagna, e la valle di Susa. A Pipino lasciò l'Italia, quasi tutta la Baviera ed una porzione della Germania. Se non che Pipino moriva nell'809, lasciando un solo figliuolo per nome Bernardo, il quale gli succedette nel regno d'Italia. Nell'anno appresso moriva anche Carlo senza prole. Così nell' 814, quando morì Carlomagno, non rimaneva più della sua discendenza che Lodovico e Bernardo. Il primo, avendo ereditato la parte di Carlo, rimase il vero imperatore; Bernardo era re d'Italia, ma vassallo, ovvero dipendente dell'imperatore.
L'Italia allora abbracciava cinque Stati:
Il dominio dei Greci, che comprendeva la Sardegna, la Sicilia ed il paese che dalla Calabria inferiore si stende sino al fine dell'Italia.
Lo stalo della Chiesa, che comprendeva presso a poco quoi medesimi paesi e quelle stesse città d'oggidì.
Il ducato di Benevento, che abbracciava quasi tutta l'Italia meridionale, eccetto i paesi posseduti dai Greci.
Il resto della penisola, che formava il regno d'Italia, apparteneva a Bernardo.
E finalmente la piccola repubblica di Venezia. Questa città composta di molte isolette si trova quasi nella estremità settentrionale del mare Adriatico verso ponente presso alla foce di parecchi fiumi. Da principio venne abitata dai Veneti, che le diedero il nome; in appresso stabilironvi la loro dimora gran numero d'Italiani, che, siccome vi ho altrove raccontato, cercavano di sottrarsi alle invasioni dei barbari. Si elessero pertanto un doge, ossia duca, che li governasse. Mentre Pipino, figliuolo di Carlomagno, regnava in Italia, tentò d'impadronirsi di Venezia, ed a questo fine pose in {197 [197]} piedi un potente esercito per terra o per mare. Dopo aver riportate alcune vittorie, inseguendo i Veneziani si lasciò prendere in certi stretti canali, in cui i suoi grandi e numerosi vascelli non potendo più fare liberamente i loro movimenti, venne pienamente sconfitto.
Questa repubblica, che da umili principii andava ognor crescendo in potenza, poco dopo si trovò in istato da poter eziandio sconfiggere gli Arabi per mare. Tale è l'origine e tali sono le prime glorie di Venezia.
Intanto, mentre Bernardo regnava in Italia, Lodovico, che per la sua bontà (altri dicono dabbenaggine) era soprannominato Bonario, aveva nella dieta, ovvero adunanza generale dei suoi Stati, nell'anno 817, dichiarato imperatore e collega nell'impero Lottano, suo figliuolo primogenito. Aveva anche mandato gli altri due suoi figliuoli Pipino e Lodovico, l'uno in Aquitania, l'altro in Baviera, che erano i regni destinati per loro porzione. Ora, siccome l'essere imperatore portava superiorità di comando e di autorità sopra tutti i i re, perciò Bernardo se l'ebbe a male, e disse che a sè, siccome figliuolo del secondogenito di Garlomagno, sarebbe toccato il grado d'imperatore, e non a Lodovico il Bonario, figliuolo terzogenito, e tanto meno a Lottario. Fisso in questo ambizioso pensiero, mise in piedi un esercito e si volse coraggiosamente contro ai suoi rivali; ma abbandonato da quegli stessi, che lo avevano eccitato alla rivolta, cadde nelle mani del suo zio Lodovico, il quale fecelo abbacinare, cioè gli fece cavare gli occhi; di modo che l'infelice Bernardo morì fra gli spasimi di quel barbaro supplizio.
Di tanto misfatto Lodovico provò i più vivi rimorsi, e cercò di espiarlo con molti digiuni e con molte penitenze.
Lottario era il quarto re d'Italia, di stirpe franca, dopo Garlomagno, Pipino e Bernardo, e poichè era primogenito di Lodovico ricevette il titolo d'imperatore; gli altri due fratelli presero solamente quello di re. Lottario credendosi potente al pari di suo avo Carlomagno, perciocchè portava il medesimo titolo, ordinò ai suoi fratelli di ubbidire a lui come legittimo padrone. Ma essi sdegnati, che egli osasse comandar loro con tanta alterigia, fecero grande leva di genti, e gli mandarono a dire che fra pochi giorni si sarebbero appellati al giudizio di Dio. {198 [198]}
Voi di leggeri comprenderete che dire volessero i fratelli di Lottario con questa ambasciata, solo che ricordiate quanto aopra si è accennato sulle prove giudiziarie dei Longobardi.
Appellarsi al giudizio di Dio in quei tempi voleva dire ricorrere alla forza delle armi, perchè si credeva che in battaglia la Provvidenza non mancasse di dare la vittoria a colui, che avesse avuto causa giusta. La qual cosa sebbene Iddio possa fare, come fece tante volte, tuttavia non suole Iddio operare miracoli senza bisogno; e per via ordinaria la vittoria appartiene a chi ha maggior numero di soldati, od un esercito meglio agguerrito.
Comunque ciò sia, questa volta la Provvidenza favori i fratelli di Lottario: perciocchè appiccatasi una sanguinosa battaglia, l'imperatore rimase pienamente sconfitto. Lottario allora stimò bene di lasciare tranquilli i suoi fratelli, e si fece un trattato di pace, detto trattato di Verdun, perchè conchiuso in una città di Francia, che ha questo nome. (Anno 843).
XV. I saraceni in Italia. - Sacrilegio di Lottario. Fine dei carolingi in Italia. (Dall'828 all'888).
Nell'828, mentre regnava Lottario, alcuni popoli dell'Arabia, noti sotto il nome di Saraceni o masnadieri, vennero in Italia a farle molto guasto. Costoro, dopochè Maometto ebbe propagata la sua religione, si erano sparsi in varie parti del mondo e in grande numero nell'Africa, sulle coste del Mediterraneo. Passato lo stretto di Gibilterra, impadronitisi della Spagna, avevano già occupata una parte della Francia, e forse avrebbero invasa tutta l'Europa, se Carlo Martello con forte esercito non li avesse vinti compiutamente a Poitiers nel 732, costringendoli a ritornare in Ispagna. Tuttavia essi trovarono modo di penetrare in Italia, ed ecco il modo con cui furono invitati a venire.
Nel tempo di cui parliamo la Sicilia era ancora governata dai Greci. Ora avvenne che un giovine di nome Eufemio per la sua scostumatezza meritò di essere condannato a gravi {199 [199]} pene; ma che? un delitto conduce ad un altro. Egli invece di emendarsi raccoglie intorno a sè un buon numero di scapestrati, assalta il governatore, lo uccide, e per liberarsi dalla pubblica esecrazione fugge nell'Africa. Per colmo di sciagura invita i saraceni a venire in Sicilia, promettendo loro tesori ed aiuto. Conduce di fatto gli Arabi in Sicilia, ma invece di poter assassinare la sua patria, fu egli stesso ucciso da un assassino sul principio dei suoi trionfi. Morto Eufemio, i saraceni continuarono la guerra per proprio conto, e in poco tèmpo si impadronirono di tutta la Sicilia. Invitati dal duca di Benevento a ritornare nei loro paesi, non gli diedero ascolto; anzi presero le armi e recarono il saccheggio e la strage fin sotto Roma, senza che cosa sacra o profana potesse sfuggire alle lóro rapine.
Temendo il Potefice quei barbari giungessero a saccheggiare la basilica dei santi Pietro e Paolo, fece cingere di forti mura il sobborgo detto Vaticano, per metterlo in sicuro. Il novello quartiere così fortificato servì di potente difesa contro ai barbari, e fu unito all'antica Roma sotto al nome di città Leonina, vale a dire borgo di Leone dal pontefice Leone IV, che ne fu il fondatore.
Mentre i Saraceni si spandevano in vari paesi d'Italia, Lottario occupavasi di cose affatto indegne di un imperatore. La crapola e la disonestà lo avevano condotto ad eccessi così gravi, che meritò di essere dal romano Pontefice scomunicato; vale a dire condannato a non poter più essere considerato fra i fedeli cristiani. L'imperatore, che temeva la conseguenza della scomunica, si recò a Roma per riceverne dal Papa l'assoluzione, dimostrandosi disposto a fare la debita penitenza. Ma Lottario fingeva; perciò aggiunse il più enorme sacrilegio ai delitti che aveva già commesso. Chiese di fare la comunione dal Papa, e gli fu concesso. Al giorno stabilito, sul terminare della messa, il Pontefice pigliando in mano il corpo di Gesù Cristo e volgendosi al re con voce alta e distinta, gli disse: «Principe, se voi siete veramente pentito e avete ferma risoluzione di non più commettere i delitti per cui foste scomunicato, avvicinatevi pieno di confidenza e ricevete il Sacramento della vita eterna. Se poi la vostra penitenza non è sincera, non siate così temerario di ricevere il Corpo e il Sangue del {200 [200]} nostro Signore, e di ricevere cosi la condanna contro di voi stesso.» Le medesime parole furono indirizzate a tutti quelli, che accompagnavano l'imperatore.
L'orrore del sacrilegio ne fece ritirare parecchi; con tutto ciò molti si comunicarono sull'esempio di Lottario, il quale desiderava solo di fare presto ritorno nella sua capitale per commettere nuovi disordini. Ma giunto appena a Lucca, città di Toscana, egli e quasi tutto il suo corteggio furono presi da una febbre maligna, la quale produceva gli effetti più strani e più spaventevoli. I capelli, le unghie, la pelle medesima cadevano loro, mentre un fuoco interno li divorava. La maggior parte morirono sotto agli occhi del re, il quale tuttavia non tralasciò di continuare il suo viaggio fino alla città di Piacenza, dove straziato da acutissimi dolori cessò di vivere, senza dare segno di pentimento. Si notò che quelli fra' suoi, i quali avevano con lui profanato il corpo del Signore, perirono nella guisa medesima. Coloro invece che si erano ritirati dalla santa mensa furono i soli che camparono; prova sicura della vendetta del Cielo (V. Fleury, Bercastel, Henrion).
A Lottario succedettero due re suoi parenti: Lodovico e Carlo, soprannominato il Calvo; a costui tenne dietro Carlomanno, dipoi un altro Carlo, detto il Grosso. Questi fu l'ultimo imperatore e re d'Italia, discendente da Carlomagno; ma era piuttosto capace di rovinare un regno, anzi che governarlo: perciò popoli e signori tutti si rivolsero contro di lui e lo deposero l'anno 888. Così finiva la dominazione franca in Italia, dopo di aver durato cento quindici anni, da che Carlomagno l'aveva tolta dalle mani dei Longobardi.
XVI. I due berengarii. - l'Italia sotto ai re di Germania. (Dall'888 al 961).
Dopo lo scioglimento dell'impero d'Occidente nacquero vari regni, alcuni piccoli, altri più grandi. Mentre questi stati si andavano formando cogli avanzi dell'impero dei Franchi, ciascun regno dividevasi in piccoli stati, col titolo di ducati o di contee, secondochè appartenevano a duchi o a conti. Da {201 [201]} principio cotesti signori altro non erano che antichi capi guerrieri, cui gli imperatori od i re avevano affidato il governo delle provincie, di cui col loro consenso eransi resi possessori. Talora altresì erano vescovi od abati dei monasteri che a nome della Chiesa possedevano le terre e le case che i principi e gli uomini potenti del secolo solevano donare in limosina alle chiese ed alle abazie per lo più in espiazione dei loro peccati. Ma in breve tempo tutti i possessori di un piccolo castello, fabbricato sopra una collina, sormontato da torricelle e circondato da grosse muraglie o da un fosso profondo, divennero i padroni delle campagne, e si riguardarono come i veri sovrani dei paesi circostanti. Un'abitazione di questo genere bastava a rendere un signore formidabile per uno spazio di ben dieci leghe all'intorno; perchè di là egli poteva a suo talento far devastare dai suoi soldati tutte le vicine terre. Quindi i contadini per farsi amico un sì terribile vicino spesso andavano ad offerirgli umilmente una parte del loro podere, affinchè non fossero da lui molestati, ed impedisse che altri andasse a guastare loro le campagne od i raccolti, oppure incendiare loro la casa.
Laonde i contadini ignoranti ed incapaci di farsi capi d; squadra sottomettevansi facilmente al dominio di questi conti o marchesi o duchi, i quali possedevano qualche città, oppure castello difeso da uomini armati. In simile guisa i più deboli rivolgendosi ai più forti, che in caso di bisogno loro potevano dare soccorso, veniva sempre più confermandosi quel titolo di sovranità, introdotto da Carlomagno, che fu chiamato feudalismo e vassallaggio.
I costumi feudali andavansi radicando allora che avvenne un fatto assai calamitoso. Se vi ricordate ancora un popolo barbaro sotto il nome di Unni, condotto da Attila, aveva fatto grandi stragi nel romano impero. Ora nuove truppe di barbari della medesima origine, cui si dava allora il nome di Magiari o di Ungheresi, invasero la Germania e l'Italia, e vi commisero orribili guasti. Tutti gli sforzi per combatterli tornarono a vuoto; ed eransi già avanzati fino al Ticino, quando i sovrani ed i vassalli per arrestarli dovettero offerir loro ricchezze d'ogni specie. Quei barbari le accettarono, ma non cessarono dalle devastazioni. {202 [202]}
Oltre le scorrerie e le invasioni dei barbari erano in Italia gravi sconvolgimenti e guerre intestine. Mentre Carlomagno era ancora in vita aveva scelto alcuni generali, cui aveva affidata, come vi raccontai, la guardia degli stati posti sulla frontiera della Germania e dell'Italia col titolo di marchese, giacchè i paesi di frontiera si chiamano Marche. Ora i signori d'Italia, cioè i conti, marchesi e baroni per avere un capo che li guidasse contra i barbari e sedasse le discordie, che ognor più crescevano, si radunarono a Pavia, e nell'anno 888 elessero un parente di Carlomagno, chiamato Berengario, primo duca del Friuli, il quale prese il titolo di re e d'imperatore d'Italia. Ma appena coronato a Monza colla corona di ferro, fu gridato re un altro famoso guerriero di nome Guido, duca di Spoleto.
Tuttavia Berengario venne a battaglia contro agli Ungheri sulle rive del fiume Brenta, e riportò una grande vittoria. Pel che gli Ungheri, passato il fiume Adige, chiesero di poter ritornare nel loro paese; ma i baroni italiani, divenuti orgogliosi per la ottenuta vittoria, non acconsentirono che Berengario ciò permettesse. Gli Ungheri offerirono nuovamente di ritirarsi e di restituire tutta la preda e i prigionieri; ma non bastava. Allora eglino, preso consiglio dalla disperazione, si avventarono sopra gli Italiani, decisi di vincere o di rimanere trucidati in campo. Le truppe italiane colte all'impensata, mentre giacevano sepolte nel sonno e nella crapula, furono tagliate a pezzi. Da quel punto non fu più possibile tenere quei barbari lontani dai nostri paesi.
Gli Italiani avrebbero dovuto dimostrare la loro gratitudine verso di Berengario, che tanto erasi adoperato per liberarli dall'oppressione dei barbari; comportaronsi invece con lui nel modo più indegno. I signori gli si ribellarono contro e lo costrinsero a fuggire presso il re d'Alemagna, finchè nuove sciagure fecero che Berengario fosse richiamato al trono. Trattandosi del bene della sua patria egli dimenticò gli oltraggi ricevuti, ritornò in Italia, e combattè vittoriosamente contro ad un re francese, di nome Lodovico. A questo fatto d'armi seguirono sedici anni di pace; di poi ebbe a fare con un altro re eziandio francese, di nome Rodolfo, con cui venne a battaglia. Vinto, dovette per iscampo chiudersi in Verona, unica città rimastagli fedele. {203 [203]}
Berengario era ralente ed acc irto guerriero, di cuore molto generoso e assai propènso a perdonare qualsiasi ingiuria. In una battaglia contro Rodolfo un capo di quelli, che avevano congiurato contro di lui, cadde nelle mani dei Suoi soldati, i quali glielo condussero innanzi seminudo e tutto intriso del sangue dei suoi compatriotti uccisi. Berengario gli perdonò, il fece rivestire e lasciollo in libertà, senza nemmeno esigere da lui alcun giuramento.
Questa generosità di Berengario fu compensata colla massima ingratitudine: anzi, come or ora vedrete, ei perì vittima della sua bontà. Un signore della Lombardia, chiamato Flamberto, ricolmo di favori da Berengario, che gli aveva tenuto un figliuolo al fonte battesimale, fu corrotto dai nemici di questo principe, tanto che per eccesso d'ingratitudine e di nefandità giunse a concepire il reo disegno di dargli la morte. Saputa la trama ordita da quel ribaldo, l'imperatore avrebbe potuto con una parola farlo uccidere; ma credendo di potersi guadagnare il cuore di quel colpevole col perdono, lo chiamò in un gabinetto del suo palazzo di Verona, ove allora abitava, e dopo avergli rammentata l'antica loro amicizia e i molti favori che gli aveva compartito, gli fece inoltre vedere quanto fosse orrendo il misfatto macchinato; poi gli presentò una tazza d'oro, lo costrinse ad accettarla, dicendogli: «Questa tazza sia fra noi pegno di una riconciliazione sincera; ogni qual volta ne farete uso, vi rammenti l'affezione del vostro imperatore, ed il perdono che egli vi ha ora conceduto.» Flamberto rimase confuso, ma era troppo scellerato, perchè facesse la debita stima di tanta bontà. La sera medesima di quel giorno invece di ritirarsi secondo il solito nelle stanze del suo palazzo, dove per ordinario dormiva attorniato dalle sue guardie, l'imperatore volle andare a passar quella notte in un padiglione isolato in mezzo ai suoi giardini, da cui allontanò anche le solite guardie, per dimostrare a tutti che non serbava la minima diffidenza. Ma gli uomini scellerati, capaci di concepire un misfatto, sono altresì abbastanza audaci di mandarlo ad effetto, malgrado ogni perdono e benefizio ricevuto. Sul fare del giorno, quando Berengario stava per uscire dal suo padiglione per recarsi in chiesa, Flamberto si presentò a lui accompagnato da una frotta di armati. e nel momento in {204 [204]} cui il principe si avanzava per abbracciarlo amorevolmente, il ribaldo, trapassatolo con un pugnale, lo stese morto al suolo.
Un delitto sì atroce non rimase impunito, e l'omicida poco dopo peri miseramente. Ma non si tardò a comprendere quanto grande sventura fosse per gl'Italiani l'aver perduto Berengario. In sua vece nel 926 fu eletto re d'Italia Ugo, marchese e duca di Provenza. Costui aveva promesso di ricondurre in Italia il secolo d'oro; ma la cosa andò diversamente. Le molte iniquità da lui commesse, il tirannico suo governo, l'avarizia che gli faceva aggravare di balzelli e di imposte i suoi popoli, il non fidarsi degli Italiani, ed il conferire le dignità agli stranieri gli concitarono contro gli animi. Intanto calò in Italia Berengario II, marchese d' Ivrea con poche genti, ma ingrossate da quelle degli altri italiani, che presto a lui si unirono. Ugo non potendo resistere a tanti nemici, tornò in Provenza, dove morì nel 947. Poco stante cessò eziandio di vivere Lottano suo figliuolo; e a lui con facilità potè succedere Berengario II, che già aveva nelle mani il dominio delle cose. Egli fu coronato nel 950 in Pavia, associando al regno suo figliuolo Adalberto. Ma i barbari trattamenti contro Adelaide, vedova di Lottario, cacciata nel fondo di una torre, mossero a pietà Ottone I, imperatore di Germania, desideroso anche di ricuperare l'Italia, che pretendeva e bramava di far sua. Sceso pertanto Ottone, liberò Adelaide, la fece sua sposa, ed assunto il titolo di re d'Italia, ritornò in Germania. In questo intervallo Berengario II si era rifugiato nel suo marchesato d'Ivrea; ma volendosi riconciliare con Ottone, si recò anch'esso in Germania col figlio Adalberto, ed alla presenza dei signori di Germania e d'Italia entrambi inginocchiati davanti ad Ottone, lo riconobbero come vero e solo re d'Italia, gli prestarono il dovute omaggio, ricevendo da lui l'investitura di questo regno. Mediante tale atto l'Italia ritornò feudo, ovvero dipendente della corona germanica.
Berengario tornato in Italia si pentì di quanto aveva fatto, e, ribellatosi all'imperatore, aveva già allestito un esercito di 60 mila uomini; ma all'arrivo di Ottone tutti si sbandarono, ed Ottone si avanzò senza ostacolo. Giunto a Milano, quasi a compenso delle discordie, che andava sedando, fu coronato re di Lombardia da Giovanni XII, Papa di quel {205 [205]} tempo. Venuto finalmente a Roma, fu insignito della dignità imperiale, che d'allora in poi non si disgiunse più dalla corona di Germania.
In questo modo Ottone fu anche riconosciuto re d'Italia dagli Italiani; e l'Italia, che dal fine dei Carolingi nell'888 sino al 961 fu governata da re italiani, cadde sotto l'impero.
XVII. Crescenzio. - Ardoino. - La cavalleria. Venuta dei normanni in Italia. (Dal 961 al 1030).
In mezzo agli avvenimenti che vi ho poco fa raccontati, o giovani cari, la città di Roma, che fu in ogni tempo il bersaglio delle vicende politiche, andò eziandio soggetta a gravi turbolenze. Da più di tre secoli i papi ne erano legittimi padroni, ma spessissimo risorgevano ribellioni, per cui il Papa stesso era costretto a fuggire dalla sua capitale. Fra i molti, che si fecero nome nell'agitare il popolo, è celebre Crescenzio. Questi era console di Roma e capo di quel senato, che aveva in suo potere la fortezza di Castello Sant'Angelo.
Prese costui a perseguitare papa Giovanni XV, così che esso dovette fuggire di Roma e ricoverarsi in Toscana; ma Crescenzio, temendo la venuta dell'imperatore, mandò a pregare il Papa di tornare alla sua sedia, e col Senato gli domandò perdono. Reggeva tuttora l'impero di Germania Ottone II. Egli venne di fatto in Italia, ed avendo processato Crescenzio lo condannò all'esilio; ma il papa Gregorio V, successore di Giovanni, intercedette per lui, cosichè rimase in Roma. Aveva Ottone riconfermato al Papa il temporale suo dominio sugli stati della Chiesa. Crescenzio di ciò irritato, aspettò che Ottone fosse ritornato in Germania, e poscia di nuovo prese a tribolare il papa Gregorio; e nell'anno 997 lo costrinse a fuggire di Roma, investendo se stesso del dominio temporale. Sdegnato di ciò Ottone cala nuovamente in Italia e assedia nel castello S. Angelo Crescenzio, che dopo ostinata resistenza si arrese sotto promessa di avere salva la vita. L'imperatore non mantenne la parola, fece {206 [206]} tagliar la testa al misero Crescenzio e a dodici de' suoi principali compagni.
Devo dirvi, miei cari, che l'azione di questo imperatore è altamente riprovevole, perchè, sebbene Crescenzio si meritasse quel castigo, il re data la parola doveva mantenerla; ed egli stesso ne provò i più amari rimorsi, cui cercò di acquetare con austere penitenze. Si coperse di cilicio, andò a pie nudi da Roma fino al santuario di s. Michele sul monte Gargano, dove passò quaranta giorni in rigoroso digiuno, dormendo sopra una stuoia. Ciò non ostante non potè acquetare le interne sue agitazioni, finchè mori avvelenato dalla moglie di Crescenzio nel 998.
Morto Ottone senza successione, molti signori italiani si radunarono in Pavia, e nel 1002 elessero a re d'Italia un famoso guerriero di nome Ardoino, marchese d'Ivrea, che, come vi è noto, è una città considerabile del Piemonte.
Il novello re invece di occuparsi a migliorare la sorte dei suoi sudditi, mosse gravi persecuzioni contra ai vescovi, e specialmente contro a quello d'Ivrea e a quello di Vercelli. La condotta violenta e irreligiosa di Ardoino indusse l'imperatore di Germania a venire in Italia. Era questi Enrico II, successore di Ottone, e detto il Santo per le sue virtù e perchè come tale è venerato dalla Chiesa.
Giunto Enrico in Italia, venne a battaglia con Ardoino, che, dai suoi medesimi seguaci abbandonato, dovette ritirarsi nel suo marchesato d'Ivrea. Ma partito Enrico egli uscì di nuovo dalle sue fortezze, e continuò a molestare i paesi vicini per dieci anni. Stanco infine dalle fatiche della guerra, e vedendo che le umane grandezze non potevangli procacciare la vera felicità, si ritirò nel Ganavese nel monastero di s. Benigno. Colà trovò quelle dolcezze che invano si cercano in mezzo al mondo. In detto monastero depose sull'altare le insegne regie, si fece radere la barba, si vestì da povero, e dopo un anno di rigida penitenza morì nel 1015.
Intorno a questi tempi cominciarono a salire in grande rinomanza i cavalieri. Essi erano uomini forti e valorosi, dati al mestier delle armi, i quali con giuramento si obbligavano di impiegare la loro vita a favore dei deboli e degli innocenti, e a difesa della religione.
Fra i cavalieri sono molto celebri nella storia quelli che {207 [207]} vennero a stabilirsi in Italia sotto al nome di Normanni. Questa parola non vuol dire altro che uomini del Nord, ossia del Settentrione. Costoro dalla Germania andarono ad abitare una contrada della Francia, cui diedero il nome di Normandia, cioè paese dei Normanni: Sebbene rozzi e feroci ricevettero volentieri il battesimo, e si davano grande premura per le pratiche religiose. Il loro capo era nominato barone, il che voleva dire uomo libero.
Era credenza generalmente diffusa nel cristianesimo, che col terminare del secolo decimo dovesse avvenire la fine del mondo. Perciò ognuno pensa vasi di far cosa a Dio sommamente gradita, andando a visitare la Palestina ed i luoghi santi, ove Gesù Cristo era morto sulla croce per espiare i peccati degli uomini. Ciò era più che bastante per destare nei normanni il genio delle avventure e dei viaggi lontani; sì che in breve si videro drappelli di uomini di quella nazione con indosso Un abito lungo, in mano un bastone, lasciando le loro belle campagne, incamminarsi verso Gerusalemme. La foggia, con cui quei viaggiatori vestivano, dicevasi abito di pellegrino, onde i loro viaggi furono appellati pellegrinaggi. Ma per fare fronte ai pericoli, che i pellegrini incontravano in traversando le contrade dell'Europa e dell'Asia devastata allora dagli Ungheri, dai Saraceni e dai Turchi, solevano i Normanni portare sotto al loro abito una forte spada. Di quest'arma avevano occasione di valersi contro ai musulmani, da essi riguardati come i più odiosi nemici, come quelli che si erano impadroniti della Palestina e del sepolcro di Gesù Cristo.
In quel tempo avvenne che quaranta normanni ritornando dalla Terra Santa approdarono in un porto vicino a Salerno, per recarsi nella Puglia sul monte Gargano a venerare l'Arcangelo san Michele, verso cui i normanni nutrivano particolare divozione. Ivi strinsero amicizia con un certo Melo, potente e savio cittadino della città di Bari. Innamoratisi quei normanni dell'aria dolce, dell'amenità e delle ricchezze del suolo, dimandarono a Melo, che loro permettesse di stabilire la loro dimora colà vicino; la dimanda fu appagata.
Correva l'anno 1016, quando un gran numero di navi cariche di saraceni venuti dall'Africa minacciavano di assalire la città di Salerno, metterla a sacco e condurre gli {208 [208]} abitanti io ischiavitù, secondo l'uso di quei barbari. Grande fu la costernazione dei salernitani all'udire quella notizia; e già parecchi parlavano di andare ad offrir grosse somme di danaro agli assalitori, purchè si ritirassero. I quaranta Normanni accolsero quell' occasione come favorevole per fare prova del loro valore. Pertanto si presentarono intrepidi al principe della città, chiedendogli solo armi e cavalli. Prontamente ogni cosa fu somministrata, ed essi non badando al loro piccolo numero piombarono nottetempo sugli assalitori e ne fecero sì grande carnificina, che tutti quelli, i quali riuscirono a salvarsi, si diedero a precipitosa fuga per ricoverarsi nelle barche. Pareva incredibile che quaranta soli guerrieri avessero riportato tale vittoria. I salernitani pieni di gratitudine pei normanni li proclamarono loro liberatori.
Il principe di Salerno, che era Guaimaro III, si avvide tosto che, qualora possedesse uomini di quella fatta, non avrebbe più avuto nulla a temere dai suoi nemici. perciò offerse loro generose ricompense, purchè rimanessero a! suo servizio. I quaranta pellegrini non accettarono queste offerte, ma ritornati nel proprio paese raccontarono le loro prodezze, parlando con trasporto delle ricchezze dell'Italia, ponendo sott'occhio dei loro concittadini limoni, datteri, aranci, ed altre frutta squisite portate seco, le quali non si raccolgono se non nei climi caldi del mezzodì dell'Italia.
A queste notizie parecchi avventurieri si recarono presso i principi di Salerno e di Capua, ed in breve il loro numero si accrebbe talmente nella Puglia, nella Calabria e nel ducato di Benevento, che poterono impadronirsi della fortezza di Aversa, poco distante dal Mediterraneo.
Il maneggio delle armi, l'obbedienza ai loro capi e la vita austera avevano reso i Normanni forti e valorosi in guerra; la qual cosa loro giovò per procacciarsi molti amici.
XVIII. Papa Leone in mezzo al normanni. (Dal 1030 al 1073).
È bene, miei cari amici, che vi faccia notare che mentre gl'imperatori di Germania si adoperavano per sedare le discordie dell'Italia settentrionale, gl'imperatori di Costantnopoli {209 [209]} non avevano rinunziato alle loro pretensioni sopra una parte della nostra penisola. In forza di tali pretese continuavano ad esigere obbedienza e tributi dalle città dell'Italia meridionale, in cui perciò mantenevano piccoli presidii o guarnigioni di soldati. Ma quei lontani padroni avari e deboli quali erano, unicamente miravano a smugnere gli Italiani d'ogni bene, senza darsi cura d'impedire che i Saraceni, gli Ungheri, i Normanni ed altri popoli feroci scorressero l'Italia, e ne saccheggiassero i campi e le città. Per questo i Normanni non trovarono gravi ostacoli a fondare una novella monarchia nel modo che io sono per raccontarvi.
Fra i Normanni che vennero in Italia furonvi dieci fratelli, figliuoli di un certo Tancredi, barone d'Altavilla, che abitava in Francia in un piccolo castello di questo nome. Di costoro i più celebri erano Guglielmo, soprannominato braccio di ferro, a cagione della sua forza prodigiosa nei combattimenti, e Roberto, cognominato Guiscardo, ossia intrepido. Questi valorosi avventurieri entrarono al servizio del principe di Salerno, che allora chiamavasi Guaimaro IV, od il giovane, e s'impegnarono a secondarlo in tutte le imprese, che volesse tentare contro ai suoi vicini.
A poca distanza da Salerno e sulle sponde del Mediterraneo sorge una città, detta Amalfi, i cui abitanti erano allora assai noti pel genio, che avevano pel commercio e per l'industria. Mentre l'Europa era quasi interamente occupata a respingere le invasioni dei barbari, gli Amalfitani avevano approfittato della situazione del loro porto per allestire vascelli, coi quali andavano a Costantinopoli, in Palestina e in Egitto a cangiare le biade, i vini, le tele d'Italia, coi preziosi tessuti dell'Asia, eolle gemme della Persia e cogli aromi dell'Arabia. Pel che Amalfi conteneva a quel tempo Una grande quantità d'oro, d'argento e di ricchezze d'ogni genere; le quali cose allettavano il principe di Salerno a tentare d'impadronirsene; i Normanni non aspettavano altro. Quella impresa, miei cari giovani, era ingiustissima, perciocchè l'assalire gente che vive in pace è un'azione da ladro e da assassino, Tuttavolta quei cittadini acconsentirono di cedere una parte di ciò, che possedevano all'avido Guaimaro, ed a conferirgli il titolo di duca d'Amalfi. Ma l'iniqua azione di quel principe non gli lasciò godere a lungo della fortuna {210 [210]} che aveva tanto desiderata: poichè in capo a pochi mesi mori trafitto di pugnale in un agguato tesogli sulla riva di un fiume, che separa il territorio d'Amalfi dal salernitano.
La morte di Guaimaro lasciò i Normanni in libertà di adoperare a proprio talento la formidabile loro spada; e Guglielmo braccio di ferro coi suoi fratelli e con altri in numero di trecento assalirono Manface, generale greco, che comandava nell'Italia meridionale a nome del suo imperatore. Ad essi unironsi altri della medesima fatta, cioè vagabondi ed avventurieri, e scacciando Manface posero in fuga i Saraceni e si resero padroni della Puglia. (Anno 1042). Qui posero soggiorno dodici capi normanni col titolo di conti, vale a dire compagni nel governo.
Questo stanziarsi dei Normanni nella Puglia è un fatto notabilissimo: perciocchè allora appunto si tolse per sempre agl'imperatori d'Oriente quanto possedevano in Italia. Ma i Normanni, sebbene accusati presso ai loro conti, non potevano rinunziare alla passione di fare qua e là scorrerie, saccheggiare borghi, villaggi, chiese, monasteri e ucciderò chiunque facesse loro resistenza.
In poco tempo le loro rapine divennero sì spaventose, che papa Leone IX li fece avvisare di allontanarsi, sotto pena della scomunica. Sebbene quei barbari temessero assai la minaccia del sommo Pontefice e gli efletti che ne sarebbero seguiti, tuttavia non vollero ubbidire; perciò il Papa supplicò l'imperatore Enrico III, che allora regnava in Germania, di spedirgli soldati della sua nazione, i quali godevano fama di forti guerrieri. Un grandissimo numero d'Italiani contadini ed artieri si unì a 500 Tedeschi inviati dall'imperatore, ed in breve i Normanni si videro circondati da formidabile esercito.
Desideroso il Papa di allontanare quei masnadieri dall'Italia, volle in persona seguire l'esercito nel campo. I due eserciti non tardarono ad affrontarsi, e il 14 giugno 1053 si azzuffarono presso la città di Civitella, nella provincia di Capitanata. Ivi seguì una terribile battaglia, nella quale i Normanni sotto la condotta di Umfredo e Roberto Guiscardo Altavilla riuscirono vincitori: l'esercito del Papa fu sbaragliato, e lo stesso Pontefice fatto prigioniero.
Ma ammirate, vi prego, la riverenza che quegli uomini {211 [211]} feroci e tremendi nella pugna ebbero pel Capo del Cristianesimo. Appena i capi ed i soldati si trovarono al cospetto del santo Padre, di cui poco prima avevano ucciso i difensori, pieni di venerazione corsero a baciargli i piedi, a chiedergli perdono e l'assoluzione della scomunica e degli altri peccati, pregandolo altresì di volerli accettare per suoi servitori. Commosso il Pontefice da quei segni di rispetto e di pentimento e perdonato di buon cuore tutto il male che avevano fatto, permise loro di stabilire dimora nella Puglia, purchè cessassero dai ladronecci e promettessero di essere per l'avvenire i difensori delia Chiesa. A questa convenzione fra il Papa ed i Conti normanni si diede nome d'investitura, ossia dotazione, in forza di cui i principi temporali riconoscevano i loro dominii come dati dal Papa.
Fra coloro che si erano segnalati nella giornata di Civitella fu Roberto Guiscardo, ossia l'intrepido. Costui, oltre la bellezza del volto, la maestà dello sguardo ed una forza prodigiosa, aveva una voce così sonora, che nel più forte di una battaglia, superato il fragor delle armi e le grida dei combattenti, facevasi udire da una parte all'altra dell'esercito. Dopo quella giornata i Normanni lo elessero a loro capo, ed i mercanti di Amalfi per cattivarsi l'amicizia di un vicino sì formidabile gli conferirono il titolo di duca della loro città, a patto che il suo esercito non avesse a penetrare mai dentro le mura di essa. Coll'aiuto dei loro vascelli Roberto s'impossessò di Salerno, poi del ducato di Benevento. Codesta conquiste pose fine a quel principato che era stato fondato dai Longobardi cinquecento anni prima.
Intanto Guiscardo vedendo che i Saraceni, nemici dei cristiani, continuavano ad infestare i paesi occupati dai Normanni, volse le sue armi contro di loro, parte uccidendone e parte scacciando dalle coste della Puglia e della Sicilia. Per questo motivo il papa Nicolò II, successore di Leone, estese maggiormente il dominio dei Normanni, dando loro anche l'isola di Sicilia.
Guiscardo ebbe un figliuolo, che con grande cura fece educare negli studi, negli esercizi militari e in ogni virtù cristiana. Queste virtù crebbero col crescere dell'età ed il giovane principe riuscì a guadagnarsi tanto bene l'affetto e la stima dei Normanni, che lo riconobbero per loro capo {212 [212]} sotto al nome di Ruggero I. Egli governò il popolo saviamente, e si può considerare come fondatore del regno delle Due Sicilie, il quale si è per più secoli conservato, e comprendeva quasi tutta l'Italia meridionale e l'isola di Sicilia.
Nell'armerìa di Napoli si conserva ancora l'armatura di ferro di Guiscardo e del suo cavallo. Sembra impossibile che un corpo umano fosse capace di portare indosso tanto peso! I giovani di quei tempi avvezzandosi da fanciulli alla fatica crescevano uomini robusti, vestivano corazza, gambiere, elmi di acciaio, e tuttavia facevano prodigi di destrezza in guerra e negli esercizi ginnastici e militari, che avevano luogo in tempo di pace.
XIX. Gregorio VII. (Dal 1073 al 1085).
La venuta dei Normanni si può considerare come l'ultima invasione dei barbari in questa nostra patria; perciò avvenimenti di altro genere ci prepara la storia, e fra questi voglio raccontarvi la vita di un Papa, che fu uno dei più illustri benefattori dell'Italia. Ma perchè meglio comprendiate i fatti che io sono per narrarvi, dovete osservare che da molto tempo i papi, unitamente ai vescovi ed ai preti, erano quasi i.soli nell'Italia, e direi in tutto il mondo, i quali mantenessero in fiore le scienze e difendessero i popoli dall'oppressione dei barbari; la qual cosa non potendo fare da soli, in alcuni gravi casi ricorsero alla protezione di qualche insigne capitano, re o imperatore per avere appoggio ed aiuto.
Il re di Francia e segnatamente Carlomagno reputavano a loro grande ventura di poter fare qualche favore al Vicario di Gesù Cristo; quindi, oltre il difendere e proteggere il romano Pontefice e tutti gli Italiani, fecero grandi donazioni al Papa, ai vescovi, ai preti, alle chiese, ai monasteri e ad altri luoghi pii. Da queste donazioni nacquero gravi abusi. Poco per volta gl'imperatori ed i re di Francia e di Germania sotto pretesto di donazioni cominciarono ad intromettersi nelle cose di chiesa e volere conferire i benefizi ecclesiastici {213 [213]} a chi più loro piaceva. La cosa andò tant'oltre, che i re pretesero di conferire poteri temporali agli ecclesiastici, di scegliere e d'innalzare chi loro fosse piaciuto al possesso di un impiego ecclesiastico. A tale atto di donazione si dava il nome di investitura, mercè la quale certe persone erano investite di un diritto al potere spirituale e temporale di un benefizio.
Non è a dire, o miei cari, quanto gravi disordini cagionassero nella Chiesa le investiture esercitate dai principi temporali, senza dipendere dall'autorità ecclesiastica! Talora avveniva che uomini rozzi, ignoranti, i quali avevano passata la loro vita nel mestiere delle armi, venissero innalzati alle prime cariche ecclesiastiche a grave scandalo dei cristiani. La cosa poi che mise il colmo agli eccessi fu il pretendere che i medesimi papi non potessero più essere eletti sènza l'approvazione dell'imperatore. Toccava a Gregorio VII porre rimedio a mali così gravi.
Questo Pontefice era nato in Toscana da un legnaiuolo, e chiamavasi Ildebrando. Fatto adulto, e conosciuti i molti pericoli che un giovine ben costumato incontra nel mondo, abbracciò la vita monastica; ma le sue grandi virtù, la profonda e straordinaria sua sapienza fecero che i papi lo chiamassero dal chiostro per valersene in affari di gran rilievo durante il regno di cinque pontefici. Nel 1073 fu eletto Papa; egli non voleva accettare questa dignità, specialmente perchè aveva da fare con un imperatore di Germania, di nome Enrico IV, uomo vizioso ed oppressore della Chiesa. Laonde mandò immediatamente ad avvertirlo della sua elezione, pregandolo di non approvarla, «perchè, diceva, se io rimarrò papa, le vostre colpe non rimarranno impunite.»
Ciò non ostante Enrico approvò quella elezione nella speranza di avere il papa favorevole, ed intanto continuava a dilapidare le rendite ecclesiastiche, servendosene per secondare i vizi della crapula e della disonestà. I benefizi delle chiese erano convertiti in paga ai soldati; pretendeva che il Papa sciogliesse il suo matrimonio a fine di potere sposare un' altra donna. Inoltre faceva imprigionare ed uccidere quei sacerdoti e vescovi, che si fossero opposti alla sua perfidia ed ai suoi sacrilegi. Contro di lui si volse intrepido Gregorio; scrisse allo stesso Enrico IV. minacciandolo della {214 [214]} scomunica, se non cessava dai suoi disordini. Intanto radano un concilio, in cui di nuovo fa proibito a tatti gli ecclesiastici di ricevere l'investitura da un secolare.
Alle minacce del Pontefice finse Enrico di volersi assoggettare, ma tosto ricadde nei vizi di prima, e perciò fu realmente scomunicato. Dovete notare, che la scomunica produce un terribile effetto tra i cristiani. Uno scomunicato non è più ammesso alle sacre funzioni; e se muore in quello stato non viene seppellito in luogo sacro. Di più, in quei tempi era pur massima universalmente considerata giusta e necessaria[13] che la scomunica privasse il sovrano della sua autorità e dispensasse i sudditi dall'obbedienza.
Per questo motivo Enrico si vide abbandonato da tutti e minacciato delle più gravi sciagure, tanto che risolse di umiliarsi al Papa, ed a questo fine si recò in Italia pel Moncenisio. Giunto alla fortezza di Canossa vicino a Reggio, dove trovavasi il Papa, stette tre giorni vestito da penitente; finalmente Gregorio lo accolse, e persuaso che fosse pentito dei suoi misfatti, assoltolo dalla scomunica, celebrò la messa alla sua presenza.
Fu solenne il momento, in cui il Papa con l'Eucaristia in mano, ricordati a quel principe i delitti che gli erano imputati, pronunziava queste parole: «Per togliere ogni ombra di scandalo voglio che il corpo di nostro Signore, il quale ora prenderò, sia prova della mia innocenza, e che se io sono colpevole Dio mi faccia subitamente morire.»
Consumata quindi una parte dell'ostia si volse ad Enrico e gli disse: «Fate altrettanto, figliuol mio, prendete quest'altra parte dell'ostia santa; cotesta prova della nostra innocenza imporrà silenzio ai nostri nemici.»
Il re sbigottito ed attonito alla inaspettata proposta se ne scusò, pregando il Pontefice a differire quello esperimento. Tutti si accorsero come il re fingeva di essere ravveduto: di fatto pochi giorni dopo violò le promesse fatte al Papa, e il Papa lo scomunicò nuovamente. Allora Enrico montato in furore, e lasciandosi trasportare ad ogni eccesso perseguitò accanitamente la Chiesa, cercò uno scomunicato al pari di lui, creollo egli stesso papa, ed a mano armata il condusse {215 [215]} in Roma, costringendo Gregorio di ritirarsi nella fortezza di Castel S. Angelo.
Ma era ancora in vita il normanno Guiscardo; il quale fedele alle date promesse, come ebbe sentore delle calamità, coi era ridotto il romano Pontefice, si mosse in soccorso di Ini, ed obbligò Enrico a tornarsi in Germania, lasciando l'Italia in disordine. Tuttavia i partigiani dell'imperatore tessendo continue trame contra Gregorio, questi giudicò bene di ritirarsi a Salerno per essere più sicuro. Colà sorpreso da una grave malattia morì nel 1085, dopo tredici anni di luminosissimo pontificato. Prima di morire pronunziò queste parole: «Ho amato la giustizia, ho odiato l'iniquità, per questo muoio in esilio.»
Questa contesa tra l'imperatore ed i papi continuò ancora mentre regnava Enrico V, successore di Enrico IV, ed ebbe fine durante il pontificato di Calisto II nella città di Worms, dove si conchiuse nel 1122 un trattato, pel quale1 il re si obbligava di rinunziare al diritto d'investitura spirituale, a lasciare libere le elezioni dei prelati, ed a restituire i beni presi alle chiese. Ritenevasi per altro il diritto d'investitura temporale.
La giusta fama di Gregorio VII, difensore della libertà della Chiesa, fu per lungo tempo contrastata dai sovrani di Europa, ai quali non piaceva la dottrina che un papa possa scomunicare un regnante; ma i più dotti scrittori riconoscono in questo papa uno dei più illustri pontefici. Anzi un autore tedesco, e, quel che è più, un protestante di nome Voigt, pubblicò una vita di questo papa, corredata di tutti i documenti possibili, con cui chiaramente dimostra la ragionevolezza della sua condotta, e non dubita di chiamarlo energico difensore dell'Italia contro l'influenza straniera.
Pertanto noi Italiani dobbiamo venerare questo Pontefice, sia perchè rese in certa maniera l'Italia indipendente dagli stranieri, sia perchè d'allora in poi gli imperatori e i re non ebbero più alcuna parte nella elezione dei romani pontefici; anzi possiamo dire che dopo Gregorio VII cessò interamente l'influenza straniera sopra gl'Italiani, e fu posto un argine alle invasioni dei barbari.
Appunto in quest'epoca la maggior parte delle città d'Italia presero una nuova forma di governo, con cui esternamente {216 [216]} parevano ancora dipendenti dagli imperatori di Germania, ma internamente erano affatto libere. Queste città erano governate da tre o sei consoli, pòi dai podestà e capitani del popolo, i quali avevano nelle loro mani concentrata ogni autorità. Le città così costituite appellaronsi Comuni.
XX. Le crociate. (Dal 1085 al 1099).
Un curioso avvenimento del medio evo, che mise in moto quasi l'Europa intera, furono le Crociate, vale a dire una grande spedizione di principi e di soldati europei nella Terra santa a fine di liberare Gerusalemme dalle mani dei Turchi.
Per molti secoli i Luoghi santi erano stati in custodia dei cristiani, e ciascuno era libero di andar a visitare il Sepolcro del Salvatore. Ma dopochè i Turchi ed i Saraceni s'impadronirono della Palestina, i luoghi bagnati dal sangue del Redentore erano in mille guise profanati. Pino allora fu permesso ad un sacerdote cristiano di custodire il santo sepolcro, ed alcuni ricchi mercatanti di Amalfi poterono eziandio fondare uno spedale in Gerusalemme per accogliervi i poveri pellegrini ammalati. Di poi fu proibito l'ingresso a chicchessia, e difficilmente, anche pagando, potevansi visitare quei santi luoghi senza pericolo di essere assassinato.
Fra i pellegrini coraggiosi, che riuscirono di accostarsi al santo Sepolcro, fu un prete francese della diocesi di Amiens di nome Pietro, soprannominato l'Eremita, a motivo della vita solitaria, che piamente menava.
Alla vista delle profanazioni di quei venerandi luoghi, ai mirare stalle fabbricate in quello stesso sito, dove era stato collocato il corpo del Salvatore, Pietro fu vivamente commosso; e, come giunse in Italia, si presentò al romano Pontefice, che allora era Urbano II. Prostrandosi ai suoi piedi gli fece così viva pittura dello stato deplorabile di quei santi luoghi, che il Papa intenerito fino alle lagrime gli permise di eccitare i popoli dell'Europa ad imprendere la liberazione di Gerusalemme. Lo stesso pontefice incoraggiò i re ed i loro sudditi a volervisi adoperare. {217 [217]}
Gli eccitamenti indefessi di Pietro l'eremita, il quale predicando la crociata percorse l'Italia, la Francia e la Germania; l'autorità e le parole di papa Urbano, il tesoro delle indulgenze aperto a chi vi prendeva parte, il desiderio di vedere quelle contrade suscitarono un tale entusiasmo, che da tutte le parti si andava gridando: Andiamo, Dio lo vuole! Dio lo vuole! Gente di ogni condizione, principi, baroni, preti, contadini, donne, fanciulli facevano a gara per essere arruolati ed insigniti di una croce di stoffa rossa benedetta, che si appendeva sopra la spalla destra, e avviarsi in Palestina. Questa croce diede il nome di crociati a tutti coloro che si posero addosso quel segno: l'impresa, a cui si accingevano, fu detta crociata.
Raccoltisi in numero stragrande Italiani, Francesi, Inglesi, Tedeschi, si misero in viaggio per quella straordinaria e non mai udita spedizione. I più ardenti e desiderosi di venire alla meta dei loro desideri precedettero gli altri, ma senza disciplina militare e in disordine; perciò, giunti nell'Asia minore, caddero nelle mani dei Turchi, i quali ne menarono la più terribile e spaventevole strage. Di cento mila crociati soltanto pochi fuggiaschi poterono salvarsi e cercare un asilo nelle vicine montagne.
Se non che dietro a quelle torme indisciplinate si avanzavano veri eserciti condotti da principi e da signori, che avevano presa la croce, tutti indirizzati verso Costantinopoli, capitale dell'impero d'Oriente. Alla testa di quelle formidabili soldatesche era l'illustre francese Goffredo di Buglione, conte di Lorena, e dopo lui Baldovino suo fratello, conte di Fiandra, Roberto soprannominato coscia corta, duca di Normandia, e Raimondo, conte di Tolosa. Ma fra quelli che attiravano sopra di sè gli sguardi dei crociati eranvi due prodi italiani Tancredi e Boemondo. Questi era figliuolo di Roberto Guiscardo, duca della Puglia e della Calabria, uomo di un'abilità e di un coraggio impetuoso, e che alcune volte degenerava in ferocia, ma veramente adatto a somiglianti imprese di ventura. Tancredi, Siciliano e cugino di Boemondo, fin dalla fanciullezza aveva saputo accoppiare al più intrepido coraggio la moderazione, la generosità, la modestia, la religione e tutte le virtù, che possono adornare un eroe cristiano. Egli sentiva quasi rimorso delle sue gesta guerriere, perchè gli sembravano {218 [218]} dannate dalle leggi del Vangelo, e la tema di spiacere a Dio frenava talvolta il suo coraggio. Queste rare qualità facevano riguardare Tancredi come il modello dei cavalieri del suo tempo, e lo rendevano l'ammirazione di tutti i crociati.
Quel maraviglioso esercito era composto di parecchie centinaia di migliaia d'uomini, parte dei quali combattevano a piedi, armati di lance, di spade, di pesanti mazze di ferro, di cui un solo colpo bastava ad accoppare un uomo; altri erano armati di fionde, colle quali scagliavano molto destramente pietre o palle di piombo; alcuni portavano balestre, specie d'archi che lanciavano a gran distanza acute frecce, la cui ferita spesso era mortale. La maggior parte poi dell' esercito erano prodi cavalieri, tutti eccellenti per forza, virtù e coraggio, i quali si erano legati a Dio con voto di dare la vita per liberare quei santi luoghi dalle mani degli infedeli.
Tutte queste numerose schiere giunte nell'Asia minore, oggidì Anatolia, si videro venire incontro alcuni infelici crociati, i quali, fuggiti quasi per prodigio dalle mani dei Turchi, raccontavano piangendo i loro infortunii. Ad ogni passo si vedevano avanzi di bandiere o di armature spezzate, e l'orrendo spettacolo di monti d'ossa umane già dal sole imbiancate, che i barbari avevano lasciate sulla strada insepolte, a fine di mettere spavento ai cristiani, i quali osassero inoltrarsi. A quella vista tutti i guerrieri latini fremettero di sdegno, e come seppero che il Sultano, ossia re dei Turchi, aveva radunato il suo esercito intorno alle mura di Nicea (città dove si celebrò il primo Concilio ecumenico), lo andarono ad assalire. Colà si appiccò una sanguinosa battaglia e malgrado gli sforzi dei nemici la vittoria rimase ai cristiani.
Allora i Turchi radunarono le loro forze in un'altra città dell'Asia minore, detta Iconio, celebre per la dimora e la predicazione ivi fatta dall'apostolo s. Paolo. Il sultano alla testa di numerose schiere di cavalieri arabi devastò tutto il paese, ove dovevano passare i crociati, i quali di mano in mano, che avanzavansi, trovavano distrutte le messi, arse le città ed i villaggi, otturati i pozzi: tanto che andarono ben tosto soggetti alla fame, alla sete, a disagi e malattie di ogni genere. Intanto giungono dinanzi ad Antiochia, grande capitale della Siria, di cui più volte vi parlai nella Storia sacra e nella ecclesiastica. I Latini per andare in Palestina {219 [219]} dovevano impadronirsi di questa città. E incredibile e quasi impossibile a raccontare le fatiche ed i patimenti, che i cristiani sopportarono, e le prodezze che fecero, mercè le quali riuscirono ad impadronirsene.
I crociati si accostavano alla Palestina, oggetto di tutti i loro desiderii, e i disagi sempre crescenti aumentavano più ancora la loro impazienza. Gerusalemme, la città santa, la città, ove Gesù Cristo aveva patito la morte per riscattare i peccati degli uomini, pareva il termine ed il rimedio di tutti i loro mali. Finalmente dopo la perdita d'innumerevoli compagni d'armi, dopo i più duri stenti, dopo aver valicato fiumi, valli e montagne; dopo aver consumato le loro ultime forze per camminare innanzi, si sparse una sera d'improvviso la voce nel campo cristiano, che col tornare dell'aurora avrebbero potuto contemplare la desiderata Gerusalemme. La notte passò in pio raccoglimento; un religioso silenzio regnò fra tutti, ed ognuno si preparava colla preghiera ad accostarsi con rispetto al luogo del martirio di Gesù Cristo.
XXI. Gerusalemme liberata. (L'anno 1099).
Le azioni dei crociati non appartengono propriamente alla storia d'Italia; ma poichè sono di molto rilievo e ad esse gli Italiani e gli stessi nostri principi di Savoia presero parte, io penso di soddisfare alla vostra curiosità col darvi un breve ragguaglio dell'entrata dei crociati in Gerusalemme.
L'esercito latino attendeva colla massima impazienza, che spuntasse quell'aurora, la quale doveva appagare i loro lunghi desideri, quando sul far del giorno dall'alto delle montagne, su cui eransi attendati, videro sorgere dinanzi ai loro occhi quella città, per cui avevano affrontati tanti pericoli. Un solo grido uscì allora ad un tempo da tutte le bocche: Gerusalemme! Gerusalemme! Dio lo vuole! Dio lo vuole! A simil vista gli uni escono in trasporti di allegrezza, altri stemperandosi in pianto si prostrano ginocchioni e baciano divotamente la polvere, su cui pose i piedi il Salvatore. Questi si avanza a piedi nudi per rispetto a quella Terra santa; quegli {220 [220]} manda gemiti e sospiri, pensando che la tomba di Cristo è in potere degli infedeli.
Mentre ciascuno lasciavasi dominare da affetti sì ardenti e diversi, un solo cavaliere si arrampicava con fatica sul monte degli ulivi vicino a Gerusalemme, su quel celebre monte, ove Gesù Cristo passò la notte in orazione prima di essere dato nelle mani dei carnefici. Era egli il pio ed intrepido Tancredi, il quale dalla cima di quella santa montagna veniva contemplando sui primi chiarori dell'alba il monte Golgota o Calvario, e la cappella del santo Sepolcro.
Il guerriero tutto immerso nella sua ammirazione era ancora prostrato dinanzi la città santa, allora che cinque soldati musulmani, posti a guardia della montagna, l'assalirono d'improvviso e gagliardamente. Ma il suo braccio non aveva perduto nulla di vigore, e mentre coloro si tenevano sicuri di dargli la morte, egli coraggioso li assale, tre ne uccide, e gli altri costringe a fuggire. Cotesto esempio di valore non era che il foriere dei fatti gloriosi, che l'esercito cristiano doveva compiere sotto le mura di Gerusalemme. Riesce malagevole il descrivervi le prodezze e gli sforzi fatti dai cristiani per impadronirsi di quella famosa città, di cui i Turchi contrastavano il possesso col coraggio della disperazione. Vi basti sapere, che dopo quaranta giorni di sanguinosa pugna i crociati avevano pressochè perduta ogni speranza, e già pareva che volessero rinunziare allo scopo tanto desiderato, quando un eremita, il quale da molti anni viveva sopra una montagna vicina, scese in mezzo al campo, ove già regnavano il disordine e lo scoramento, per indurli a dare un ultimo assalto e a ricorrere a Dio qolla penitenza e colla preghiera. Le esortazioni di quell'uomo di Dio non furono senza frutto; i crociati coi loro capitani, vestiti da penitenti, fecero più volte processionalmente il giro delle mura di Gerusalemme, cantando inni di lode ed invocando l'aiuto del Cielo.
Siffatta processione, in cui principi e cavalieri davano il più bell'esempio di pietà e di raccoglimento, produsse un grande effetto sul restante dell' esercito; per modo che in tutti ardeva il desiderio di assalire i nemici e combattere. Il dì seguente allo spuntare dell'alba si diede un gagliardissimo assalto; da più lati si portarono lunghe scale, per cui {221 [221]} salivano le mura ed entravano in città, a ciò incoraggiati dall'esempio di Goffredo e di Tancredi.
I Turchi assaliti da tutte parti, si videro costretti di abbandonare i bastioni e di ritirarsi nell'interno della città, dove i vincitori animati dalla vittoria ne fecero terribile sterminio. Il sangue scorreva a rivi in Gerusalemme, in cui non furono risparmiati nò giovani, nè vecchi, nè donne, nè fanciulli. Mentre noi ammiriamo le prodezze dei crociati, certo disapproviamo il furore con cui misero a morte tante vittime innocenti; nè si potrebbero loro condonare tante crudeltà, ove non si pensasse che di barbari in gran parte componevasi l'esercito vincitore.
Frattanto il pio Goffredo, che non avrebbe voluto spargere senza necessità neppure una goccia di sangue umano, entrato appena in città, si era spogliato delle sue armi, e coi piedi scalzi seguito da tre soli servi recavasi nella cappella del santo Sepolcro, ove si prostrava col maggior rispetto. La voce della divozione del sommo capitano si spande fra tutto l'esercito, che cessò dal versare sangue umano, cangiando l'ardore della pugna in affetti di divozione.
Pochi giorni dopo la presa di Gerusalemme i crociati risolvettero di rialzare il trono che era stato un tempo occupato da Davide e da Salomone. La scelta di tutti i baroni cadde su Goffredo di Buglione, il quale si arrese a' loro voti, ma non volle cingere corona là, dove Gesù Cristo era stato coronato di spine; e in vece del titolo di re prese quello di Difensore del santo Sepolcro.
Trascorso qualche tempo è sembrando cessato ogni pericolo pel regno di Palestina, il maggior numero dei crociati, paghi di un trionfo a sì caro prezzo riportato, si posero in cammino per ritornare in Europa carichi delle spoglie di Oriente; e non rimasero presso Goffredo per la custodia della Terra santa se non trecento cavalieri e due mila soldati col valoroso Tancredi.
Questo virtuoso guerriero coll'ammirabile sua pazienza e col generoso disinteresse contribuì non poco ad acquetare gli spiriti dei crociati esacerbati per la penuria dei viveri. Egli fu il primo ad assalire i Musulmani intorno a Gerusalemme; primo a piantare lo stendardo dei Latini in Betlemme sul luogo della nascita del Salvatore; primo che {222 [222]} scopri una foresta, dove i crociati presero i legnami necessari per le scale e per le macchine da guerra, ed in mezzo alle stragi, di coi si contaminarono i Cristiani, fu esempio di moderazione e di umanità. Dopo aver riportato molte altre e segnalate vittorie contro ai Musulmani e contro ad altri infedeli fini pacificamente i suoi giorni in Antiochia nel 1112, lasciando una memoria illustre pei suoi fatti militari, per la saviezza del suo governo e per le sue opere di pietà.
Così terminò la prima crociata; ma cento anni dopo la fondazione del nuovo regno di Gerusalemme, essendo quella città ricaduta in potere dei Musulmani, tutti gli sforzi tentati di poi da alcuni sovrani d'Italia, di Francia e di Germania per ricuperarla rimasero senza effetto. E benchè la maggior parte di quei principi vi abbia acquistato grande gloria, dopo tre secoli di tentativi infruttuosi i popoli dell'Europa rinunziarono affatto a quelle lontane e pericolose spedizioni. Tuttavia da quel tempo in poi fu sempre lasciato libero ai cristiani di poter visitare la Terra santa; e quantunque alcuni di quei sacri luoghi siano oggidì nelle mani degli eretici o degli infedeli, sono non di meno da loro medesimi tenuti in venerazione.
La liberazione di Gerusalemme fu nobilmente illustrata da un poeta italiano di nome Torquato Tasso, il quale compose un prezioso poema, che ha per titolo: La Gerusalemme liberata.
XXII. Saccheggio di amalfi. (Nel 1135).
Amalfi fu per molto tempo una città floridissima del regno di Napoli; la sua posizione vicino al Mediterraneo a
l'industria dei suoi abitanti attraeanvi commercianti da tutte parti del mondo. La qual cosa destava grande invidia ad un'altra città non meno ricca, potente e desiderosa di signoreggiare. Era questa la città di Pisa in Toscana, celebre per un porto che allora aveva sul Mediterraneo, ed in ispecie per la magnifica torre che ancor si ammira, abbellita da più di trecento colonne di colore diverso ed assai mirabile a motivo {223 [223]} dell'inclinatone straordinaria, la quale fa parere a coloro che la osservano sia vicina a cadere.
Queste due città si erano erette in repubbliche, cioè si governavano indipendenti, sènza più essere soggette agl'imperatori greci o germanici; e comechè fossero tra di esse rivali, tuttavia comunicavansi i prodotti della loro industria, e facevano quasi un comune commercio nei più remoti paesi. Se non che i Pisani, ingelositi della prosperità degli Amalfitani, movessero loro guerra, perchè quelli di Amalfi eransi dichiarati contraili a Ruggero re di Sicilia, di cui Pisa era alleata.
Approfittando i Pisani di quella congiuntura, spedirono contro di Amalfi un gran numero di soldati imbarcati sopra vascelli da guerra, ai quali si dava il nome di galere. Egli fu doloroso spettacolo il vedere uomini della medesima nazione, fino allora amici, i quali esercitavano il medesimo commercio e la medesima industria, compagni di viaggi nelle lunghe loro spedizioni, venire a battaglia e fare da una parte e dall'altra orribile carnificina! Dopo ostinatissimi combattimenti, i Pisani impadronitisi di quella sventurata città, la saccheggiarono per modo, che d'allora in poi non potè più riaversi da quel disastro.
I mercanti di Amalfi, i cui magazzini erano stati dati in preda alle fiamme ed al saccheggio, abbandonarono un soggiorno, che la gelosìa aveva reso loro insopportabile, e andarono a portare nelle altre città d'Italia la loro industria e gli avanzi delle loro ricchezze. Mentre i Pisani sfogavano la propria rabbia contro ai vinti, e assetati di rapine portavano via quanto di prezioso veniva loro a mano, un soldato trovò a caso un rotolo di pergamena tutta scritta e lo raccolse, senza neppure darsi briga di esaminare ciò che vi si contenesse. Passando quel rotolo di mano in mano, venne finalmente in potere di un pisano erudito, il quale svolgendo con grande cura il manoscritto, osservò che conteneva le pandette di Giustiniano.
Questo imperatore dopo di avere raccolte le leggi dei principi suoi antecessori in un volume, che appellò codice, aveva eziandio ordinato, che da tutte le opere degli antichi giureconsulti, ovvero avvocati, si ricavasse quanto si giudicava di meglio delle leggi romane, a fine di servire ad un secondo {224 [224]} volume di leggi positive, che furono appellate pandette. Da molto tempo questo volume era andato smarrito, come accadeva spesso in quelle frequenti invasioni di barbari, per cui un gran numero di libri rari furono smarriti o distrutti. Il dotto, che aveva scoperto le pandette, si affrettò di portarle ai magistrati di Pisa, i quali, avendone fatto fare parecchie copie, diffusero quel codice prezioso tra i popoli dell'Italia, e il fecero poi conoscere in Francia ed in Germania; la qual cosa contribuì assai a propagare i veri principii della giustizia e ad ingemelire i costumi, che i barbari avevano introdotto in quei vari paesi.
Per farvi conoscere l'importanza di tale scoperta sarà bene che vi ricordi il modo strano, con cui era amministrata la giustizia presso di quei popoli d'origine Germanica o Tedesca, quali eranom i Franchi, i Goti, i Sassoni, i Longobardi, che alla caduta del Romano impero in Occidente successivamente avevano l'atto dimora in questi nostri paesi.
Quando costoro calarono in Italia, tutti avevano fatto e pubblicato le loro leggi; ma permettevano a ciascuno di vivere e di essere giudicato secondo quella legge, che più gli piacesse. Quindi avveniva una vera confusione, perchè nella stessa città gli uomini si attenevano a legislazioni diverse. Ora la scoperta delle pandette, avendo agevolato la cognizione del diritto romano, fece sì che le altre leggi barbare cadessero e sola regnasse la legislazione romana.
Inoltre i barbari per determinare il diritto sovente, come già vi dissi, ricorrevano alla forza. Così quando due uomini credevano di avere motivo di lagnarsi l'uno dell'altro, si presentavano dinanzi al loro barone per far valere le proprie ragioni, assoggettandosi al suo giudizio. Ma quel signore, che il più delle volte era un gagliardo guerriero che non sapeva nè leggere, nè scrivere, ordinava i due litiganti venissero a battaglia in sua presenza, finchè uno di essi rimanesse morto sul campo, o si confessasse vinto; tanto erano persuasi clic la ragione dovesse essere dalla parte del più forte. A questa crudele maniera di cercare giustizia si dava il nome di duello giudiziario, perchè era ordinato dal giudice.
I baroni ed i cavalieri si battevano in codesti incontri colla lancia o colla spada come in guerra; ma i servi ed i contadini {225 [225]} non dovevano servirsi d'altre armi che del bastone, con cui si davano spesso colpi mortali.
La scoperta delle pandette di Giustiniano coll'aiuto del cristianesimo distrusse quasi affatto tali barbari costumi, e solamente presso ad alcuni dissennati si tenta di rivocare in vigore l'uso del duello, il quale dà la ragione non a chi l'avrebbe, ma a chi è più addestrato nelle armi.
Reca maraviglia che gli uomini mondani de' nostri tempi, mentre parlando dell'antico duello giudiziario lo giudicano assurdo e ne ridono, essi tuttavia approvino l'odierno duello volontario, per cui una persona insultata da un'altra, anche con una minima parola, sfidala a battersi colla spada o colla pistola. L'uccisore od il feritore avrà forse egli fondata ragione sull'ucciso o sul ferito, perchè egli ebbe miglior vista, miglior braccio, miglior destrezza ed anche miglior fortuna? Il duello d'oggidi è tanto brutale e contrario al senso comune, quanto l' antico; pure si pratica ad onta che sia proibito dalla ragione, dal Vangelo e dalle leggi civili. Badiamo a diffidare dei giudizi del mondo.
Simile al duello è la cattiva usanza di certi giovani, i quali dopo aver per poco disputato fra loro vengono alle mani, si accapigliano e si battono sconciamente. Perchè l'uno è più forte dell'altro, avrà egli ragione? Solo col ricorrere alla forza egli dimostra che ha il torto dalla sua parte.
XXIII. Federico Barbarossa. (Dal 1154 al 1162).
Erano scorsi più di settant'anni dacchè gli imperatori di Germania non avevano più cercato di immischiarsi nelle cose d'Italia, quando fu incoronato il famoso Federico, soprannominato Barbarossa dal colore di sua barba. Egli era un giovane di belle forme, prode, magnanimo, prudente, e sarebbe riuscito a buon segno qualora non si fosse abbandonato agli impeti di quell'orgoglio, che lo fecero abbonito in tutta Italia.
Federico accusava di viltà i suoi antecessori, perchè avevano ceduto all'intrepidezza di Gregorio VII, e si erano lasciati {226 [226]} strappare le redini del governo d'Italia. Perciò fisso di volere riacquistare i diritti, che credeva competere a sè ed a'suoi, nell'anno 1154 discese in Lombardia con numeroso esercito. Ma accortosi che gli Italiani erano pronti a fargli resistenza, stimò bene di entrare solamente nelle piccole città incapaci di opporsegli. Quelle fra esse, che ebbero cuore di serrare le porte in faccia all'esercito di lui, vennero orribilmente saccheggiate e ridotte in cenere; tale fu la sorte che toccò alle città di Ghieri, Asti, Tortona e Spoleto.
Il romano Pontefice all'udire le stragi, che quel terribile principe menava in ogni parte, si studiò di calmarne il furore con buone accoglienze, e gli offrì d'incoronarlo imperatore. Questa accondiscendenza del romano Pontefice appagò Federico, il quale senza più lasciò Rema in libertà e ritornò in Germania.
I Milanesi per altro avevano saputo farsi rispettare; tutta la gioventù era corsa all'armi, e, poichè i preparativi di guerra avevano vuotate le casse pubbliche, si videro con una specie di entusiasmo somministrarsi da ogni ordine di cittadini quanto faceva di mestieri. In questa guisa i Milanesi provvidero non solo alla sicurezza della propria città, ma furono altresì in grado di venire in soccorso dei vicini paesi.
La resistenza di parecchie città italiane avrebbe dovuto consigliare l'imperatore a non più ritornarvi; ma egli si era ostinato di volerle a qualunque costo soggiogare. Tre anni dopo scende di nuovo in Lombardia seguito da infinita soldatesca; minaccia Milano, ne costringe i cittadini a venire ad un trattato, e, abusando di quella convenzione, si attribuisce l'autorità di eleggere il podestà, vale a dire il governatore di Milano. Siffatta violazione dei patti recentemente conchiusi irritò altamente i Milanesi, i quali nel loro furore scacciarono il podestà e diedero di piglio alle armi, pronti ad affrontare l'ira dell'imperatore e morire per la salvezza della patria.
A questa notizia Barbarossa corre su Milano col nerbo dell' esercito; ma i forti cittadini gliene chiudono la entrata. Gli assalitori in simile maniera respinti, guastano i raccolti della campagna, scortecciano gli alberi e cagionano mille danni. Una guerra sì crudele infondeva grandissimo timore negli abitanti delle terre vicine; ciò non ostante la {227 [227]} città di Crema, alleata del Milanesi, non abbandonò i suoi fratelli nel momento della sventura.
Federico intimò severamente ai Cremaschi di separarsi dai Milanesi e sottoporsi a lui; ma essi intrepidamente risposero: Noi siamo pronti a seppellirci piuttosto sotto alle rovine delle nostre case, che mancare all'amicizia giurata ai nostri fratelli. La coraggiosa risposta non era a tempo, e non fece altro che inasprire viepiù l'irritato sovrano. Dopo una difesa eroica gli assediati in Crema dovettero cedere non vinti, ma traditi da un loro concittadino. Gli abitanti squallidi e sfiniti per la sofferta carestìa ebbero licenza di ricoverarsi in Milano, ove furono accolti cogli onori dovuti a fedeli alleati. Allora Crema fu dal crudele Federico abbandonata al saccheggio ed alle fiamme. Questo avveniva l'anno 1160.
Ridotta quella città ad un mucchio di rovine, i soldati di Barbarossa si addensarono di nuovo intorno a Milano, volendo costringerla ad arrendersi per fame. Perciò, oltre all'avere distrutti i raccolti delle campagne circostanti, quei barbari tagliavano le mani ai contadini, che tentavano introdurre grani o frutta in città. Non minore era l'orrore dell'interno della città; nelle strade, nelle piazze si vedevano persone e bestie morte di fame; da cui solo campava chi sapeva procurarsi coll'astuzia o colla violenza qualche cibo grossolano.
Il popolo ridotto alla disperazione ricusava di obbedire ai magistrati, e chiedeva ad alta voce che si dovesse consegnare la città; i consoli invece esortavano i cittadini alla difesa, dipingendo loro la vendetta, che farebbe un imperatore offeso ed implacabile. Tornò inutile ogni consiglio: la plebaglia scorgendo vana ogni resistenza, si ammutinò e minacciava la vita dei consoli, se persistevano nella difesa. Allora fu risoluto di sottomettersi a Federico.
Era il dì 7 marzo 1162; i Milanesi si avviavano a Lodi per giurare fedeltà all'imperatore; la gente camminava divisa in turbe, secondochè erano divisi i quartieri della città. Gli uni seguivano gli altri in silenzio, ed in mezzo di essi conducevano il CARROCCIO.
Era il carroccio un carro sacro a somiglianza dell'arca degli Ebrei, che Ariberto vescovo di Milano nel 1039 aveva inventato, affinchè servisse di centro di riunione, e {228 [228]} tenesse in ordine la milizia, specialmente in tempo di guerra. Il carro era pesante e tirato da buoi coperti di gualdrappe, sulle quali vedovasi dipinto o intessuto lo stemma della città. Era sormontato da un'antenna, che aveva sulla cima un pomo dorato con due stendardi, sicchè potevasi vedere da tutto un esercito; nel mezzo campeggiava l'immagine del Crocifisso. Nell'alto di quel carro sedeva un trombettiere, che dava il segno dell'assalto, della ritirata o di altro. Uno stuolo dei più forti soldati stava attorno al carroccio per fargli guardia; ogni guerriero riponeva il suo onore e la sua salvezza nel carroccio; nelle mosse e sul campo di battaglia il carroccio stava in mezzo alle file dei combattenti, e si diceva che l'onore era salvo, se il carroccio non cadeva nelle mani dei nemici.
Giunto pertanto il sacro carro dei Milanesi dinanzi a Federico, le trombe suonarono per l'ultima volta, la bandiera si chinò innanzi al trono imperiale, e il carroccio con novantaquattro stendardi fu consegnato al vincitore; tutta la moltitudine prostrata chiedeva misericordia.
Il conte di Biandrate, uno dei signori Italiani della corte di Federico, tutto amore pei suoi concittadini, sulla speranza di calmare lo sdegno di quel monarca, prese in mano un crocifisso, fecesi avanti, e inginocchiato sui gradini del trono in nome di Dio pregò l'imperatore di avere compassione di quella città e dei suoi cittadini. Tutti erano commossi fino alle lagrime; Federico nulla rispose, e senza dar segno di commozione ricevè il giuramento di fedeltà, scelse quattrocento ostaggi; di poi comandò al popolo di ritornare a Milano e di atterrarne le porte e le fortificazioni.
I Milanesi incerti del futuro loro destino si ridussero tremanti alle loro case. Erano già scorsi nove giorni e non vedevano comparire Barbarossa; perciò cominciavano a concepire qualche speranza che l'imperatore avesse loro perdonato, quando ecco giungere l'ordine ai consoli di far uscire gli abitanti dalle mura. Non è a dire con quante lagrime e strida fosse ricevuta la fatale sentenza... lamenti inutili ai vinti! Bisognò abbandonare il luogo natio. Avreste veduto torme d'uomini, di donne, di fanciulli vagare più giorni come bestie fra le campagne; quindi badando ciascuno a mitigare la propria infelicità si procurarono un ricovero chi a Pavia, chi {229 [229]} a Bergamo, chi a Tortona. La città di Milano divenne allora muta e squallida, come se fosse un vasto cimitero.
Intanto giunse a Milano l'imperatore coll'esercito e condannò la città ad essere distrutta, volendo così cancellare dal mondo il some dei Milanesi. Sei giorni durò quel rovinare di muri e di case; e non si ristette dall'opera finchè Milano divenne an mucchio di pietre. Dicesi che fra le rovine si conducesse l'aratro, e che vi fosse sparso il sale in segno di perpetua sterilità e maledizione. Le milizie delle città italiane alleate di Federico aiutarono a compiere la crudele vendetta, e colsero quell'occasione per isfogare l'odio loro contro a quella città, la quale negli anni addietro aveva quasi intieramente devastato le città di Lodi e di Como.
Non è d'uopo che vi dica quanto fossero stolti e scellerati quegli Italiani, i quali per vendetta si prestarono a distruggere Milano. La vendetta è sempre biasimevole; tuttavolta quello fa un terribile avviso agli uomini, perchè mai non abusino della propria forza o della propria autorità per opprimere i deboli, e pensino che avvi una Provvidenza, la quale dispone delle, sorti degli uomini, e per lo più permette che gli oppressori dei deboli paghino il fio della loro iniquità coll'essere alla loro volta da altri oppressi.
XXIV. Ultime azioni di Federico Barbarossa. Lega veronese. Lega lombarda. (Dal 1162 al 1190).
Alla disfatta di Milano tenne dietro l'oppressione dell'Italia, ridotta in servitù da Federico ed oppressa da continui balzelli dei suoi ministri. Questo stato violento di cose non poteva durare: e presto le città di Verona di Vicenza, di Padova e di Trevigi incominciarono a stringersi in lega fra loro per fare testa agli ordini di Federico. A soffocare questo principio di ribellione egli si mosse da Pavia con buon numero di soldati; ma giunto presso Verona videsi schierato contro l'esercito delle città collegate assai più numeroso del suo, e non osando di venire a battaglia si ritirò e poco dopo parti nuovamente per la Germania. L'esempio dei Veronesi infuse {230 [230]} coraggio ad altre città: Cremona, Bergamo, Mantova, Brescia e Ferrara entrarono anch'esse nella lega, giurando difendersi le une le altre contra la tirannia imperiale, e specialmente fermarono di riedificare Milano per condurvi gli abitanti dispersi nei borghi vicini. Così quella città risorse in breve dalle sue macerie.
Durante l'assenza dell'imperatore dall'Italia, un esercito guidato da un suo luogotenente assediò Ancona, che si era posta sotto la protezione dell'impero d'Oriente; ma avendo Ancona ricevuto rinforzo, i Tedeschi dovettero partirsene dopo un lungo assedio, in cui gli assediati uomini e donne, diedero luminose prove di valore, benchè ridotti agli estremi dalla fame.
Mentre nuove città andavano associandosi alla lega lombarda, Pavia si manteneva nella fede dell'imperatore. Per angustiare questa città i collegati determinarono di fabbricarne dalle fondamenta un'altra, che non fosse molto distante, e di fortificarla con ogni arte. Per questo fine scelsero una bella e feconda pianura, circondata da tre fiumi, ed obbligando gli abitanti delle vicine terre di Gamondio (ora Castellazzo), Marengo, Solerò ed Ovilio a trasferire colà la loro abitazione, fabbricarono nel 1168 la città, che in onore del papa Alessandro III, capo della lega, vollero chiamata Alessandria. Siccome la fretta era grande, e mancavano i materiali, cosi furono i tetti di quelle case coperti di paglia, pel che alla città venne il nome di Alessandria della paglia. La quale fu ad un tempo fortificata di buoni bastioni e di profonde fosse; e tanta gente concorse a prendervi dimora, clie poco dopo si poterono mettere insieme quindici mila armati.
Avvertito Federico della formazione della lega lombarda e degli apparati di guerra, che si stavano facendo, raccolse un numerosissimo esercito e precipitò in Italia. Tutti i passaggi, che di Germania conducevano in Italia, erano validamente ditesi dagl'Italiani: nè gli era aperto il passo fuori che dalla parte di Susa. Traversò il Moncenisio, arse la città di Susa, sottopose Asti, che già risorgeva dalle sue rovine, e si portò verso Alessandria. La novella città si difese fortemente quattro mesi, senza che gli alleati le portassero alcun soccorso. Finalmente la lega mandò un forte sussidio agli assediati, e Federico fu costretto a levare l'assedio. {231 [231]}
Per cinque anni egli combattè e si affaticò, a fine di soggiogare i coraggiosi Italiani; ma erano troppi ed ostinati gli avversari, che aveva a combattere qua e là; e spesso avveniva che un giorno vinceva il nemico, e l'indomani ne era egli medesimo sconfitto. Finalmente giunse un nuovo esercito di Tedeschi in aiuto dell'imperatore. Allora i Milanesi aiutati da un numero di scelti alleati lo andarono ad incontrare a Legnano, sulla via che da Milano conduce al lago di Como.
Quei prodi Italiani, vedendo avanzare i nemici, s'inginocchiarono per chiedere a Dio la vittoria, indi si rialzarono risoluti di vincere o di morire. Dopo ostinatissimo combattimento la vittoria fu compiuta a favore degli alleati; lo stesso Federico cadde combattendo presso al carroccio, e a stento potè fuggire solo e sconosciuto fino a Pavia, dove già era creduto morto.
Questi colpi di avversa fortuna fecero conoscere a Federico che sarebbero tornati inutili tutti i suoi sforzi, sicchè decise di riconciliarsi a qualunque costo col romano Pontefice e venire a trattati colla lega lombarda. Pertanto spedì deputati al Papa, a fine di chiedergli pace e assoluzione della scomunica, promettendo che sarebbesi allontanato dall'antipapa, che egli follemente si era creato.
Il Papa accertatosi delle disposizioni dell'imperatore, di buon grado si trasferì a Benevento: di là il re di Sicilia mandò un buon numero di soldati per difenderlo, ove ne fosse bisogno, e fargli onorevole corteggio fino a Venezia, luogo delle conferenze, che si dovevano tenere tra l'imperatore e gli alleati. Il Papa non volle conchiudere cosa alcuna senza parteciparla alle altre città della lega lombarda; e a questo fine si recò nella città di Ferrara. Ivi radunò il patriarca di Venezia, gli arcivescovi di Ravenna e di Milano con molti altri vescovi, marchesi, conti e tutti quelli che erano costituiti in autorità civile od ecclesiastica.
Avendoli tutti radunati nella chiesa di s. Giorgio, ove era accorso anche innumerabile popolo, il Papa tenne loro il seguente discorso: «Ben vi è nota, cari miei figli, la persecuzione che la Chiesa ha sofferto per parte del principe, che più d'ogni altro era obbligato a difenderla; e senza dubbio voi gemete sopra il saccheggio e sulla distruzione delle {232 [232]} chiese, sugli incendi, sugli omicidi, sul diluvio dei delitti, che sono inevitabile conseguenza della discordia e dell'impunità. Ha dato il cielo un libero corso a queste spaventose sciagure pel lungo spazio di diciotto anni; ma oggi finalmente, calmata questa orribile procella, ha tocco il cuore dell'imperatore e ridotta la fierezza di lui a domandarci la pace. E egli possibile non riconoscere un miracolo dell'Onnipotenza divina, allora che si vede un sacerdote disarmato e curvo, quale io sono, sotto al peso degli anni, trionfare della germanica durezza è vincere senza guerra un principe sì formidabile?» - Disse poscia come egli non aveva voluto accettare condizioni di pace senza parteciparle agli alleati, e lodò il religioso coraggio, con cui avevano difesa la Chiesa. Gli alleati, rapiti dalle eloquenti parole del Pontefice, proruppero in vivi e prolungati applausi, lodando i disegni che aveva il Pontefice di pacificare la loro patria, e promisero di secondarlo.
Da Ferrara il Papa ritornò a Venezia, ove si stabilì una tregua di sei anni, scaduta la quale, fu poi il 25 giugno 1183 conchiuso nella città di Costanza un trattato di pace, in cui l'imperatore cedette ai comuni il diritto di levare eserciti, di confederarsi, fortificarsi, amministrare la giustizia e di eleggersi i consoli.
L'imperatore, dopo di aver renduto i dovuti onori al sommo Pontefice, pubblicamente dichiarò, che ingannato da cattivi consiglieri aveva combattuta la Chiesa, credendo difenderla, che ringraziava Dio di averlo tratto di errore, che perciò sinceramente abbandonava l'antipapa e i suoi seguaci, e riconosceva Alessandro per legittimo Pontefice, successore di s. Pietro e vicario di Gesù Cristo. Allora Federico fu assolto dalla scomunica e dagli altri suoi peccati, e ricevette la santa comunione dalle mani del Papa. Stabilite queste cose, Federico si ritirò dall'Italia.
Nell'anno 1189 la Palestina essendo di nuovo caduta nelle mani dei Turchi, fu predicata un'altra crociata. Federico giudicò quella un'occasione propizia per espiare le sue colpe e dare pubblico segno di ravvedimento; prese la croce, mise in piedi numerosissimo esercito e si partì alla volta della Palestina per combattere gli infedeli. In quel lungo cammino dovette venire più volte a battaglia e ne uscì sempre {233 [233]} vittorioso. Finalmente giunco in Asia, volle che le sue genti prendessero riposo in una ricca e ridente valle irrigata dal fiume Cidno, ora detto Salef.
Anticamente un illustre capitano di nome Alessandro il Grande, volle bagnarsi in questo fiume e corse gravissimo rischio della.vita. Federico, sfinito pel caldo estremo, volle parimente prendere un bagno in quelle medesime acque, le quali essendo straordinariamente fredde gli fecero ben tosto perdere i sensi. Ne fu tolto fuori sull'istante; ma egli non potè più dire altro che queste parole: Ringrazio di cuore il Signore di avermi fatto la grazia di compiere una parte del mio voto e di morire per la sua causa. Dopo di che spirò nel 1190 in età di anni settanta.
XXV. Dandolo di Venezia. (Dal 1190 al 1207).
La città di Venezia, miei cari amici, come già vi dissi, è tutta quanta fabbricata sul mare Adriatico. Essa componesi di una quantità d'isolette, sparse tra mezzo a quelle acque e congiunte insieme per via di ponti; le mura delle case, dei palazzi, delle chiese e degli altri edifizi vengono per la maggior parte battute dalle onde tranquille dei canali, che dividono le sopra indicate isolette, e sopra i canali si vedono continuamente scorrere certe leggiere barchette, appellate gondole.
Or bene quella Venezia, a cui non si poteva giungere da alcuna parte, se non in barca, divenne in breve tempo, per la sua industria e pel suo commercio, una delle più florido e ricche città del mondo. Da più secoli reggevasi a forma di repubblica governata da un capo, a cui si dava il nome di doge, ovvero duca. Tra questi dogi uopo è che io vi parli di uno, chiamato Enrico Dandolo, uomo segnalatissimo pel suo valore in guerra e per la sua probità in tempo di pace.
Sebbene Enrico fosse cieco ed aggravato dal peso di oltre ottant'anni, tuttavia conservava ancora l'ardore della gioventù unito al vigore della virilità. I Veneziani pieni di fiducia nella sua esperienza e nel suo coraggio lo riguardavano come il più saldo sostegno della loro repubblica. {234 [234]}
Un giorno, in cui il doge Dandolo aveva convocato una grande assemblea di popolo, sei cavalieri francesi coperti delle loro armature e colla croce rossa sulle spalle si presentarono in mezzo all'adunanza, si posero in ginocchio, e piangendo uno di loro prese a parlare ad alta voce così: «Signori Veneziani, noi siamo venuti qui in nome dei principi e dei baroni più possenti della Francia per supplicarvi ad avere pietà di Gerusalemme, la quale è ricaduta in mano dei Turchi. Sanno i Francesi, che voi siete i sovrani del mare, e ci ordinarono di venire a gettarci ai vostri piedi e di non sorgere, se prima non ci avrete promesso di aiutarli a liberare la Terra santa dal giogo degli infedeli.»
Terminate queste parole i sei cavalieri si fecero di nuovo a sciogliersi in lagrime, e in tutta l'assemblea risuonò questo grido: «Vel concediamo! vel concediamo!
Il Papa che allora regnava a Roma, chiamato Innocenzo III, aveva eziandio invitato tutti i sovrani d'Europa a prendere la croce; ma soltanto un buon numero di signori Francesi e di Italiani si accinsero a quella nuova guerra santa. I Veneziani pel desiderio di cooperare a tale impresa accettarono l' offerta, e Dandolo stesso, malgrado la sua vecchiezza, volle crociarsi; e fece allestire un numero sufficiente di galere per quella grande spedizione.
La flotta veneziana aveva già sciolto le vele per la Palestina, e strada facendo aveva ridotto ad obbedienza Zara, città della Dalmazia, che si era ribellata alla repubblica, quando un principe greco, di nome Alessio, e soprannominato l'Angelo, in età di soli dodici anni, andò a presentarsi ai crociati, supplicandoli di dargli aiuto.
Il giovane Alessio era figliuolo di un imperatore di Costantinopoli, detto Isacco l'Angelo, cui un crudele fratello aveva avuta la barbarie di far cavare gli occhi e rinchiudere in una profonda prigione per mettere sè al possesso del trono. Fortunatamente Alessio potè fuggire dalla reggia travestito e giungere fino a Zara, dove era allora raccolto l'esercito dei crociati.
La poca età di Alessio, le sue grazie, il dolore che egli dimostrava pel suo infortunio e per quello del genitore trassero a pietà i buoni crociati; e poichè quel coraggioso fanciullo, dotato di una ragione affatto superiore agli anni, promise {235 [235]} grandi ricompense, pnrchè avessero voluto recarsi a Costantinopoli per discacciare l'usurpatore dal trono e riporvi il cieco Isacco, tutti acconsentirono con premura a porgergli aiuto, fermi di non permettere che un sì orrendo misfatto rimanesse impunito.
Pochi giorni appresso l'intiera flotta dei Veneziani comandata dal vecchio Dandolo veleggiò verso Costantinopoli; e dopo parecchi mesi di tragitto pericoloso per un sì grande numero di uomini e di cavalli giunsero ad un mare detto Propontide, oggidì mare di Mannara. Colà si offerì Costantinopoli ai loro occhi maravigliati, e a tale vista un grido di ammirazione uscì dalla bocca di tutti.
Ma quando le navi si accostarono alla città, e si poterono bene distinguere i suoi bastioni coperti di un'immensa quantità di soldati, non vi ebbe tra i Latini neppur un guerriero, il quale non gettasse lo sguardo sulla sua spada e sulla sua lancia, e non fremesse vedendo il numero dei nemici, con cui avrebbe avuto a combattere; poichè in Costantinopoli erano ben venti armati contro ad ogni soldato francese e veneziano. Ciò nondimeno, dopo quel primo momento di sorpresa, da cui anche i più intrepidi non avevano saputo guardarsi, ognuno rinfrancato dalla presenza e dalla perizia di Dandolo, ripigliò coraggio e si preparò valorosamente a combattere nel tempo stesso e per mare e per terra.
L'usurpatore di Costantinopoli, addimandato eziandio Alessio Angelo, principe crudele, che non aveva esitato di far accecare il proprio fratello per farsi strada al dominio, volle provarsi a combattere coi crociati; ma al solo aspetto di quegli uomini saldi come muraglie i Greci fuggirono vergognosamente senza pugnare, ed abbandonarono ai Latini le torri, le mura ed i principali quartieri della città.
Dandolo ed i baroni francesi non avevano più se non un passo a fare per rendersene padroni, quando l'imperatore Alessio, atterrito al vedersi attorniato da tanti guerrieri, ordinò che fosse apparecchiato un piccolo naviglio carico d'oro e di ricchezze, e sopra quello montando col favor dell' oscurità della notte riuscì ad ingannare la vigilanza dei Veneziani e a fuggire. Alcuni ufficiali del palazzo volendosi far un merito del loro attaccamento ad Isacco, lo tolsero di prigione e lo vestirono della porpora imperiale, {236 [236]} lo riposero sul trono e invitarono suo figliuolo ad andarsi a gettare fra le sue braccia. I Veneziani ed i Francesi stupefatti di quell'inaspettata rivoluzione, deposero le armi, e lasciarono in libertà il giovane Alessio, il quale giurò di compiere senza indugio la fatta promessa, vale a dire di dare ai crociati grosse somme di danaro ed un buon numero di soldati e di navi per la conquista di Terra santa.
Ma la storia ci ammaestra come i Greci siano quasi sem pre stati di mala fede; ed Isacco udendo l'impegno che suo figliuolo si era preso coi Latini, rifiutò di mantenere promesse cotanto sacre. A siffatta notizia i crociati furono pieni d'indegnazione, e pensando ai loro servigi rimeritati sì male, al sangue sparso per quella causa straniera, e tante fatiche rimaste infruttuose per la conquista di Gerusalemme, ricorsero alle armi. Ma Isacco e il giovane Alessio furono presto puniti di tale ingratitudine; un uffiziale del palazzo imperiale uccise a tradimento il cieco padre col figliuolo, e fecesi proclamare imperatore.
Allora che la nuova di queste cose giunse a Dandolo ed ai capitani francesi, non poterono essi trattenersi dallo spargere lagrime sul destino del giovane Alessio. Un giusto sdegno rapidamente passa da' baroni nelle schiere dei loro soldati, e tosto dato gagliardo assalto entrano nella città e in poco d'ora se ne rendono padroni.
Marzuflo (tale era il nome dell'omicida usurpatore) scorgendo inutile ogni resistenza si dà alla fuga. Allora i crociati divenuti padroni della grande città proposero a Dandolo di salire sul trono imperiale: ma il vecchio doge se ne scusò a cagione della grave età, asserendo che amava meglio essere doge di Venezia e finire i suoi giorni nell'amore dei suoi cittadini, che diventare imperatore di Costantinopoli. In sua vece fu eletto Baldovino, conte di Fiandra, che era allora una provincia di Francia.
Dopo rifiutato il trono imperiale Dandolo pensava di fare ritorno a' suoi; ma prima di salpare da Costantinopoli assalito da grave malattia, conseguenza delle ferite riportate in battaglia, fini i suoi giorni fra quelle mura, che erano state testimoni delle gesta di sua vecchiezza. Egli morì nel 1205.
La storia loda il valore e la generosità di Dandolo nell'assalire i Greci e soggiogare Costantinopoli; ma lo biasima, {237 [237]} perchè invece dì condurre le sue genti alla conquista di Terra santa, come aveva promesso al Papa ed ai Francesi, consumò uomini e tempo per uno scopo assai diverso; motivo per cui i Luoghi santi continuarono ad essere in mano dei Turchi.
Quasi fino a quel tempo il popolo di Venezia aveva partecipato nella elezione del doge e dei membri del gran Consiglio, dai quali veniva governata la repubblica. Ma circa a quest'epoca si cominciò a togliere al popolo la elezione del doge, quindi quella dei membri del gran Consiglio, e da ultimo fu stabilito che non potesse essere ammesso fra questi membri chiunque non discendesse da parenti, i quali vi avessero avuto posto. Il popolo e gran numero di gentiluomini, esclusi in questo modo dal gran Consiglio, si sollevarono; laonde per cessare ogni sommossa fu creato un tribunale detto dei Dieci, perchè composto di dieci uomini: e al loro arbitrio fu affidata la tutela dello Stato. Questo tribunale coll'andare del tempo restrinse in sè la suprema autorità; e tuttochè possa parere essere stato misterioso sovente e severissimo, non si può negare che abbia prodotto molti vantaggi alla repubblica.
XXVI. I guelfi ed i ghibellini. (Dal 1205 al 1240).
Di mano in mano che i barbari venuti in Italia deponevano la loro ferocia, cessava l'influenza straniera nei nostri paesi, e questa penisola si andava consolidando in parecchi stati diversi. Se voi portate gli occhi sopra una carta geografica dell'Italia del medio evo, vedrete che i principali regni di quel tempo erano quello di Napoli, fondato dai figli di Tancredi d'Altavilla; il Patrimonio di s. Pietro, di cui vi è nota l'origine; ma notevolmente aumentato dall'eredità di una contessa di Toscana, chiamata Matilde. Ed infine le repubbliche di Venezia e di Pisa, le quali per l'estensione del commercio e pel numero dei vascelli erano divenute potenze assai ragguardevoli.
In capo all'Italia vedevansi la Lombardia, ubertosa provincia, ricca di un gran numero di città, importanti, come {238 [238]} Milano, Pavia, Bergamo, Piacenza, Cremona; e la Toscana, di cui Firenze e Lucca erano le principali. Quelle città per la maggior parte doviziose e popolate, poste sotto al più bel clima del mondo, erano circondate da bastioni, sormontate da alte torri, e difese da profonde fosse, delle quali cose scorgonsi ancora le traccio in parecchie di esse. Le vecchie torri che vediamo in Torino ce ne somministrano una rimembranza.
Mentre le città italiane andavano così consolidando il loro governo, spesso erano molestate dai re ed imperatori stranieri, i quali pretendevano qualche diritto sopra l'Italia. Intanto che si discutevano i diritti colle ragioni e colle armi alla mano, gli uomini più religiosi d'Italia e di Germania pigliarono la parte del Papa, gli altri presero la parte di alcuni sovrani. Dal nome di due illustri famiglie tedesche i partigiani di quei re e di quegli imperatori si denominarono Ghibellini; quelli del sommo Pontefice Guelfi. Ogni città, ogni provincia, ogni terra, e per poco ogni famiglia conteneva nel proprio seno Guelfi e Ghibellini, che si odiavano a morte. Queste maledette discordie durarono più so-coli, e fecero spargere molto sangue.
Durante le lunghe contese tra i papi e gli imperatori di Germania, Enrico VI, figliuolo di Federico Barbarossa, togliendo in moglie la figliuola di Guglielmo re delle Due Sicilie, aveva unito tutto quel regno all'impero di Germania.
Questo Enrico dopo un regno poco onorevole morì, lasciando un figliuolo di quattro anni, conosciuto sotto il nome di Federico II. Costanza di lui madre, trovandosi al punto di morte, affidò la cura del giovane Federico al sommo Pontefice Innocenzo III; ma il pupillo fatto adulto mandò a vuoto le sollecitudini del Papa, e malgrado ogni promessa, ogni giuramento di proteggere la religione, volse perfidamente le sue mire ad estendere i suoi dominii e a soggiogare le città d'Italia, che governavansi indipendenti a maniera di repubbliche.
A quei tempi in alcuni comuni si cominciarono ad introdurre le signorie, specie di tirannidi Venivano innalzati alle maggiori cariche uomini molto potenti e per ricchezze e per aderenze; costoro mentre esercitavano i più alti uffizi procuravano di accrescere ognora più la loro fazione, di maniera {239 [239]} che offrendosi una qualche occasione facevansi acclamare signori.
Fra cotesti ambiziosi v'ebbe un certo Ezzelino, che per giugnere al suo intento fecesi capo dei Ghibellini d'Italia. Quindi aiutato da Federico II si rese padrone di Verona e di alcune altre città, su cui esercitò vera tirannìa. Egli fu uno dei principali strumenti di cui si servì Federico II per combattere la seconda Lega Lombarda, che si formò fra le città di Torino, Alessandria, Vercelli, Milano, Bologna, Brescia, Mantova, Piacenza, Vicenza, Padova, Ferrara, Treviso, Crema, e il Marchese di Mont'errato,a fine di opporre una valida resistenza all'imperatore. E poichè comune era il pericolo, comune fu altresì la difesa. Ma il Papa vedendo che trattavasi di venire a grave spargimento di sangue tra soldati italiani, si adoperò per modo, che riuscì a sedare gli animi a condizioni vantaggiose e per l'imperatore e per le città alleate.
Tuttavia Federico, solito a violare le promesse, corrispose al Papa colla massima ingratitudine. Diedesi a perseguitare gli ecclesiastici spogliandoli ed esiliandoli; impose alle chiese ed ai monasteri gravissimi balzelli e giunse fino a sollevare i Ghibellini di Roma contro alla persona del Pontefice. Allora il Papa si unì alla lega lombarda, e fatta causa comune coi Veneziani e coi Genovesi, tutti si prepararono contro al comun nemico.
Federico risolse di combatterli e di opprimerli tutti. A questo fine si pose alla testa di forte e numeroso esercito composto di Tedeschi, di Saraceni e di fuorusciti Ghibellini, che in gran numero venivano a congiungersi colle sue genti. Così per la prima volta fu veduta guerra aperta tra Guelfi rappresentati dalla Lega lombarda, dal Papa, dai Veneziani e dai Genovesi, e tra Ghibellini sostenuti dal formidabile Federico. Riesce difficile il descrivere i saccheggi, le oppressioni, le stragi, le carnificine e lo spargimento di sangue, di cui questa lotta fu cagione da ambe le parti. Finalmente l'imperatore, ora vittorioso, ora vinto, marciò con tutto le sue forze contro alla città di Parma, dove i suoi avevano toccato una grave sconfitta.
I Parmigiani si opposero valorosamente agli assalitori. La città fu stretta di assedio; terribili furono gli assalti accompagnati {240 [240]} da orrende barbarie. Terribile fu la difesa per due anni. Ciò non ostante quel popolo minacciato dagli orrori della fame, mirava avvicinarsi il fatale momento di doversi arrendere, quando un mattino sopraggiunge un grande numero di alleati. Allora facendo una sortita i Parmigiani assalgono improvvisamente l'esercito imperiale, di cui fanno tale un macello, che i non uccisi sono costretti a darsi a precipitosa fuga.
Dopo questo memorabile avvenimento Federico pieno di vergogna si ritirò nel suo regno di Napoli, dove pel rammarico delle toccate sconfitte, pel rincrescimento che suo figliuolo Enzo fosse caduto prigioniero in mano dei Bolognesi, ed anche agitato dai rimorsi di essersi ribellato contro alla propria religione, fini di vivere.
Morto Federico, sostenne qualche tempo la causa dei Ghibellini Corrado IV, di lui figliuolo e successore, finchè venne avvelenato per arte di suo fratello Manfredi, il quale ambiva succedergli. Corrado lasciò per solo erede dell'impero e del regno di Sicilia un fanciulletto di tre anni anche di nome Corrado, per la sua tenera età chiamato Corradino
Credo che non abbiate ancora dimenticato come i Normanni nello stabilirsi in Italia eransi dichiarati vassalli del Papa, la qual cosa rendevali da lui dipendenti; e intenderete di leggieri come nessun altro potesse entrare al possesso di quel regno, senza il consenso del Papa medesimo. Innocenzo IV, che allora regnava in Roma, vedendo il regno di Napoli senza legittimo sovrano, si dispose di cèderne il possesso a quello tra i principi d'Europa, che volesse riconoscersi suddito e protettore della Chiesa, come fatto aveva Roberto l'Intrepido.
Lo zio di Corradino, quèl medesimo Manfredi che aveva procurato la morte a Corrado IV, valoroso guerriero, ma d'indole feroce e irreligiosa, sotto colore di sostenere i diritti del nipote, sostenne altresì accanitamente la parte dei Ghibellini per aprirsi una strada al trono. Il giovane Corradino poi era allevato in Germania e viveva tuttora sotto gli occhi di sua madre, quando si sparse la voce che il real fanciullo era morto di malattia.
A quella notizia i Ghibellini incoraggiarono Manfredi a prendere il titolo di re delle Due Sicilie; ed egli che sommamente {241 [241]} desiderava quel titolo pomposo vi acconsend. Ma appena incoronato ebbe notizia che la voce sparsa della morte di Corradino era falsa; anzi erano giunti ambasciatori in Napoli, chiedendo istantemente che a Corradino fosse restituito lo scettro di suo padre. Ma i superbi colgono volentieri le occasioni che possano esaltarli, e rifuggono da tutto ciò che li potrebbe umiliare; perciò Manfredi fece venire gli ambasciatori tedeschi al suo cospetto, e rispose come egli era salito sul trono, e non ne voleva altrimenti discendere per cederlo a suo nipote, se non dopo morte.
Cotesta risposta mosse a sdegno l'imperatrice; lo stesso romano Pontefice minacciò Manfredi della scomunica, se non rinunciava a quel trono, che per nessun titolo gli apparteneva. In simile frangente essendo l'Italia minacciata dai Tedeschi di fuori, da Manfredi e dai suoi seguaci al di dentro, il Papa giudicò bene di ricorrere ad un principe francese, di nome Carlo, conte d'Angiò, fratello di san Luigi re di Francia.
XXVII. Carlo d'Angiò ed i vespri siciliani. (Dal 1238 al 1285).
Carlo d'Angiò era un principe valoroso, che desiderava acquistarsi gloria; perciò di buon grado acconsentì di trasferirsi in Italia, a fine di sedare il tumulto cagionato dai Ghibellini, e cosi impadronirsi del regno di Napoli. Giunto in Italia con numerosa cavalleria e fanteria, entra nel regno di Napoli, va ad incontrare Manfredi, il quale erasi eziandio apparecchiato a resistergli. Ma l'avvicinarsi dei Francesi aveva sparso il terrore nei suoi baroni; e quando Manfredi intimò alle sue genti di porsi in atto di battaglia, si accorse con dolore che molti di essi tremavano di spavento.
Tuttavia i due eserciti vennero alle mani e s'incontrarono sulle rive del fiume Calore, a poca distanza dalla città di Benevento. Qui si appiccò un sanguinoso conflitto, nel quale Manfredi fece prodigi di valore; ma col ribellarsi al Vicario di Gesù Cristo essendosi reso indegno della protezione del cieio, ogni suo sforzo tornò vano; i suoi baroni {242 [242]} lo abbandonarono, e quasi tutto il suo esercito sbandato si die' alla fuga. Allora egli disperato si gittò dove più ferveva la mischia, e dopo aver atterrata ed uccisa una moltitudine di nemici, cadde egli stesso sotto ai colpi dei Francesi, i quali attoniti di trovare tanto coraggio in un semplice cavaliere, lo uccisero senza conoscerlo.
La parte dei Ghibellini, indebolita per la morte di Manfredi, si rivolse al giovane Corradino, il quale nell'età di appena sedici anni dava già indizio di possedere sublimi qualità. I Ghibellini lo riguardavano come l'unico loro sostegno e lo invitarono a venire in Italia. La madre di Corradino era desiderosa di vedere un giorno la corona sul capo del figliuolo; Corradino stesso non vedeva l'ora di assicurarsi il regno, cui giudicava avere diritto. Inoltre i più illustri Ghibellini di Pisa, di Napoli e di altro città d'Italia solle-citavanlo a venir presto in Italia, assicurandolo che al suo avvicinarsi tutti sorgerebbero contro ai Guelfi.
Corradino acconsentì; i più potenti signori della Germania ed un grande numero di illustri guerrieri corsero sotto le sue bandiere per aiutarlo coi loro formidabili squadroni; ma fra tutti era insigne Federico, duca d'Austria, già segnalatosi in molte guerresche imprese.
All'avvicinarsi dell'esercito Tedesco i Saraceni di Sicilia, quei medesimi che avevano già fatto tanto male all'Italia, fedeli amici di Manfredi, e tutti i Ghibellini della Lombardia presero le armi per unirsi a lui. La notizia di quella immensa rivolta empiè di spavento Carlo d'Angiò, il quale era stato colto quasi all'improvviso, essendosi eseguiti i preparativi da guerra colla massima segretezza.
Corradino si avanzò a Roma, d'onde il Papa era partito precipitosamente per ricoverarsi in una città vicina. Allora i Ghibellini di Roma offersero al principe tedesco un buon nùmero di soldati e quei tesori, che il Papa nella sua fuga aveva dovuto abbandonare nelle chiese. Questo modo di operare, miei cari giovani, era un tristo presagio; e vorrei che stesse ben impresso nelle vostre menti come il disprezzo della religione sempre ci tiri,addosso l'ira del cielo. Corradino adunque giunto al confine del regno di Napoli, seppe che Carlo gli veniva incontro con un esercito più debole del suo, e si rallegrò sulla speranza di un avvenimento felice, {243 [243]} che doveva decidere del suo destino. Ma vane tornarono le sue speranze.
I due eserciti non tardarono a trovarsi di fronte in una vasta pianura, che si estende vicino alla città di Aquila a poca distanza dal lago Fucino: colà si agitarono per l'ultima volta le sorti degli imperatori di Germania tra i Guelfi ed i Ghibellini. L'ardente valore di Gorradino non valse contro alla consumata esperienza del principe francese: egli ebbe il dolore di vedere il suo esercito posto in rotta e distrutto dai soldati di Carlo; ed egli stesso avviluppato dai fuggiaschi col valoroso Federico d'Austria cadde nelle mani del suo rivale.
Egli è certamente una grande gloria per un guerriero il Saper vincere, ma è da uomo glorioso e magnanimo il valersi con moderazione della vittoria. La qual cosa non fece Carlo d'Angiò. Invece di tener rinchiusi quei due principi, o assicurarsi altrimenti della loro persona, egli fece radunare alcuni giudici, cui indusse a pronunciare contro di loro la sentenza di morte.
Il giovane Corradino giuocava agli scacchi col duca Federico, quando si andò loro ad annunciare la sentenza, che li condannava a perdere la vita; e la sentenza fu di presente eseguita. Giunto Corradino sul palco del patibolo, si tolse da se stesso il mantello, e dopo di aver fatto in ginocchio una breve preghiera, si rialzò esclamando: O madre mia! mia povera madre! che trista nuova stai per ricevere!
Ma nemmeno Carlo d'Angiò fece paga la comune aspettazione. Appena si vide tranquillo possessoie del suo regno ne divenne in mille maniere l'oppressore, disprezzando lo stesso romano Pontefice, che lo aveva invitato a portare soccorso ai popoli di Sicilia e di Napoli, e di cui erasi costituito rispettoso vassallo. Da 17 anni regnava Carlo sugli abitanti delle Due Sicilie, e per altrettanti anni quei popoli gemevano avviliti e spogliati dai commissari reali; cosicchè il giogo straniero era divenuto insopportabile. Il malcontento giunse a segno, che scoppiò una ribellione in Palermo per un accidente che sono per raccontarvi.
Fra i molti oppressi da Carlo fu un certo Giovanni da Precida, cui erano stati confiscati i beni per ordine del re. {244 [244]} Egli era un dotto e nobile cittadino che altamente sdegnato di vedere i popoli di Sicilia oppressi dalla tirannia dei Francesi, eccitò Pietro re di Aragona, che aveva sposata una figliuola di Manfredi, e lo risolvè a venire alla conquista del regno di Sicilia. Molti baroni ed altri nobili personaggi aspettavano solamente qualche novella occasione per dar principio alla rivolta, e l'occasione non tardò molto a presentarsi.
Nel giorno 30 marzo del 1282, che era la seconda festa di Pasqua, un soldato francese fu tanto insolente e villano da porre le mani addosso ad una fanciulla, che si avviava modestamente alle nozze; il fidanzato, ossia lo sposo, venuto alle mani col francese, lo uccise. Questo fatto infiammò gli animi già commossi dei Siciliani, e il desiderio di vendicarlo si propagò in un momento fra i molti parenti degli sposf; sicchè da tutte parti si gridò: Muoiano i Francesi. Palermo intera levossi in armi, il popolo si precipitò sui Francesi, e ne menò orribile strage; lo stesso fecero altre città della Sicilia. Tale strage fu denominata i Vespri Siciliani, perchè quando la gente cominciò a gridare all'armi! all'armi! suonava appunto la campana del vespro.
Alla notizia di questa sommossa il re Carlo corse con numeroso esercito per acquetare i tumulti; ma tosto essendovi sopraggiunto Pietro d'Aragona i Siciliani si diedero a lui, e Carlo dopo molti infortunii col dolore di aver interamente perduto il regno di quell'isola, si dice che abbia finito col darsi volontariamente la morte l'anno 1285.
Venne riconosciuto re di Sicilia Pietro d'Aragona, il quale con un governo paterno riparò in parte i mali, che i re antecessori avevano cagionato. In mezzo a quelle terribili stragi un solo francese di nome Guglielmo, governatore di Calafatimi, scampò all'eccidio dei suoi concittadini. Esso aveva sempre operato con umanità e giustizia, e per questi suoi meriti ebbe salva la vita a se stesso e alla famiglia. Ricordatevi, giovani miei, che chi fa male trova male, e che per lo contrario gli uomini dabbene sono sempre rispettati anche fra i maggiori disordini, perchè chi fa bene trova bene.
Morto Corradino i Ghibellini stanziati in Firenze ne furono cacciati. Ma invece della pace sospirata, si suscitarono nuove contese fra le più alte classi dei cittadini ed {245 [245]} il popolo; e questo essendo molto più numeroso, prevalse. Allora tutti i cittadini dati alle arti principali si radunarono per eleggere i capi della repubblica. Coloro che vennero nominati si chiamarono Priori delle arti, che dovevano durare in uffizio solamente due mesi, dopo i quali se ne eleggevano degli altri;, quegli poi, che aveva il comando dell'esercito, prendeva il nome di Gonfaloniere: il quale, oltre alla dignità di generale, fu anche incaricato di far eseguire le condanne che si davano nei tribunali di giustizia. In questo modo fu introdotta in Firenze una nuova forma di governo, che durò quasi tre secoli.
XXVIII. La Repubblica di Genova ed i pisani. (Dal 1268 al 1288).
Genova era già molto rinomata al tempo dei Romani, e mediante l'operosità dei suoi cittadini essa divenne poco per volta una città importantissima. In mezzo alle invasioni dei barbari i Genovesi eransi quasi sempre conservati indipendenti. Quando poi Carlomagno venne ad impadronirsi dell'Italia, anche Genova se gli sottopose; ma dopo la morte di quell'imperatore continuò a reggersi in forma di repubblica, come facevano le città di Venezia e di Pisa. Per lo spazio di cinquecento anni Genova, rimasta libera da ogni influenza straniera, potè divenire rinomatissima pel suo commercio e per l'industria dei suoi abitanti.
Siccome non vi sarà forse ancora ben noto che cosa sia commercio, tenterò di darvene un'idea. Nei tempi antichi non eravi ancora l'uso delle monete, ma fra i primi uomini, come vi ho raccontato nella storia sacra, gli uni si davano a coltivare la terra, gli altri a custodire il gregge od alla caccia degli animali selvaggi. L'agricoltore, che non possedeva abito per coprirsi, andava a trovare il cacciatore od il pastor suo vicino e gli proponeva di cangiare una certa quantità di grano contro una pelle di bestia, od alquanta lana di pecora o di montone, a fine di farsene una veste per l'inverno. Di buon grado corrispondevano il cacciatore, od {246 [246]} il pastore, perchè con quel poco di grano si provvedevano di cibo per una parte dell'anno. Siffatto cambio di prodotti, che da prima si faceva da ognuno al minuto per le sue particolari necessità, prese man mano a praticarsi in grande da alcuni per professione e per amor di guadagno. Quindi anche nazioni intere ne fecero loro principale occupazione. Ritenete dunque a mente che colui, il quale cangia i prodotti delle sue terre, delle sue mandre o della sua caccia con altre robe, esercita il commercio, e si chiama commerciante o mercante. Ma guari non andò che l'oro e l'argento furono scelti come rappresentanti generali di tutte le merci. Già dai tempi di Abramo questi metalli si adoperavano ridotti in verghe e lamine, dalle quali si tagliavano pezzi più o meno grossi, che si pesavano sulle bilance, secondo la maggiore o minor somma che si doveva pagare. Solamente al tempo di Tullio Ostilio il popolo Romano cominciò valersi di monete coniate. Dopo che fu inventato l'uso delle monete si ebbe molta agevolezza nel commercio, perciocchè esse facilmente si cangiano con qualsiasi merce.
Gli abitanti di Genova per maggior parte marinai od artigiani, favoriti dalla loro posizione sul Mediterraneo, portavano i loro prodotti nei più lontani paesi e ne riportavano in cambio seta, gemme, incenso, pepe, cannella ed altri aromi dell'India e dell'Arabia. La coltura del gelso bianco, che Ruggero Guiscardo recò in Sicilia, fu altresì una sorgente di ricchezze per Genova e per tutta l'Italia; perciocchè l'introduzione di questo utile albero e l'allevamento del baco da seta resero comuni prodotti preziosi, che prima si andavano a cercare con grandi spese in varie regioni dell'Asia. In mezzo però alle sollecitudini del commercio i Genovesi non tralasciavano di impugnare le armi e dar segni di prodezza e di coraggio, qualora fessene il bisogno.
Poco lungi dal Genovesato stava la città di Pisa, emula di Genova sì nel commercio per mare, e sì nel procacciar di assoggettare al suo dominio altre città e terre. Eransi i Pisani appropriate alcune terre possedute dai Genovesi nell'isola di Corsica; e i Genovesi, i quali non potevano vedere senza invidia le prosperità sempre crescenti dei Pisani, colsero questa occasione per dichiarare ad essi la guerra. Spedirono pertanto una flotta per impadronirsi della loro città; ma {247 [247]} questi, che da gran tempo desideravano di misurarsi coi Genovesi, allestirono un numero quasi ugnale di galere, sulle quali imbarcarono una grande quantità di soldati e di marinai.
XXIX. La battaglia della Meloria ed il Conte Ugolino.
In questi apprestamenti guerreschi i Genovesi avevano per. capi due principali signori della loro repubblica, chiamati Doria e Spinola, ambidue illustri per coraggio e per l'importanza delle loro famiglie. Fra i Pisani si distinguevano il Podestà Morosini e il conte Ugolino della Gherardesca, il quale, divenne prestamente celebre nella storia. Le due flotte s'incontrarono nel mare vicino ad una isoletta, appellata Meloria, a poca distanza da Pisa, dove si appiccò fiera battaglia fra quelle armate composte di marinai, insigni del pari per bravura e perizia nell'arte di navigare.
Egli fu terribile cosa a vedere quel combattimento fra due nemici, in quel tempo i più pratici del mare, i quali pugnavano con valore eguale e con eguale abilità. Per un buon pezzo la vittoria rimase incerta, ed i Genovesi cominciavano già a disperare dell'esito della lotta accanita, quando il conte Ugolino, come se fosse stato atterrito dagli sforzi dei nemici, lasciò a precipizio il campo di battaglia, traendo seco la maggior parte delle galere pisane. I capitani di Pisa, i quali ad esempio di Morosini continuavano a combattere contro ai Genovesi, trovatisi a fronte di nemici di gran lunga superiori per numero, non tardarono ad essere sopraffatti per modo, che tutti coloro, i cui vascelli non furono mandati a fondo, caddero in mano dei vincitori insieme col Morosini stesso e collo stendardo della repubblica.
I Genovesi condussero nel loro porto oltre a diecimila prigionieri, ed il mare rigettò sulle rive vicine i cadaveri di un gran numero d'infelici morti in battaglia. La disfatta della Meloria, cari giovani, è un avvenimento ragguardevolissimo, perchè esso fu il primo crollo dato alla potenza di Pisa, cui le discordie cittadine affrettarono la rovina.
Pisa era al colmo dei mali: priva di uomini, di navi, di danaro e di commercio, aveva eccitati contro di sè tutti i Guelfi di Toscana, cioè i Fiorentini, i Pavesi, i Lucchesi ed {248 [248]} altri popoli, istigati massimamente dai Genovesi. Essendo essa una città ghibellina, che aveva maltrattato alcuni cardinali e vescovi, non osava certo ricorrere agli aiuti del sommo Pontefice; laonde si rivolse direttamente a Genova, chiedendo pace; ma le condizioni ne erano talmente dure, che gli stessi Pisani tenuti colà in prigione sconsigliarono la conclusione di una pace cotanto vergognosa. Respinta dai Genovesi Pisa s'indirizzò ai Fiorentini, e questi promisero di proteggerla, a condizione che per l'avvenire seguisse la parte guelfa, cedesse loro alcune terre e li lasciasse padroni di Porto-Pisano, che oggidì chiamiamo Livorno.
Il conte Ugolino che aveva trattato questi affari seppe approfittarne in suo pro', e dopo di aver cacciato i Ghibellini da Pisa ottenne di essere fatto padrone della città per anni dieci. Siccome colle dubbiezze e colle iniquità aveva acquistato il dominio, cosi con eguali arti si guadagnò l'amicizia dei Fiorentini e dei Lucchesi, cedendo loro alcune castella e terre: quindi invece di difendere la patria, ne diveniva il traditore. Il podestà tentò di frenare tanto abuso di potere, ma non fu più in tempo, perciocchè Ugolino lo mandò tosto in esilio, e così restò padrone assoluto della repubblica. Volgendosi un dì con animo temerario a non so qual cittadino gli disse: Bene, che cosa mi manca adesso? nulla, rispose l'altro, fuorchè la collera di Dio.
Ugolino colle sue prepotenze erasi inimicati i più ragguardevoli Pisani, fra cui l'arcivescovo Ruggieri; nè punto curavasi di affezionarsi i minori cittadini, i quali opprimeva con insopportabili gabelle. Un suo nipote fu abbastanza coraggioso di esporgli i lamenti e la miseria del popolo. Sapete quale fu la risposta di Ugolino?... una pugnalata. Un parente dell'arcivescovo accorso per difendere quello sventurato da nuovi colpi, fu sul medesimo istante trucidato. Era impossibile che un uomo reo di tante nefandità potesse a lungo regnare, anzi vivere. Infatto non passò molto tempo che i Pisani si sollevarono, combatterono i seguaci del tiranno, appiccarono il fuoco al palazzo, ove egli risedeva, e preso Ugolino con due suoi figliuoli e con due piccoli nipoti li chiusero in una torre.
Sebbene il conte Ugolino fosse colpevole di molti misfatti; tuttavia i suoi figli e nipoti erano innocenti, e sarebbe stata {249 [249]} giustizia il risparmiarli. Ma quei cittadini nel trasporto del loro sdegno gettarono le chiavi della prigione nel fiume Arno, e li fecero perire tutti e cinque di fame. Ugolino fu prima straziato dal miserando spettacolo dei figliuoli e dei nipoti, i quali ad uno ad uno sfiniti dalla inedia gli caddero morti ai piedi; ed egli poscia venne meno dal digiuno. Questa orrenda scena ci è narrata in sublimi versi da un poeta fiorentino, detto Dante Alighieri, di cui presto avrò a parlarvi. Sui fatti che vi ho di sopra esposto, miei cari giovani, noi dobbiamo fare un profondo riflesso; e questo è che la grande provvidenza di Dio veglia continuamente sul destino e sulle azioni degli uomini. Fu già un tempo che i Pisani soggettarono Amalfi ad orribile saccheggio, ed ora sono eglino stessi costretti a vedere la loro città in preda ai maggiori disastri. Il conte Ugolino fu crudele verso la patria, e fece perire in carcere molti de' suoi concittadini, ed egli stesso prima di morire dovette provare tutti gli orrori di una rabbiosa fame. Quanto sono terribili i giudizi di Dio!
XXX. Cimabue e Giotto pittori. (Dal 1279 al 1320).
Le belle arti, ed in ispecie la pittura, la scultura e l'architettura, che dopo Costantino erano andate in decadimento, cominciarono a ristorarsi in Roma, pigliando vita ed inspirazione dal cristianesimo, servendo ai bisogni del culto religioso. Firenze eziandio, come ricca città e gentile, contribuì non poco al loro incremento.
Celebre ristoratore della pittura ed architettura fu un fiorentino chiamato Giovanni Cimabue, il quale visse ai tempi di Carlo d'Angiò, re delle Due Sicilie, di cui ebbi già occasione di parlarvi. Questo principe, benchè avesse molti difetti, amava assai le arti e le scienze. Passando per Firenze visitò i lavori di Cimabue, e lo ricolmò di elogi. In quella medesima occasione il pittore aveva terminato un lavoro rappresentante la santa Vergine, destinato ad una chiesa di quella città. Il popolo, come per celebrare l'arrivo del re e il termine della immagine santa, si affollò intorno alla casa {250 [250]} del pittore, tolse il quadro, e fra il suono di musicali strumenti e fra le grida di gioia lo portò sino al luogo, in cui doveva essere collocato.
Cimabue coltivava anche con buon successo la pittura sul vetro, e i lavori a fresco sopra le mura; vale a dire sapeva adattare i colori sopra le mura quando è tuttora umida la calcina. Fra gli allievi di Cimabue v'ebbe Giotto (che è diminutivo di Angiolotto), rinomatissimo pittore, scultore e architetto. Egli era di Vespignano, villaggio non molto distante da Firenze. Suo padre, che era contadino, lo mandava all'età di dieci anni a pascere le pecore, e il buon fanciullo le conduceva qua e là nei prati; ma invece di starsene oziosamente sdraiato, come pur troppo male usano molti pastorelli, prendeva diletto a delineare sull'arena o sulle pietre i contorni delle cose naturali, che più gli ferivano la fantasìa.
Mentre un giorno con un sasso appuntato stava disegnando una sua agnellina su d'una lastra pulita, passò colà Cimabue, e stupì in vedendo come un fanciullo senza studio di sorta sapesse figurare sì bene una pecora. Allettato dalla manifesta disposizione per l'arte, e dalle pronte risposte di Giotto gli domandò se volesse venire a dimorare con esso lui. Giotto, che rispettava soprattutto i genitori, gli rispose: «Volentieri, o signore; ma prima è necessario che se ne contenti mio padre, cui per nessuna cosa del mondo io disubbidirei.»
Il padre accondiscese di buon grado, e Cimabue condusse Giotto a Firenze, ove prese ad istruirlo con amore nella pittura. Il giovane era così attento e docile agli ammaestramenti del maestro, che presto diventò il primo pittore dei suoi tempi. Gli uomini più ragguardevoli della città, e tra questi l'insigne poeta Dante Alighieri, usarono con lui domesticamente, ed era universalmente ammirato per l'acutezza e piacevolezza del suo ingegnò. Una volta essendo Cimabue uscito fuori di bottega, Giotto dipinse una mosca così al naturale su di un ritratto colorito dal maestro, che tornato a casa Cimabue e veduta quella mosca si mise a scacciarla colla mano, persuaso che fosse veramente viva, del che molto risero i garzoni e quelli che erano allora nella bottega.
A quei tempi volendo il papa Benedetto XI ornare di magnifiche {251 [251]} pittore la chiesa di s. Pietro, mandò una persona intelligente a visitare i pia valenti maestri d'Italia, acciocchè ne ponderasse il merito, e gli riportasse le prove dei migliori. Quell'inviato raccolse i più bei disegni che potè avere dai pittori da lui visitati; i quali tutti avevano sfoggiato nella perizia loro sulla speranza di venire eletti ad eseguire le pittare di s. Pietro in Roma.
Il gentiluomo giunto in Firenze andò un mattino dove teneva bottega Giotto, e gli espose la mente del Papa, ed in ultimo gli chiese qualche suo disegno per esser presentato a sua Santità. Giotto, che era garbatissimo, prese un foglio ed in esso con un pennello tinto di rosso fece senza compasso un circolo perfetto. Pareva che poco provasse quel semplice circolo; perciò il gentiluomo tenendosi quasi per beffato, disse: Non ho io ad avere altro disegno che questo? E Giotto a lui: «Egli è anche troppo, recatelo a Roma insieme cogli altri, e vedrete che ben sarà conosciuto.»
Così fu; perciocchè il sommo Pontefice e molti valenti artisti, conoscendo la grande difficoltà di segnare un circolo perfetto senza aiuto di strumenti, giudicarono che Giotto superava tutti i pittori del suo tempo. Laonde il Papa chia-mollo con onori e buoni stipendi a dipingere nella tribuna e, nella sagrestia di s. Pietro. Da questo fatto nacque il detto che si usa riguardo agli uomini di poco ingegno: Sei più tondo dell'O di Giotto.
Salito al soglio pontifìcio Clemente V ebbe sì caro Giotto, che’lo strinse a seguirlo quando la sede pontificia fu trasferita in Avignone. Giotto andò col santo Padre in Francia, e in molte città di quel regno lasciò bellissime pitture.
Nell'anno 1316 Giotto si restituì alla patria carico di doni preziosi e di onori; ma non gli fu possibile di fermarsi molto in Firenze, perchè in tutte le città era chi invitavalo per avere a qualunque prezzo dei suoi lavori. Lo stesso re di Napoli il chiamò in santa Chiara e nella chiesa reale. Tanto piaceva al re l'ottimo artista, che spesso si tratteneva fa-migliarmente con esso lui, mentre egli stava facendo i cuoi disegni.
Ma l'anno 1336, poco dopo che era tornato dalla Lombardia a Firenze, munito dei soccorsi divini passò da questa a miglior vita nel sessantesimo di sua età. Fu egli pianto {252 [252]} da ogni ordine di persone, e venne seppellito in una chiesa consacrata alla santa Vergine, che aveva coi suoi lavori molto abbellita; egli stesso prima di morire aveva dimostrato vivo desiderio di essere ivi sepolto. Giotto era nato contadino, e pure collo stadio e colla virtuosa sua condotta si acquistò molti onori in vita ed una fama immortale.
XXXI. Dante e la lingua Italiana. (Dal 1265 al 1321).
L'Italia finchè fu soggetta ai Romani adoperava la lingua latina; ma questa dopo Cesare Augusto andavasi a poco a poco corrompendo. Alla venuta dei barbari, che usavano i loro rozzi dialetti, questa lingua si guastò sempre più, giacchè essi per adattarsi all'intelligenza generale, volendo dettare leggi in latino (leggi che tuttavia esistono) lo guastavano orrendamente, introducendo nuovi vocaboli, e non curandosi punto dei casi che soglionsi appellare genitivo, dativo, ecc. Udivano, per esempio, le persone che più volte parlando latino dicevano: Da mihi illum panem. I barbari volendo dire lo stesso corrompevano le parole e ripetevano: Da mi il pane, che è quanto dire: dammi quel tozzo di pane. Vennero le crociate, e perchè le nazioni d'Europa si mescolarono tra loro in quella grande impresa, e tutti udirono i nuovi linguaggi d'Oriente, il guasto si aumentò ognora più. Erano pertanto in Italia due lingue, la latina usata nelle leggi, negli atti notarili e nelle prediche delle chiese; eravi poi la lingua del volgo, detta perciò volgare, nata da tutte le anzidette corruzioni.
Siccome il volgo stentava a capire il linguaggio latino, così s. Francesco d'Assisi, per viemeglio giovare al prossimo, cominciò a scrivere in lingua volgare certe poesie divote, che noi diremmo laudi. Altri scrittori presero a servirsi della lingua volgare in argomenti di sollazzo, come canzoni, sonetti e simili; e già veniva usata nei discorsi che facevansi pubblicamente nelle repubbliche per trattare gli affari di generale interesse. Sorse finalmente Dante Alighieri fiorentino, il quale pigliandola dalla bocca del popolo la sottomise a p;ù certe regole grammaticali e le diede regolarità {253 [253]} maggiore e forza. Fin dalla sua fanciullezza egli profittò molto dell'assistenza e dei lumi di certo Brunetti suo maestro, che gli portava grande amore. Con uno studio indefesso e colla forza della grande sua mente giunse a guadagnarsi una celebrità universale.
Giunto a quella età, in cui ognuno deve contribuire all'utile della patria, volle abilitarsi alla carriera dei pubblici impieghi; ma poichè in quei tempi niuno poteva aspirare ad un pubblico uffizio, se prima non era ascritto ad una classe di artigiani, così Dante si fece ascrivere in quella degli speziali.
A quel tempo, in cui quasi tutte le città d'Italia erano divise nelle due parti dei Guelfi e dei Ghibellini, Dante, che aveva avuto un maestro guelfo, si rese illustre in molte imprese, combattendo valorosamente contro ai Ghibellini. Egli dimostrò eziandio il suo grande ingegno e valore in quattordici missioni politiche, le quali avevano lo scopo di porre un termine a quelle sanguinose contese. In premio degli importanti servigi prestati alla patria venne creato priore, che era una delle prime cariche in Firenze. Ma questo onore lo espose a fiere inimicizie ed a gravi pericoli per le discordie cagionate dalle fazioni così dette dei Bianchi e dei Neri, la cui origine io voglio qui farvi conoscere.
In Pistoia, città non molto distante da Firenze, nacque casualmente una rissa fra Lore e Gerì, che erano due giovani di due illustri famiglie; nella rissa Gerì fu leggermente ferito. Il padre del feritore dolente di tale offesa, obbligò suo figliuolo a recarsi in casa di quel giovane per fargli _cusa. Tale atto invece di essère gradito, come di certo meritava, irritò maggiormente l'animo del padre di Gerì, il quale ordinò a' suoi servi di afferrare Lore, e di tagliargli una mano. Ciò fatto, lo rimandò dicendogli: Torna a tuo padre, e digli che le ferite si medicano col ferro e non con parole.
Affronto sì barbaro produsse in tutti la più viva indignazione: i parenti e gli amici di Lore al vederlo privo di una mano e grondante sangue montarono in furore, presero le armi e raccolsero seguaci. Quelli della parte avversaria si prepararono alla difesa, e così dalla disunione di quelle famiglie si formarono due fazioni, una chiamata dei Bianchi, perchè uno dei principali loro capi apparteneva ad una famiglia di questo nome; l'altra dei Neri dal nome della famiglia, {254 [254]} a cui apparteneva Lore. Vennero tra loro alle mani, e dopo alcune zuffe e l'una e l'altra parte implorarono l'aiuto dei Fiorentini. Alcune famiglie di questi si dichiararono per questa, altre per quella fazione..., ed i Bianchi trovarono un saldo appoggio nella persona di Dante.
Ma in quel momento Firenze detestava le discordie e lo spargimento del sangue; i Bianchi tuttochè sostenuti dai Ghibellini furono vinti, e Dante che aveva avuto mano in quelle discordie, mentre trovavasi in Roma per una ambascierìa presso il Pontefice, venne condannato ad essere arso vivo. Allora egli lasciati i Guelfi, si unì apertamente coi Ghibellini e con altri ribelli, e tentò di rientrare di forza nella sua patria. Ma il cielo non benedice i ribelli della patria; perciò Dante da quel momento in poi dovette sempre andare errando di paese in paese. Tuttavia il suo grande ingegno gli trovò presto amici e protettori prima in Verona, quindi presso al conte Guido Novello, signore di Ravenna. In questo suo esilio compose la maggior parte del suo poema intitolato: La Divina Commedia, nella quale prese a descrivere, secondo la sua fervida fantasia, l'Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso. Quest'opera maravigliosa formerà mai sempre la gloria della poesia italiana: la sua morale si può ridurre a questa sentenza: che l'uomo, il quale considera i propri peccati e li corregge, facendone la confessione e la penitenza, si rende degno di salire a Dio. Sebbene Dante fosse d'indole bizzarra e vendicativa, aveva tuttavia di molte buone qualità; era dotato d'ingegno riflessivo, parlava poco, ma diceva parole pesanti, poneva nello studio grandissima attenzione, e nessuna cosa valeva a distorlo quando era assorto in esso. Racconta il Boccaccio, altro celebre letterato vissuto nel secolo di Dante, che questo illustre poeta trovò un giorno nella bottega di uno speziale certo libro cui desiderava di conoscere, e che postosi tosto a leggerlo con avidità, vi studiò sopra per ben sei ore continue, senza mai alzare gli occhi e senza nemmeno sentire lo strepito di una brigata di nozze, che passò dinanzi alla bottega, ove egli stava leggendo.
Questo uomo straordinario morì a Ravenna nel 1321 in età di cinquantasei anni, addolorato per non aver più potuto rivedere l'amata patria, come aveva costantemente desiderato. {255 [255]}
XXXII. Corso Donato. - Il duca d'Atene. La grande compagnia. (Dal 1321 al 1343).
Ora che vi ho raccontata la vita del padre della lingua italiana, Dante Alighieri, giudico bene di narrarvi alcuni latti particolari, che nel medesimo tempo si compierono. Nelle sanguinose gare fra i Bianchi ed i Neri si rese celebre un uomo superbo ed ambizioso, di nome Corso Donato. Costui a solo fine d'impadronirsi della città di Firenze erasi posto con finzione dalla parte dei Neri, cui eransi congiunti i Guelfi. Nonostante l'astuzia, con cui conduceva le sue macchinazioni, il popolo giunse a scoprire le trame di Donato, e lo assediò nel proprio palazzo, ove non potendosi più difendere tentò di fuggire; ma fu raggiunto e ucciso appena uscito di città (anno 1308). La superbia e l'abuso delle ricchezze condussero Donato a fine sì miserabile. Molti suoi seguaci finirono del pari miseramente.
I disordini crescendo ogni giorno più nella misera Firenze, quei cittadini stanchi dai lunghi e continui disastri ricorsero al duca di Calabria, affinchè mandasse loro un personaggio capace di proteggere i buoni e acquietare i ribelli. Il duca di Calabria ascoltò quelle suppliche, e spedì ai Fiorentini un certo Gualtieri, soprannominato il duca di Atene. Era costui un furbo scellerato, che fingeva di amare il popolo, e in realtà non cercava che opprimerlo per arricchire se stesso. Appena giunse al potere, ne fece il più tristo abuso. Abbattè e mandò in esilio i nobili, che egli chiamava oppressori della patria; levò le armi a tutti; depose quelli ch'erano in autorità, sostituendo ad essi alcuni suoi amici e compagni di ventura; diede la libertà a tutti i prigionieri, accrebbe le imposte e ne creò delle nuove. A siffatto.abuso di autorità il popolo cominciò a lagnarsi, e si accorse che colui, il quale era venuto per difenderli, erasi fatto un vero e crudele tiranno.
Quel superbo invece di ascoltare i lamenti dei Fiorentini si avviò al peggio, pronunziò sentenze ingiuste,. fece carcerare, battere ed uccidere persone innocentissime. Quindi non {256 [256]} fa maraviglia se vi ebbero di quelli che pensarono in segreto di liberarsi di nn nomo sì malvagio. Il duca, come ebbe sentore della congiura ordita contro di lui, si argomentò di sopraffare ed opprimere i suoi nemici; ma i migliori cittadini uniti col popolo pigliarono le armi e si sollevarono. Gualtieri allora con alcuni soldati ritiratosi in un palazzo tentò difendersi, ma i suoi amici lo abbandonarono, perchè i perfidi non hanno veri amici. Nemmeno i suoi compagni di scelleratezze poterono salvarsi, imperocchè furono tutti trucidati in mezzo al furor della plebaglia. Il duca a stènto ottenne di poter uscire della città (6 agosto 1343) fra l'esecrazione e il disprezzo universale, dopo di averla tiranneggiata dieci mesi.
Cacciato Gualtieri, furono suscitate turbolenze fra i grandi e la plebe fiorentina. Gl'infimi di essa, detti Ciompi, eccitati specialmente da una famiglia chiamata Ricci, che era una delle principali della città, scorrevano le vie schiamazzando contro i signori, ed infine acclamarono gonfaloniere[14] un certo Michele Landò, cardatore di lane. Per tre anni Firenze fu dominata dai Ciompi, dopo i quali si restituirono le cose nell'ordine primitivo.
Mentre succedevano questi fatti particolari, una grave calamità venne a funestare l'Italia. Un certo Guarnieri, duca tedesco, capitano di ventura, bramoso di gloria e di ricchezze, propose ad alcuni avventurieri di unirsi seco lui, a fine di cercare fortuna colla forza. Piacque molto la proposta, e subito una squadra di sfaccendati elessero Guarnieri a loro capo. Molti Italiani turbolenti diedero loro segretamente danari, e molti drappelli dalla Toscana e dalla Lombardia corsero ad ingrossare quella soldatesca raccogliticcia, che prese il titolo di grande Compagnia.
Soldati, donne, ragazzi, e tutta la feccia d'Italia ad ogni passo si aggiungevano ad essi, portando così da per tutto il guasto e lo spavento. Il loro capo portava sul petto una piastra d'argento, sulla quale si leggeva: Duca Guarnieti, signore della Grande compagnia, nemico di Dio, di pietà e di misericordia.
Questi terribili masnadieri attraversarono la Toscana, parte {257 [257]} di essa mettendo a.ferro e a fuoco, parte costringendo a pagare enormi gomme di danaro per campare dal saccheggio. Quasi il medesimo fecero nella Romagna; ma rivolgendosi verso la Lombardia trovarono le città di Ferrara, di Bologna, di Ravenna, di Piacenza e d'Imola armate e pronte ad opporsi al loro cammino. Dopo alcuni combattimenti scorgendo inutile ogni sforzo, Guarnieri ottenne di poter passare liberamente; indi entrando in Lombardia saccheggiò e disertò il ducato di Modena e di Reggio; e al fine, carico di danaro e di prede, a squadra a squadra coi suoi fè ritorno in Germania per divorarsi colà nei bagordi le spoglie rapite agli Italiani.
Fu questo uno dei più segnalati esempi delle compagnie di ventura, cioè di quelle compagnie che facevano guerra non per obbligo, ma per cercare onore e fortuna. Noi vedremo nel progresso di questa storia molti esempi di simil fatta.
XXXIII. I papi in Avignone. (Dal 1305 al 1365).
Allora che vi parlai dello stabilimento della sede pontificia nella città di Roma, voi notaste sicuramente, come questa città da capitale del Romano impero sia divenuta capitale del cattolicismo. Pareva che il Papa vescovo di Roma non dovesse cangiare la sua dimora. Ma per una serie di tristi avvenimenti dovette abbandonare la sua sede e trasferirsi ad Avignone, grande e bella città della Francia, situata sulle rive del fiume Rodano.
La causa di tale traslazione derivò dalle oppressioni fatte da Filippo il Bello, re di Francia e di Napoli. Costui favori molto i ribelli di Roma, e specialmente la famiglia detta dei Colonna e degli Orsini, i quali erano tutto rabbia contro al romano Pontefice. Filippo mandò un suo generale chiamato Nogaret, il quale dopo di aver costretto il romano Pontefice a fuggire nella città di Anagni, si recò colà armata mano alla testa d'iniqua sbirraglia, mandando insane grida contro al Papa, che era Bonifacio VIII. Se gli presentò quel generale innanzi, e in tuono minaccioso a nome della corte di Francia {258 [258]} imposegli o di accondiscendere a quanto desiderava il re (che pretendeva cose illecite), o di acconciarsi ad esser trascinato in Lione per essere ivi deposto. Il Pontefice pacatamente rispondeva: «Per la fede di Cristo e per la sua Chiesa sono disposto a soffrir volentieri qualsiasi cosa ed anche la morte.»
Per tre giorni il Papa restò come prigione nel proprio palazzo, ove soffri mille insulti ed abbiezioni, specialmente per parte di un romano, chiamato Sciarra Colonna. Costui giunse alla scelleratezza di dare un forte schiaffo al Papa; e lo avrebbe pur anche ucciso, se non fosse stato rattenuto dallo stesso Nogaret, meno feroce di quella belva. Intanto la prigionia del Pontefice dispiaceva oltremodo a quei di A-nagni, i quali prima mossi a compassione, indi a furore, impugnarono le armi e cacciarono via i sacrileghi; ed unitisi a quelli, che da Roma erano accorsi per liberare il loro padre e sovrano, lo condussero sano e salvo nella sua sede tra le acclamazioni e gli applausi della fedele città.
Ma fu di breve durata il contento di Roma, imperocchè trentatrè giorni dopo il suo ritorno Bonifacio mori consumato dagli anni e sfinito dalle oppressioni (an. 1303). Dopo questo avvenimento i Papi non ebbero più libertà in Roma, anzi i cardinali incontravano gravissime difficoltà per radunarsi ad eleggere un successore al defunto Pontefice. Per questi motivi il pontefice Clemente V, vedendo l'Italia insanguinata da orribili fazioni, da inimicizie spietate ed implacabili, ed essere impedita la libertà della Chiesa, se continuava a dimorare in Roma, trasportò nell'anno 1305 la romana sede in Avignone, amando meglio accomodarsi a volontario esiglio, che assistere a tante stragi e rovine. In cotesta guisa Avignone divenne la stanza dei Papi per circa 70 anni; e Roma e l'Italia restarono prive del loro principale ornamento.
Io non posso enumerarvi ad una ad una le triste vicende, cui andò soggetta Roma, e direi tutta l'Italia nel tempo che i romani Pontefici dimorarono in paesi stranieri. Cessò quel numero straordinario di forestieri, che in vari tempi dell'anno sogliono recarsi in quella grande città per visitare il Capo visibile di tutti i cristiani, la qual cosa era sorgente di molte ricchezze. Le scienze, le arti belle di Roma, che avevano servito di modello a tutte le altre nazioni, mancarono quasi {259 [259]} interamente, siccome prive di alimento; anzi all'ordine, alle scienze, alle arti pacifiche sottentrarono il disordine, la guerra civile e lo spargimento di sangue.
La storia ci fa perfettamente conoscere che l'Italia senza Pontefice diventa un paese esposto a gravi sciagure. I Ghibellini, fatti arditi per l'assenza del Papa, invitano un re di Alemagna, di nome Enrico VII, il quale sotto pretesto di riacquistare i diritti dei suoi antecessori viene in Italia, sottomette molte citta, impone molti balzelli, si fa incoronare re in Milano, di poi va difilato a Roma per cingersi della corona imperiale.
Ma in Roma erano gli Angioini, cioè i partigiani di Roberto d'Angiò, i quali sostenendo le parti dei Guelfi costringono l'imperatore a ritirarsi in Toscana nella città di Pisa, dove poco stante, sorpreso da improvvisa malattia, muore.
Dopo la morte dell'imperatore, i Pisani, che erano quasi tutti Ghibellini, raccolsero un migliaio de' soldati dell'imperatore per opporsi ai Guelfi, e ne affidarono il comando ad un generale detto Uguccione della Faggiola. Sostenuto da quei valorosi egli potè rendersi padrone di Pisa e di Lucca, e vincere gli stessi Fiorentini, che non erano della sua parte. Ma in queha che esso da Pisa se ne andava a Lucca per sedare un tumulto, venne escluso dalla signoria d'ambedue le città. Lucca si creò un altro signore, di nome Gastruccio Gastracane; il quale occupò le città di Prato, Pistoia, Pon-tremoli e la Lunigianà; combattè vittoriosamente contro ai Fiorentini, e portò le armi sotto la stessa loro città.
Frattanto formossi una lega di Guelfi, a cui non potendo resistere i Ghibellini invocarono l'aiuto dell'imperatore di Germania, che allora era Lodovico IV. Venne esso in Italia, e per farsi danaro ed amici vendette a Gastruccio il titolo di duca; e da lui accompagnato se ne andò a Roma, ove si fece incoronare a dispetto del Papa. Ma poco dopo morì Gastruccio, e la lega Guelfa avendo ripreso animo, costrinse l'imperatore a partirsi di Roma. Lodovico dopo essersi fermato ancora qualche tempo in Lombardia uscì d'Italia odiato da tutti.
Roma intanto liberata dai nemici esterni andò soggetta a gravi discordie civili. I seguaci dei Colonna, ostinati nemici del Papa, tentano farla da padroni: altri loro si oppongono, {260 [260]} e si viene a sanguinosa battaglia tra cittadini e cittadini. In quella il figliuolo di un oste, di nome Gola di Rienzo, uomo operoso ed ardito, col disegno di liberare la patria da quelle oppressioni, si unisce al dotto letterato Francesco Petrarca, e con lui si presenta al Papa in Avignone, per supplicarlo di ritornare a Roma, a fine di ristabilire l'ordine e la tranquillità. Il Papa non giudicò a proposito di acconsentire; e Rienzo riputandosi capace di far grandi cose, si mette alla testa di un grande numero di cittadini, muove una ribellione, e resta capo di una repubblica sotto il nome di Stato buono. Combatte i nobili e tutti quelli che erano al potere; ma poscia invece di adoperarsi pel bene della patria egli mena la spada, uccide gli uni, opprime gli altri, impone enormi gabelle e diviene un vero tiranno. Come tale a furia di popolo è cacciato di Roma. In siffatto scompiglio di cose si eccita un guerra generale in tutta l'Italia. Tutto è in rivolta: tutto discordia, e guerre le più accanite ardono tra città e città, e tra cittadini della medesima città. Per tanti mali che l'Italia patì in questo spazio di tempo, i settanta anni passati dai Papi in Avignone soglionsi chiamare i settant'anni di schiavitù babilonica, vuoi pei gravi danni che ne avvennero all'Italia, vuoi perchè il romano Pontefice, che è vescovo di Roma, dovendo vivere lontano dalla sua sede, ne seguitarono eziandio gravi sconcerti a tutto il cristianesimo.
XXXIV. Il Decamerone del Boccaccio e l'incoronazione del Petrarca. (Dal 1340 al 1374).
Vi ho già raccontato, o giovani, come Dante Alighieri fu il padre della lingua italiana, specialmente per l'opera intitolata La Divina Commedia. Ora spero di farvi cosa grata col narrarvi le principali azioni di due altri letterati, che si possono altresì considerare come due padri della nostra italiana favella; e questi sono Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca.
Boccaccio nacque a Parigi nel 1313 da padre fiorentino, {261 [261]} che esercitava la professione di mercante, e si applicò nella sua fanciullezza agli elementi grammaticali della lingua latina. Già in quelle prime scuole per la mólta assiduità allo studio prometteva di farsi un grand'ùomo.
Egli aveva ventitrè anni, e viaggiava per cose di traffico, quando capitato a Napoli andò a visitare la tomba dell'illustre poeta latino Virgilio Marone, ove si senti ardere del vivo desiderio di coltivare la poesia. Allora il padre acconsenti, che egli si dedicasse totalmente allo studio; e Giovanni, dopo di aver.imparato la legale e la filosofia, si pose a studiare la lingua greca in Firenze. Sin dalla sua giovinezza aveva atteso alla poesia, e sperava di ottenere il secondo posto fra i poeti, non permettendogli la sua ammirazione per Dante di poterlo superare; ma tosto che conobbe le poesie italiane di Francesco Petrarca, suo amico, perdette ogni speranza di potersi acquistar gloria col far versi, e diede alle fiamme la maggior parte delle rime che aveva composto. Tuttavia la sua erudizione e destrezza nel maneggio di grandi affari gli meritò la carica di ambasciatore della repubblica Fiorentina presso molte corti d'Europa; ma l'ufficio che gli andò più a sangue fu quello di spiegare alla gioventù la Divina Commedia di Dante.
Mentre viveva il Boccaccio, e precisamente nell'anno 1348, prese ad infierire una terribile peste in tutta l'Italia, e segnatamente nella città di Firenze. I cittadini morivano in grande quantità, e molti si davano alla fuga per evitare la malattia contagiosa. Ciò non di meno si videro in quella occasione bellissimi esempi di coraggio e di cristiana carità; poichè parecchi uomini virtuosi si esposero al rischio di essere vittime di quel morbo attaccaticcio, a fine di assistere e soccorrere i poveri ammalati, far seppellire i morti, ed impedire la diffusione del male.
Il Boccaccio pigliò occasione da questa pestilenza per com-porne un suo lavoro, dove suppone che dieci giovani persone volendo schivare il morbo e darsi solazzo, si erano di Firenze ritirate in un'amena villa, dove ciascuno narrava ogni dì una piacevole novella. Così le novelle raccontate ascendevano a dieci per giorno; e siccome la brigata passò dieci giorni in quella villa, perciò egli intitolò il suo libro Decamerone, parola greca, che significa dieci giornate. Il Decamerone {262 [262]} acquistò meritamente grande fama all'autore, come testo di lingua italiana; ma pur troppo contiene molte sconcezze, per le quali fu proibito dalla Chiesa, giacchè per imparare la purezza della lingua non si dee perdere la purità del cuore. Lo stesso Boccaccio si pentì di averlo composto e voleva annullarlo; ma troppe copie già se ne erano fatte. Pieno di rincrescimento pel male che sarebbe derivato dai suoi scritti, deliberò di abbandonare lo studio ed il mondo per andarsi a rinchiudere, il rimanente della vita, nella solitudine e nel dolore.
Il Petrarca, suo amico, ricevuta la lettera con cui comunicavagli quel divisamente, lo consigliò di cangiar proposito, suggerendogli di riparare altrimenti il mal fatto. Fra le altre cose il Petrarca gli scrisse queste parole: «Tu sei prossimo alla morte: lascia adunque le ciancie della terra e le reliquie dei piaceri, e la pessima tua maniera di vivere. Componi a migliore specchio i costumi e l'animo, cangia le inutili novelle colle vere storie e colla legge di Dio; e quella pianta dei vizi sempre crescente, da cui finora a mala pena toglievi i rami, ora sia interamente troncata e strappata fin dalle radici.»
Il Boccaccio seguì questo consiglio, e finchè visse studiossi di riparare lo scandalo dato dettando buoni scritti, e raccomandando a tutti di non leggere il Decamerone. Egli morì nel 1375. Dall'intero libro del Decamerone fu trascelto un ragguardevole numero di novelle, che non offendono la modestia; e queste si possono leggere dai giovani studiosi.
Amico di Boccaccio era Francesco Petrarca, nato in Arezzo di Toscana. Mediante uno studio indefesso venne ad essere annoverato tra i primi genii dell' Italia fin dalla età giovanile. Egli si rese celebre nella filosofia, nella teologia e nella letteratura; ma la maggior lode gli fu procacciata dalla poesia. Di mano in mano che scriveva dei versi, venivano questi trascritti e cantati nelle corti d'Italia e di Francia; perciò i papi, i principi, i re lo invitavano alle loro reggie e lo ammettevano alle feste e alle mense.
Divulgatasi da per tutto la fama del suo grande ingegno, molti illustri personaggi Italiani stabilirono di dargli un attestato pubblico di stima, offerendogli di incoronarlo in Roma con un serto di alloro. Anche l'università di Parigi desiderava {263 [263]} conferirgli cotesto onore; ma snl consiglio del cardinale Giovanni Colonna egli preferì Roma a Parigi. La incoronatone di alloro era la più grande dimostrazione di stima e di onore, che si potesse dare ad un nomo, e corrispondeva quasi al trionfo degli antichi Romani.
Prima che un poeta fosse incoronato, gli scritti di lui dovevano essere da persone intelligenti formalmente esaminati per giudicare se ne era degno. A questo fine il Petrarca fu spedito a Roberto re di Napoli, riputato il più dotto del suo tempo, e gran protettore dei cultori delle scienze. Quel principe, dopo di aver esaminato e considerato i dottissimi discorsi di lui in ogni parte di letteratura e di scienza, ne fu tanto maravigliato, che voleva egli stesso incoronarlo a Napoli. Ma il Petrarca amò meglio di cingersi l'alloro in quella Roma, in cui erano entrati in trionfo gli eroi dell'Italia antica. Il re non potendo opporvisi, gli donò una veste ricchissima, acciocchè se la ponesse il giorno della sua incoronazione.
Nel giorno di Pasqua dell'anno. 1341 le persone deputate ad eseguire quella gloriosa cerimonia si recarono al palazzo ove dimorava il Petrarca. Inchinatolo rispettosamente, gli misero indosso la veste donatagli dal re Roberto, la quale era di velluto, tempestata di pietre preziose; in capo una mitra d'oro; al collo una catena con appesa una lira, strumento musicale; ai piedi i coturni, calzatura dei tragici antichi; e gli posero molti altri ornamenti bizzarri, ma che avevano qualche onorevole significato.
Quando il poeta fu così vestito, venne accompagnato in mezzo ad una piazza affollata di spettatori, ove stava apparecchiato un carro con intorno un finissimo drappo d'oro. Salito il Petrarca sopra il carro, cominciò la mossa trionfale. Al carro precedevano varie persone vestite ed atteggiate in modo da rappresentare varie virtù. Prima precedeva la Fatica, specie di divinità; poi veniva innanzi la Pazienza, indi la Povertà e la Derisione, che tentavano invano di salire sul carro: seguiva torva e pallida l'Invidia; due cori, uno di voci e l'altro di strumenti facevano echeggiare l'aria di armoniose note; e quando le sinfonie suonavano, alcuni giovanetti con voci argentine cantavano versi in lode del Petrarca. {264 [264]}
Le strade, per cui passava il poeta, erano sparse di fiori; le chiese per onorarlo stavano aperte, e dalle finestre di tutte le case si gittavano rose, gelsomini, gigli al trionfatore. Giunto al Campidoglio in mezzo agli applausi di un immenso popolo, entrò nella sala di giustizia, dove disse una bella orazione, nella quale, secondo il costume, chiedeva l'alloro. Non appena finì di parlare, che gli furono consentite tre corone, una di alloro, l'altra di edera, la terza di mirto. Allora il Petrarca esclamò: Iddio conservi il popolo Romano, il Senato e la libertà! Poi inginocchiatosi avanti al senatore Orsini, da lui ricevette la corona fra le grida ripetute di viva il Petrarca! Ebbe ancora preziosi cloni, tra i quali il diploma di cittadino Romano.
Risalito poscia sul carro, andò al tempio di s. Pietro in Vaticano, dove smontato assistette ai Vespri, che per lui si cantarono solennemente. Qui depose sopra l'altare il suo alloro, che divenne ornamento di quel tempio; e quindi tornò a casa Colonna, ove era apparecchiata una lauta cena.
Tuttavia in mezzo a tanta gloria il Petrarca era sempre afflittissimo, e pei mali cui andava soggetta la sua patria, e perchè i Papi erano tuttora costretti a dimorare nella città di Avignone, come vi ho sopra raccontato. Divenuto vecchio si ritirò in Arquà vicino a Padova. Ivi il mattino del 19 luglio dell'anno 1374 stava seduto tra i suoi libri, svolgendo colla mano i fogli del poeta Virgilio, quando inchinato il capo su quelle carte, spirò. In Arquà si vede il suo sepolcro e conservasi tuttora la sua casa. In Firenze gli fu innalzata una statua di marmo.
XXXV. Il Decamerone del Boccaccio e l'incoronazione del Petrarca. (Dal 1367 al 1377).
Erano ben sessant'anni da che i Papi sedevano in Avignone, a ciò costretti dalle continue turbolenze che agitavano l'Italia, ed anche allettati dai segni di stima e di venerazione loro usati dai re di Francia. Ma il pontefice Urbano V desiderava ardentemente di ristabilire in Roma la residenza pei sommi Pontefici, e questo suo desiderio era vivamente {265 [265]} manifestato da tutto il cristianesimo. Molti personaggi, chiarissimi per virtù e santità, facevano vive istanze per questo sospirato ritorno. S. Caterina da Siena si recò in Avignone a bella posta per animare il Pontefice a far ritorno in Roma. Lo stesso Petrarca scrisse eziandio una bellissima lettera, della quale, perchè piena di sublimi e cristiani sentimenti, io stimo bene di porvi alcuni tratti sott'occhio.
«Considerate, egli diceva al Papa, che la Chiesa di Roma è vostra sposa. Taluno potrà dire, che la sposa del romano Pontefice è la Chiesa universale, non già una sola e particolare. Questo io ben so, santissimo Padre, e a Dio non piaccia r che io restringa la vostra autorità; anzi vorrei piuttosto dilatarla, se fosse possibile, e godo nel sapere che essa non ha alcun confine; ma benchè la vostra sede sia per tutto, ove Gesù Cristo ha degli adoratori, Roma ha con voi1 particolari legami: siccome ciascuna delle altre città possiede il suo vescovo, così voi siete il vescovo della regina di tutte le città. Vi torni a mente, o santo Padre, l'ingiuria che i masnadieri fecero poco fa al luogo, dove voi abitate, ed alla vostra sacra persona. L'Italia offrì mai l'esempio di enormità e delitti cotali?»
Esposti quindi il Petrarca molti mali dai Pontefici sofferti in Avignone, così continua: «Non è dunque ormai tempo di rasciugare le lacrime della sposa di Gesù Cristo, e di farle dimenticare i suoi patimenti con un pronto ed amorevole ritorno? Voi, supremo Pastore e Vescovo della Chiesa universale, voi la terra, il mare e il mondo intero altamente sospirano, ed invocano le vostre cure e la vostra tutela. In fine della vita, quando voi apparirete dinanzi al tribunale di Gesù Cristo, che risponderete al principe degli Apostoli, quando dimanderà a voi donde venite? Considerate se in quel momento vi piacerebbe scontrarvi nei vostri Provenzali, o negli apostoli Pietro e Paolo! Oh Iddio concedesse che in questa medesima notte che io vi scrivo (ed era la vigilia di s. Pietro) foste presente ai divini uffizi nella Basilica del santo Apostolo, di cui tehete il seggio! Quale dolcezza non sarebbe per noi! Quali momenti a voi deliziosi! Non mai di simile ve ne procurerà il vostro soggiorno in Avignone; perocchè non il godimento dei sensibili diletti, ma l'unzione della pietà conduce alla suprema letizia.» {266 [266]}
Urbano, mosso da questi motivi e dai caldi inviti degli Italiani; e d'altro canto temendo che sopravvenissero altri ostacoli ad arrestarlo, si affrettò di effettuare la partenza per Roma. Il giorno ultimo di aprile 1367 si partì da Avignone, e recossi a Marsiglia. Colà stavano apparecchiate ventitrè galere con molti navigli spediti dalla regina di Sicilia, dalle repubbliche di Venezia, di Genova e di Pisa, per condurre con sicurezza il Capo della Chiesa e fargli onore. Salito il Papa sopra una galera veneziana, furono tolte le ancore; e il vento secondando l'ardore del Pontefice, in poche ore si perderono di vista i lidi della Francia.
Giunto in Italia, fin dal primo momento che pose piede a terra, tutti i personaggi più illustri e costituiti in qualche dignità corsero a fargli omaggio; e i deputati di Roma andarono a consegnargli la intera signoria della loro città colle chiavi della fortezza di Castel sant'Angelo, che sino allora avevano conservate. Si fermò quattro mesi in Viterbo per ricevere le dimostrazioni più solenni del rispetto, della gratitudine e dell'allegrezza di tutta Italia. Finalmente fece il suo ingresso nella città, accompagnato da due mila cavalieri, in mezzo al clero e al popolo romano, che gli erano, venuti incontro, e che lo accolsero con solennità e trasporti tali di gioia, che niuno ricordava esservene stato altro esempio.
Alcuni anni dopo Urbano V con animo di sedare una guerra insorta tra i Francesi e gli Inglesi, si recò nuovamente in Avignone, dove appena giunto fra universale rincrescimento finì di vivere nel 1370. Ma Gregorio XI, suo successore, trasferì di nuovo la santa sede in Roma nel 1377; e d'allora in poi Roma più non restò senza papa. Gregorio fece il suo ingresso a cavallo, e attraversò la città di Roma in compagnia di tredici cardinali, seguito da un popolo innumerabile, che non sapeva come esprimere la sua allegrezza. Solamente a sera giunse nella chiesa di s. Pietro, al cui ingresso era aspettato con immenso numero di fiaccole, e dentro cui si erano accese ben più di ottomila lampade.
Voi intanto, o miei amici, ritenete bene a memoria questo grande avvenimento, e notate che quando i disordini e le discordie costringono il romano Pontefice ad allontanarsi da Roma, sono a temersi gravi mali per l'Italia e per la religione. {267 [267]}
XXXVI. Marino Fauero e Vittor Pisani. (Dal 1354 al 1380).
Venezia, miei cari amici, contava nove secoli di gloriosa esistenza. La sua industria, la sua attività, la sua favorevole posizione, il suo commercio, i suoi dogi la fecero da tutti amare e rispettare come regina dell'Adriatico. Ma gli avvenimenti che, dopo le gloriose gesta del doge Dandolo, fecero parlare assai de' Veneziani nella storia, furono quelli di Marino Fallerò e di Vittor Pisani. Marino Faliero era un uomo violento e superbo, che pel suo ingegno e pel valore riuscì a farsi proclamare doge nel 1354. Offeso gravemente dal patrizio Michele Steno, ne domandò soddisfazione al Consiglio dei Dieci, che lo sottopose a molte umiliazioni, tra cui la condanna di essere battuto con code di volpi e ad un anno di esiglio. Il castigo non bastava all'irritato Faliero; che per vendicarsi ordi una cospirazione collegandosi coli' audace scultore Filippo Galendaro e con Bertuccio Israeli, ammiraglio dell'arsenale, cioè capo degli operai. La trama fu condotta segretissimamente. Ogni cosa era pronta, e non mancava che un solo dì alla sollevazione, in cui tutti i nobili dovevano essere trucidati, quando uno de' congiurati svelò tutto al Consiglio. Di tratto questi sono presi: messi alla tortura, confessano il loro misfatto e palesano essere il Doge loro capo. Marino Faliero, tradotto innanzi ai Dieci, non potè negare, e fu condannato a morte. Nel palazzo ducale, e precisamente là, ove i dogi prestavano il giuramento, gli venne dal carnefice mozza la testa (17 aprile 1355).
I suoi complici furono mandati al patibolo. Il Consiglio ordinò ancora, che, a monizione di tutti i cittadini, il ritratto del Faliero, messo fra quelli degli altri dogi, fosse copei to di un velo nero, e una iscrizione postavi sotto ricordasse il delitto commesso e la pena meritata.
Rivale di Venezia era la repubblica di Genova, che era considerata come la padrona del Mediterraneo. L'invidia e la rivalità di queste due repubbliche giunse ad un odio implacabile. Già eransi mosse tre funeste guerre, di cui la più accanita fu quella del 1378. {268 [268]}
Vittore Pisani, ammiraglio veneto, valoroso guerriero, ottimo cittadino, avea più volte menato per mare i Veneziani alla vittoria. Vincitore al promontorio d'Anzio e Traù in Dalmazia, non giugnendo a tempo debito le paghe dei soldati, impedi se ne rifacessero col saccheggio, e distribuì loro giorno per giorno il suo danaro, poi gli argenti da tavola, finalmente una fibbia, che gli restava alla cintura.
A' cinque di maggio 1379, trovandosi egli sovra il porto di Pola con ventidue galee e tre grosse navi da carico, fu sorpreso dall'armata Genovese, forte di altrettante vele e comandata da Luciano Doria. Ne seguì una mischia sanguinosissima, che durò un'ora e mezzo. I Veneziani, già indeboliti da malattie e da tempeste, furono sconfitti, e perdettero quindici galere, le tre navi con sei mila emine di grano, due mila quattrocento prigioni e circa ottocento morti. I Genovesi ebbero a deplorare la perdita di Luciano Doria, trafitto in bocca da una lancia nel caldo della mischia. Vittor Pisani, dopo prodigi di valore, riuscì a fuggir loro di mano con sette galee, quantunque assai malconcie.
Il Consiglio, che prima dava al Pisani taccia di vile, perchè, conoscendo la debolezza delle proprie forze, non accettava battaglia, quando combattè e fu vinto, lo disse traditore, richiamollo in patria, e lo fè'chiudere in orrida prigione. I Genovesi al contrario, incoraggiati dalla vittoria, accolsero con gioia Pietro Doria loro novello ammiraglio, e sciogliendo le vele, gridavano: A Venezia! a Venezia! Difatto, ricuperate in breve le piazze di Dalmazia, assalirono le colonie di Rovigno, Umago, Grado e Caorle, di poi si recarono arditamente a tentare l'ultimo colpo sopra Venezia.
A tale effetto in agosto del 1379 con numerosissima squadra navale investirono Chioggia, la espugnarono con l'uccisione di sei mila cittadini, e ne catturarono quattro mila; posero il quartier generale sur una punta dell' isola di Malamocco, e circondarono strettamente la città nemica. Sfornita di vettovaglie, di navi, di marinai, di danaro, questa non si era mai trovata in più grande pericolo; onde, confusa, scorata, mandò ambasciatori al Doria, chiedendo pace; ma egli superbamente rispose: «Non ascolterò patti, fin che non abbia messo il freno a'cavalli di San Marco.»
Quest'arrogante risposta scosse i Veneziani, e memori di {269 [269]} colui, che tante volte li avera condotti alla vittoria, corsero tumultuariamente alla sua prigione gridando: Viva Vittor Pisani! Quel prode, udendo da' sotterranei del palazzo ducale migliaia di voci acclamare al suo nome, trascinossi alla ferriata, Fermatevi, Veneziani! esclamò, voi non dovete gridar altro che Viva San Maico! Era il grido della repubblica, con cui solevasi invocare la protezion di quel santo nelle pubbliche calamità e specialmente in tempo di guerra.
La invidia tace quando l'ambizione è in pericolo. Il Pisani, rifatto ammiraglio, respinge i consigli di chi lo stimola a insignorirsi della ingrata patria. Va in chiesa e nel ricevere l'Ostia santa giura che non terrà conto a'suoi emuli della sofferta persecuzione; munisce l'argine di Malamocco, e invita tutti a concorrere alla salvezza della patria. Allora si vedono sforzi stupendi: nobili e plebei si fanno guerrieri; il Doge settuagenario monta su' legni co' principali pregadi o senatori. Tutti offrono il più ed il meglio delle loro sostanze. Il Pisani frenò il primo impeto fin che avesse esercitate lo inesperte sue genti, mentre attendeva di Grecia il naviglio di Carlo Zeno. Poi, unitosi con questo, non solo rompe l'assedio a Venezia, ma sbaraglia e blocca l'armata Genovese nel porto di Ghioggia. Le bombarde, forse la prima volta adoperate in mare, spingeano palle di pietra di centocinquanta in dugento libbre, ed aprivano terribili contro ai ripari. Si fecero prodigi di valore di ambe le parti. Lo stesso Pietro Doria rimase sfracellato sotto la rovina di un muro. Finalmente i Genovesi, dopo sei mesi di assedio, dovettero arrendersi a discezione (21 giugno 1380).
Intorno a quel tempo le repubbliche di Genova e di Venezia cominciarono le loro politiche relazioni coi conti di Savoia, la cui origine noi qui brevemente esporremo.
XXXVII. I conti di Savoia. (Dal 1040 al 1340)
Se fissate lo sguardo sopra una carta geografica, vedrete nna parte dell'antica Gallia meridionale stendersi lungo il fiume Rodano e l'Isero fino al lago Lemano, vicino alla {270 [270]} città di Ginevra. Questo tratto di paese, che oggidì si appella Savoia, anticamente era abitato da popoli conosciuti sotto al nome di Allobrogi. Questo paese servi sempre di passaggio tra l'Italia e la Gallia; e alla caduta del Romano impero in Occidente, quando uno sciame di barbari invase l'Italia e la Gallia, una parte di costoro cacciarono gli Allobrogi dalle loro sedi, si diedero a fondarvi grande numero di borghi, e furono perciò detti Borgognoni, vale a dire abitatori dei borghi.
Nel secolo nono la Savoia essendo stata conquistata da Rodolfo, re di Borgogna, passò a far parte di quel regno, al quale per altre posteriori conquiste fu poi aggregata anche la valle d'Aosta. Ma lo scettro della Borgogna essendo nell'anno 993 venuto in mano di altro Rodolfo, soprannominato l'Ignavo, perchè imbecille ed incapace di governare, ed essendo egli morto senza prole, quel vasto regno fu smembrato in molte parti. Così, dopo la morte di Rodolfo, i conti, che a nome del re e con diritto ereditario ne avevano governate le varie provincie, si costituirono padroni indipendenti.
Fra questi trovavasi Umberto, detto Biancamano, conte della Svizzera, vicino al lago Lemano, ed inoltre della Savoia e della valle d'Aosta; il quale allora cominciò pure ad esercitare una signoria sovrana su questi stati, che già governava come cosa ereditaria. Questo è il più certo stipite della real casa di Savoia da cui siamo governati da oltre ottocent'anni.
Ad Umberto succedette Amedeo I, suo figliuolo primogenito; e morto questo senza prole, lo stato venne in mano di suo fratello Oddone; il. quale avendo menato in moglie Adelaide, signora di Susà e di Torino, cominciò ad estendere il suo stato oltre le Alpi in Italia. E perchè allora Oddone ebbe il titolo di marchese, gioverà qui dichiarare nuovamente il valore di questo vocabolo. Le provincie situate ai confini d'un regno chiamavansi marche, ed il conte, che le governava e le difendeva dalle straniere invasioni, aveva il titolo di marchese. Ma col progresso del tempo ogni signore, che esercitasse dominio sopra molte contee, prendeva questo titolo, sebbene il suo stato fosse distante dalle frontiere. La valle di Susa anticamente era una vera marca, perchè posta ai confini d'Italia, e quindi il conte era veramente un marchese; {271 [271]} ma pel matrimonio di Adelaide con Oddone la marce di Susa essendosi aggregata alla Savoia, il titolo di marchese passò nei conti di Savoia, eziandio dopo che il paese cessò di essere una marca.
S. Pier Damiano, che a quei tempi era venuto in Torino come legato del Papa, nelle sue lettere ci conservò memorie della pietà di Adelaide, e singolarmente si compiacque di registrare le seguenti parole di mirabile umiltà, che udì dalla bocca della marchesa: Che maraviglia, o Padre, che Iddio a me, sica vilissima ancella, abbia dato una qualunque podestà fra gli uomini; egli, che in uno spregevole fil d'erba ripone spesso miracolosa virtù? La pietà di Adelaide è altresì confermata dalle molte liberalità che andava facendo alle chiese. In Pinerolo essa fondò e dotò il monastero di s. Maria, chiamandovi i padri Benedettini: alla chiesa vescovile d'Asti cedette molte castella; e le chiese di Torino, di Susa, di Garamagna, di Revello ed altre provarono gli effetti della sua pia munificenza. Rimasta vedova per tempo ebbe cura dei suoi figliuoli Pietro I ed Amedeo II, i quali regnarono l'uno dopo l'altro, ed ambidue morirono prima della madre, talchè gli stati passarono ad Umberto II, detto il Rinforzato, figlio di Amedeo II.
Aveva Umberto II divisato di accompagnare i crociati nella conquista della Terra santa; ma ne fu impedito da varie minute guerre, che ebbe a sostenere per difendere il retaggio paterno. S. Anselmo, nativo di Aosta ed arcivescovo di Gantorberì, indirizzò ad Umberto una lettera, nella quale, dopo di aver lodato l'ereditaria sua divozione, lo prega di non darsi a credere, che le chiese del suo principato gli fossero date in ereditario dominio, ma bensì in ereditaria riverenza e protezione.
Ad Umberto il Rinforzato, morto nel 1103, succedeva Amedeo III, in età ancor fanciullesca, sotto la tutela di sua madre. Ad esempio di molti principi di quel secolo prese anch'egli la croce, per andare alla conquista dei Luoghi santi, ricaduti in potere dei Turchi. Già vi notai altrove l'esito infelice di questa seconda crociata, la quale e per la perfidia dei Greci e per la mala condotta di alcuni crociati rese inutili tutti gli sforzi dei Latini. Per ciò che riguarda ad Amedeo, vi dirò come, dopo vani tentativi, obbligato a tornarsene in patria, salì sopra una nave; ma giunto in Cipro fu sorpreso {272 [272]} da grave morbo, che lo tolse di vita nella città di Nicosia, capitale di quell'isola. Tra le belle opere di questo principe merita di essere menzionata la fondazione dell' Abadia di Altacomba sul lago di Bourget, cui egli donò al celebre san Bernardo; e che per molto tempo raccolse poi sotto le sue vòlte le reliquie dei duchi di Savoia.
Più luminoso fu il regno di Umberto IO, detto il Santo per le virtù cristiane, che in modo eroico praticò in tutto il corso della vita. Egli visse ai tempi calamitosi (dal 1146 al 1188) dell' imperatore Barbarossa. Quest' oppressore degl'Italiani pose anche in conquasso gli stati di Umberto. Nell'occasione che Federico fu costretto a fuggire dall'Italia, Umberto avrebbe potuto di leggieri vendicarsi dei danni ricevuti; ma egli, essendo di cuor buono, trattò troppo umanamente questo comun nemico, e gli concedette il passaggio sulle sue terre. Il perfido Federico, ritornato qualche tempo dopo in Italia con numeroso esercito, mise a ferro e a fuoco il castello di Susa. Tuttavia Umberto, mercè la sua fermezza ed il suo coraggio, riuscì di nuovo a riavere quelle città e quelle terre, che l'avido imperatore gli aveva tolte. Nella storia fu sempre qualificato col nome di Santo, e nel 1838 il suo culto venne solennemente approvato dal sommo Pontefice.
Mentre le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, come di sopra fu detto, si facevano guerre sanguinose, la potenza dei conti di Savoia si andava consolidando; e Tommaso I (1188-1233), per dare al suo stato una capitale degna di un principe, fece abbellire e fortificare la città di Giamberì, la quale prima era un piccolo borgo.
Amedeo IV gli succedette (1233-1253), e dopo vent'anni di avventuroso regno morì, lasciandovi erede il figliuolo Bonifacio, in età di anni otto. Tommaso, suo zio, prese a reggere lo stato. La città di Asti allora reggevasi indipendente, e a simile governo aspirava anche Torino, tuttochè suddita dei conti di Savoia. Fra questi e la città d'Asti si era a quel tempo accesa la guerra, e gli Astigiani erano con tutte le loro forze venuti presso Moncalieri, dove sconfissero i Ghieresi alleati del conte, e quindi inoltravansi verso Torino, nella quale avevano partigiani. Tommaso andò ad incontrarli; ma rimasto sconfitto, si salvò dentro quella {273 [273]} città, dove la parte favorevole agli Astigiani lo prese e rinchiuse in carcere. Di cotale tradimento essendosi risentiti vari sovrani d'Europa, e massimamente il papa Alessandro IV, ne ottennero la liberazione; ma egli poco stante morì nel 1259. Allora la tutela di Bonifacio passò a due altri suoi zìi sino alla morte dello stesso Bonifacio, avvenuta nel 1263.
Venne allora lo stato nelle mani dello zio Pietro, soprannominato il piccolo Carlomagno pel suo valore nelle armi e per la prudenza mostrata nel governo dello stato. Le sue conquiste furono specialmente nella Savoia e nella Svizzera. Mentre la maggior parte delle città e delle terre poste al di qua delle Alpi erano possedute dai suoi cugini per divisioni ereditarie, ovvero invase dagli Astigiani, parecchie città eransi eziandio ribellate; molte altre però, e principalmente i castelli di Rivoli, di Avigliana e di Susa si tenevano fedeli a lui.
Morto Pietro nel 1268, gli succedette Filippo I, che travagliato da una pertinace idropisia, trasse una misera vita fra molti patimenti e fra le cure dei suoi stati in Savoia. Mancando di prole gli succedette, nel 1285, il nipote Amedeo V, soprannominato il grande, possessore di ragguardevole stato in Piemonte. Oltre alle guerre che dovette sostenere al di là dei monti contro Ginevra e contro ai signori del Delfinato, merita di essere rammentata la lotta che ebbe contro al marchese del Monferrato, per nome Guglielmo. I conti stavano occupati nella Savoia, e ciascuno dei loro cugini, stante le avvenute divisioni e suddivisioni di eredità, non possedeva se non poche terre in Piemonte, perciò poche forze. Guglielmo da Gasale, capitale del Monferrato, aveva estese le sue conquiste su Vercelli, Tortona, Alessandria, Alba, Ivrea, fino sulle terre adiacenti a Torino. Essendosi poscia contro di lui unite Genova, Asti, Ghieri e Milano, invitarono alla lega eziandio il conte Amedeo. Questi passò in Piemonte, e dopo la sconfitta e la morte di Guglielmo ricuperò molte terre ed altre ne acquistò.
Ma poi, occupatissimo nelle cose di Savoia e di Svizzera, volendo far cessare le pretese di Filippo suo nipote, nel 1294 si accordò con lui ai seguenti patti: Filippo rinunzierebbe ad ogni sua ragione sulla contea di Savoia e sul ducato d'Aosta; Amedeo rimetterebbe a lui il Piemonte a titolo {274 [274]} di feudo, eccetto la valle di Susa. Filippo allora trasferì la sua sede in Pinerolo, sposò quindi a poco Isabella, che gli portò in dote il principato di Acaia nella Grecia (donde venne il ramo dei principi d'Acaia, cugini dei conti di Savoia) e fu investito a solo titolo di feudo degli stati del Piemonte. Amedeo tuttavia non aveva rinunziato a fare nuovi acquisti in Piemonte, quindi dall'imperatore Enrico VII ebbe in dono Ivrea ed il Ganavese. Morì nel 1323.
Edoardo, suo primogenito, prese tosto le redini del governo, si segnalò in molte guerre contro ai nemici della Savoia, ed anche a pro' del re di Francia con un valore a tutta prova. Ma egli era troppo bollente ed arrischiato; generoso e largo donatore, sovente si trovò ridotto a grandi strettezze, così che fu soprannominato il Liberale. Morì nel 1329, senza prole maschia; perciò gli succedette il fratello Aimone, il quale pose grande cura nel riparare i mali derivati dai debiti, in cui Edoardo si era profondato. Passava Aimone ad altra vita nel 1343, lasciando lo stato al suo primogenito Amedeo VI, soprannominato Conte Verde.
XXXVIII. Il conte Verde. (Dal 1340 al 1390).
Amedeo VI in età di 14 anni comparve un giorno ad una giostra solenne, bandita in Giamberì, per fare anch'egli prova della sua destrezza. Vestiva di verde panno, e questo colore più non dismise, talchè il popolo gli pose il nome di Conte Verde. In Piemonte sostenne valorosamente più guerre contro al marchese di Monferrato ed al principe di Acaia, ricuperando molte terre stategli tolte. Instituì l'ordine del collare di Savoia, ora detto della SS. Annunziata, il quale compo-nevasi di quindici cavalieri, ad onore dei quindici misteri del Rosario.
La più celebre delle sue imprese fu una spedizione in Oriente. Sedeva in Costantinopoli imperatore d'Oriente Giovanni Paleologo, travagliato dai Turchi, anzi obbligato a contrarre lega con essi. Disperando di ogni altro aiuto, mandò ambasciatori a papa Urbano V, supplicandolo di aiuti e lusingandolo che avrebbe riunito alla santa Sede la Chiesa sciematica {275 [275]} greca. Il sommo Pontefice, cbe tremava al pericolo sovrastante alla fede cristiana pei continui progressi dei Turchi, procacciò d'indurre il re di Francia, il re di Cipro, l'imperatore, Amedeo VI, ed altri potentati a riunire le lorc armi, a fine di respingere i Turchi già prossimi a Costantinopoli. Ma tutti fallirono; a chi mancavano genti, a chi danari e ad altri il coraggio. Amedeo VI fu il solo soccorritore del Greco impero: radunò galere, accattò danaro, raccolse genti, e nel 1366 salpò con tutta la sua armata da Venezia.
Ma i Turchi possedevano la città di Gallipoli, che guarda lo stretto dei Dardanelli, detto anticamente Ellesponto, e che unisce l'Arcipelago al mare di Mannara, dagli antichi appellato Propontide. Perciò Amedeo si accinse ad espugnarla, e dando gagliardo assalto alle mura la ebbe. Così la sua armata potè liberamente entrare nello stretto e' giungere a Costantinopoli, dove fu accolto come liberatore. In quel tempo Giovanni Paleologo, desideroso di sollecitare in persona i soccorsi del re d'Ungheria, erasi da lui recato, ma nel ritorno il re dei Bulgari, favorevole ai Turchi, lo aveva sorpreso, e tenevalo prigioniero in Varna. Amedeo di ciò avvertito, tosto conduce i suoi sotto questa città, e la stringe di assedio. Il re dei Bulgari impaurito alle forze ed alla fama militare dei Savoini, viene agli accordi e rimette in libertà il Paleologo. Ma fredde furono le testimonianze di gratitudine dell'imperatore verso il prode Amedeo e più di parole che di fatti; tanto che non pensò punto a ristorarlo delle spese in suo prò' sostenute. Continuò il Conte ad espugnare alcune piccole fortezze occupate dai Turchi; poi, come spirava l'anno, per cui eransi stipulati gli accordi delle navi e delle milizie, fece di nuovo accatto di danari per pagare le une e le altre, e partito di Costantinopoli ritornò in patria.
Per conservare la memoria di questa onorevole spedizione fu nell'anno 1853 innalzata in Torino, davanti al palazzo municipale, la statua in bronzo del Conte Verde, che colla spada in alto si avventa contro ai Bulgari, mentre calpesta i già prostrati[15]. {276 [276]}
Giunto in Italia dovette adoperare la sua spada contro ai Visconti di Milano. Questa città fin dal 1250 non era più governata a maniera di repubblica Una famiglia detta dei Visconti la dominò per lo spazio di trecento anni. La maggior parte di quei Visconti per mantenere la loro sovranità usarono prepotenze ed oppressioni, ed uno di essi radunò buon numero di soldati con animo di estendere il suo dominio sul Monferrato, parte del Piemonte molto nota per la sua fertilità e per la squisitezza dei suoi vini. Amedeo non tardò a marciargli contro; e dopo alcuni sanguinosi attacchi mise in fuga i Milanesi, rimanendo così pacifico possessore dei suoi stati.
La rinomanza, a cui questo principe era salito, lo rese arbitro d'intricatissime contese insorte tra i vari principi di Europa. I Veneziani, come si è detto, da molto tempo erano in guerra coi Genovesi. Ora rimanevano superiori gli uni, ora gli altri, ma sempre con immenso danno e con grande spargimento di sangue da ambe le parti. Finalmente quelle due repubbliche stanche di distruggersi a vicenda, ricorsero al Conte Verde, lasciandolo arbitro dei loro litigi. Esso pose fine a così micidiale guerra col trattato di Torino così nominato perchè stipulato in questa città nel 1381.
Acquetò eziandio le discordie sorte tra Lodovico II d'Angiò e Carlo Durazzo, i quali si contendevano colle armi il regno di Napoli. A chiarezza della storia dovete notare, che Roberto, re di Napoli, morendo lasciava il regno a Giovanna sua nipote. Non avendo questa figliuoli, il regno avrebbe dovuto passare a Carlo Durazzo; ma per l'odio che a lui portava, ella aveva adottato a figliuolo e successore il fratello del re di Francia, detto Lodovico II. Perciò Carlo Durazzo, dopo di aver fatta soffocare la regina Giovanna, contese colle armi il regno di Napoli contra Lodovico. Il Conte Verde fu quegli che valse ad acquetare cotali sanguinose discordie. In quella occasione i discendenti di Carlo d'Angiò, i quali dopo la morte di quel principe avevano continuato a regnare in Napoli, ed erano anche padroni di una parte del Piemonte, cedettero questo tratto di paese al Conte Verde, il quale così estese notabilmente il suo dominio.
Infine l'anno 1383 marciando con due mila soldati in soccorso di Lodovico per rappacificare le cose di Napoli, {277 [277]} giunto nel paese degli Abruzzi fu colto da' grave malore, che in pochi giorni lo tolse di vita. Egli era buon principe, perciò la sua morte fu compianta da tutti: era valoroso, ma pio assai, e nutriva special divozione verso la Beata Vergine.
L'ultimo conte di Savoia fu Amedeo VII, detto il Conte Rotto, dotato di belle qualità, e degno figliuolo del Conte Verde. Egli fu di grande aiuto al re di Francia contro agl'Inglesi e contro ai Belgi. Durante il suo governo continuò la guerra tra Lodovico d' Angiò e Carlo Durazzo, padrone del contado di Nizza marittima, finchè i Nizzardi stanchi per quelle interminabili discordie passarono sotto al paterno e soave dominio dei conti Sabaudi.
Mentre regnava Amedeo VII, Gian Galeazzo Visconti di Milano estese considerevolmente i suoi dominii, e colle sue conquiste resesi terribile a tutta l'Italia. Egli tentò d'impadronirsi della Toscana, e forse sarebbevi riuscito, se non fosse stato sopraggiunto dalla morte. Fu esso il primo dei signori di Milano a portare il titolo di duca nel 1395 che, aveva comprato da Venceslao imperatore di Germania. Gian Galeazzo apprezzava gli uomini di genio militare, e sapeva all'uopo servirsene; proteggeva i dotti, promoveva le arti; e fra le sue opere merita special menzione la fondazione del Duomo di Milano, che forma oggidì il più bell'ornamento di quella città. Ma queste virtù furono oscurate da molti vizi, che lo fecero conoscere fra i principi di trista memoria. Egli moriva di peste nel 1402.
XXXIX. Il conte di Carmagnola e il duca Amedeo di Savoia. (Dal 1400 al 1450).
In una fertile pianura, a distanza di undici miglia da Torino e due dalla destra del Po, avvi la città di Carmagnola. Questa città era già stata eretta in marchesato sul principio del secolo XIII, e fu patria di molti personaggi illustri per virtù, scienza e valore guerriero, tra cui si annovera Francesco Bussone, più conosciuto nella storia sotto il nome di Conte di Carmagnola.
Egli nacque nel 1390 da genitori poveri e guardiani di {278 [278]} armenti; i quali ben presto lo destinarono al mestiere di guardiano di porci. Crescendo negli anni, si mostrava di aperto, ma terribile ingegno. Egli si segnalò fra la gioventù carmagnolese, allora.quando il governatore di Genova, detto Bucicaldo, collegato coi Francesi, voleva opprimere la patria di Bussone; e per cura specialmente di lui i nemici ebbero la peggio, e dovettero allontanarsi.
Un capitano di ventura passato per questa città si abbatto in Francesco, e vedutone il fiero aspetto e conosciutane l'indole guerresca, il condusse con lui in qualità di fante, ossia garzone d'armi. A ventidue anni entrò come semplice soldato nell'esercito di Filippo Visconti, duca di Milano.
Francesco esercitando le cariche più basse della milizia, giunse presto al grado di generale di un esercito In appresso fu posto da quel duca alla testa di diecimila fanti e quattrocento cavalli. Con questo esercito egli comr battè tutti i nemici del duca, e gli acquistò molte città sì in Toscana, come in Lombardia. In premio del suo valore e dei servigi prestati gli venne conferita la carica di consigliere di stato, con titolo di maresciallo e di conte, datagli eziandio per moglie una parente del duca.
Ridotta la Lombardia sotto il dominio del duca Filippo, Francesco, vago com'era di maggior gloria, radunò una forte banda di fuorusciti, e si mosse verso Genova, che reputa-vasi la più potente repubblica di quei tempi. Nel suo cammino passò per Savona, che assalì con tutte le sue forze; ma era così gagliardemente difesa da' suoi cittadini, che tutti gli sforzi riuscirono inutili.
Partitosi, di là andò a porre l'assedio a Genova, e battendola da tre lati con grosse artiglierie costrinse il doge ad arrendersi e ritirarsi col senato in Sarzana, città posta sui confini del Genovesato verso Toscana. Allora il Carmagnola restò governatore di Genova, e vi abitò qualche tempo con riputazione di eccellente politico e di egregio capitano. Qui a nome del duca di Milano fece allestire una flotta a favore del Papa contro al re di Sicilia e di Aragona. Ma la fortuna del Carmagnola doveva ricevere una violenta scossa dagli invidiosi. Alcuni capitani mossi da invidia, vizio perniciosissimo, si diedero a screditare il Carmagnola, rappresentando al duca come la fama di quel capitano avrebbe {279 [279]} oscurata la gloria di lui. Per questo invece del Bussone alla testa di quella flotta fu spedito un altro capitano di nome Guido. Poco appresso il Carmagnola vide un altro mandato a governare la città di Genova in suo luogo, e fugli ordinato di licenziare le trecento lande della sua compagnia. Erano questi i più fidi compagni del Carmagnola, che col loro valore lo avevano sollevato ad alta rinomanza, e che egli teneva per sua guardia.
Immaginatevi lo sdegno di un capitano, che si vede rimosso dalla carica, interrotto a metà delle sue imprese guerresche, separato dai propri soldati, da cui era teneramente amato! Partì immediatamente alla volta di Milano per abboccarsi col duca e per discolparsi; ma non gli fu possibile avere udienza; di che pieno d'ira e di rammarico venne in Piemonte, si presentò al duca di Savoia, ch'era Amedeo VIII. Dimostrandogli i pericoli che gli sovrastavano dall'ambizione del duca di Milano, lo persuase dell'opportunità di unirsi con Venezia e con Firenze, a fine di opporsegli e di atterrarlo.
Il conte Amedeo, nipote del Conte Verde, era prode della persona e savio reggitore dei suoi popoli. Egli venne onorato dall'imperatore Sigismondo, il quale nel 1416 in passando per Ciamberì eresse in ducato la contea di Savoia. Così Amedeo fu il primo a portare il titolo di duca, che di poi ereditarono i suoi successori.
Il Carmagnola prima di partire dal Piemonte volle andare ad abbracciare il vecchio suo genitore, e in quella occasione dimostrò che era un buon cittadino pieno del vero amor di patria. Fra le altre sue belle opere si annoverano copiose largizioni fatte per costruire la chiesa degli Agostiniani, che tuttora si vede in Carmagnola. Diede anche molti segni di figliale affezione al suo buon genitore, a cui comprò alcuni campi, acciocchè in compagnia dei fratelli e di altri parenti li coltivasse e se li godesse tranquillamente. Dato sfogo alle tenerezze di figlio ed alla carità di cittadino, di consenso col duca di.Savoia,, superati nel cammino i più gravi pericoli, andò a Venezia.
Da prima i Veneziani esitavano a fidarsi delle proferte del Carmagnola, ed erano sul punto di ricusare ogni suo servigio. Quando poi seppero che il duca di Milano lo aveva {280 [280]} deposto del suo grado e condannato a morte, dopo aver tentato di farlo avvelenare, non fu più alcun dubbio della sincerità della sua esibizione. Pertanto nella primavera del 1425, mentre il duca Amedeo si preparava a marciare colle sue genti verso Milano, il Carmagnola fu creato generale in capo degli eserciti della Repubblica di Venezia e di Firenze. Sparsasi la voce che esso si avanzava verso Milano, il duca Filippo si pentì, ma tardi, della sua ingratitudine. Per opporre valida resistenza a sì formidabile rivale concentrò le sue genti nella pianura di Maclodio.
Il Carmagnola, tuttochè assai inferiore di forze, assali Brescia, s'impadronì di tutte le fortezze che i Milanesi a-vevano nel Bresciano, e venne a battaglia campale con quattro dei più celebri generali che fossero a quei tempi in Italia, e che uniti combattevano a difesa del Visconti. Erano questi Francesco Sforza, Piccinino, Angelo della Pergola e Guido Torello. Si fecero prodigi di valore da una parte e dall'altra; ma il Carmagnola riportò compiuta vittoria. Questo avvenimento è noto nella storia sotto al nome di battaglia di Maclodio, la quale fu illustrata dagli eleganti versi di Alessandro Manzoni dotto ed erudito scrittore, che nella provetta età di 88 anni cessava di vivere in Milano nel 22 Maggio di quest'anno 1873.
La pace ottenuta per questa vittoria assicurò a Venezia il conquisto di Brescia, di Bergamo e della metà del Cremonese. Ma qui doveva finire la gloria di Francesco. Nel trasporto della gioia per la riportata vittoria egli diede la libertà a tutti i prigionieri che aveva fatto. Di più in una guerra nuovamente insorta non impedì, forse potendolo, una sconfitta che toccò la flotta Veneziana, nè punto si industriò di ripararne i danni. Queste cose fecero sospettare al senato di Venezia, che il Carmagnola tradisse i Veneziani. Quindi sotto apparenza che lo si volesse consultare in cose di guerra fu chiamato a Venezia. Accolto in senato con pompa straordinaria, gli fu dichiarata l'affezione e la gratitudine della repubblica; ma appena i soldati di lui partirono, egli fu messo in ferri, gittato in oscura prigione, e un mese dopo ebbe tagliata la testa nella pubblica piazza. Prima di condurlo sul luogo del patibolo gli misero un bavaglio alla bocca, affinchè non potesse rimproverare l'ingiustizia {281 [281]} del sospettoso senato innanzi alla moltitudine, che si bravò al miserando spettacolo, (5 maggio 1432).
Più felice sorte toccò al duca Amedeo. Dopo la battaglia di Maclodio il duca Filippo fu costretto a dimandargli pace, e fra le altre cose dovette cedergli tutto il Vercellese. Amedeo dopo di aver considerabilmente ampliati i suoi stati, rivolse la sua cara alla formazione di buone leggi, e compilò un codice, noto sotto il nome di Statuta Sabaudiae, cioè Costituzioni della Savoia. Questo codice, o miei cari, è reputato un capo d'opera, e meritò all'autore il soprannome di Salomone.
Ma le prosperità mondane non valgono a soddisfare pienamente l'uomo virtuoso. Amedeo, felice in ogni impresa, vincitore d'ogni sua nemico, volle anche vincere se stesso, e procacciarsi gloria dinanzi a Dio. Rinunziò pertanto al trono in favore di suo figliuolo Lodovico, si ritirò nel monastero di Ripaglia vicino a Ginevra, ed abbandonato ogni umana grandezza, si vesti da romito per passare il rimanente dei suoi giorni con sei cavalieri, decisi al par di lui di menar vita solitaria.
Se non che un curioso avvenimento andò a turbare la quiete di questo principe. La Chiesa cattolica era allora travagliata da gravi discordie a segno, che molti prelati e cardinali, radunatisi a concilio in Basilea, città della Svizzera, elessero a sommo Pontefice il duca Amedeo, mentre un altro papa di nome Eugenio IV regnava a Roma. Pertanto dopo cinque anni di vita romitica, nel desiderio di poter sedare le discordie, che agitavano la Chiesa, accettò la carica offerta, e fu salutato Papa, sotto il nome di Felice V. Dopo questa elezione ricevette gli ordini sacri, e celebrò la sua prima messa servita da' suoi proprii figliuoli (1446).
Frattanto morì Eugenio IV, ed essendo stato eletto suo successore Nicolò V, che senza contrasto occupò la sede pontificia, Felice con ispontanea rinunzia volle por fine ad una discordia, che cagionava alla Chiesa cattolica grave danno ed afflizione. Fatto perciò radunare un altro concilio di prelati, depose le insegne papali, rinunziò al pontificato, e fece ritorno alla diletta solitudine di Ripaglia. Colà unicamente intento alle cose di spirito passò ancora un anno e mezzo, finchè placidamente finì di vivere nel 1450.
Meno glorioso fu il regno di suo figlio Lodovico. Questi {282 [282]} tenne quindici anni il trono paterno ed ebbe molto a soffrire per parte de' suoi sudditi e dello stesso suo figliuolo quintogenito, chiamato Filippo. Tuttavia il nome di questo principe è assai celebre nella storia, perchè durante il suo regno i duchi di Savoia ricevettero il titolo di Re di Cipro, che ritennero fino agli ultimi nostri tempi.
XL. Le bande di Braccio da Montone, di Muzio Sforza, di piccinino e di colleoni. - La famiglia dei Foscari. (Dal 1400 al 1475).
Molti guerrieri, specialmente nel tempo che i Papi dimoravano in Avignone, facevano da luoghi lontani scorrerìe in Italia, a fine di saccheggiarla, arricchirsi de' suoi tesori e poi ritornare nei loro paesi a goderseli. Fu pertanto mestieri che gli Italiani si raccogliessero essi pure in compagnie per difendersi dagli iniqui assalitori. Questi avventurieri combattevano pel danaro e per l'onore, e perciò chi loro porgeva maggior danaro o maggiore speranza di gloria li aveva, a suo servizio. Per dare importanza alla propria persona prendevano nomi i più pomposi. Spaccamonti, Animanegra, Ro-dimonte, Fracassa, Invincibile erano nomi di alcuni di quei venturieri. Fra le altre è celebre la banda di Andrea da Perugia, soprannominato Braccio da Montone.
Braccio contava appena diciott'anDi, quando cominciò a militare con quindici cavalieri. In occasione di una sommossa avvenuta in sua patria egli fuggi, e andò sempre combattendo ora pel re di Napoli, ora pei Milanesi o per altri che lo avessero chiamato, segnalandosi in ogni luogo per valore e per coraggio. Ma egli ebbe la viltà di combattere contro la propria patria, la quale soggettò e fece capitale di un suo dominio.
Per estendere maggiormente il suo potere portò le armi contro di Aquila. La città era ben difesa da altri condottieri di ventura, e tra questi da un certo Muzio detto lo Sforza, venuto in soccorso di quella. Costui ancora giovinetto stava lavorando le poche terre di suo padre presso Cotignola, città di Romagna, quando alcuni soldati di ventura guidati da Alberico, {283 [283]} conta di Barbiano[16], passarono colà e gli proposero di arruolarsi con loro. Muzio dato di piglio alla vanga, di cui servivasi, la gittò tra i rami di un albero, dicendo: Se rimane sospesa, ci verrò. La vanga vi rimase, ed egli tosto partì. I suoi modi violenti, il suo coraggio, la sua gagliarda gli acquistarono il soprannome di Sforza, che passò a' suoi figliuoli; e quel Francesco Sforza, che erasi segnalato.nella battaglia di Maclodio contro al conte di Carmagnola, era figliuolo di Muzio.
Il suo ingegno e valore lo condussero presto ai primi gradi della milizia, e quindi a divenire gran Contestabile del regno di Napoli, cioè capo di tutte le milizie. In questo regno eransi nuovamente suscitate discordie tra la casa Durazzo e quella di Angiò. Ladislao Durazzo era riuscito a cacciare Lodovico II; ma nel mezzo dei suoi trionfi mori lasciando il regno a Giovanna sua figliuola, la quale si adottò per successore Alfonso re di Aragona. Essendosi questi inimicato con Giovanna, fu da lei rivocata l'adozione, e adottato in vece di lui Luigi III d'Angiò. Lo Sforza adunque capitanava gli eserciti della regina Giovanna, e a nome di lei marciava contro Braccio, che sosteneva Alfonso; ma nel guadare il fiume Pescara lo Sforza si annegò. Per questo fatto Braccio di Montone reputavasi quasi certo della vittoria, quando venendosi a battaglia gli assediati fecero una sortita, ed assalirono con grand'impeto i nemici. Braccio colla voce e coll'esempio fece quanto può farsi da uomo di grande forza e di gran coraggio, finchè ravvisandolo un fuoruscito di Perugia si pose tosto a gridare: Tu dunque mi priverai per sempre della patria? In così dire con un colpo di spada il gittò ferito a terra, dove poco dopo spirò.
Per la disfatta di Braccio, che combatteva in prò di Alfonso, il regno di Napoli rimase a Giovanna; ma dopo dieci anni essendo essa morta, il re Alfonso tentò nuovamente di impadronirsene, e questa volta dopo essere stato fatto prigione presso Gaeta dal duca Filippo Maria, ed esserne stato {284 [284]} poco dopo dal medesimo liberato, ne divenne assoluto padrone, vincendo gli Angioini. Così il regno di Napoli passò dai Durazzo alla casa d'Aragona.
Un compagno di Braccio di Montone, quel Giacomo Piccinino, che erasi già segnalato nella battaglia di Maclodio, raccolse i soldati qua e là dispersi, e scorgendo impossibile il condurre a buon esito quella guerra, andò ad arruolarsi sotto gli ordini del duca di Milano.
In quel tempo si continuava la guerra tra i Veneziani ed i Milanesi; e mancando ai Veneziani il Carmagnola, che avevano fatto crudelmente decapitare, affidarono il governo delle loro genti ad un certo Bartolomeo Colleoni, già compagno d'armi di Braccio da Montone, il quale da lui era passato al servizio di un altro generale assai reputato, di nome Giacomo Caldora.
Tutti lodarono in quella guerra la sapienza del Colleoni, il quale, per soccorrere la città di Brescia assediata dai Milanesi, con nuovissimi ordigni fece trasportare le barche dal fiume Adige sulla cima di un monte facendole poi di là calare con universale ammirazione nel lago di Garda. Ivi le allestì e le armò. Con questa flottiglia creata all'improvviso costeggia, difende le terre amiche, assicura a Brescia il passaggio de' viveri; e così la salva dal cadere in mano delle soldatesche del duca di Milano.
Ciò non ostante per lo scarso numero de' combattenti fu costretto a chiudersi in Verona, donde potè tener fronte ad un numero assai maggiore di Milanesi ed a Giacomo Piccinino loro esperto condottiere. Questi, siccome era arditissimo, un bel dì s'inoltrò fra le prime squadre venete, che, stavano a guardia delle mura, e colla lancia in mano, altri ammazza, altri pone in fuga, e si apre la strada fin dentro la città. Invano si tenta di pigliarlo, che egli ben sa col valor suo allontanare ogni nemico. Ma col calarsi di una cataratta, ovvero di una porta che si chiude da alto in basso, gli fu precluso il passaggio, e Piccinino restò in mano dei nemici.
L'ardimento del soldato incognito e la stranezza del caso andarono di bocca in bocca, e lo stesso Golleoni accorse sul luogo del fatto. Giacomo Piccinino conosciuto che ebbe nei Colleoni il generale in capo, invocò la sua magnanimità, {285 [285]} perchè non dal valore dei soldati, ma dalla sorte era stata preso. Il tuo ardire, i tuoi fatti, rispose Colleoni, ti fanno degno del mio rispetto; il valor tuo ti merita la mia amicizia. Nessun uomo ti ha vinto, nè io sarò oso di prenderti. Perciò rimani libero e torna al tuo campo.
Il Piccinino commosso a tanta benignità voleva per gratitudine baciare la mano al Colleoni; ma questi da generoso lo bacia in volto; poi, datagli una spada, «prendi, gli dice, accetta il premio del tuo coraggio. Uomo meritevole di miglior fortuna, possa tu eseguire imprese che onorino te e l'Italia!» Colleoni fece accompagnare sano e salvo Piccinino fino al campo dei Milanesi; poscia, voltosi ad un ufficiale, esclamò: «Piacesse al Cielo che io avessi mille soldati simili a costui!» Noi dobbiamo, miei cari, ammirare la virtù del Colleoni, che trattò con tanta generosità un suo nemico sfortunato.
I Milanesi, accortisi che sarebbero tornati inutili tutti i loro sforzi contro ai Veneziani, finchè non fossero guidati dal Colleoni, gli fecero vantaggiose proposte; ed egli passò al servizio di Filippo Visconti di Milano. Ma per una calunnia impostagli fu messo in prigione, ove languì un anno intero, sempre incerto della sua vita. Intanto morto il duca, Colleoni fu tosto messo in libertà e fatto generale delle genti Milanesi. Segnalò il suo valore vicino alla città di Alessandria, dove per due volte venne a battaglia, e per due volte sconfisse i nemici. Questo accadde nel 1448.
Narrano alcuni storici, il Colleoni essere stato il primo che sapesse usar bene in campo aperto le artiglierie, le quali erano allora tra noi di novella invenzione, e si tenevano solo appostate nelle fortezze. Solamente qualche tempo dopo furono adoperate le colubrine, le spingarde, i moschetti, gli archibugi e le altre armi da fuoco.
Avanzandosi in età, stanco dal lungo guerreggiare, il Colleoni risolse di ritirarsi in un castello vicino a Brescia, per condurre il rimanente de' suoi giorni nella tranquillità e lontano dal rumore delle armi. Colà per esercizio del corpo camminava due ore ogni mattina, e sebbene vecchio, non dormiva giammai dopo sorto il sole. Il suo vitto era senza paragone frugale: la sua casa sempre aperta ai poverelli, coi quali egli si compiaceva molto di conversare. Visse in {286 [286]} onorata vecchiaia lino all'età di settantaquattro anni, e mori nel 1475. La città di Bergamo, sua patria, gli innalzò per monumento una cappella magnifica, la quale ancora oggidì rende gloriosa testimonianza di quel valoroso guerriero.
Non così fortunata fu la fine del suo rivale Giacomo Piccinino. Dopo di avere resi importanti servigi al duca di Milano, egli fu innalzato ai più grandi onori ed ebbe in moglie la figliuola del medesimo duca. Ma fu vittima d'un tradimento nel modo che sono per raccontarvi. D'accordo col duca si trasferì a Napoli per assestare col re alcuni affari e conchiudere gli accordi della pace. Vi fu ricevuto come l'eroe d'Italia, e il suo arrivo fu celebrato con una solennità, che durò ventisette giorni; ma il ventesimo ottavo, il re sotto colore di volergli conferire speciali onori il condusse nel suo palazzo, ove lo fece arrestare con suo figliuolo, e poco stante strangolare nella prigione.
Dopo la morte di Giacomo Piccinino, avvenuta nel 1465, le sue milizie si disciolsero per non riunirsi mai più. Così ebbe fine la famosa compagnia detta Braccesca, perchè in origine era stata ordinata e capitanata da Braccio da Montone.
Intorno a questo tempo avvenne la tragica fine dei due Foscari, di cui spesso vi accadrà di udire ragionare. Come già vi dissi, in Venezia il tribunale dei Dieci aveva concentrato in sè ogni autorità, e talora abusato anche del suo potere. Fra le vittime di questo misterioso tribunale fu la famiglia dei Foscari. Il doge Francesco Foscari, dopo aver molto lavorato per la sua patria, ebbe il dolore di vedere l'unico suo figliuolo Giacomo per false accuse due volte torturato, e due volte condannato all'esilio. La seconda volta fu sì crudele la tortura, che appena giunto air isola di Candia, l'infelice morì. Poco dopo aver ricevuta la nuova del doloroso infortunio, il padre, essendo già più che ottuagenario, venne deposto dalla sua carica di Doge, che aveva gloriosamente tenuta per trentaquattro anni. All'udire suonare le campane per la elezione di un altro doge, egli provò tale dolore, che cadde svenuto e spirò. Intanto che questi latti compievansi, i Turchi, di cui sono per parlarvi, avevano obbligato i Veneziani a lunga e pericolosa guerra, ed avevano chiuse molte vie del loro commercio a grave danno di quella repubblica. {287 [287]}
XLI. Caduta di Costantinopoli. - I turchi in Italia. (Dal 1453 al 1481).
Un nuovo genere di combattere i nemici in guerra e di atterrare le più robuste mura era stato ritrovato mercè l'uso della polvere da fuoco. Un monaco di Magonza, città della Germania, chiamato Ruggero, trovò che questa polvere già in uso presso alcuni popoli era composta di zolfo, di carbone e di salnitro, e vide che questa era un combustibile atto a produrre effetti maravigliosi. Erano già scorsi oltre a trecent'anni, da che alcuni popoli servivansi in varie guise della polvere, ma solamente sul finire del secolo decimoquarto fu scoperto come una certa quantità di essa racchiusa in un lungo e stretto tubo di metallo, accesa da una scintilla di fuoco, ne usciva fuori con violenza e con terribile strepito, a segno che poteva scagliare lontano palle di ferro e di pietra di un peso sufficiente per isgominare anche forti mura. A quei tubi di ferro o di bronzo fu dato il nome di cannoni; e tutto il corredo- necessario per valersi di quelle macchine micidiali si appellò, artiglieria.
L'ingegnosa applicazione della polvere al cannone, o miei cari, è dovuta agli Arabi, i quali unitisi ad altri popoli sotto la condotta di Maometto, fondatore della credenza detta Maomettismo, furono poscia appellati Turchi. Costoro poco pei volta eransi già resi padroni di parecchi regni, e quasi tutto l'antico romano impero d'Oriente era caduto nelle loro mani. Ma non potevano avanzarsi verso l'Europa, senza prima impadronirsi di Costantinopoli, di quell'illustre capitale dell'impero d'Oriente, che il nome ebbe e lo splendore da Costantino il grande.
Un principe dei Turchi, chiamato Maometto II, acceso di sdegno perchè una città dei cristiani (i Turchi sono inimicissimi del cristianesimo) sorgesse ancora quasi in mezzo ai suoi stati, decise di volersene a qualunque costo impadronire. Terribili furono gli apparati; un esercito di ben trecentomila combattenti, di cui centomila di cavalleria, immense macchine {289 [289]} da guerra, straordinario numero di cannoni marciarono contro a Costantinopoli.
Dal canto suo l'imperatore d' Oriente, che era Costantino XII Paleologo, si preparava alla più valida difesa. Egli pensò di far ricorso all'aiuto dei principi d'Europa; ma da più secoli l'impero Greco viveva nello scisma, cioè separato dalla Chiesa cattolica. È vero che i prelati greci col loro imperatore in un concilio generale radunato nella città di Firenze professarono di volersi tenere uniti al romano Pontefice; ma tornati in Grecia ricaddero quasi tutti negli errori di prima. La qual cosa fu cagione che i cristiani non si mostrarono molto solleciti di correre in soccorso di Costantinopoli.
Tuttavia i Veneziani, e più ancora i Genovesi, che erano già stati molto danneggiati dai Turchi, mandarono parecchie galere capitanate da un loro generale di nome Giovanni Giustiniani, che dimostrò il suo coraggio con prodezze degne di miglior esito. O fosse sterminato il numero de' Turchi e piccolo quello de' Greci; fosse il timore, da cui fu sorpreso il Giustiniani, che non ardi più combattere; oppure (come pare più certo) fosse scritto negli immutabili divini decreti, che quell'impero avesse a pagare la pena meritata dei tanti misfatti commessi contra la santa religione di Gesù Cristo; il fatto fu questo, che, dopo cinquantacinque giorni di sanguinosi ed accaniti combattimenti, la vittoria arrise ai Turchi. L'imperatore, da mille colpi trafitto, cadde sopra un mucchio di cadaveri da esso lui uccisi; tutta la città venne in mano de' Turchi; tutto fu messo a ruba, a sangue, a fuoco.
Così, nell'anno 1453, duemila cento cinquantacinque anni dalla fondazione di Roma, mille cento ventitrè dacchè Costantino il grande vi trasferi la sede dell'impero, regnando un altro Costantino, cadde la seconda capitale dell'impero Romano. Caduta terribile fu questa, che trasse quelle coltissime nazioni in tetra barbarie, sicchè coloro, i quali non vollero conoscere la legittima autorità del successore di san Pietro, dovettero sottomettersi alla barbara oppressione e alla dura schiavitù degli infedeli.
Maometto II, fattosi ardito di questi prosperi successi, deliberò di ridurre tutto il cristianesimo alla sua credenza ed in {289 [289]} potere de'Torchi. S'impadronì con agevolezza della Grecia, della Macedonia, della Dalmazia, e già si avanzava a grandi passi verso l'Italia. Tutti tremavano. Il Papa allora pubblicò una crociata contro a quei nemici del genere umano, e se ne pose egli stesso alla testa, ma giunto in Ancona, cadde infermo e poco appresso mori.
Intanto i Turchi stavano per versarsi in Italia dalla parte del Friuli e della Garniola, provincie poste alla estremità del golfo Adriatico, ove il passo delle Alpi avrebbe spaventato chicchessia, fuorchè Maometto; Egli aveva comunicato il suo furore e la sua ferocia a' suoi compagni d'armi. Strascinati carri, cavalli e bagagli alla cima delle Alpi, sebbene per discendere al piano non vedessero altro che orridi precipizi, punte di scogli, enormi macigni, senza punto inorridire e’tornare indietro, si affrettarono di precipitarsi giù in qualunque maniera. Sospendono i loro cavalli a funi, e dalle cime delle montagne li calano sui primi scaglioni di quell'anfiteatro, e così via via fino al fondo. Colà rimontano in sella precipitandosi ancora giù per tali declivi, a cui i più esperti montanari non possono ascendere, se non aggrappandosi ai sassi od ai virgulti.
Alla vista di quella immensa folla di sterminatori, che parevano piovuti dal Cielo, i soldati italiani posti a custodia dei passaggi si diedero alla fuga, e da tutte parti si mandavano grida di terrore e di desolazione. Tuttavia vi fu un guerriero abbastanza coraggioso da apporsi a quei feroci assalitori. Questi fu Carlo da Montone, capitano dei Veneziani, il quale mediante prudenza e coraggio riuscì a metterli in confusione costringendoli a ritirarsi al di là delle Alpi. Ma tutti sapevano che quella fuga sarebbe seguita da nuova invasione, e che sarebbero i nemici presto ritornati in maggior numero ad invadere quei paesi, donde erano stati cacciati; sicchè ognuno tremava per la incertezza del futuro suo destino.
Il timore era pur anco accresciuto da segni insoliti, che ora qua, ora là si rendevano manifesti, e parevano presagire un qualche grande flagello. Uragani terribili e terremoti spaventosi facevansi orribilmente udire. Fra Siena e Firenze neri ed orrendi nugoloni agitati da venti portavano via i tetti delle case, radevano le muraglie, estirpavano i grossi {290 [290]} tronchi degli alberi, avvolgendo In aria uomini ed animali. In tatto il regno di Napoli la terra tremò in si violenta guisa, che buon numero di case e di chiese furono atterrate. Vicino alla città di Rossano la terra si spalancò in voragine profonda, e tosto comparve un vasto lago, dove prima erano verdeggianti campagne. Molte migliaia di persone morirono per quel flagello; e se ne contarono trenta mila nella sola città di Napoli.
Intanto Maometto, fortemente irritato della toccata sconfitta presso le Alpi, e più ancora della resistenza e della perdita sofferta all'assedio di Rodi, deliberò di volersi a qualunque costo impadronire dell'Italia, venire a Roma, cacciare il Papa, e della capitale del cattolicismo fare la sede, del maomettismo. Invia un immenso numero di soldati nel mezzodì dell'Italia, e assale la città di Otranto. Assalirla, impadronirsene, mettere tutto a ferro e a fiamme, sbranare, calpestare uomini, donne, vecchi e fanciulli fu cosa di pochi giorni.
Allora la costernazione fu universale; e non vi ebbe più chi ardisse opporsi a sì formidabile nemico. Ciascun pensava di portar seco quanto aveva di più prezioso e andare altrove a cercar salvezza. Lo stesso romano Pontefice voleva prepararsi a fuggire in Francia, quando il Cielo venne in soccorso dell'Italia e della religione, togliendo dal mondo chi era cagione di tanti mali. Mentre Maometto preparava maggior numero di genti per invadere l'Italia da ogni luogo, fu colpito da una terribile cancrena, che in pochi dì lo tolse di vita nel 1481, in età d'anni cinquantatrè. Sparsasi la voce della morte di quel feroce conquistatore, le sue genti si ritirarono verso Costantinopoli, e l'Italia fatta libera dal flagello respirò. Da tutte parti si resero a Dio grazie solenni.
XLII. I duchi di Urbino. - La congiura de' Pazzi. (Dal 1454 al 1492).
Riavutisi gli Italiani dallo spavento cagionato dall'invasione de'Turchi, mentre si andavano estinguendo le guerre civili e cresceva ogni dì più l'ardóre pel commercio, per l'industria, le scienze, le arti e pei mestieri, molti signori si erano {291 [291]} innalzati a grande rinomanza di ricchezze e potenza. Nell'Italia centrale meritano singoiar menzione i duchi d'Urbino, che si resero illustri specialmente per le opere di uno di essi, chiamato Federico. Egli era valoroso in guerra, liberale in pace. Dopo aver riportate parecchie vittorie, col danaro acquistato adornò la sua patria di chiese, di palazzi e di un'insigne biblioteca. Promosse le lettere e favori i letterati. Affabile con tutti, non isdegnò di trattare famigliarmente coi sudditi, i quali soccorreva in qualunque sventura. Fu il primo a portare il titolo di duca di Urbino ricevuto dal Papa.
In mezzo alle opulenze della Toscana vivevano due ricchissime famiglie di mercanti, una detta degli Albizzi, l'altra de' Medici, le quali si gloriavano di poter impiegare le proprie ricchezze per rendere la loro patria florida di commercio o di potenza. Ma le rivalità insorte fra queste due famiglie turbarono gravemente la quiete di Firenze, sicchè il popolo stanco di quelle interminabili contese scacciò gli Albizzi.dalla città, e d'allora in poi i Medici divennero capi della repubblica.
Il primogenito della famiglia de' Medici si chiamava Cosimo; ed era uomo affabile cogli inferiori, gentile verso gli eguali, generoso con tutti. Sì belle doti d'animo lo resero caro ad ogni classe di cittadini. Possessore d'immense facoltà, ei non ne fece uso, se non per vantaggio e decoro di sua patria. A sue spese costrusse acquedotti e granai per assicurare l'alimento al popolo; innalzò chiese ed ospedali pei poveri; fondò una libreria pubblica facendo comperare in molti paesi i manoscritti più rari e più preziosi; accolse con onore tutti i sapienti, pittori, scrittori, architetti e letterati eccellenti in qualsiasi genere, a segno che Firenze giunse a superare nella prosperità e magnificenza tutte le città d'Italia.
Queste belle azioni, senza che Cosimo pretendesse alcuna dignità, lo fecero divenire capo della repubblica; e rifiutando egli il titolo di sovrano, i Fiorentini, di comune accordo, gli conferirono il titolo di Padre della patria. Cosimo si trovava sul fine della vita (anno 1464), ed i suoi figliuoli l'avevano tutti preceduto nella tomba, ad eccezione di uno si gracile e sì infermo, che prometteva brevissimo tempo di {292 [292]} vita. Tuttavia la Provvidenza dispose che Pietro (questo era il nome del superstite figliuolo di Cosimo) governasse la repubblica con onore dopo la morte del padre. Oli succedettero nel governo due suoi figliuoli Lorenzo e Giuliano, i quali seguirono l'esempio del padre e dell'avo. Lorenzo poi per le grandi cose che fece a decoro ed ornamento della sua patria fu soprannominato il Magnifico.
Ora, miei cari, dovete sapere che fra le famiglie riguar-devoli, che nutrivano in cuore odio e gelosìa contro ai Medici, una era quella dèi Pazzi, cui Cosimo aveva trattato sempre coi riguardi dovuti ad una delle più antiche e più rispettate case della repubblica. Ma il primogenito della famiglia dei Pazzi, chiamato Francesco, era vivamente roso da invidia, perchè vedeva la famiglia de' Medici tenersi il primato; e piuttosto di rimanere in patria, andò ad accasarsi in Roma, ove lo seguì la maggior parte de' suoi parenti.
In quei tempi nulla era tanto ordinario in Italia quanto il vedere odii profondi e scambievoli durare per anni ed anni tra due famiglie ed i loro aderenti, e sfogarsi all'improvviso con qualche atto terribile di vendetta e di furore, in onta della santa legge del Vangelo. Ora udite a quali eccessi l'invidia e la gelosìa abbiano condotto i Pazzi. Meditando costoro il modo di rientrare nella loro patria e di opprimere i Medici, indussero parecchi nobili Fiorentini a secondare i loro disegni di vendetta. Fu tramata una congiura, mercè cui essi dovevano rientrare di nascosto in Firenze e segnalare il loro ritorno coll'uccisione di tutti quanti i loro nemici.
Francesco Pazzi, capo di quella congiura, pensavasi che, quando i Medici fossero stati trucidati, il popolo avrebbe applaudito alla loro morte e fatto lega coi loro uccisori; poichè i ribelli credono e si studiano sempre di avere il.popolo dalla propria parte. Ma il popolo non poteva dimenticare i grandi benefizi, che i Medici avevano fatto ai Fiorentini.
I congiurati, fra i quali si trovavano alcuni nobili, da Lorenzo e dal suo fratello creduti amici, immaginarono sulle prime di tirarli amendue in qualche casa sotto pretesto di dar loro un banchetto, per farli quindi trucidare da uomini posti in agguato; ma i Medici, sospettando forse qualche {293 [293]} reo disegno, rifiutarono di recarsi alle feste, cui erano invitati. Questa giusta diffidenza, lungi dal distogliere i congiurati dalla colpevole risoluzione, altro non fece che indurli ad accelerarne l'adempimento. Fu tra essi risoluto che quel doppio omicidio dovesse compiersi nella chiesa medesima, ove i Medici si conducevano per ascoltare la Messa; poichè quei tempi erano così sciagurati, che per soddisfare alla passione della vendetta gli uomini micidiali non erano neppure trattenuti dall'idea di un sacrilegio; e non si esitava di offendere nella medesima sua casa quel Dio, che comanda agli uomini di amarsi scambievolmente come fratelli. L'attentato da commettersi dinanzi agli altari parve si orribile ai medesimi congiurati, che parecchi di essi rifiutarono di prendervi parte; ma Francesco Pazzi, spinto da odio implacabile contro ai Medici, accelera quanto gli è possibile il compimento del misfatto. Il giorno è fissato, determinata la esecuzione. Era dì festivo e solenne: Lorenzo e Giuliano erano al tempio accompagnati da un grande numero di signori, e la folla degli astanti attendeva con raccoglimento al rito divino; quando nel momento, in cui il campanello dava il segno della elevazione della santissima Ostia, i congiurati, i quali non aspettavano se non l'istante in cui le loro vittime chinassero il capo per l'adorazione, si gittarono con violenza sui due principi e trafissero a pugnalate Giuliano, il quale cadde morto sul fatto.
Lorenzo non ebbe ricevuto se non una leggera ferita, la quale gli lasciò campo di sfoderare la spada, farsi strada fra i suoi aggressori, ed a ritirarsi con alcuni servi fedeli nella sagrestìa della chiesa, le cui porte di bronzo tosto chiudendosi Io posero in salvo.
Ma in quella che Lorenzo quasi per prodigio si sottraeva al furore dei Pazzi, gli amici dei Medici spargendosi per tutta la città, e correndo alle armi, chiamarono tutto il popolo contra gli assalitori, accusandoli di omicidio e di sacrilegio. Il popolo ben lungi dal far causa comune coi congiurati li assalì in folla, e scagliatosi addosso a tutti coloro, che si paravano innanzi, mise a pezzi la maggior parte di quegli infelici. Lo stesso Francesco Pazzi, principale autore del misfatto, rimasto ferito nella zuffa, venne strappato dal suo letto ed impiccato ad una delle finestre del palazzo. Di tutti i {294 [294]} congiurati soltanto un.piccolo numero potè uscire di Firenze travestito, e rifugiarsi altrove. In questa maniera quei ribelli e profanatori del tempio santo pagarono il fio del loro delitto.
Benchè sì terribile avvenimento privasse Lorenzo di un fratello, riuscì tuttavia più favorevole ai Medici che non sarebbero state parecchie vittorie poichè, da allora in poi niuno più osò di opporsi alla grandezza di quella casa, la quale pareva essere stata in queir incontro protetta dal cielo. Anzi Lorenzo il Magnifico, fatto accorto che solamente l' amore e il ben fare rende affezionati e docili i sudditi, raddoppiò di zelo per la felicità e per la gloria dei Fiorentini.
Dopo questo tragico avvenimento Lorenzo esercitò il paterno suo dominio per molti anni a prò' della repubblica. Merita speciale menzione la sollecitudine, con cui egli favorì le scienze e le arti, avendo chiamato in quella città i personaggi più dotti e gli artisti più insigni da tutte parti d'Italia. Circondato di continuo da uomini cospicui per ingegno e per dottrina, egli diede il suo nome alla preziosa librerìa, che il suo illustre avolo aveva cominciata; e fondò egli stesso nei suoi giardini di Firenze una scuola di pittura sotto il titolo di accademia, dalla quale uscì poi gran numero di pittori, i quali formano ancora oggidì la gloria dell'Italia. Fra gli uomini illustri famigliari a Lorenzo dei Medici devo citarvi Gioanni Pico della Mirandola, l'uomo più straordinario che sia mai vissuto al mondo per la varietà delle sue cognizioni, per la vivacità della sua mente e per la sua maravigliosa memoria.
Lorenzo de' Medici dopo di aver governata la repubblica di Firenze, come un padre governa la propria famiglia, fu tolto all'amore dei suoi concittadini nel 1492.
XLIII. Recenti scoperte e l'invenzione della stampa.
Sebbene la storia del Medio Evo sia ripiena di avvenimenti guerreschi, tuttavia l'accomunarsi di varie nazioni e il loro comunicarsi a vicenda i prodotti dell'industria e del commercio, furono cagione di molte utili scoperte. Di alcune {295 [295]} già vi parlai nel corso di questa storia, di altre voglio darvi qui un cenno.
Nel secolo V san Paolino, vescovo della città di Nola, introdusse l'uso delle campane sopra le torri, per dar segno dell'ora, in cui i fedeli dovessero intervenire alle sacre funzioni. Nel 553 dalle Indie fu trasportata in Europa la semenza dei bachi da seta, i quali moltiplicati mercè le foglie del gelso furono per gli Italiani sorgente di molte ricchezze.
L'anno medesimo si conobbe l'uso delle penne da scrivere, in luogo delle cannucce, che prima si adoperavano con grave incomodo.
Circa l'anno ottocento un principe maomettano regalò un orologio a ruote all'imperatore Garlomagno; ed un prete veronese, di nome Pacifico, l'introdusse in Italia, conducendolo a molta perfezione.
Nell'anno 990 furono in Italia portate le cifre arabiche, cioè i numeri, di cui ci serviamo presentemente a fare i calcoli.
Nell'anno mille ventotto un frate di nome Guido, della città di Arezzo, inventò le note della musica, ritrovamento che rese assai facile lo studio di questa scienza. Poco dopo furono inventati i molini a vento; fu conosciuto l'uso del vetro, che venne adattato alle finestre; ed i Veneziani lo usarono a far occhiali e specchi. La carta di cenci e l'uso del carbon fossile si annoverano pure fra le invenzioni di quel tempo.
Inoltre nel 1216 il monaco Ruggero Bacone scoprì di quali sostanze era composta la polvere da cannone, e poco dopo vennero in uso le bombe ed i mortai.
Nel 1300 un cittadino di Amalfi, chiamato Gioia Flavio, scoprì l'uso della bussola, ossia dell'ago calamitato, mercè cui i marinai possono camminare con sicurezza qualunque ora del giorno e della notte, e conoscere la direzione, che seguono in mezzo alle onde, senza consigliarsi colle stelle, come facevano gli antichi.
Ma niuna invenzione fu così maravigliosa e nel tempo stesso tanto utile quanto la stampa. Prima del secolo decimoquinto tutti i libri erano scritti a mano, e voi potete facilmente immaginarvi quanta fatica e quanto tempo si dovesse spendere quando si dovevano fare più copie di qualche grosso volume. {296 [296]}
Già da più di cent'anni erasi trovato il modo di improntare sul cartone (specie di carta grossa) l'immagine di figure rozzamente scolpite sul legno, e per lo più rappresentanti l'effigie di santi o di sante. Il più delle volte queste immagini erano accompagnate da alcune linee di spiegazione, le cui parole trovavansi intagliate nel medesimo pezzo di legno, a fine di risparmiare la fatica di scriverle in fondo a ciascuna.
Primo ad usare caratteri mobili nella stampa fu un dotto italiano della città di Feltro, per nome Panfilo Gastaldi. Ma quei caratteri erano di legno.
Un certo Giovanni Guttemberg di Magonza fu colui che concepì l'ingegnosa idea di formare caratteri mobili di piombo fuso, simili a quelli intagliati nel legno, in guisa che si potessero disporre a volontà secondo il bisogno, e che anneriti con un inchiostro assai denso riproducessero esattamente sulla carta le lettere dell'alfabeto da essi caratteri rappresentate Ciò avveniva nel 1438.
Tale fu, miei cari, l'origine della tipografia, di quell'arte preziosa, per cui formandosi lettere con piombo fuso e con un'altra sostanza detta antimonio, e con esse componendosi parole, e queste sottoponendosi alla pressione del torchio, si formano stampe e libri. L'utilità di tale invenzione è grandissima, perchè oggidì due operai fanno in un giorno maggior lavoro che non farebbero trentamila copiatori di libri nel medesimo tempo. Lo stesso stampato si legge assai più comodamente, che non il manoscritto; oltre a ciò quel libro, che oggidì può comprarsi a cinquanta centesimi, prima della stampa costava oltre cinquanta franchi. In pochi anni l'invenzione di Guttemberg si propagò in tutta Europa: Roma, Venezia, Parigi ebbero i loro tipografi. Così per mezzo della stampa i manoscritti degli antichi Greci, dei Latini e dei dotti d'ogni nazione, i quali fino allora erano stati riserbati ai soli dotti e ai soli ricchi, possono ora con poca spesa andare per le mani di chiunque voglia erudirsi[17]. {297 [297]}
Intanto noi, miei buoni amici, siamo giunti alla fine della storia del Medio Evo. Tre gravi avvenimenti compierono questa importantissima epoca. La scoperta della stampa, che fu nel 1438; la presa di Costantinopoli fatta da Maometto II nel 1453, con cui fini l'ultimo avanzo dell'antico Romano impero. Finalmente la scoperta dell'America per opera di Cristoforo Colombo nel 1492. E poichè gli avvenimenti che seguono hanno, per così dire, cagionato un rinnovamento universale, che dura tuttavia a' nostri dì, perciò essi so-glionsi comprendere col nome di Storia Moderna. {298 [298]}
EPOCA QUARTA. STORIA MODERNA. Dalla scoperta del nuovo mondo nel 1492 fino al 1873.
I. Scoperta del nuovo mondo. (Anno 1492).
La serie degli avvenimenti, che io imprendo a raccontarvi, dicesi storia moderna, sia perchè abbraccia i tempi a noi più vicini, sia perchè i fatti, che ad essa riferisconsi, non hanno più quell'aspetto feroce e brutale, che presentano quelli del Medio Evo. Qui è quasi tutto progresso, tutto scienza ed incivilimento; perciò ho motivo a sperare che le cose, che io vi andrò raccontando, debbano di certo riuscirvi utili e nel tempo stesso più dilettevoli.
La scoperta dell'America è l'avvenimento che dà principio a quest'epoca; avvenimento il più strepitoso di quanti si abbia notizia nella storia dei popoli. Prima del 1492 le parti del mondo conosciute erano soltanto tre, vale a dire l'Europa, di cui fa parte l'Italia; l'Asia, dove vissero i primi uomini del mondo, e l'Africa, che è una vasta estensione di paesi al nostro mezzodì, al di là del Mediterraneo.
Nel secolo, di cui parliamo, già si erano fatte molle scoperte marittime specialmente dai Portoghesi; si erano scoperte le isole Canarie, le Azzorre, la Guinea, ed alcuni erano già pervenuti fino alla estrema punta meridionale dell'Africa, che ricevette il nome di Capo di Buona Speranza. Ciò non {299 [299]} ostante fino al 1492 non si aveva notizia di una parte del mondo, la quale in estensione uguagliasse quasi le tre altre già conosciute. La gloria di questa maravigliosa scoperta è dovuta ad un nostro italiano, di nome Cristoforo Colombo.
Ascoltate le belle cose, che ho a raccontarvi di lui. Egli era nato vicino a Genova, da uno scardassiere di lana, e suo padre voleva ammaestrarlo nell' arte, che egli stesso esercitava. Ma Colombo era dalla Provvidenza destinato a condizione di vita più grande; e all'età di soli quattordici anni diede prova di essere un bellissimo ingegno. Il buon genitore osservando la lodevole condotta del figliuolo gli somministrò mezzi e tempo da potersi applicare allo studio dell'aritmetica, della geometrìa e di altre scienze, che giovano alla navigazione.
La scoperta di varie terre e di varie isolette fatta poco prima dai Portoghesi formava il soggetto delle conversazioni di tutti, ed aveva acceso l'animo del giovanetto Cristoforo. Nato egli in paese marittimo, sentiva ardersi della brama di acquistare anch'esso gloria sul mare; perciò studiò con impegno la nautica sia coi libri, sia viaggiando per mare. Intanto postosi agli stipendi di un Genovese, celebre capitano di mare, andò con esso lui a combattere contro ai Turchi e contro ai Veneziani; sostenne fieri combattimenti, arrischiò la vita fra le burrasche, si acquistò qualche poco di danaro, e cognizioni e fama di giovine valorosissimo. Avvenne sulle coste del Portogallo, che il suo capitano attaccò una zuffa con alcune galee veneziane; e nel furore della mischia si appiccò fuoco al vascello genovese. Colombo scorgendo ogni cosa fatta preda delle fiamme si gettò in mare e nuotando giunse a grande stento alla riva. Si ricoverò in Lisbona diserto di tutto. Ma gli uomini dotti e virtuosi trovano presto benefattori. Le sue belle maniere e le sue cognizioni gli procacciarono l'amicizia di alcuni mercanti suoi compaesani, i quali lo provvidero di quanto era necessario per dimorare in quella città. Allora egli si diede col massimo ardore a' suoi prediletti studi, e tanto progredì in scienza, che' giunse a congetturare esservi ancora moltissime terre lontane da scoprire. Questa idea vaga da principio divenne per lui a poco a poco una certezza, sicchè andava dicendo con tatti: «C'è un nuovo mondo, e voglio andarlo a scoprire.» {300 [300]}
D'allora in poi Cristoforo non provò più pace, finchè non ebbe i mezzi d'introdursi in mari non ancora navigati. A questo fine chiese navi da prima alla repubblica di Genova, sua patria, poi al Portogallo; ma parendo a tutti che il pensiero di Colombo fosse privo di fondamento, niuno gli diede ascolto. Il credereste? tante ripulse non avvilirono l'animo di Colombo. Saldo nella sua idea si avvia in Ispagna, e va a presentarsi al re, di nome Ferdinando, soprannominato il Cattolico; gli propone di scoprire nuove terre, purchè esso lo fornisca delle navi necessarie. Anche qui Colombo sulle prime fu tenuto per un visionario, e come tale dalla corte congedato. Il peggio si è che il popolo, in vedendolo aggirarsi per la città sempre immerso in profonde meditazioni, lo riputava pazzo. Cinque anni aveva speso in viaggi, in preghiere, in raccomandazioni per trovar modo di avviarsi verso il nuovo mondo. Fatiche inutili, parole sparse al vento! Disperando di ottenere le navi richieste, si preparava ad uscire dal regno per recarsi di nuovo in Inghilterra, quando un dotto monaco, di nome Perez, di lui amico, riuscì ad ottenergli dal re tre navi e le provvigioni necessarie per quella singolare spedizione.
Colombo pieno di giubilo promise al re che le nuove terre, di cui sembravagli sicura la scoperta, apparterrebbero alla Spagna. Dal canto suo Ferdinando promise al coraggioso genovese che egli e i suoi eredi le governerebbero in qualità di vicerè. Quindi colla massima prestezza raccolta la sua gente nella città di Palos, fece benedire le sue navi e pose tutto l'equipaggio sotto alla protezione dell'augusta Regina del Cielo, volendo che la maggiore delle sue navi si chiamasse Maria. Ciò fatto, il 3 agosto 1492, sciolse le vele alle tre navi, per andare in cerca del nuovo mondo. Dopo due settimane di viaggio fra mari sconosciuti, fra tempeste e sotto nuovi climi, non ancora scorgendosi spiaggia alcuna, il timore di morire di fame assalì l'animo di tutti.
I lamenti ripetuti dalla ciurma si cambiarono a poco a poco in imprecazioni e congiure. Al fine crescendo ogni giorno i pericoli, quella gentaglia si ammutinava e morte, gridavano inferociti, morte a chi volle pazzamente sacrificare tanti bravi! Colombo non si smarrì a queste voci da forsennati, ma indusse i meno temerari a star cheti, punì i {301 [301]} pertinaci, placò tutti, e con un coraggio irremovibile andò incontro a maggiori disastri, e spinse le navi innanzi nell'Oceano. Viaggiarono ancora un mese e mezzo, e continuavano a non vedere altro che cielo ed acqua. Ben sapevano e Colombo e i suoi compagni, che essi erano divisi dalla patria da un immenso tratto di mare; laonde questi ultimi piangevano disperando di rivedere i loro parenti. Colombo li confortava e andava innanzi.
Per buona sorte non passarono molti giorni che egli vide volare uccelli di una specie nuova e sconosciuta, poi scorse un insetto vivo fra alcune erbe galleggianti; erano questi sicuri indizi, che la terra non poteva essere molto discosta. Tutto allegro additò l'insetto e gli uccelli ai malcontenti, e parvero alquanto rincorati; ma scorsa una settimana e non vedendosi ancora altro che cielo ed acqua, le doglianze si cambiarono in minacce, e la ciurma passando dai detti ai fotti, era in procinto di gittar nel mare il condottiere ostinato, a fine di rivolgere la prora verso la Spagna.
Colombo allora aduna intorno a sè i più valorosi: e bene, egli dice, se fra tre giorni non iscopriamo terra, vendicatevi pure, gettatemi in mare. A queste parole pronunziate con mirabile fiducia quegli uomini rozzi stupirono e si acquietarono; e il viaggio fu proseguito. Passò un giorno e la terra non si scopriva; venne la sera, e molti vegliavano agitati dalla speranza e dal timore. Non era ancora mezza notte, quando parve a Colombo di intravedere da lontano un lumicino, e lo accennò a due ufficiali spagnuoli, che gli Stavano dappresso. Tutti e tre infatto videro, che il lume si andava movendo come fiaccola, che altri portasse di luogo in luogo. Erano in. queste congetture, quando dalla nave più avanzata udirono gridare lietamente: terra, terra! Ed in vero allo spuntar dell'alba si mostrò alla distanza di cinque miglia un'isola verdeggiante di boschi e praterie. I marinai e i volontari spagnuoli, che avevano minacciata la vita del condottiere, sì prostrarono a' suoi piedi, chiedendogli perdono. Quell'italiano, a cui poco innanzi non volevano ubbidire e che trattavano con disprezzo, allora pareva loro il più grand'uomo del mondo; così che l'eccesso della gioia li portava ad una specie di adorazione.
Era venerdì giorno 12 ottobre 1492. Colombo discese {302 [302]} nei battelli coi soldati; fece spiegare le bandiere al vento e precedere la banda militare in bella ordinanza, e a remi forzati gli Spagnuoli si avvicinarono alla costa. Uno stuolo d'isolani copriva quella spiaggia, ivi attirati dalla novità della cosa. Colombo fu il primo che mise i piedi a terra, tenendo in mano la spada sguainata; dietro a lui venivano i suoi compagni a schiera a schiera.
Appena toccato quel suolo, gli Spagnuoli vi innalzarono un Crocifisso; tutti caddero ginocchioni davanti alla sacra immagine, e ringraziarono Iddio pel felice termine del loro pericoloso viaggio, e per avere loro conceduto di essere guidati dal glorioso Colombo a scoprire nuove terre e nuovi popoli. Stupivano gli Spagnuoli nel vedersi intorno piante, erbe, frutti, animali diversi affatto da quelli d'Europa. Gli abitanti dell'isola erano selvaggi nudi, di color di rame, e quasi senza barba; avevano la faccia e le membra dipinte di vivaci colori. Ancora più attoniti erano questi isolani, i quali non avevano mai veduto approdare a quei lidi straniero alcuno. La pelle bianca degli Europei, i lunghi bafiì, le vesti a vario colore, le armi lucenti, i cavalli e i cani, bestie colà ignote, tutto faceva una strana impressione nell'animo loro. Quei semplicioni pensavano che le navi colle vele spiegate fossero mostri marini; taluni dei selvaggi credettero che i cavalli e i cavalieri facessero un corpo solo; e tutti chiamavano i seguaci di Colombo figliuoli del sole discesi in terra[18]. {303 [303]}
II. Colombo in America. (Dal 1492 al 1493).
Quando Colombo ebbe finite le cerimonie religiose e date le disposizioni militari, si fece incontro amichevole agli isolani, i quali eransi tenuti in disparte sulle vicine collinette a vedere lo sbarco e le mosse della piccola squadra. Quei selvaggi intimoriti all'avvicinarsi di queste nuove figure di uomini in sulle prime fuggirono; ma Colombo gettò loro in dono dei sonagli, degli spilli, dei coltelli, degli specchietti di vetro, ed altre cose fino allora sconosciute in quei luoghi, ed essi le andavano raccogliendo a gara, ed erano maravigliati della bellezza di siffatte bagatelle. A poco a poco, come accade nei fanciulli, nacque in tutti il desiderio di possederne, laonde i più animosi appressaronsi agli Spagnuoli, domandando alcuna di quelle cosucce, e offrendo in cambio frutti e tele del paese. Cosi incominciarono le prime relazioni fra gli Europei e gli abitanti del nuovo mondo. Sull'imbrunire di quel giorno memorabile Colombo salì in una barchetta, tornò alle sue navi, e molti selvaggi onorevolmente lo accompagnarono coi loro canotti, che sono una specie di navi fatte con tronchi di grossi alberi, incavati in modo da potervi navigare.
L'isola, a cui approdò Colombo per la prima, e che si può dire essere stata la sua salvezza, fu nominata San Salvatore. Dopo di aver colà ristorate le sue genti andò in traccia dei luoghi giudicati ricchi in oro, approdò a più isole, e alcun tempo dimorò in quella di Cuba. Ivi gli abitanti, credendo gli Spagnuoli esseri divini, portarono ad essi cibi preziosi, e si prostrarono per baciar loro i piedi. {304 [304]}
Sbarcò poscia all'isola detta più tardi S. Domingo. Da prima quei timidi abitanti fuggirono nelle selve all'approssimarsi degli Spagnaoli. Ma avendo questi presa una donna e condottala a Colombo, egli comandò che le si mettessero bellissime vesti alla nostra usanza, e la rimandò fra i selvaggi, che erano nudi. Chi sa quale maraviglia parve a coloro la donna vestita di ricca gonnella? Chi sa che cosa narrò colei de' costumi spagnuoli? Il fatto sta che il, dono e le cortesìe di Colombo a quella donna gli giovarono assai; poichè il giorno dopo vennero in fretta i selvaggi a cambiare l'oro colle palline di vetro e con altre coserelle degli Spagnuoli. Alcuni di quegli isolani portarono sulle spalle la donna, cui erano stati regalati gli abiti, e presso di lei stava il marito, il quale veniva a ringraziare il condottiero delle navi.
Un Cacico, ossia principe del luogo, volle vedere i viaggiatori Spagnuoli. Ducente uomini lo accompagnavano portandolo sotto ad una specie di baldacchino. Desiderò di salire sulle navi; e subito Colombo lo accolse a grande onore e gli presentò rinfreschi. Il Cacico non fece che appressarli alle labbra, senza bere di alcun liquore; che egli pure credeva che quegli stranieri scendessero dal Cielo.
Colombo, che già cominciava ad intendere la lingua di quei selvaggi, ebbe di poi un abboccamento col maggiore de' Cacichi dell'isola. Dopo di avere stretta amicizia con esso lui, prese a costeggiare l'isola in cerca di miniere d'oro. In quel viaggio essendosi addormentato il pilota, la nave diede in uno scoglio e si ruppe per modo, che tutto vi andò a soqquadro. Lo stesso Colombo dovette gittarsi in mare e salvarsi a nuoto. Quei buoni selvaggi, appena fatti consapevoli del naufragio, corsero a prestare aiuto agli Spagnuoli, e nessuno perì.
Di tre navi, che Colombo aveva condotto dalla Spagna, due erano perdute: quella, che rimaneva, non era più capace di portare tutta la sua gente; fu perciò costretto a dividere gli Spagnuoli in due compagnie. Ordinò ad una di rimanere nell'isola; annunziò all'altra, che sarebbe ritornata in Ispagna con lui. Ma prima di partire Colombo, chiamati intorno a sè gli Spagnuoli, che dovevano fermarsi fra i selvaggi, comandò loro di essere costumati e religiosi; di studiare {305 [305]} il linguaggio del paese, ai non fare torto ad alcuno. Invitò il primo Cacico a conchiudere un trattato, in fòrza del quale gli Spagnuoli si obbligavano a difendere quegli abitanti dalle scorrerie di non so quali crudeli vicini, e gli isolani dal canto loro promettevano di somministrare agli Spagnuoli vivande e braccia tante, quante loro abbisognassero.
Colombo, per obbligare meglio i selvaggi all'osservanza dei patti, fece schierare i suoi Spagnuoli armati di tutto punto. Il vedere lance, spade, archibugi, balestre e cannoni fu uno strano spettacolo per genti accostumate a maneggiare in guerra soltanto spine di pesci e rami d'alberi. Ma quale fu poi il loro sbigottimento, quando conobbero l'uso di quelle armi; e udirono gli spari degli archibugi e delle artiglierìe? A quei fuochi, a quel rimbombo si buttarono a terra uomini e donne coprendosi colle mani il viso, e poi si alzarono tremanti per adorare gli dei armati, come essi dicevano, di lampi, di tuoni e saette.
Ciò fatto, Colombo imbarca i più curiosi prodotti del luogo e alcuni selvaggi. Carico di queste maraviglie scioglie le vele per l'Europa. Sorge durante il viaggio una furiosa burrasca, e Colombo vedesi parata innanzi la morte; ma tranquillo in mezzo al pericolo si dispone a morire da buon cristiano. Comanda poi che gli si rechi della cartapecora; scrive su di essa la storia del suo viaggio, chiude il foglio in un barile, e lo getta sui flutti, acciocchè galleggiando possa un dì venire raccolto da qualche navigatore, e così manifestare l'esistenza delle isole da lui scoperte. Ma la divina Provvidenza, che riserbava il prode italiano per altri grandi disegni, lo campò dal pericolo, ed egli potè co' suoi continuare il cammino.
Sette mesi erano scorsi, da che Colombo aveva lasciata la Spagna, e niuno in Europa aveva avuto notizia di lui. Cominciava a nascere il dubbio che fosse perito nell'impresa arrischiata; quand'ecco la sua nave comparisce inaspettata innanzi a Lisbona, ove fu costretta da una tempesta a ricoverarsi. Di là Colombo spedì un corriere al re di Spagna, ed egli intanto si mosse verso la città di Palos.
Prima che il famoso navigatore arrivasse in Ispagna, si sparse la novella dell'esito felice della spedizione. Quando poi sbarcò a Palos, la città intera accorse a ricevere lo scopritore del nuovo mondo. Trasecolavano tutti nel mirare le {306 [306]} produzioni e gli animali da lui recati; ma ancora di più alla vista di quelle strane figure d'uomini presi a Cuba e a San Domingo. Intanto Colombo, quasi trasportato dalla folla, tra gli evviva del popolo e il suono delle campane si avvia al tempio per ringraziare il Signore. Da Palos si trasferisce per terra a Barcellona. Tanta gente si affrettava sul cammino per vedere sì raro uomo, che tutto il viaggio fu per Colombo una via trionfale. Alla metà di aprile entrò in Barcellona, ove il re e la regina lo ricevettero con pompa so-lennissima. L'udienza fu pubblica, si eresse un trono fuori del palazzo, ed ivi i sovrani accolsero l'ardito navigatore.
Ognuno aveva fissi gli occhi in Colombo. Il re e la regina, fattolo sedere, lo invitarono a narrare il viaggio e la grande scoperta. Colombo si fece allora ad esporre in semplici parole le sue avventure, e queste parevano miracoli ai circostanti. Tale fu l'ammirazione eccitata da quel racconto di onorate fatiche, che i grandi della corte lo trattarono come persona principesca. Il re di Spagna fu generoso di molti regali a Cristoforo ed alla sua famiglia: i dotti non trovavano lodi bastevoli al suo merito; il più degli Spagnuoli il chiamavano Mago; e i popoli dell'Europa stupiti pronunziavano con entusiasmo il nome del sapiente e coraggioso italiano.
III. Altri viaggi di Colombo in America. (Dal 1492 al 1505).
Le azioni di Cristoforo Colombo mi paiono tanto importanti che io stimo bene di raccontarvi altri suoi viaggi in America. Quattro volte Colombo riprese il pericoloso viaggio per quei lontani paesi. Dopo tante traversìe un uomo volgare avrebbe desiderato di godere in pace degli onori e delle ricchezze acquistate. Ciò non fece Colombo, il quale, nemico d'ogni ozio e avido sempre di gloriose azioni, invece di pregare il re che gli conferisse cariche e principati in Ispagna, lo supplicò di somministrargli diciassette navi, a fine di poter correre sui mari verso regioni tuttavia sconosciute agli Europei; e fu esaudito. {307 [307]}
Non v'ha fatica o pericolo, che valga ad intimidire chi è avido dell'onore e della gloria. Colombo va errando ancora fra quei mari in traccia di nuove terre: scogli, tempeste, fulmini, piogge, carestìe, non lo smuovono dal proposito. Ma l'uomo vale quanto un uomo, e tanti disagi lo fecero cadere in grave e pericolosa malattia.
Mentre giace infermo su quei rimoti lidi, scoppiano alterchi fra gli Spagnuoli e fra i selvaggi. Ed ecco in conseguenza di quei contrasti raccogliersi all'improvviso cento mila selvaggi, i quali minacciano di avviluppare e di uccidere tutte le genti di Colombo. Ma questo grand'uomo, tuttochè sfinito di forze, non s'impaurisce. Giudicando inevitabile una battaglia, fa la rassegna de' proprii soldati, che sommavano a ducentoventi. Dugentoventi uomini contro cento mila! - Nondimeno coll' ordine, colla disciplina, colla scienza di Colombo quei pochi soldati assaltano di notte i nemici, e colle armi da fuoco e col coraggio mettono presto in fuga la moltitudine di selvaggi. Ottenuta gloriosa vittoria, Colombo giudicò bene di ritornare nella Spagna.
Dopo questo secondo ritorno egli confuse alcuni de suoi nemici con una ingegnosa risposta divenuta celebre. Gli contendevano essi il merito delle sue scoperte dicendo, che nulla era di più facile mediante un poco di audacia e molta fortuna. Egli allora propose loro di far stare un uovo dritto sulla sua punta. Al che niuno avendo potuto riuscire, Colombo ruppe la punta dell' uovo, e sì lo fece stare. «Che bel mezzo! esclamarono gli altri. Senza dubbio, egli replicò, il mezzo è semplice; ma niuno di voi si avvisò di usarlo; ed appunto così io operai la scoperta di un nuovo mondo.» La sua presenza e le sue parole avendogli fatta riacquistare tutta la confidenza del re, partì pel suo terzo viaggio; e in questo egli scoprì quel vasto continente, della cui scoperta gli fu rapito l'onore da Americo Vespucci, il quale gl'impose il suo nome.
Intanto, essendo Colombo ritornato in America, molte accuse si addensarono sul suo capo; ed il re e la regina prestando troppo facile orecchio ai calunniatori di lui, spedirono a S. Domingo Francesco Bobadilla, perchè esaminasse e sentenziasse l'imputato. Questo infame Bobadilla, che voleva comandare e avere per sè tutto l'oro di quei {308 [308]} paesi, appena messo piede nell'isola, s'impadronisce di Colombo, lo fa incatenare e lo condanna a morte. Non o-sando tuttavia eseguire l'iniquissima sentenza, allestisce un vascello per ispedire in Ispagna Colombo con due suoi fratelli. Colombo soffre, tace, ubbidisce, non si sgomenta. Egli era puro d'ogni delitto.
Quando Alfonso da Velleio, capitano della nave destinata a recare i tre fratelli genovesi in Ispagna, ricevette a bordo Colombo, tutto compreso di rispetto per l'illustre prigioniero, voleva fargli togliere le catene. «No, disse Colombo, chi sa comandare in un giorno, sa obbedire in un altro.» Virtuoso esempio d'ubbidienza all'autorità pubblica.
Compiuto Colombo in sì misero stato quel lungo viaggio, non appena approdato in Ispagna, il re comandò gli fossero tolti i ferri e gli dessero danari e vesti, affinchè comparisse alla corte a sgravarsi delle imputazioni. Colombo venne di fatto al cospetto del sovrano di Spagna, e parlò eloquentemente a sua propria difesa, perchè era uomo istruito e sapeva far valere la sua ragione. Persuasi il re e la regina della sua innocenza, rovesciarono su Bobadilla la colpa dei maltrattamenti usatigli. Ciò divulgatosi, il popolo accompagnò Colombo a casa a furia di evviva!
Ciò non di meno Colombo passò due anni trascurato dalla corte, dimandando invano di essere investito della dignità di vicerè delle terre scoperte, come era stato pattuito. Intanto Americo Vespucci, viaggiatore fiorentino, saputo che Colombo aveva scoperto il nuovo mondo, concepì il desiderio di ottenere gloria uguale. Il re Ferdinando gli diede quattro vascelli, e nel 1497 partì di Spagna. Camminando sulle tracce di Colombo si inoltrò in America e giunse a scoprire nuovi paesi. Dal nome di Americo venne allora dato a quella parte del mondo il nome di America.
Colombo imprese ancora un quarto viaggio per l'America, in cui dovette patire assai per mare e per terra. In una burrasca essendo stato gettato sulle rive di un'isola selvaggia, egli ed i suoi andarono soggetti a molte privazioni. I cibi erano consumati, e quegli isolani essendo stati poco prima maltrattati dagli Spagnuoli, erano risoluti di lasciarli morire di fame. La scienza liberò Colombo ed i suoi compagni dalla morte. Egli era istruito nell'astronomia vale {309 [309]} a dire conosceva il moto ed il corso degli astri e la relazione ehe essi hanno colla terra. Dovendo in quel tempo succedere un ecclissi del sole, predisse che fra breve sarebbe avvenuto un terribile oscuramento. Que' selvaggi da prima non diedero ascolto alla predizione; ma quando videro che il sole cominciava proprio ad ottenebrarsi, tanto s'impaurirono, che corsero a Colombo, gli si gettarono ai piedi, e lodando la sua grande sapienza, si facevano premura di recargli quanto occorreva per lui e pei suoi compagni.
Ma nuovi guai sorsero ad interrompere le imprese di quel grande uomo; sicchè egli, vittima dell'invidia e delle maldicenze di alcuni Spagnuoli, stimò bene di ritornare in Ispagna. Finalmente l'anno 1505 mori nei disgusti e nella povertà: terribile esempio, che ci deve ammaestrare di non far conto delle umane grandezze. Mori povero colui, che aveva scoperto il nuovo mondo, donde provenne all'Europa oro immenso! Il nome di Cristoforo Colombo sarà sempre glorioso tra gli uomini per la sua religione, la sua carità, e per la scoperta dell' America. (V. Cristofaro Colombo e scoperta dell'America del sac. G. B. LEMOYNE).
IV. Lodovico il Moro e Carlo VIII. (Dal 1495 al 1510).
Mentre Cristoforo Colombo acquistava nuova gloria all'Italia colla scoperta del nuovo mondo, molti bellicosi avvenimenti agitavano i popoli Italiani. Vi ricorderete che nella vittoria riportata dal conte di Carmagnola a Maclodio fu vinto altresì un generale di nome Francesco Sforza, figliuolo di un condottiero chiamato Attendolo. Ora accadde che in quei tempi la guerra si accese in vari paesi d'Italia; e i Milanesi alla morte di Filippo Maria Visconti loro ultimò duca, eransi eretti in repubblica. Ma Francesco Sforza, giudicando di aver diritto a quel ducato perchè aveva sposato la figliuola del Visconti, si presentò alle porte della città colla formidabile sua banda. In breve si rese padrone di Milano, e tolse il titolo di duca, che nissuno osò contendergli.
Francesco Sforza ebbe un lungo e glorioso regno, durante il quale seppe farsi onorare e temere dai suci sudditi. Alla {310 [310]} morte lasciò la corona ducale al figliuolo Galeazzo Maria, il quale dopo un regno poco onorevole di dieci anni fu ucciso da tre congiurati. Erano già cinquantanni che quella stirpe di avventurieri stava al possesso del ducato di Milano, allora quando Giovanni Galeazzo Maria venne chiamato a succedergli in età di otto anni. Un zio di questo giovine principe, detto Lodovico il Moro, a cagione della sua pelle abbronzata, che gli dava aspetto di un africano, si prese a governare il Milanese, finchè il nipote fosse in istato di regnare da sè.
Ma il crudele Lodovico, geloso di vedere il titolo ducale portato da un fanciullo, formò il disegno di rapirgli il trono e salirvi in sua vece. E poichè non ignorava quanto i Milanesi amassero il loro principe e quindi non avrebbero tollerata una tale ingiuria, cercò di suscitare turbolenze in Italia. A tale uopo fece segretamente proporre al re di Francia, che si chiamava Carlo VIII, di venire a rivendicare i diritti della casa d'Angiò sul regno di Napoli.
Carlo accettò con piacere questa offerta, tanto più che il Moro prometteva di aiutarlo a conquistare quel regno, ove allora regnava un principe di nome Ferdinando I. Ed ecco in breve un agguerrito esercito Francese con mille quattro cento cannoni, guidato dal medesimo Carlo VIII, giungere in pochi giorni alle porte di Milano, ove era aspettato con impazienza. Lodovico aveva fatto disporre tappezzerìe e fiori lungo tutte le strade, per cui il monarca Francese doveva passare, ed egli stesso si mosse incontro per riceverlo alla testa dei principali signori di sua corte.
Il malvagio uomo avrebbe voluto che suo nipote non si potesse abboccare con Carlo, e a questo fine lo teneva in certo modo prigioniero in Pavia, ove giaceva ammalato; ma il re andò egli stesso a visitarlo, e in questa occasione il duca raccomandò al re se stesso e i figliuoli. La duchessa poi, getfataglisi ai piedi, lo supplicò di avere pietà dell'infelice suo marito e di tutta la sua famiglia. Carlo parve commosso a quelle lacrime, la rialzò con bontà, e promise di non abbandonarli; ma per mala sorte quel re era leggiero e cupido solamente d'oro, perciò appena uscito di Pavia dimenticò le promesse. Nel giorno seguente si sparse la voce che Giovanni Galeazzo era morto avvelenato dallo zio, il quale fecesi proclamare nel medesimo istante duca di Milano. La {311 [311]} morte improvvisa di Giovan Galeazzo cagionò gran dolore al re Carlo, il quale non potè nascondere la sua avversione per Lodovico, creduto autore di'quell' abbominevole delitto.
Per andare a Napoli il re di Francia doveva passare per la Toscana, Ivi incontrò gravissime difficoltà, e se fosse ancora stato in vita il valoroso Lorenzo dei Medici, forse avrebbe avuto la pèggio; ma a lui era succeduto suo figliuolo di nome Pietro, il quale atterrito dalle crudeltà che i Francesi esercitavano, diede loro grande somma di danaro, e li fece padroni delle fortezze dello stato. Il popolo sdegnato per tale debolezza lo scacciò dalla città.
Cosi i Francesi entrarono senz'ostacoli in Firenze. Il Re posto piede in città, fece convocare i primari cittadini, e loro propose dure condizioni di pace. Mentre il segretario del re leggeva quello scritto, Pietro Capponi, trasportato da amor patrio, strappò di mano al segretario la carta e la lacerò, esclamando: «E bene, quando è così, suonate pure le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane.» Attonito il re a tanto coraggio, e da questo tratto argomentando la risoluzione degli altri, venne a più miti condizioni, e se ne partì contentandosi di alcuni sussidi.
Quasi senza contrasto Carlo riuscì ad impadronirsi del regno di Napoli; ma la cattiva condotta dei soldati Francesi eccitò l'indignazione universale. Parecchi principi Italiani, il Papa, i Veneziani, Massimiliano re di Germania, Ferdinando il Cattolico, quel medesimo, che aveva somministrato a Colombo le navi per la scoperta dell'America, lo stesso Lodovico il Moro si collegarono insieme nel 1495 per cacciare i Francesi dall'Italia. Carlo VIII, come seppe tal cosa, risolse di ritornare immediatamente in Francia. Ma giunto a Fornovo, vicino a Modena, incontrò l' esercito degli alleati. Ivi fu ingaggiata fierissima battaglia, che riuscì assai funesta ai Francesi, i quali subirono gravissime perdite.il medesimo re a stento potè farsi strada in mezzo ai nemici e ridursi con una parte de'suoi soldati in Asti, poscia in Francia.
Le cose furono per qualche tempo tranquille in Italia, finchè un altro re di Francia, di nome Luigi XII, successore di Carlo VIII, passò di nuovo le Alpi con piò formidabile esercito, a fine di vendicare le perdite del suo antecessore. Egli potè avanzarsi in Italia quasi senza contrasto. Il duca {312 [312]} di Savoia, di nome Carlo II, avrebbe forse potuto impedire il passo a quel re straniero; ma o perchè giudicasse di non aver forze bastanti, o perchè desiderasse mantenere la pace tra'suoi sudditi, o forse anco perchè il re di Francia gli avesse promesso di dargli una parte della Lombardia, egli lasciogli libero il passaggio delle Alpi. Si aggiunse che Lodovico il Moro, per l'uccisione di Giovanni Galeazzo, era caduto in odio a' suoi sudditi, e perciò quasi abbandonato dai soldati, tentò invano di difendere il suo ducato. Egli fu vinto e fatto prigioniero a Novara nel momento medesimo, in cui, travestito da fantaccino, sperava di scappare dalle mani dei nemici. Così la città di Milano cadde in potere dei Francesi, e lo stesso Lodovico, che per ambizione era divenuto sì colpevole, fu mandato in Francia, dove dopo dieci anni di penosa prigione morì miserabilmente. Così quel principe, il quale aveva chiamato gli stranieri in Italia, ed aveva barbaramente fatto perire un suo nipote in carcere, dovette egli pure finire i suoi giorni fuori della patria, lontano dai suoi parenti, eziandio chiuso in una prigione.
Durante le vicende tra i re di Francia e Lodovico il Moro visse un uomo, che per la singolarità delle sue azioni merita di essere conosciuto nella storia. E. questi Girolamo Savonarola Ferrarese, religioso domenicano a Firenze. Nella occasione che nacquero discordie in quella città egli erasi posto a predicare la libertà, la riforma dei costumi e l'odio contro ai Francesi, protestando che sarebbero venuti in Firenze quei forestieri, se non secondavansi i suoi consigli. Grande folla di gente lo seguiva da per tutto, e da molti era proclamato uomo santo e profeta. Per tal modo sorsero due fazioni, di cui l'una assecondava, l'altra osteggiava il frate domenicano. Piagnoni appellavansi i suoi partigiani; ed erano per lo più gente del popolo; Arrabbiati i suoi avversari, uomini di condizione più elevata, ed amanti di un governo meno libero e popolare.
Ma dalla riforma dei costumi passando egli a volere la riforma della medesima Chiesa, fu dal Papa proibito di predicare più oltre. Si tacque il Savonarola per qualche tempo, ma nella sua calda immaginazione, pensando di essere divenuto un uomo straordinario, invece di ubbidire, si pose a predicare contro il Papa. {313 [313]}
Fu avvisato più volte, ma tutto invano. Come il Savonarola protestava di essere innocente, così fu invitato al giudizio di Dio per dimostrare la sua innocenza colla prova del fuoco. La prova del fuoco, miei cari, consisteva nell'accendere un gran rogo, ossia un gran fuoco, in mezzo a cui doveva passare l'accusato. Se costui veniva risparmiato dalle fiamme, era reputato innocente. Questa maniera di giudizio, portata in Italia dai barbari, come già dicemmo, fu da molto tempo proibita dalla Chiesa, perchè con essa si viene in certa maniera a tentar Dio, quasi obbligandolo ad operare un miracolo ove non apparisce il bisogno.
Venuto il giorno stabilito per provare l'innocenza del Savonarola, immensa folla di popolo riempiva la piazza del Palazzo Vecchio, destinata a quel pubblico spettacolo. Ma alla vista dell'ardente rogo, delle fiamme avvampanti, di tanto popolo accorso per essere spettatore di quel fatto maraviglioso, egli si spaventò, e non ardì lanciarsi tra le fiamme. Allora la plebaglia sfrenata se gli rivoltò contro, il fece trarre dal convento, ov'erasi ricoverato, e dopo di avergli fatto patire crudeli tormenti, venne strascinato sulle fiamme (anno 1498). Noi disapproviamo altamente questo furore di popolo, perciocchè niun suddito deve attentare alla vita altrui, ma attendere le pubbliche e legittime autorità che applichino le leggi secondo il bisogno.
In questo breve spazio di tempo sorse e cadde in Italia una potenza, resasi assai formidabile. Cesare Borgia, più comunemente conosciuto sotto al nome di Duca Valentino, aveva deliberato di abbattere i piccoli principi, che signoreggiavano sugli stati della Chiesa. Già era giunto a vincerli tutti, quando rientrati nello stesso tempo ciascuno nei proprii dominii, il nuovo regno fu interamente disfatto; e lo stesso Valentino, dopo di essere stato prigioniero del papa Giulio II, fuggì a Napoli. In questa città preso, fu condotto in Ispagna, ove mori combattendo pel re di Navarra. {314 [314]}
V. La lega di Cambrai, la battaglia di Agnadello, di Ravenna, di Novara e di Marignano. (Dal 1509 al 1514).
Venezia, miei cari, in quel tempo era divenuta la più potente repubblica dell'Italia, perchè era sempre stata governata dagli ottimati, e non era mai caduta nelle mani della plebe, come avvenne alle repubbliche di Firenze e di Genova. Ma nella stessa guisa che colui, il quale trovasi nelle grandezze, facilmente levasi in orgoglio, così i Veneziani, fidati nella loro potenza, vollero impadronirsi di parecchie città che appartenevano ad altri stati. S'impossessarono di Rimini, Faenza, Cesena e Ravenna, spettanti alla santa Sede; occuparono la Dalmazia, appartenente al patriarca di Aquileia; presero l'isola di'Cipro, che doveva toccare al duca di Savoia. Di più eransi uniti coi Francesi per combattere contro Lodovico il Moro, a patto che loro fosse ceduta una parte della Lombardia. Insomma i Veneziani minacciavano di estendere il loro dominio oltre ogni diritto, appropriandosi città, paesi e provincie. Per la qual cosa l'imperatore di Germania, il re di Franciajil re di Spagna ed il sommo pontefice Giulio II, a cui si unirono di poi i Fiorentini, i duchi di Mantova, di Ferrara ed anche il duca di Savoia, si radunarono insieme nel 1508 e stabilirono una lega, per combattere a forze unite contro i Veneziani. Il luogo, dove si conchiuse quel patto, fu la città di Cambrai, posta nei Paesi Bassi, onde quella convenzione prese il nome di Lega di Cambrai.
I Veneziani non s'impaurirono nel vedersi assaliti dagli eserciti di quasi tutta l'Europa. Bartolomeo Alviano, generale della repubblica, sconfisse i Tedeschi e venne ad incontrare l'esercito Francese guidato da quel medesimo Luigi XII, che alcuni anni prima i Veneziani avevano aiutato ad impadronirsi di Milano. I due eserciti si affrontarono ad Agnadello, villaggio nel Milanese, vicino al fiume Adda. La battaglia fu sanguinosa; ma i Veneziani furono vinti. Allora parecchie città della Lombardia si sottomisero ai Francesi, e le città della Romagna aprirono le porte al primitivo loro {315 [315]} padrone, al romano Pontefice, e la Puglia si diede agli Spagnuoli.
Ma l'invasione degli stranieri è sempre un flagello. I Francesi, abusando della vittoria, invece di sollevare gl'Italiani, ne divennero gli oppressori, rubando, uccidendo e dando il saccheggio alle case. Il sommo pontefice Giulio II, in vedendo tanta oppressione, e considerando che cotale ingrandimento troppo abbassava la potenza Veneta, reputata come il sostegno della nostra penisola contro ai Turchi, si staccò dalla lega di Cambrai e si unì coi Veneziani, col re di Spagna e con altri principi Italiani per opporsi a quelli stranieri divenuti i comuni nemici.
Dopo vari attacchi parziali si venne ad una battaglia campale alle porte della città di Ravenna. I Francesi dopo aver toccato gravissime perdite colla morte del loro generale in capo, di nome Gastone di Fois, finalmente ottennero vittoria, senza per altro riportarne alcun frutto. Imperciocchè il duca di Milano, Massimiliano Sforza, figliuolo di Lodovico il Moro, aiutato da ventimila Svizzeri, scacciò i Francesi dalla Lombardia. Intanto sopraggiungendo nuove forze ai Francesi e auovi aiuti ai Veneziani, il duca di Milano e gli Svizzeri si videro costretti a rinchiudersi nella città di Novara, dove furono strettamente assediati.
Quegli Svizzeri erano uomini prezzolati, vale a dire combattenti per chi loro dava miglior paga, ma coraggiosi, e facevano prodigi di valore, quando si trovavano a fronte del nemico. Vistisi colà assediati, sul punto di mezza notte, in piccol numero, senza cavalli e senza cannoni, escono con gran silenzio dalla città e marciano difilato contro alle batterie nemiche. Queste erano difese da soldati Tedeschi arruolati nell'esercito Francese. Tra il buio della notte, interrotto solo dal fosco chiarore delle cannonate, si dà furioso assalto; furiosa ne è pure la resistenza. Al fine gli Svizzeri giungono ad impadronirsi delle artiglierìe e le rivolgono contro agli stessi Francesi e contro ai Tedeschi, i quali, sbaragliati e confusi fuggono al di-là delle Alpi, (anno 1513) In questa guisa Novara fu liberata, e la Lombardia ritornò in potere di Massimiliano Sforza.
I Francesi non potevano darsi pace di tanta sconfitta; ed il successore di Luigi XII, che si chiamava Francesco I, {316 [316]} uomo audace e cavalleresco, allestì un nuovo esercito per venire a ricuperare la Lombardia. Ma giunto alle Alpi trovò i più importanti passi occupati dagli Svizzeri contro ai Francesi. Allora Giovanni Trivulzio, Milanese, che da gran tempo serviva la Francia, essendo pratico delle Alpi, le varcò al colle dell'Argentera, e calatosi per valle di Stura, giunse a Cuneo ed a Saluzzo, mentre gli Svizzeri stavano guardando invano tutti i passaggi che menano a Susa.
Prospero Colonna, generale del duca di Milano, stava con molte squadre, senza alcun sospetto, a Villafranca, poco distante da Saluzzo, quando sorpreso dal Trivulzio fu fatto prigione con tutte le sue genti. Gli alleati allora indietreggiarono fino a Milano, ed il re, tenendo loro dietro, andò a piantare il suo campo vicino ad un villaggio, detto Mari-gnano, adesso Melegnano, sulla strada di Lodi.
Gli alleati allora, giudicando pericoloso ogni indugio, e-scono di Milano, si dispongono a squadre, e fra grida festose assalgono il nemico. Quell'assalto inaspettato divenne il segnale di un combattimento terribile e micidiale. Per due interi giorni si pugnò con eguale accanimento da una parte e dall'altra., e la sola oscurità della notte concesse ai due eserciti alcuni istanti di riposo. Il combattimento di Marignano fu detto la battaglia dei giganti, per gli incredibili sforzi che vi fecero i due eserciti, i quali parvero talmente superiori al potere degli uomini ordinari, che i più valorosi cavalieri Francesi, e già trovatisi alle pugne di Agnadello, di Ravenna e di Novara, assicurarono di non avere nulla veduto di simile.
La vittoria, che si dichiarò alla fine pei Francesi, costò la vita a ben quindicimila Svizzeri: e gli avanzi del loro esercito guadagnarono a precipizio le montagne, senza che i vincitori si dessero briga d'inseguirli; giacchè il loro esercito era altresì quasi disfatto. Pochi giorni dopo quella splendida vittoria, che ripose il Milanese sotto al dominio della Francia, Massimiliano Sforza trovandosi nell'impossibilità di resistere ai nemici, acconsentì di uscire dalla cittadella di Milano, e si diede egli stesso in mano del re Francese. Questi usando degnamente della vittoria permisegli di ritirarsi in Francia, ove il lasciò godere della libertà e di un grado onorevole finchè visse. {317 [317]}
La battaglia di Marignano, giustamente celebre pel valore dei Francesi e degli alleati, fu l'ultimo combattimento memorabile, cui diede motivo la lega di Gambrai. Un trattato di pace, conchiuso in una piccola città di Francia, detta Noyon (anno 1516), pose fine alle calamità senza numero, che le discordie fra il sommo Pontefice e Venezia avevano per otto anni tirate addosso all'Italia.
Questa lunga e sanguinosa lotta non produsse altri effetti, se non di dare il Milanese al re di Francia, il quale non doveva a lungo conservarlo, e di restituire alla santa Sede le città che le erano state tolte. Il regno di Napoli restò a Ferdinando il Cattolico, re di Spagna; Venezia poi, la cui prosperità ed ambizione avevano destata la gelosìa di tanti re, continuò ad essere una delle repubbliche più ricche e più commercianti d'Europa. A cagione della moltitudine delle sue navi, del ricco suo arsenale e dell'attivo commercio de'suoi cittadini, colà si ammassavano le merci dell'Oriente, e soprattutto le spezierie, che si distribuivano dipoi nelle principali città d'Italia, di Germania e di Francia.
VI. Secolo di Leone X. - Tartaglia, Bramante, Buonarotti, Leonardo da Vinci.
Nel vedere l'Italia divenuta campo di tante guerre e di tanti disastri si direbbe che le belle nostre contrade fossero per ricadere in una barbarie simile a quella, che aveva travagliata l'intera Europa dopo la caduta del Romano impero. Ebbene, in mezzo a quelle lotte sanguinose, in mezzo a quei disordini interminabili, la Provvidenza suscitò un uomo, che la storia appella a buon diritto il Rigeneratore delle scienze e delle arti nell'Italia, e possiamo dire in tutta l'Europa.
E questi un figliuolo di Lorenzo il Magnifico, di quel gran benefattore della Toscana. Il suo nome era Giovanni; ma avendo egli scelta la carriera ecclesiastica, fu eletto Papa sotto il nome di Leone X. Egli amava molto le scienze e le arti; quindi incoraggiava con premi e con onori gli artisti ed i letterati. Coi poverelli era benefico, affabile con tutti. Desiderava molto la gloria e la felicità dell'Italia: perciò in {318 [318]} quella che si studiava di promuovere le belle arti, adoperavasi di tenere da essa lontani i flagelli della guerra. Allora una grande quantità d'uomini illustri coprirono di gloria l'Italia coi firutti del loro vario ingegno, compiendo capolavori che formano ancora al presente l'ammirazione di tutti.
Quando l'Europa era ancora rozza ed ignorante, gli artisti Italiani, protetti dal romano Pontefice, producevano quadri, statue e monumenti, i quali servivano di modello a tutte le altre nazioni. La protezione dei papi sotto a Leone X toccò il colmo; di che io giudico di fervi cosa piacevole raccontandovi la vita di alcuni de' più celebri personaggi, che fiorirono nel secolo decimosesto. Comincio da un matematico bresciano, detto Tartaglia, da quel medesimo, che spesso fa parte delle rappresentazioni drammatiche popolari, onde avrete già più volte avuto occasione di riso e di trastullo.
Durante la crudele guerra tra i Francesi ed i Veneziani la città di Brescia dopo ostinata resistenza fu presa d'assalto dai Francesi, saccheggiata, messa a sangue ed a fuoco. Fra le vittime di quel disastro si trovò un fanciullo appena di dieci anni, il quale per le profonde ferite ricevute nel capo era rimasto come morto sulla soglia della casa, ove i suoi parenti erano stati tutti sgozzati. Una persona caritatevole passando colà si accorse che il miserello viveva ancora, ed avendolo portato in casa propria gli usò tante cure, che l'orfano guarì perfettamente. Per mala sorte un largo taglio riportato sulle labbra non gli permise più di parlare speditamente, ed a cagione di questo fu chiamato Tartaglia, ossia balbettante; nome, che egli sostituì a quello dei genitori perduti.
Il giovane Tartaglia, salvato come per miracolo da una morte che pareva certa, col crescere dell' età divenne un uomo studioso e profondamente erudito, e fu il primo in Italia, che, essendosi applicato alla geometrìa ed alla meccanica, fece risorgere nell' Europa queste utili scienze, lasciate in abbandono da lunghi anni,
Un altro uomo, che in particolar maniera si segnalò sotto al pontificato di Leone, fu Michelangelo Buonarotti. figli nacque a Chiusi presso Firenze da povero padre, il quale per guadagnarsi il vitto andava addestrando i suoi figli nell'arte di lavorare la lana e la seta. Osservando in {319 [319]} Michelangelo una particolare attitudine allo studio, gli fece frequentare le scuole. In simile guisa il giovanetto, secondando le sue inclinazioni, consumava molto tempo nello schiccherare sulla carta figure d'uomini, di bestie, di case, e per questo veniva dal padre o dai maestri spesso ripreso e talvolta castigato. Tuttavia il padre non volendo attraversare il genio del figliuolo, risolvette di porlo a studiare pittura sotto ad un maestro chiamato Ghirlandaio, che era il pittore più stimato in Firenze. Lo scolaro vi faceva tali progressi, che il maestro medesimo era stupito. Un giorno, essendo assente il Ghirlandaio, Michelangelo ritrasse al naturale il ponte, su cui lavoravano i pittori, e su quello gli sgabelli e gli arnesi dell'arte, come pure i giovani che dipingevano. Tornato il maestro e visto quel disegno rimase sbalordito della perfetta imitazione, e disse: Costui ne sa più di me.
La prima opera, che veramente fece nome a Michelangelo, fu un dipinto che rappresenta i diavoli che tentano sant'Antonio. Poco di poi gli fu dato a copiare una testa d'un pittore antico, e Michelangelo la seppe imitare così esattamente, che per celia restituì al padrone la sua copia come se questa.fosse stata l'originale, e nessuno si fu accorto dell'inganno.
La grande abilità e lo straordinario ingegno di Michelangelo furono in breve conosciuti in tutte le parti dell'Italia, e nell'età di soli quindici anni Lorenzo il Magnifico lo ricevette in sua casa, provvedendolo di quanto gli era necessario, come se fosse stato suo figliuolo. Intorno a quel tempo medesimo l'antecessore di papa Leone, che era Giulio II, desideroso di rendere Roma la più bella città del mondo, come essa ne era già la più celebre, determinò di innalzare un grande edifizio. A questo fine chiamò a Roma un celebre architetto fiorentino, detto Bramante, e lo incaricò di fare vicino al palazzo Vaticano, ove dimoravano i papi, una Basilica con tale magnificenza, che avesse a riputarsi il più grandioso monumento del mondo.
Mentre Bramante eseguiva gli ordini del Papa e dirigeva i lavori del Vaticano si avvide che la sua avanzata età non gli avrebbe dato campo di terminare l'opera incominciata; perciò supplicò il Papa a chiamare il Buonarotti in Roma. {320 [320]} Come il Papa fu in grado di conoscere il merito di quel giovane, preso di ammirazione, lo incaricò di accingersi all'opera di un mausoleo, vale a dire di un edifizio, che egli voleva destinare per sua tomba. In pari tempo Michelangelo si diede a dipingere parecchi quadri sulle pareti della cappella papale, detta Sistina, perchè fabbricata per ordine di un papa chiamato Sisto IV. Colori ancora la grande vòlta della cappella, rappresentandovi varii fatti della sacra Scrittura. Ritrasse in una statua di bronzo il Papa medesimo in abiti pontificali, che Giulio II donò alla città di Bologna sua patria.
Mentre il Bramante ed il suo compagno Buonarotti continuavano con alacrità quei lavori, fioriva a Milano un altro uomo dotato di straordinario ingegno, chiamato Leonardo da Vinci, perchè nacque in Toscana nel castello di Vinci. Esso era un genio affatto maraviglioso. Pittore, poeta, architetto, scultore, geometra, meccanico, ballerino e musico, peritissimo in tutti gli esercizi del corpo e dello spirito; era egualmente abile a domare il più focoso cavallo, come a scolpire in marmo una statua, od a rappresentare sulla tela delle figure coi più vivi colori. Per queste sue rare qualità Leonardo era ricercato da tutti i principi e da tutti i signori d'Italia. Giulio II non ebbe pace, finchè non lo indusse a recarsi in Roma per dedicare il suo ingegno all'abbellimento del Vaticano, che il Bramante andava facendo.
Continuò i suoi lavori a Roma per quasi tutto il pontificato di Leone X; ma insorti alcuni dispareri tra lui e Buonarotti, egli partì di Roma e passò in Francia, ove sapeva che il re lo teneva in gran conto. Giunto in Parigi, fu accolto ad onore dal sovrano, che era quel Francesco I, di cui poch'anzi vi ho parlato, e visse colà fino ad una onorevole vecchiaia.
Essendosi ammalato chiamò tosto i soccorsi della cattolica religione. Egli viveva nel palazzo reale, e il re lo soleva amorevolmente visitare durante la malattia. Un giorno che questi si recò al letto dell'infermo, Leonardo per riverenza si alzò alquanto, ponendosi a sedere sul letto. Mentre andavagli esponendo il suo rincrescimento per non essere vissuto abbastanza col timor di Dio e colla carità verso il prossimo, fu colto da un eccesso di febbre. Il buon re prontamente {321 [321]} si levò e resse la testa dell'infermo come per alleggerirgli il male. Leonardo spirò in quell'istante fra le braccia del monarca. Egli mori in età d'anni sessantasette colla gloria d'essere stato il primo a far conoscere ai Francesi le maraviglie del genio e delle arti italiane.
VII. Buonarotti, Rafable ed altri uomini celebri del pontificato di Leone X. - Morte di questo pontefice. (Dal 1513 al 1521).
Quando Buonarottì ebbe compiuto le pitture del palazzo Vaticano, rivolse ogni sua cura alla rinomata fabbrica della basilica Vaticana. Costantino imperatore fino dall'anno 324 aveva innalzala una chiesa in onore del Principe degli Apostoli. Questa minacciando rovina, il papa Nicolò V verso la metà.del decimoquinto secolo la demolì, e prese ad edificarne una nuova. Morto lui, Giulio II al principio del secolo decimosesto, come vi accennai, concepì l'idea di un più vasto disegno, e ne affidò la cura a Bramante Progredirono i lavori sotto il pontificato di Leone X; ma sotto Paolo III il Buonarotti cambiò in gran parte il disegno, e concepì solo la vasta e ardimentosa idea d'innalzarvi l'immensa ed alta cupola di s. Pietro, che ora forma l'ammirazione del mondo. La basilica Vaticana, appunto perchè è il tempio più vasto che si abbia per le sue gigantesche proporzioni, il più ricco di marmi, di dipinti di statue, di monumenti e di ogni maniera di ornati, richiese meglio di due secoli per essere condotta a fine. Esercitò lo zelo di parecchi pontefici, ed ebbe molti architetti, fra cui primeggiano Bramante e Buonarotti, e più pittori e scultori, sicchè essa può meritamente chiamarsi il primo tempio della cristianità.
Sebbene il Buonarotti godesse di tutta la fiducia del Pontefice, non mancarono maligni ed invidiosi, che si adoperarono per iscreditare lui ed i suoi lavori. Dicevano che i più belli lavori di Michelangelo erano di gran lunga inferiori alle statue spezzate e monche, le quali si andavano scoprendo fra le rovine dell'antica Roma. Ma egli seppe usare una curiosa astuzia per confondere i suoi detrattori. {322 [322]}
Fece pertanto una statua di bel lavoro, e come l'ebbe terminata, le ruppe un braccio e l'andò a nascondere segretamente in quei luoghi medesimi, dove si scavavano le rovine per rinvenire qualche antica rarità. Poco tempo dopo si disotterrò quella statua. Tutti si raccolsero in folla intorno ad essa, dicendo che avevano trovato una maraviglia sepolta in quel sito da parecchi secoli. I nemici di Michelangelo, recatisi anch'essi a vederla, ripetevano che lo scultore fiorentino non aveva un solo lavoro, il quale avesse alcun pregio dell'arte antica. Allora il Buonarotti palesò l'astuzia che aveva usata. Voi, disse ai suoi detrattori, voi siete altrettanti gelosi e bugiardi: la statua, che tanto ammirate, è l'ultima delle mie opere; io stesso la interrai qui; e affinchè nessuno dubiti di ciò che dico, ecco qui il braccio, che spezzai io medesimo per confondere la vostra malignità.
Immaginatevi di quale vergogna siano stati coperti gl'invidiosi del grande artista! Da quell'ora nessuno più osò disprezzare in pubblico le opere di un uomo, che eglino stessi avevano riputato superiore a tutta l'antichità.
Pervenuto all'età di novant'anni, sentendosi avvicinare la morte, Michelangelo fece testamento con queste poche parole: Raccomando l'anima mia al Signore, lascio il corpo alla terra e la roba ai parenti più prossimi.
Fra gli uomini celebri, di cui Leone X si compiaceva, si deve ancora annoverare Rafaele Sanzio, nativo di Urbino, città non molto distante da Roma. Àncora in giovanile età si era acquistato nome tra i migliori artisti, e perciò fu invitato dal Papa ad ornare con pitture e stucchi le logge che attorniano un cortile del palazzo Vaticano, detto cortile di san Damaso. Raffaele disegnò sopra cartoni quei cento e più quadri di soggetti sacri: poi egli stesso coll'aiuto dei suoi più periti scolari li eseguì a fresco su quelle pareti, che sono oggidì visitate con ammirazione. Fra i quadri poi da lui dipinti l'ultimo ed il più pregiato fu la Trasfigurazione di Gesù Cristo sul monte Tabor. Questo quadro riputato come il primo del mondo era stato dai Francesi nel 1797 trasportato insieme con molti altri capolavori in Francia; ma dopo il 1814 venne restituito a Roma.
Il gran Raffaele era giunto all'età migliore della vita umana, quando per un disordine cadde in grave malattia. Salassato {323 [323]} dal medico inopportunamente, presto fece temere di lui. Senza affannarsi egli domandò di ricevere i soccorsi della religione; fece testamento, ordinò che colle sue sostanze fosse ristorato un tabernacolo in santa Maria Rotonda, ivi fosse eretto un altere nuovo con una statua alla Beata Vergine, dichiarando che desiderava essere sepolto in quella chiesa. Morì il venerdì santo nel 1520, il dì stesso, in cui era nato, nella florida età di anni trentasette.
Il Papa, che spesso andava a visitarlo durante la malattia, ordinò che vicino al letto, sul quale fu adagiato dopo morte, venisse posto il magnifico quadro della Trasfigurazione, rappresentante Gesù Cristo, che s'innalza al cielo entro un mare di luce. Tutti quelli che accorrevano per vedere l'ultima volta il maraviglioso Raffaele, giunti nella sala funebre sen-tivansi scoppiare il cuore, scorgendo morto l'artefice di quell'opera immortale.
Altro celebre e classico artista fu Tiziano Vecelli nato in Pieve del Gadorino nel 1477. Tra i molti suoi accreditati lavori è rinomatissimo il ritratto dell'imperator Carlo V, che lo fece divenir il pittore dei re. Ebbe grandi onori dai papi e dalla corte di Spagna. Ricco di gloria e di danaro andò a fissar dimora a Venezia, dove visse principescamente promovendo le belle arti col danaro e coll' ingegno. In questa città moriva centenario nel 1576.
Nè questi furono i soli uomini che resero celebre il pontificato di Leone. Fra tanti altri io ricorderò due begl'ingegni; il Sadoleto ed il Bembo, ambidue insigniti della dignità cardinalizia. Essi furono i ristauratori ed il sostegno della letteratura italiana nel secolo decimosesto; insieme con essi vissero Tommaso, Gaetano e Lorenzo Campeggi, personaggi veramente illustri nella scienza delle cose ecclesiastiche. Il gran favore che Leone prestava a tutti gli artisti, e le sollecitudini con cui promoveva ogni genere di scienze e di arti, fecero sì, che quel periodo memorabile di tempo fosse appunto chiamato il secolo di Leone X, o del risorgimento delle arti, perchè di fatto giunsero in quel tempo alla loro perfezione in Italia, e cominciarono a spandersi negli altri paesi d'Europa.
Leone X in mezzo alle consolazioni, che provava per la gloria d'Italia, ebbe molto a soffrire per l'eresia di Martino {324 [324]} Lutero. Era questi un frate, il quale uscì dal chiostro per secondare i suoi vizi. Vestitosi da secolare, si ribellò alla Chiesa Cattolica. Il Papa fece ogni opera per farlo rientrare in se stesso; ma egli seguito da alquanti libertini, e spalleggiato da alcuni sovrani, amanti di una religione come più loro gradiva, divenne ostinato e fu causa che molti si separassero dal grembo della Chiesa Cattolica, unica vera Chiesa di Gesù Cristo.
Così ebbe origine quella eresìa, che si suole nominare protestantesimo, perchè quelli che la professavano protestarono di non volersi sottomettere all'editto di Carlo V, di cui avrò presto a parlarvi; anzi in una città della Germania, detta Smakalde, col pretesto di religione fecero una lega, e cagionarono molte turbolenze e guerre sanguinosissime. Questa eresìa fu anche detta riforma, perchè i suoi seguaci pretesero di riformare la Chiesa Cattolica.
Lutero credendosi divenuto un gran dottore, volle disputare con alcuni ecclesiastici; ma rimasto confuso, nè volendosi assoggettare al loro parere, si appellò ai vescovi, di poi al Papa, ma da tutti vennero condannati i suoi errori. Egli volle appellarsi ad un concilio generale. Fu convocato questo concilio (anno 1545) nella città di Trento nel Tirolo, onde fu detto Concilio Tridentino. In esso furono condannate le dottrine dell'eresiarca, senza che per altro egli si ritrattasse; anzi osò nemmeno presentarsi a quella dotta e veneranda adunanza.
Leone X morì nel 1521: il senato ed il popolo Romano, gratissimi ai benefizi ricevuti, gli innalzarono una statua in Campidoglio, ed un'altra nel tempio detto della Minerva. I coltivatori degli studi e delle arti, i suoi sudditi e tutti i buoni piansero la morte di un tale Pontefice, e avevano ragione di sentirne amaro dolore, perchè nessun principe aveva più di lui onorato le belle arti. {325 [325]}
VIII. Battaglia di Pavia. (Dal 1515 al 1521).
Mentre le arti e le scienze facevano in Italia maravigliosi progressi, molte sciagure le si apparecchiavano dagli stranieri, che a guisa di torrente dovevano allagarla e ridurla A miseria. Alla morte dell'imperatore di Germania Massimiliano I, la Dieta di Francoforte, vale a dire i principali signori della Germania, si radunarono in quella città per eleggere un novello monarca (1519). La scelta cadde sopra un re, già possessore del regno di Spagna, di Napoli, di Sicilia, dei Paesi Bassi e di tutta l'America allora conosciuta. Questi, ricevuta la corona imperiale, prese il nome di Carlo V, perchè egli era infatto da Carlomagno in poi il quinto principe di questo nome, che fosse stato imperatore. In simile guisa Carlo V aggiunse ai suoi regni tutta la Germania.
Carlo V aveva già introdotto molti cambiamenti nel governo della Spagna. Fra le altre cose egli seppe colla sua prudenza rendersi assoluta l'autorità regia, mentre prima questo paese era governato quasi a modo di repubblica. Ciò ottenne specialmente con assoggettare ai suoi voleri un'assemblea, detta le Cortes, che è una specie di parlamento analogo alla nostra Camera dei deputati. Mercè il senno di questo monarca le armi Spagnuole salirono ad alta fama; e si resero terribili a tutta l'Europa, come fra poco vedrete.
Ora convien che sappiate come Carlo V aveva un rivale nel re di Francia Francesco I, il quale ambiva la corona imperiale al pari di lui. Questo re era molto amante dello grandi imprese, ed aveva già sostenuto molte guerre, in cui si resero celebri parecchi capitani. Sotto al suo regno la Francia cominciò a prender gusto per le arti e per le scienze: il che Francesco ottenne invitando e dando onorevole asilo a molti dotti di Grecia, e specialmente d'Italia. Ma fu anche sotto al suo regno che cominciarono a disseminarsi nei suoi stati le dottrine di Calvino, il che fu origine di grandi sventure per la Francia. {326 [326]}
Quando adunque Francesco ricevette la notizia che Carlo V era stato a lui preferito, ne provò tale dispiacere, che risolse di muovergli guerra. Terribili apparati si fecero da ambe le parti, e l'Italia fu il teatro di quelle sanguinose rivalità. Il primo scontro dei Francesi cogl'imperiali, ossia coi soldati dell'imperatore, fu presso ad un castello o borgo, detto la Bicocca, luogo vicino di Novara e fatalmente celebre per la battaglia combattuta dai Piemontesi in questi ultimi tempi contro gli Austriaci.
Colà si appiccò la zuffa, in cui i Francesi sopraffatti dal numero vennero sconfitti e costretti ad abbandonare l'Italia. Dopo questo avvenimento Carlo V donò il ducato di Milano a Francesco Sforza, fratello di quell'indolente Massimiliano, alcuni anni prima caduto prigioniero in mano dei Francesi, i quali sei condussero in Francia, e lo lasciarono vivere come semplice privato.
Ma Carlo V e Francesco I non si erano ancora trovati in battaglia a fronte l' uno contro all' altro, quando il re di Francia, sdegnato dei disastri della Bicocca, risolvette di venire egli stesso con numerosissimo esercito in Lombardia per iscacciare gl'imperiali dal ducato di Milano. Il monarca Francese alla testa dei più prodi e più insigni capitani era già pervenuto al passaggio delle Alpi, quando scoprì che il duca di Borbone, di nome Carlo, suo strettissimo parente, avevagli tramata una congiura. Questi era contestabile del regno, vale a dire generale in capo di tutti gli eserciti Francesi. Francesco, ossia che non credesse alla verità del racconto, ossia che non facesse gran caso del tradimento di quel generale, fatto sta, che continuò il suo cammino.
Il duca di Borbone, il quale per non seguire il re erasi finto ammalato, si levò, e tosto per vie segrete giunse ad unirsi all'esercito imperiale. Pochi giorni dopò la fuga del Borbone, Francesco giunse nel Milanese, dove trovò il suo esercito raccolto, pronto alla battaglia, sotto gli ordini del generale francese Bonnivetti.
Il re avendo saputo che in Pavia contenevasi grande quantità d'armi e di provvigioni depositate dai nemici, risolvette d'impadronirsene, ed andò ad assediare quella città con tutta la sua soldatesca. Ma siccome Pavia era valorosamente difesa {327 [327]} da' suoi cittadini, cosi l'esercito imperiale condotto da un generale di nome Lanoia e dal traditore Borbone, ebbe tempo di giungere in suo soccorso. La battaglia fu appiccata vivissima sotto le mura di Pavia. Prodezze di valore, grandi stragi avvennero da ambe le parti; ma in fine la vittoria si dichiarò per gli Spagnuoli. Francesco al vedersi morire attorno i più prodi capitani, si gitta in mezzo ai nemici, e combatte con intrepidezza, risoluto di lasciare la vita sul campo di battaglia, e combatte sino a tanto che cade nelle mani del nemico. È cosa difficilissima il descrivere quale sia stata la costernazione della Francia, quando fu recato l'annunzio della disfatta dell'esercito e della prigionia del medesimo re.
Quel monarca dovette rimanere più di un anno prigione in Ispagna, e potè soltanto ottenere la libertà a condizione, che cedesse il regno di Borgogna a Carlo V, e gli desse dodici ostaggi, vale a dire dodici dei principali signori di Francia, i quali servissero di pegno del mantenimento della promessa. Fu dopo questa battaglia che Francesco scrisse a sua madre Luigia di Savoia, cui fra le altre cose diceva: Signora, tutto è perduto, meno l'onore e la vita, che è sana (anno 1525).
Nelle guerre testè accennate si rese celebre Giovanni dei Medici, soprannominato dalle bande nere. Questo terribile condottiero aveva formato una banda assai rinomata di soli Italiani, e fu l'ultima, di cui si. abbia memoria. Era molto affezionato a Leone X e gli prestò i suoi servigi finchè visse. Alla morte di questo Pontefice fece portare bruno a tutti i suoi soldati, per cui gli venne il nome di Giovanni dalle bande nere. Poscia combattè ora a favore dei Franchi, ora per là lega Lombarda. Nelle battaglie non vedeva alcun pericolo, e a' suoi non mai diceva: andate avanti; ma venitemi dietro. Lo credereste? o miei cari, che malgrado tanto valore, Giovanni aveva paura del Folletto a segno, che non mai avrebbe osato dormire solo in una camera? L'anno 1526, mentre combatteva contro ai Tedeschi, un pezzo d'artiglierìa gli fracassò una gamba, per cui poco-appresso moriva in età di soli ventott' anni. Si nota di questo capitano, che era modesto nel vestire, parco nel mangiare, tremendo in battaglia, affabilissimo in trattenimenti domestici. {328 [328]}
IX. Saccheggio di Roma. - Assedio di Nizza. (Dal 1524 al 1527).
Le battaglie della Biccocca e di Pavia avrebbero certamente dovuto umiliare i Francesi; tuttavia appena Francesco I ebbe ricuperata la libertà, si riaccese più che mai del desiderio della vendetta; quindi nuove guerre insorsero nella Germania e nell'Italia. Gl'Italiani formarono una nuova lega per opporsi agli imperiali e liberarsi dal loro giogo. Fino allora Carlo V aveva rispettata la religione; ma il Papa, che chiamavasi Clemente VII, avendo rifiutato di concedere cose, che egli riputava contro coscienza, Carlo ne fu sdegnato; e per farne vendetta ordinò al Contestabile di Borbone, il quale comandava gli e-serciti Spagnuoli in Lombardia, di marciare contro di Roma, impadronirsi della città e della persona del Pontefice. Questi obbedì prontamente a quest'ordine severo; imperocchè colui, che aveva tradito il suo re, era certamente capace di tradire la propria religione, e dare al mondo lo spettacolo di un principe cristiano, che minaccia il successore di s. Pietro.
Ora convien che io vi dica come l'esercito Spagnuolo era divenuto somigliante a quegli avventurieri, i quali posti in ozio si danno in preda a mille disordini, e disonorando la nobile professione delle armi fanno dell'uomo di guerra un masnadiere. Il duca di Borbone con una turba di soldati mercenari, tra'quali tredicimila Tedeschi luterani, le cui brame nulla poteva saziare, si volse alla volta di Roma. Dappertutto segnava il suo passaggio con guasti e rapine. Le città, i villaggi e le più povere capanne venivano saccheggiate, e gì' infelici abitanti ne erano infamemente trucidati.
A costoro si oppose arditamente Giovanni delle bande nere riportando sopra di loro molti vantaggi, ma in una furiosa mischia egli fu colpito in una coscia, e, come si disse, morì di quella ferita.
Quella marmaglia, liberatasi da Giovanni de'Medici, senza contrasto proseguendo il viaggio in breve giunse negli stati Pontificii. Il Papa fu colto all' improvviso, perciocchè non s'immaginava che un principe cristiano volesse voltare le {329 [329]} armi contro al Capo della propria religione; ma ne rimase tristamente disingannato, allora che vide le soldatesche Spagnuole alle porte di Roma. Quel giorno il Contestabile, per essere meglio veduto dalle sue genti, si era messo indosso un'armatura bianca, e non cessava di eccitare i soldati a combattere, promettendo loro il saccheggio di quella grande capitale.
In tali strette, miei cari, nacque in Roma un tale scompiglio, che non si può descrivere. Il sommo Pontefice chiese danaro ai più ricchi cittadini per fare i necessari preparativi e resistere almeno al primo furore delle masnade forestiere; ma quasi tutti, non so se più stolti o perfidi, ricusarono qualsiasi soccorso alla salvezza della patria. Nonpertanto il Papa, aveva ordinato di chiudere le porte e preparare le maggiori difese. Gl'imperiali non potendo entrare liberamente in città, come desideravano, assalgono i bastioni, ma vengono dai Romani ributtati nelle fosse. Ciò veduto il Contestabile, piglia una scala, l'appoggia alle mura e animosamente vi sale, ma colpito da uno sparo di moschetto cade al suolo e muore, pagando il fio di aver tradito il suo re e la sua religione.
Questo fatto irrita per modo i nemici, che si slanciano da tutte parti, e, dopo di avere superata 1' ostinatissima resistenza degli assediati, riescono a sorpassare le fortificazioni, calare nelle vie, occupare la città mettere ogni cosa a ruba e a sacco. È impossibile descrivere la crudele rapacità dei soldati, le morti e gli orrori di quella fatale giornata. Per tre mesi la misera Roma è data in preda alla rabbia della sfrenata soldatesca. Nè case, nè chiese sono rispettate da quei forsennati, che non hanno nè patria, nè religione. Il Pontefice, dopo di essersi rifugiato in Castel S. Angelo, cade nelle loro mani, e viene esposto ad ogni sorta di oltraggi. Lo stesso Carlo, che allora era nella Spagna, quando fu informato della infamia, di cui macchiavansi le sue bandiere, non potè non arrossire degli enormi delitti commessi in suo nome. Pigliando abiti da lutto e fingendosi profondamente addolorato pei mali che il Papa aveva sofferto, si condusse in persona a Roma. Ostentando di essere inconsolabile si presentò al Papa, gli rese la libertà, e lo supplicò di perdonargli le offese, dando tosto opera di riparare ai suoi torti. {330 [330]}
Il Pontefice credendolo realmente pentito, dimenticò tutto il male, di cui egli era autore, e, ingannato dalle sue promesse, lo accolse nuovamente in grembo della Chiesa. Ma l'astuto Carlo si trovava nella necessità di conciliarsi col Papa per le molte discordie, che si andavano suscitando in varie parti del suo regno; nè passò molto tempo che volle di nuovo mischiarsi in cose di religione, dando così gravi disgusti al romano Pontefice. Intanto gli anni di Carlo si avanzavano, ed egli si accorse, che le grandezze ed il vastissimo suo impero non potevano acquietare i rimorsi che gli cagionavano i passati trascorsi. Per la qual cosa prese una determinazione senza esempio nella storia degli imperatori.
Egli convocò a Bruxelles i più grandi signori de' vari suoi regni, e annunziò loro pubblicamente che, stanco dalle cure del mondo, aveva risoluto di andar a cercare in un monastero il riposo, che non poteva sperare sul trono. Raccomandò a' suoi ufficiali di ubbidire fedelmente al suo figliuolo Filippo II, come avevano sempre ubbidito a lui stesso. Ciò detto, discese dal trono e si avviò ad un convento di Agostiniani, situato in una provincia di Spagna appellata Estremadura. Que' monaci l'accolsero col massimo rispetto sorpresi al vedere un re, che da più di cinquant'anni aveva governato tanti milioni d'uomini, preferire la loro povera cella allo splendore di tante corone. «Io vengo qui, loro diceva, povero e nudo come nel giorno della mia nascita; e tra voi, fratelli miei, spero di trovare la pace, che cercai invano sul trono.» Egli passava colà il tempo negli esercizi e in opere di rigida penitenza.
Un piacere per quel monarca, che non poteva rimanere in ozio neppure un momento, era di raccogliere nella sua camera grande quantità di orologi, e di esaminare se il movimento di essi fosse in tutti perfettamente uguale. Quando poi si avvedeva che differivano alquanto l'uno dall'altro nel segnare le ore, esclamava: Devo ora maravigliarmi, se non mai potei accordare tra loro gli uomini, mentre neppure posso regolare nel modo medesimo questi orologi, i quali non sonc altro che macchine? Carlo V, dopo di avere passati alcuni anni di vita penitente, morì in quel medesimo monastero ed ivi stesso fu sepolto.
Durante la lunga lotta tra Carlo V e Francesco I, il Piemonte {331 [331]} ebbe molto a soffrire. Nel principio di questa guerra il nostro paese era governato dal duca Filiberto II, che seppe mantenere la pace ne* suoi stati. Ma essendo egli morto nella florida età di soli ventiquattro anni, gli succedette Carlo III, principe sventurato, che ebbe il dolore di vedersi rapire dalla Francia tutti i suoi dominii, ad eccezione di Vercelli e Nizza marittima. In tali strettezze ritirossi in quest'ultima città, la quale in difesa del suo sovrano con mirabile valore sostenne il lungo assedio dei nemici. Ivi avvennero fatti degni di essere registrati accanto a quelli degli antichi Romani. Le donne stesse gareggiavano cogli uomini in prodezza. In un assalto dato dai Turchi, che si erano collegati coi Francesi, Caterina Segurana combattendo sulla breccia prostese morto un alfiere dei nemici, il quale già era riuscito a piantare la bandiera sulle mura; e colla voce e coli' esempio incoraggiò gli altri per modo, che ributtarono gli assalitori, facendone grande strage.
Carlo III dopo di aver veduto morire otto suoi figliuoli e l'amatissima consorte, oppresso dagli affanni, cessava aneli'egli di vivere nella città di Vercelli, dopo 49 anni di regno, nel 1553.
X. Andrea Doria e la congiura dei fieschi. (Dal 1530 al 1547).
Non avrete certamente dimenticato, miei cari amici,,come il conte di Carmagnola aveva acquistata la città di Genova a Filippo Maria Visconti duca di Milano, di cui egli era generale. D'allora in poi per lo spazio di oltre cento anni quella città andò soggetta a varie vicende, ed ebbe molto a soffrire per discordie interne, per guerre sostenute contro agli stranieri e per mutamenti di principi, sotto la cui protezione si metteva; perciocchè ora ubbidiva alla Francia, ora ai Tedeschi, ora ai duchi di Milano. Nelle lunghe turbolenze tra l'imperatore Carlo V e Francesco I i Genovesi, colla speranza di avere qualche stabile protezione, si diedero ai Francesi, e affidarono il governo della repubblica ad un abilissimo genovese, di nome Andrea Doria. Questo benemerito {332 [332]} cittadino aveva di già affrontato gravi pericoli e sostenute molte guerre pel bene della patria; perciò si meritava più d'ogni altro la carica di doge. Ma egli non volle accettare alcuna dignità; e si contentò di essere detto il primo cittadino, sempre pronto ad ogni cosa che tornasse utile alla patria. Egli in breve potè accorgersi che i Francesi, invece di difendere la repubblica, la opprimevano, riducendola a grave povertà con molti balzelli. Pregò pertanto il re, affinchè in premio dei tanghi servizi prestati in guerra, volesse purgare la repubblica da ogni soldato straniero e renderle il suo libero governo.
Francesco rigettò la dimanda; e il Doria, voltato bandiera, lasciò i Francesi, e si pose allo stipendio di Carlo V. Fatto ammiraglio, ossia capitano generale delle armate navali dell'imperatore, il Doria si avvicinò colle sue navi a Genova, e la fece sollevare contro ai Francesi; quindi fu di nuovo proclamata la repubblica. I suoi concittadini, grati al benefizio ricevuto, gli eressero una statua e gli affidarono la cura delle cose pubbliche. Governò saviamente più anni la patria, e nella sua vecchiaia, non potendo più sopportare gravi fatiche, affidò il comando dell'armata ad un suo nipote di nome Giannettino Doria, che egli medesimo aveva ammaestrato nella nautica e in tutto ciò che può fare un valente militare. Ciò fatto, il Doria si ritirò in una villa poco distante da Genova.
Ma comunque siano regolate le cose del pubblico, vi hanno sempre degl'invidiosi e de' malcontenti, Tra quelli che aspiravano al potere fu il conte Fieschi. Per suscitare tumulti egli andava dicendo che i nobili ed i potenti, come i Doria, erano gli oppressori del popolo. A poco a poco, come è solito nelle discordie, le inimicizie crebbero, gli animi s'inviperirono, ed il Fieschi tramò una congiura, con cui intendeva di abbattere il Doria per liberare, egli diceva, la patria dalla oppressione dei signori. Tutti quelli che favorivano i Francesi presero parte alla nuova congiura. Fu stabilita la notte del due gennaio 1547 per metterla in esecuzione; e si sperava dovesse riuscire a rendere il Fieschi padrone della repubblica sotto la protezione di Francia.
Era eziandio dai ribelli fatta promessa di dare il ducato di Milano a Pier Luigi Farnese, duca di Parma e di Piacenza. {333 [333]} Le armi e gli armati erano pronti; un grande numero di congiurati non altro aspettava che il segno per chiamare il popolo alla rivolta, introdurre in Genova milizie forestiere, e trucidare i Doria co' loro partigiani. Ma, come suole avvenire in tutte le congiure, un complice non tenne il segreto, e la trama si fe' palese anzi tempo. Appena fu ciò riferito a Giannettano Doria, corse egli tosto in fretta sul posto con quelle poche genti che potè raccogliere; ma per istrada venne assalito dai faziosi e ucciso. Dopo questo primo successo i ribelli poterono facilmente impadronirsi delle navi. Noti rimaneva altro a compiere che la morte di Andrea Doria, il quale, ignaro di quanto avveniva, dimorava fuori di Genova senza alcun sospetto.
Da tutte parti i ribelli gridavano: Viva Fieschi e la libertà! Intanto il Fieschi, persuaso dell'esito felice della sua impresa, saltava da una barca all'altra per farsi vedere e per inspirare coraggio a tutti, quando, messo un piede in fallo, cadde nell'acqua e incontanente profondò nelle onde strascinato dal peso dell'armatura di ferro, di cui era vestito. Prima che fosse pervenuta ai congiurati la notizia della morte del conte Fieschi, per tutta Genova sapevasi già la trista sorte toccata a Giannettino; sicchè Andrea Doria, avvertito solo del primo assalto, stava per ritirarsi co' suoi pochi aderenti. Ma, come fu conosciuta la misera fine del Fieschi, i ribelli deposero le armi e si arresero ad Andrea Doria. Esso promise loro un generoso perdono, sebbene abbia poi l'atto vendetta di varii suoi nemici. Andrea Doria morì tredici anni dopo in seno della propria famiglia.
Mentre queste cose accadevano a Genova, un certo Sam-piero, nativo della Corsica, tentò per due volte di sottrarre quest'isola dal dominio de' Genovesi. La guerra durò fino al 1559, quando fu conchiusa una pace generale. Non ostante questa pace, il Sampiero suscitò nuovamente la rivoluzione; ma dopo di aver riportate alcune vittorie, venne egli in fine ucciso a tradimento. L'isola si acquetò; e si concedette ampio perdono ai ribelli. {334 [334]}
XI. I duchi di Toscana e la pace di Castel Cambresis. (Dal 1520 al 1559).
In questo tempo, o miei cari, una grande sciagura cadde sopra la città di Firenze. Dovete ancora ricordarvi come Pietro de' Medici, figliuolo di Pietro il Magnifico, di cui vi parlai nel raccontare la congiura de' Pazzi, fu cacciato coi parenti suoi da Firenze. Or bene dopo diciott' anni di esilio i Medici riuscirono di rientrare in patria e prendere le redini del governo. Ma nel 1527 i Fiorentini cacciarono nuovamente i Medici e si ressero a repubblica; perciò nuove guerre e nuovi mali ai cittadini. Carlo V, dopo essersi rappacificato col Papa, mandò quel medesimo esercito, che aveva saccheggiato Roma, a cingere di assedio Firenze per costringerla a ricevere il sovrano, che poco prima aveva cacciato chiudendogli in faccia le porte.
I Fiorentini non erano in numero bastante per opporsi ad un agguerrito esercito; tuttavia, appoggiati alla giustizia della causa, determinarono di resistere fino agli ultimi istanti. Ma siccome un governo senza capo non può reggersi, così nella loro confusione vennero a fare una elezione, di cui una pari fu mai. Sorse uno dal mezzo della turba e disse, che per rendere la repubblica invincibile dovevasi proclamare Gesù Cristo a re di Firenze. Chi lo crederebbe? ognuno aderì alla strana proposta, e sulla porta del palazzo municipale fu immediatamente scritto a grossi caratteri: Gesù Cristo re dei Fiorentini, eletto con decreto del popolo e del senato. Quei miseri erano illusi, e non badavano che Gesù Cristo, essendo padrone del cielo e della terra, non aveva bisogno di essere eletto re dai Fiorentini.
L'assedio durò un anno, dopo il quale s'incominciò a patire fame, sete e penuria di soldati; gli stessi bastioni erano stati diroccati dalle artiglierie nemiche. In quelle angustie la divina Provvidenza suscitò per sostegno di Firenze Francesco Ferrucci. Da bassa condizione col suo valore egli erasi innalzato fino al grado di capitano, ed il suo nome era divenuto {335 [335]} celebre per molte vittorie riportate combattendo per la patria. Quando ricevette l'ordine di soccorrere Firenze, vi accorse tosto con piccolo ma valoroso esercito. Arrivato a Gavinana incontrò i nemici. Qui diede molte e grandi prove di valore; ma le forze dell'uomo sono limitate. Un giorno dopo avere risospinto i nemici, che si sforzavano di valicare le mura, attorniato ed oppresso dall'immenso numero, cadde nelle loro mani. Coperto di ferite fu condotto a Maramaldo, generale nemico, che ebbe la crudeltà di ucciderlo. Allora tu giuoco forza venire agli accordi, e si convenne coli'imperatore Carlo V. che i Fiorentini dovessero riconoscere i Medici come loro legittimi sovrani, e che Alessandro de' Medici fosse riconosciuto duca di Toscana con diritto di trasmettere la sovranità a' suoi eredi. Devo tuttavia dirvi che Alessandro de' Medici non era degno di quella dignità; egli fu un principe avaro e crudele, e perciò venne trucidato da un suo parente nel 1537. Dopo lui fn creato duca di Firenze Cosimo de' Medici, figliuolo del celebre Giovanni dalle bande nere sopra menzionato. Così ebbe origine la lunga serie dei duchi di Toscana, i quali più tardi presero il nome di granduchi.
Poco dopo, spenta la repubblica di Firenze, cadde anche quella di Siena. Essa con grande eroismo aveva cacciato ben due volte gli Spagnuoli. Cosimo, duca di Firenze, avevale inviato contro ventiquattromila uomini; ma costoro eziandio furono coraggiosamente respinti; finchè, morto Pietro Strozzi suo difensore, Siena dovette cedere e accettare umilianti condizioni di pace. Cosimo diede libertà di uscire della città a chiunque ciò desiderasse.
Intanto noi siamo pervenuti al 1559, epoca molto celebre pei gravi fatti avvenuti, e che compie il periodo di sessantasette anni dalla scoperta del nuovo mondo. In questo spazio di tempo fiorirono in Italia le arti, le scienze ed il commercio; in quanto poi alle vicende politiche noi siamo stati il bersaglio dei re di Spagna e di Francia. Quando Carlo V rinunciò all'impero cedette la Germania a suo fratello, che fu eletto imperatore col nome di Ferdinando I; diede poi la Spagna, l'America, i Paesi Bassi, Borgogna, Sardegna, Due Sicilie e Milano a suo figliuolo Filippo II; e così l'impero d'Austria tornò ad essere diviso ual regno di Spagna. Il re di Francia, di nome Enrico II, sempre invidioso della grandezza {336 [336]} di Spagna, approfittò di questa separazione di regni per muovere nuovamente guerra al novello sovrano Filippo. La Fiandra divenne il teatro di quella sanguinosa guerra. Dopo molti attacchi parziali si venne ad una battaglia campale presso ad una città dei Paesi Bassi, detta S. Quintino. Colà succedette uno dei più sanguinosi combattimenti in cui Emanuele Filiberto, duca di Savoia, capitano generale dell'esercito Spagnuplo, con prodigi di valore riuscì a superare i Francesi e a riportarne compiuta vittoria. Se voi, cari amici, camminando per la città di Torino passerete per la piazza S. Carlo, vedrete sorgere ivi nel mezzo la statua in bronzo di un capitano assiso sopra un destriero in atto di riporre la spada nel fodero. Quel capitano è l'eroe di San Quintino, Emanuel Filiberto, che con quella vittoria ricuperò i suoi stati.
Il valoroso Emanuel Filiberto nel ritorno trovò i suoi dominii in disordine; onde lasciando a parte ogni idea di guerra, si occupò de' suoi stati. Rialzò le fortificazioni, pose nuovamente in piedi la milizia, diminuì in grande parte il feudalismo, che era quella specie di governo, per cui i più deboli, quasi come schiavi, erano obbligati a servire ai più potenti; ristorò l'erario, riordinò l'amministrazione della giustizia, e promosse con ardore le scienze e le arti. Stabilì Torino capitale de' suoi stati, trasferendovi la Corte ed il Senato.
Dopo la memorabile battaglia di s. Quintino, quei monarchi, tutti stanchi dalle lunghe guerre, si radunarono in Castel Cambresis, città di Francia, e conchiusero un trattato di pace, in forza di cui le potenze belligere deposero le armi per riparare ai molti mali cagionati dalle guerre passate (1559).
XII. Cose di Francia.
Il trattato di Castel Cambresis diminuì molto l'influenza della Francia sull'Italia; e d'allora in poi, per lo spazio di circa centoquarant'anni, possiamo dire che gli Spagnuoli ne rimasero gli assoluti padroni, ad eccezione di alcuni stati, che procurarono di mantenersi alleati cogli Spagnuoli. Ma le rivoluzioni e le guerre, già cagionate nella Germania dai {337 [337]} protestanti, vennero eziandio suscitate nella Francia. In questo regno ad Enrico II, di cui già vi parlai, succedettero l'uno dopo l'altro Francesco II, Carlo IX ed Enrico III, tutti figliuoli di lui e di una donna italiana, detta Caterina de' Medici. Sotto il loro regno arse un'atroce guerra tra i Cattolici e gli Ugonotti, ossia protestanti, seguaci di Calvino, il quale disseminò in Francia gli errori di Lutero[19]. Due delle principali famiglie per ambizione di avere la superiorità l'una sull'altra si erano poste alla testa di due fazioni. In capo de' Cattolici era il duca di Guisa, alla testa de' Protestanti il principe di Condè. Si diedero molte sanguinose battaglie, in cui i Cattolici furono quasi sempre vittoriosi. Si fece parecchie volte la pace, ma fu sempre di breve durata; che ben tosto si veniva nuovamente alle armi. Finalmente il re, che si chiamava Carlo IX, con fine meramente politico, cioè per quietare lo stato, diede secreti ordini ai Cattolici di assalire notte tempo i Protestanti e di ucciderne quanti potessero. Così fu fatto. Queste cose compievansi nella notte seguente alla festa di san Bartolomeo (24 agosto 1572), onde quel fatto è noto nella storia sotto il nome di Giornata di san Bartolomeo. Morto Carlo IX, gli succedette Enrico III, che invece di acquietare le discordie, le ravvivò. Ucciso Enrico III a tradimento, ebbe successore un principe protestante, che prese il nome di Enrico IV. Questi col coraggio, colla prudenza e colle belle maniere pose fine a quella lunga e dolorosissima lotta. Salito sul trono abiurò l'eresìa e fecesi cattolico; e siccome la religione vuol essere predicata non colla forza, ma colle ragioni e oolla carità, così egli trattò amorevolmente i protestanti, ed in questo modo li acquietò e riconciliò coi cattolici.
Morto Enrico IV, salì sul trono Luigi XIII. Questi affidò quasi interamente la cura dello stato al celebre Ricbelieu, il quale governò con autorità assoluta: abbattè i protestanti del regno, ristorò il naviglio, istituì l'accademia francese, ed accrebbe le ricchezze della Francia facendo venire molti prodotti dalle Indie. Morti quasi contemporaneamente Luigi XIII e Richelieu, il primo ebbe a successore del trono suo figliuolo in età d'anni quattro, che fu chiamato Luigi XIV; {338 [338]} al secondo succedette Giulio Mazzarino nella qualità di ministrò. Era questi un Italiano molto destro ed astuto, che amministrò la Francia durante la minorità di Luigi XIV. In questo spazio di tempo, essendo egli invidiato dai principali della corte, dovette andarsene in esilio per cinque anni, dopo cui ritornò alla sua carica, e vi durò ancora parecchi anni. Luigi XIV giunto all'età di ventidue anni, essendo morto Mazzarino, prese da solo le redini del governo, e la sua prima cura fu di riordinare lo stato coll'aiuto specialmente di un buon ministro, quale fu il Coìbert. Molte furono le sue imprese guerresche e grandi le opere di pace. Egli dilatò assai i confini del suo regno, e nel medesimo tempo diede massimo incremento alle arti e alle scienze; giacchè non mai nella Francia prosperarono tanto, quanto nel lungo spazio del suo regno, che durò anni settantuno.
XIII. La battaglia di Lepanto. (Dal 1560 al 1576).
Cessate alquanto le guerre in Italia, subito vi ritornarono in fiore le scienze, l'industria ed il commercio. La città di Venezia per le molte isole, che possedeva nel Mediterraneo si poteva ancora considerare come la regina del mare. Aveva però perduto del suo splendore da che gli Spagnuoli erano divenuti padroni dell'America, ove aprirono larga via al commercio per quei lontanissimi paesi. Ma i Turchi, dà oltre cento anni stabiliti a Costantinopoli, vedevano con rincrescimento che i popoli d'Italia, e segnatamente i Veneziani, possedessero isole e città in mezzo al.vasto loro impero. Quindi cominciarono dal chiedere ai Veneziani l'isola di Cipro; la quale cosa essendosi loro costantemente rifiutata, misero in piedi un esercito di ottantamila fanti, tremila cavalli con formidabile artiglierìa. Con questo nuvolo di barbari l'imperatore dei Turchi, che si chiamava Selimo II, assediò Ni-cosia e Famagosta, che erano le città più forti dell'isola. Nicosia cadde dopo una valorosa difesa; Famagosta, in cui comandava un illustre guerriero veneziano di nome Bragadino, respinse per sei volte i Turchi, e ne uccise sì grande numero, che più volte dovettero rinnovare l'esercito. {339 [339]}
Ma la flotta Turca impedendo agl'Italiani di portare soccorso agli assediati di Famagosta, presto Bragadino si trovò all'estrema penuria di nomini e di vettovaglie. I Veneziani allora ricorsero al Papa, affinchè volesse in qualche maniera venire in loro soccorso contro agli Ottomani, feroci nemici del cristianesimo. Il romano pontefice, che si chiamava Pio V, piemontese, ricorse al re di Spagna Filippo II e al duca Emanuele Filiberto. Il re di Spagna, messo in piedi un poderoso esercito, lo affidò al suo fratello minore, detto Don Giovanni d'Austria. Il duca di Savoia mandò di buon grado un numero di prodi, i quali unitisi al rimanente delle forze, che si poterono radunare in Italia, andarono a congiungersi cogli Spagnuoli vicino alla città di Messina. L'anima di quella grande impresa erano un veneziano di nome Sebastiano Vernieri, ed un nobile romano chiamato Marco Antonio Colonna, il quale col suo gran coraggio e valore erasi meritato il grado di Contestabile di Napoli, o Vicerè della Sicilia. In questa spedizione egli a nome del Papa capitanava dodici galere ben munite d'armi e d'armati. Alla vista di tanti guerrieri tutti animati per così giusta impresa, ognuno riputava che la spedizione avrebbe avuto Un esito molto felice. E già spiegavano le vele per Cipro, quando giunse la trista nuova che l'eroe Bragadino, dopo di aver fugato, vinto, ucciso centocinquanta mila Turchi, ridotto senza cibi e quasi a non aver più soldati, era caduto nelle mani dei Turchi, i quali contra alla fede data lo scorticarono vivo. In mezzo ai più orrendi strazii Bragadino non fece un lamento: mi è cosa gloriosa, andava dicendo, morire per la patria e per la religione.
Inorgogliti i Turchi di quel successo, con uno spaventoso apparato diressero le vele verso l'Italia. Tosto gli alleati si voltarono coDtra al feroce nemico: i due eserciti vennero a scontrarsi vicino a Lepanto, città della Grecia (7 ottobre anno 1571). Cento anni prima i Turchi dopo ostinato assedio di quattro mesi ivi avevano toccata una grande sconfitta con perdita di trentamila soldati; perciò erano ancora molto ansiosi di riparare alla vergogna di quella disfatta. I Cristiani dal loro canto, smaniosi di vendicare la morte del gran Bragadjno, ed impazienti di misurarsi con quei nemici di Dio e degli uomini, assalgono ferocemente i Turchi, {340 [340]} i quali fanno gagliardissima resistenza. Allora, miei cari, si vide un terribile spettacolo. I due eserciti si avventarono l'uno contro l'altro; ogni vascello volgendosi d'improvviso tra vortici di fiamme e di fumo pareva che vomitasse il fulmine da cento cannoni, di cui era armato. La morte pigliava tutte le forme, gli alberi e i cordami delle navi spezzati dalle palle cadevano sopra i combattenti e li stritolavano; e le grida strazianti dei feriti si frammischiavano al rumoreggiare dei flutti e dei cannoni.
In mezzo a tale spaventoso sconvolgimento l' avveduto Vernieri si accorge che la confusione cominciava ad entrare nelle navi Turche, pel che subito egli fa mettere in ordine alcune galere basse e piene di artiglieri destrissimi, cinge gli alti bastimenti nemici, e a colpi di cannone li squarcia e li fulmina. Allora crescendo la confusione dei nemici, si eccita un entusiasmo indicibile fra i Cristiani, e da tutte parti si leva un grido di vittoria! vittoria! La vittoria è con loro. Le navi Turche fuggono verso terra, i Veneziani le inseguono e le fracassano: non è più battaglia, ma un macello: il mare è sparso di vesti, di tele, di frantumi di navi, di sangue e di corpi sbranati; trentamila Turchi morti, dugento delle loro galere in potere dei Cristiani.
Non si tosto la notizia della vittoria giunse nei paesi cristiani, fu una gioia universale. Il senato di Genova e di Venezia decretarono, che il di sette ottobre fosse giorno solènne e festivo in perpetuo, perchè in cotal giorno appunto dell'anno 1571 era succeduta questa grande battaglia.
Il santo pontefice Pio V, principale motore della gloriosa spedizione, il quale colle sue preghiere aveva preparato quel luminoso trionfo delle flotte Cristiane, al primo annunzio della riportata vittoria non potè trattenersi dal ripetere in onore di Don Giovanni d'Austria le parole del Vangelo: Vi fu un uomo mandato da Dio, che si chiamava Giovanni. Difatto Don Giovanni aveva contribuito assai alla vittoria di Lepanto. Avendo egli scorto in mezzo alla mischia il vascello dell'ammiraglio Turco, mosse il primo ad assalirlo, e montatovi dentro, uccise l'ammiraglio di propria mano, indi fatta porre la testa di lui in cima ad una picca, annunziò ai Musulmani che non avevano più capo.
Dopo i due prodi Don Giovanni e Vernieri tiene il primo {341 [341]} posto il generale Colonna, che colle sue galere cooperò efficacemente alla gloria di quella giornata. Per la qual cosa il sommo Pontefice non seppe meglio ricompensare il valore di quel prode che col fargli godere gli onori del trionfo alla foggia degli antichi Romani.
Quando la notizia della vittoria di Lepanto giunse a Filippo II, invece di rallegrarsi della gloria, che a lui ne ridondava, egli si sentì cuocere di gelosìa per la gloria del fratello.
Non così fecero i Veneziani verso Vernieri; i quali pieni di riconoscenza lo elessero loro doge nel 1576.
Poichè questa memorabile vittoria ó attribuita non senza fondamento alla protezione del Cielo e della Beata Vergine, che tutti i cristiani invocavano colla recita del Rosario, cosi venne dalla Chiesa instituita la festa del Santissimo Rosario, che in tutta la cristianità si celebra la prima domenica di ottobre, e per ordine espresso di Pio V alle litanie lauretane furono aggiunte le parole: Maria, auxilium christianorum, ora pro nobis.
XIV. La peste in Milano. (Dal 1576 al 1584).
Ebbi già altra volta occasione di parlarvi di vari flagelli, che cagionarono in varii tempi massima desolazione alla misera umanità; ma niuno è tanto formidabile quanto la peste. Questo morbo per lo più si comunica da uomo a uomo in molte guise; perciò i più timidi sogliono fuggire lontano quanto più possono dal luogo del male. Quando poi infierisce gravemente, niun rimedio, nissuna fuga, niun preservativo può recar vantaggio all'ammalato. Questo morbo, miei cari, cui si dà il nome di peste, pestilenza, contagio ed anche epidemìa, dopo di aver menata grande strage in varie parti d'Italia, nell'ultima metà del cinquecento prese ad infierire orribilmente in Milano.
Gli scrittori di quei tempi parlano della peste di Milano come di una delle più grandi calamità. Il morbo da prima si manifestò negli ospedali, poscia cominciò ad assalire le {342 [342]} persone malsane, mal nudrite, e segnatamente quelli che si davano alla crapula, che è un eccesso brutale nel mangiare e nel bere; da ultimo senza distinzione invase tutte le classi di cittadini. Si costrussero lazzaretti, cioè case alquanto separate dalla città, destinate unicamente per accogliere gli appestati: e queste case in breve furono piene. Era un lagrimevole spettacolo! Spesso avveniva che una brigata di amici si metteva insieme a tavola, e nel meglio del pranzo parecchi rimanevano colti dal male, cangiando così quell'allegria in funerale; spesso i padri e le madri al mattino andavano per chiamare i loro figliuoli, e li trovavano morti o moribondi. Nelle vie della città si vedevano uomini cadere or qua, or là, e talvolta coloro stessi che correvano per porgere aiuto agli altri restavano colpiti.dal morbo, e cadevano sul medesimo istante. Quanti contadini arando nei campi venivano meno a metà dei solchi! Quanti signori furono trovati morti alla mattina dai loro servi, che lasciati li avevano sani alla sera! e non mancarono di quelli, che morti o moribondi furono trovati nella vettura, in cui eransi messi a tare una breve passeggiata.
I cittadini atterriti da tanta sciagura fuggivano ove potevano, e in breve rimasero la, città ed i lazzaretti pieni di morti e di ammalati, senza che vi fosse chi loro porgesse soccorso nè spirituale, nè temporale. Ma la Provvidenza divina, che veglia sopra il destino degli uomini, ne suscitò uno, che col suo coraggio, e colla sua carità venisse in aiuto a quegl' infelici: e questi è san Carlo Borromeo.
Quest'uomo straordinario fin dalla sua fanciullezza aveva condotta una vita pura ed innocente senza paragone. La sua educazione, l'assiduità allo studio congiunta ad una singolare prudenza, il suo sapere e la molta sua accortezza nel maneggiare grandi affari lo avevano innalzato alla dignità di cardinale fin dall'età di ventitrè anni; tre anni dopo venne consacrato Arcivescovo di Milano, poco prima che scoppiasse il morbo fatale. Egli aveva dovuto sostenere gravi persecuzioni da parte del governatore di quella città, perchè volendosi costui immischiare in cose di religione, il santo vescovo gli si opponeva; ed era già sul punto di doversi allontanare dalla sua amata diocesi, quando si manifestò la peste. Il governatore, sebbene valoroso capitano di eserciti, insieme coi {343 [343]} primati signori abbandonò Milano, senza più occuparsi dell'arcivescovo.
Allora si vide qual cosa possa un buon pastore a sollievo degli infelici! Circondato da una folla di sciagurati, che chiedevano per pietà i soccorsi spirituali e temporali, deliberò di dare la vita pel suo popolo, come aveva fatto il Salvatore, andando egli stesso nelle case private a servire gli appestati. Anzitutto egli fece testamento, e lasciò ogni suo avere a benefizio dei poveri. Oro, argento, mobili di casa, tappezzerie, biancherìa, guarniture e per fino le proprie vesti: tutto usò a soccorrere i poveri e gli infermi. Tuttavia quella carità maravigliosa non potendo bastare a tanto gravi bisogni, molti signori, spinti dall' esempio di san Carlo, si davano grandissima sollecitudine pei mandargli soccorsi; e le donne erano contente di privarsi dei loro gioielli più preziosi per inviarli al santo prelato, che li convertiva in limosino.
Ma l'epidemìa era così crudele ed incuteva tanto terrore, che il santo rimase eziandio privo di persone di servizio. Nella impossibilità di poter accorrere a tanti bisogni egli fu inspirato di disarmare il braccio di Dio con atti di penitenza sì commoventi, che Milano ne serba ancora tuttavia la memoria. Egli ordinò delle processioni generali, in cui seguito dai pochi cittadini rimasti in città, coperto con cappa di color lugubre, con cappuccio sopra gli occhi, con grossa fune al collo, portando in mano un grande crocifisso precedeva a pie nudi per la città, camminando sui ghiacci e sulle nevi, di cui le vie erano piene. In una di quelle processioni gli avvenne di porre il piede sopra un chiodo, che gli si conficcò tanto profondo nel pollice, che ne perdette l'unghia e lo fece quasi cadere di spasimo. Ciò non ostante egli non volle fermarsi, nemmeno permise che gli fosse medicata la ferita prima che fossero recate a termine le sacre cerimonie. Mosso Iddio a compassione dalle preghiere di tanti infelici, volse loro uno sguardo pietoso, e il morbo fatale cominciò a rallentare di sua fierezza, e poco stante sparì, dopo di aver imperversato diciotto mesi. Immaginatevi, o miei cari, quali ringraziamenti si ebbero fatti al santo Vescovo!
Fra le molte cose che si raccontano di questo Prelato fu un pellegrinaggio fatto da Milano a Torino a pie scalzi, per visitare la santissima Sindone, cioè il lenzuolo, in cui era {344 [344]} stato avvolto il corpo del Salvatore dopo che fu deposto dalla croce. In quella medesima occasione Carlo Emanuele I, essendo caduto gravemente ammalato, ebbe la consolazione di ricevere il Viatico dalle mani di quell'illustre pastore[20]. Finalmente quest'uomo straordinario, benedetto da Dio e dagli uomini, morì in Milano in età di anni quarantasei nel 1584. In memoria delle grandi sue azioni gli fu innalzata una statua colossale di rame sopra un monticello vicino ad Arona, luogo di sua nascita. Quella statua si conserva ancora oggidì, e forma l'ammirazione dei viaggiatori. È alta settanta piedi, cioè circa trentacinque metri. Nel solo interno del capo possono adagiarsi più uomini comodamente seduti.
XV. Riforma gregoriana. Sisto V. L'interdetto di Venezia e gli Uscocchi. (Dal 1582 al 1616).
In questi medesimi tempi governava la sede Romana un papa di nome Gregorio XIII, il cui pontificato è assai memorabile per la riforma introdotta sul modo di computare i giorni dell'anno. Il calcolo dei giorni prima di lui, come dissi altrove, si faceva giusta il calendario ordinato e corretto da Giulio Cesare, l'anno 47 prima della nascita del Salvatore. In questo calendario si calcolava che il sole percorresse (secondo le dottrine astronomiche di quel tempo) il suo corso annuo in 365 giorni e sei ore, perciò ogni quattro anni doveva esserci l'anno, bisestile, vale a dire accresciuto di un giorno. Ma più esatte osservazioni fecero conoscere {345 [345]} che mancavano undici minuti à compierò il suddetto numero di 365 giorni e sei ore; il qual divario produceva un giorno di più nello spazio di 130 anni. Perciò col giro de' secoli era già avvenuto che le stagioni e le solennità dell'anno si anticipassero di dieci giorni. Gregorio si accorse di questo inconveniente, e col desiderio di ripararlo radunò in Roma i pia rinomati astronomi di quel tempo. D'accordo con essi stabili, che in ogni spazio di quattro secoli ci fosse un anno bisestile di meno, il quale periodo di tempo giunge appunto a formare un giorno per accumulamento degli undici minuti di ciascun anno. Per formare e regolare le stagioni si convenne, che nell'anno 1582 fossero tolti dieci giorni al mese di ottobre; sicchè dopo il 4 si cominciò a contare 15 ottobre. Tutti i principi d'Europa, eccetto l'imperatore di Russia, si appigliarono a questa riforma, che dal nome del Papa si chiamò Gregoriana.
A Gregorio XIII succedette nel governo della Chiesa Sisto V, di molto umile condizione. Innalzatosi co' suoi meriti fino al Pontificato, dimostrò che era ben degno di tanta dignità. Ih breve riuscì ad allontanare da' suoi stati i malandrini, che in gran numero infestavano le terre Romane; condusse acqua in Roma da grande distanza; innalzò un alto obelisco nella piazza di san Fietro in Vaticano, e provvide alle finanze, che erano quasi esauste. Più vasti erano i suoi disegni riguardo all'esterno. Egli si sforzò di abbattere i Turchi, di sottomettere l'Egitto, di riconquistare il? Sepolcro, di aprire un canale di comunicazione tra il mar Rosso ed il Mediterraneo[21]. Ma questi disegni non poterono compiersi per cagione della sua morte avvenuta l'anno 1590.
Ora passiamo ad alcuni fatti, che riguardano alla repubblica di Venezia, che fu in ogni tempo molto affezionata alla Cattolica religione e al romano Pontefice. Mentre quasi tutta Europa era inaffiata di sangue umano sparso per le guerre eccitate dai Protestanti, i Veneziani vivevano in pace, solo badando a promuovere il commercio e a portare i prodotti della loro industria nelle varie parti del mondo. {346 [346]}
Ma un uomo turbolento ed apostata, conosciuto col nome di fra Paolo Sarpi, invece di predicare e sostenere quella religione, cui erasi con voto speciale consacrato, si adoperò per iscalzarla, introducendo l'eresìa in Italia, e specialmente in Venezia sua patria. Era questa un'azione da riprovarsi altamente; poichè così operando, egli cagionava, come di fatto avvenne, un grave danno a'suoi concittadini. A fine di riuscire nel suo intento, stabilì una corrispondenza con alcuni ministri protestanti, ed intanto preparava i Veneziani a ribellarsi al Papa. Il senato, seguendo i suoi consigli, aveva stabilito molte leggi contrarie alla Chiesa ed alla consuetudine in ogni tempo praticata dai Cattolici. Esso aveva con leggi proibito agli ecclesiastici l' alienazione dei loro beni e la costruzione di nuove chiese; nemmeno era loro permesso di vendere i proprii stabili a persone del clero. Ciò fatto, pose mano sopra i sacerdoti, e.parecchi ne fece mettere in prigione senza partecipazione all'autorità della Chiesa.
Questo procedere era anticattolico, perciocchè i buoni cattolici non istabiliscono leggi intorno a cose ecclesiastiche, senza il consenso delle autorità della Chiesa, di cui è Capo il romano Pontefice. Il Papa di quel tempo, di nome Paolo V, ne fu gravemente inquieto, ed avvisò più volte i Veneziani, che non volessero degenerare dai loro maggiori; venissero con lui ad un pacifico accordo, senza costringerlo ad usare le censure, che sono le punizioni, di cui la Chiesa suole solamente servirsi in casi estremi. Il senato di Venezia, sempre messo su dall'ostinato Paolo Sarpi, non diede ascolto alle paterne ammonizioni del Papa; e come una cosa ottima, se si corrompe, diventa pessima, così il Sarpi, uomo d'ingegno, ribellandosi al Capo della propria religione, divenne un vero strumento d'iniquità.
Allora il Papa scomunicò il doge ed il senato, e mandò l'interdetto sul dominio Veneto. L'interdetto è una pena terribile della Chiesa cattolica; perciocchè un paese colpito dall'interdetto deve immediatamente sospendere l'esercizio del culto religioso. I Veneziani, in luogo di cercare di riconciliarsi col Papa, divennero più riottosi e protervi. Comandarono al Clero di fare ad ogni costo le sacre funzioni; al che rifiutandosi i veri ecclesiastici, perchè era un tradire la propria coscienza, si venne ad un' aperta persecuzione; {347 [347]} perchè molti sacerdoti e varie corporazioni religiose furono mandati in esilio (1616).
Il re di Francia e il duca di Savoia, mossi dai mali e dallo scandalo di cotanta ostinazione dei Veneziani, s'interposero; ed avendo ottenuta la riparazione dei torti fatti alla Chiesa, fu tolto l'interdetto. Allora si riaprirono le chiese, i religiosi ritornarono ai loro chiostri, e ciascuno potè liberamente praticare la cattolica religione. Solo il Sarpi rimase ostinato: egli si sforzò ancora diciassette anni con prediche e con iscritti per introdurre il protestantesimo in Venezia, in capo ai quali mori senza dare alcun segno di ravvedimento.
Terminate le discordie religiose, i Veneziani si trovarono in nuovi disastri cagionati da una banda di assassini, noti sotto il nome di Uscocchi. Costoro abitavano gli scogli dell'Adriatico dalla parte della Dalmazia, donde facevano terribili scorrerie sopra i Veneziani, spogliandoli e trucidandoli. Quando erano inseguiti si ricoveravano negli stati Austriaci, ed il duca d'Austria, che si chiamava Ferdinando, li proteggeva; anzi dichiarò aperta guerra ai Veneziani per sostenere gli Uscocchi.
Agli Austriaci si unirono gli Spagnuoli, e la repubblica dovette sostenere una guerra micidiale per mare e per terra durante tre anni, finchè fu conchiuso un trattato di pace, in forza del quale si obbligò il duca a trasferire altrove la pericolosa masnada degli Uscocchi.
XVI. Venezia liberata. (Dal 1616 al 1618).
Ma niuna cosa fece temere maggiormente della sorte di Venezia, quanto il fatto che sono per raccontarvi. Il re di Spagna, il vicerè di Napoli ed il governatore di Milano, gelosi della prosperità di quella repubblica, per mezzo de' loro ambasciatori ordirono una trama veramente infernale. Già da quel tempo, come si costuma oggidì, ogni potenza teneva un ambasciatore presso a quelli stati, coi quali era in pace. Questi ambasciatori, per ordinario scelti fra i personaggi più ragguardevoli d'ogni regno, ricevono tutti gli onori dovuti {348 [348]} ai sovrani che rappresentano, e la persona di essi è inviolabile e sacra, come quella del rispettivo re. A quell'epoca l'ambasciatore di Filippo III, re di Spagna, era il marchese di Bedmar, uomo scaltro e di perduta coscienza.
Il governatore di Milano e il vicerè di Napoli si accordarono con questo Bedmar, per trovar modo di umiliare Venezia e assoggettarla alla Spagna; e poichè quella repubblica possedeva gran numero di navi ed un'armata assai forte, Bedmar risolvette di eseguire il suo disegno, senza che neppure il re di Spagna ne apparisse informato, usando mezzi tanto più segreti, quanto più pericolosi.
Fra gli stranieri, che per passatempo o per cagione di commercio si recavano sempre in buon numero a Venezia, v'era un vecchio capitano francese, chiamato Renanlt, il quale aveva fama d'uomo capace delle imprese più ardite e rischiose. Bedmar lo ebbe a sè un giorno e gli disse: «Vedo, Renault, la vita misera, che tu meni, essere indegna di un par tuo. Tu avresti onori e ricchezze, quando vojessi secondarmi ne' miei disegni.» Quindi dopo larghe promesse ordì con lui una congiura, per abbattere il senato di Venezia, dare, in mano agli Spagnuoli la repubblica, il suo arsenale, le navi e tutte le dovizie che essa possedeva.
In qualsiasi città, miei cari amici, è cosa ordinaria trovare un grande numero di ribaldi, i quali ridotti alla miseria dalla dissolutezza o dal delitto, sono pronti a qualsiasi malvagia azione, purchè riescano a cagionare tumulti colla speranza di pescar nel torbido, e appropriarsi le spoglie di coloro, cui la Provvidenza favorì de'suoi beni. L'unione di questi uomini fu sempre perniciosa, e il loro numero era assai abbondante in Venezia, dove accorrevano stranieri d'ogni parte. Renault radunò una considerabile quantità di questi sfaccendati, ed esponendo loro il disegno sopra indicato, fece sperare grande fortuna dal saccheggio di quella città.
Niuna rea impresa fu mai ideata con tanta scelleratezza. Trattavasi di eccitare un grande incendio in Venezia, di uccidere 1 senatori ed i membri del Consiglio de' Dieci, e di mescolare rivi di sangue colle acque dell'Adriatico. Mentre poi col favore delle tenebre della notte e del tumulto di alcuni soldati spagnuoli, che l'ambasciatore doveva introdurre in città travestiti, s'impadronirebbero de1 palazzo del {349 [349]} doge e dell' arsenale, altri congiurati, che servivano nella flotta Veneziana e che Renault aveva corrotto, avrebbero con pugnali uccisi i capi, e forzati i.marinai ad appiccare il fuoco alle navi.
Tutto era pronto, e già era fissata la notte, in cui la congiura doveva essere effettuata. Renault aveva preparato i mezzi di esecuzione con tanto mistero e con tale arte, che i più zelanti agenti della polizia non giunsero ad averne alcun sospetto. il giorno antecedente a quella grande notte Renault per confermare i suoi nella presa risoluzione, radunò i principali capi della fatale impresa in una casa appartata, ed assegnò a ciascuno il posto, che doveva occupare nel momento decisivo. Chi doveva essere incaricato di forzare le porte del palazzo del doge, e chi distribuire armi ai prigionieri chiusi nelle carceri; altri aveva l'incumbenza di appiccare fuoco all'arsenale per gettare lo spavento nella città, mentre parecchi dovevano assalire all'improvviso nei loro palazzi i senatori, il Consiglio dei Dieci, gl'inquisitori, e trucidare i nobili prima che sapessero per quali mani perivano; alcuni in fine dovevano recarsi nei quartieri più popolati di quella grande città per eccitare la plebaglia al saccheggio e ad aumentare il disordine con tutti i mezzi possibili. Ognuno dei congiurati pareva impaziente di giustificare colla propria audacia e scelleratezza la fiducia dei suoi compagni:
Ma fra i congiurati, che Renault reputava egualmente tutti fedeli e devoti, trovavasi un altro francese di nome Giafieri, il quale vedendo quell'uomo crudele a parlar freddamente di tanti disastri, non potè non provarne un involontario terrore; e benchè neppure egli mancasse di coraggio e di ferocia, tuttavia non seppe risolversi a lasciar perire un sì grande numero d'innocenti, laddove con una parola avrebbe potuto impedire quell'orrenda calamità.
Uscito da quel conciliabolo, Giafieri non può torsi dalla mente la terribile immagine delle nefandezze, che Renault avea disegnato a'suoi complici: ond'egli più altro non vede che palazzi cadenti, donne e fanciulli sgozzati, che tendono le loro mani supplichevoli verso di lui; e nel camminare gli sembra che tutti quelli, che lo circondano, lo riconoscano per un assassino. Nulla può distrarre il suo animo da quell'idea, che l'assedia corte un rimorso. Finalmente, oppresso {350 [350]} da si penosa lotta, prende la risoluzione di andare a dichiarar al Consiglio dei Dieci qual pericolo sovrasti a Venezia.
Mentre però ubbidisce al grido della coscienza, a cui i più grandi scellerati non possono imporre silenzio, Giafieri vuole che il suo tradimento non torni funesto ai suoi amici. Pel che innanzi di manifestare il suo segreto al Consiglio dei Dieci, si fa promettere che sarebbe risparmiata la vita di venti persone, che denunzierà, per quanto colpevoli esse possano essere. I magistrati acconsentono a tutto ciò che egli domanda, per sapere il suo segreto; ma appena la trama è rivelata essi fanno mettere in prigione Giafieri, mandano ad incarcerare Renault ed i suoi complici prima che nissuno indizio faccia sospettare che sono scoperti.
Tuttavia alcuni congiurati vennero avvertiti in tempo, e poterono fuggire gittandosi sopra barche da pescatori; ma Renault non volle allontanarsi,e si diede volontariamente nelle mani di quelli, che andavano per incarcerarlo. Nel medesimo istante tutti gli stranieri sospetti, che si trovavano nascosti nei vari quartieri della città, vennero disarmati, posti in prigione, e tosto strangolati, annegati o decapitati. Renault, promotore di quella trama, venne strozzato in prigione, ed il suo corpo appeso al palazzo del doge per incutere timore ai ribelli.
Giafieri in vedendosi sgozzare sotto ai propri òcchi i compagni, di cui eragli stata promessa la vita, rifiutò ogni ricompensa, e andò a raggiungere alcuni congiurati, alla cui testa combattè finchè fu steso a terra morto da un colpo. Bedmar, principale autore della ribellione, protetto dalla qualità di ambasciatore di Spagna, potè liberamente partire dalla città e ritornare presso al suo re.
Eccovi, miei cari, come Venezia fu liberata da tre gravi pericoli: dall'interdetto provocato da Paolo Sarpi, dal flagello degli Uscocchi, e in fine dalla trama ordita da Bedmar, che pose quella città nel pericolo più grave, che mai le sia sovrastato dalla lega di Cambrai in poi. {351 [351]}
XVII. Carlo Emanuele il Grande. (Dal 1580 al 1630).
Il duca Emanuele Filiberto, l'eroe di San Quintino, prima di spirare chiamò al letto suo figliuolo ereditario, e gli disse: Impara, o mio figlio, dalla mia morte quale esser debba la tua vita. L'età ti fa abile al governo, conserva ai tuoi successori gli stati, che io ti lascio. Se temi Iddio e lo servirai, egli sarà il tuo protettore. Questo figliuolo chiamavasi Carlo Emanuele I, e fu soprannominato il Grande sì per la lunga durata del suo savio governo, che fu di cinquant'anni, sì per le grandi opere che egli compiè in pace ed in guerra. Aveva solo diciassette anni quando cominciò a regnare, ma fortunatamente ebbe buoni ministri e buoni consiglieri, la cui sagacità e prudenza contribuirono molto al buon esito delle sue imprese.
Egli ebbe a sostenere una lunga e sanguinosa guerra coi Francesi. Eransi costoro pochi anni prima impadroniti del marchesato di Saluzzo, e in tempo che la Francia era agitata dalla guerra promossa dagli Ugonotti, ovvero protestanti contro ai cattolici, pensò di poter riacquistare quella parte di dominio, di cui suo padre era stato spogliato. Il re di Francia, che chiamavasi Enrico III, non volle arrendersi alle giuste domande del duca; onde egli risolse di acquistare colle armi ciò che non poteva ottenere colle ragioni. La guerra fu lunga e micidiale da ambe le parti, ma terminò col lasciare Carlo Emanuele tranquillo possessore del Sa-luzzese, mediante un trattato conchiuso in Lione nel 1601, in virtù del quale il duca cedeva alcune terre de'suoi domimi al di là delle alpi. Quel trattato fu molto vantaggioso per la Casa di Savoia, ed il generale francese, chiamato Ladighera, ebbe a dire, che il re di Francia aveva operato da mercante, mentre il duca di Savoia l'aveva fatta da sovrano. La ragione si era che il Saluzzese, oltre ad essere un paese sommamente fertile, univa con sè la barriera delle Alpi, restando così impedito il passaggio, per cui i Francesi solevano venire in Italia. {352 [352]}
Acquetate alquanto le cose dì guerra, ebbe a far molto per sedare le discordie suscitate dagli eretici, e specialmente dai Valdesi. Erano costoro seguaci di certo Pietro Valdo, negoziante di Lione, il quale, messe da parte le cose di commercio, si pose a fare il predicatore e l'apostolo sul finire del secolo decimosecondo. I suoi seguaci, perchè turbolenti, cacciati dal Lionese, andarono in buon numero a stabilirsi nella valle di Luserna, a poca distanza da Pinerolo. In mezzo a quelle montagne si stettero nascosti qualche tempo; ma siccome è proprio di tutti gli eretici, cominciarono a molestare i paesi vicini ed a perseguitare i cattolici. Fino al 1555 i Valdesi non esercitarono alcun pubblico culto; solo in quest'anno essendosi uniti ai discepoli di Calvino e di Lutero, edificarono il loro primo tempio nella valle di Angrogna. Prima di quella epoca assistevano agli uffizi della Chiesa Cattolica, e non tenevano adunanze se non in segreto.
I Valdesi per l'unione loro coi protestanti divennero audacissimi, e non solamente molestarono i cattolici nella dottrina, ma presero le armie si ribellarono apertamente.'Invano si mandarono missionari per convertirli: invano i vescovi e lo stesso romano Pontefice usarono loro bontà e clemenza. Il duca Emanuele Filiberto aveva dovuto marciare contro di loro colle sue genti, e si sparse molto sangue. Carlo Emanuele, dopo avere usati tutti i mezzi pacifici per ridurli a buoni sentimenti, si appigliò egli pure alla forza, impose a tutti i protestanti di uscire dai suoi stati, e con decreto del 1602 circoscrisse il luogo di dimora dei Valdesi, e loro proibì sotto gravissime pene di valicarlo.
Aggiustate così le cose che riguardavano al marchesato di Saluzzo ed ai Valdesi, Carlo Emanuele dovette portare le sue armi in paesi stranieri. Combattè a favore del re di Francia e del re di Spagna, ed in ogni luogo si segnalò con fatti d'armi, che molto onorarono il suo valore. Volle eziandio tentare di togliere la Lombardia agli Spagnuoli, e a questo fine si unì col re di Francia Enrico IV. Già gli eserciti erano pronti a quella impresa, quando questo re venne ucciso. Allora fra le due potenze nemiche si interpose Venezia, e fu conchiusa la pace.
Poco stante essendo morto senza erede Francesco Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato, il duca di Savoia per motivi {353 [353]} di parentela pretendeva di avere quell'amena e vasta provincia; ma dopo due anni di trattazioni inutili il duca usci in guerra aperta, e prima che i suoi rivali potessero opporsi, egli giunse ad impadronirsi del Monferrato, ad eccezione di Gasale e Ponte-Stura. La Spagna, che pretendeva di essere arbitra in Italia, perchè vi possedeva molte Provincie, portò anche le sue pretese sul Monferrato. Gli Spa-gnuoli reputando la cosa di poca importanza, vennero tosto alle mani col duca di Savoia; ma quando videro le loro genti in fuga e in gran numero trucidate, conobbero di aver a fare con un rivale formidabile. Fecero pertanto tale apparecchio di fanti, di cavalli e di cannoni, che pareva la Spagna volersi tutta versare sopra il Monferrato. Ma Carlo Emanuele, che aveva già tante volte condotto i suoi soldati alla vittoria in paesi stranieri, non si sgomentò quando trattavasi di sostenere i propri diritti. Cinque volte si venne a battaglia campale, cinque volte la vittoria fu del duca di Savoia. Dopo di avere, si può dire, quasi distrutti gli Spagnuoli, egli ridni al Piemonte il possesso del Monferrato.
Le vittorie del duca di Savoia ingelosirono i Francesi, che perciò si determinarono di tentare la sorte delle armi a fine di conquistare il Monferrato. Con immenso numero di soldati i Francesi vennero ad assalire Carlo Emanuele in un momento, in cui non se lo immaginava, perchè poco prima nell' aggiustare le cose di Saluzzo aveva conchiuso coi Francesi un trattato di pace. Malgrado il suo valore Carlo Emanuele fu sopraffatto dal numero e dovette ritirarsi dal Monferrato. Venne di nuovo a battaglia vicino a Rivoli, e fu nuovamente sconfitto.
Forse il duca di Savoia avrebbe riparate le sue perdite, se non fosse sopraggiunta una terribile pestilenza, che dopo aver menato gravissima strage in Francia, si sparse in tutta l'Italia. Il duca stesso morì di quel malore nella città di Sa-vigliano, nel 1639, lasciando il regno stremato dalla peste e dalla guerra; ma morì consolato di avere impiegata la vita a difendere i suoi stati ed a beneficare i suoi sudditi. Era solito di dire: Le più belle prerogative di un principe sono dare e perdonare.
A Carlo Emanuele succedette Vittorio Amedeo I. In mezzo a tanti mali cagionati dalla guerra e dalla peste era necessaria {354 [354]} una tregua, perchè i popoli potessero ristorare le loro forze, ripigliare la coltivazione delle campagne, e risarcire l'erario. In questo bisogno universale i Francesi, gli Spagnuoli e i principi Italiani si radunarono in Cherasco, piccola città situata al confluente della Stura e del Tanaro. Ivi fu conchiuso (anno 1631) un trattato, in forza di cui l'Italia potè provvedere ai propri bisogni.
Aggiustate le cose che riguardavano al bene de' suoi sudditi, Vittorio Amedeo, invitato e quasi costretto da Richelieu, ministro della Francia, strinse una lega con questa potenza. Facevano anche parte di questa lega i duchi di Mantova e di Parma. Le potenze collegate mossero guerra agli Spagnuoli; uno dei più sanguinosi scontri avvenne vicino ad un paese delle Langhe, detto Mombaldone; dove mediante il senno ed il coraggio del duca di Savoia la vittoria fu tutti a favore degli alleati; ma non molto appresso Vittorio A-medeo morì in Vercelli.
XVIII. Lodovico Ariosto. - Torquato Tasso. - Galileo Galilei. (Dal 1516 al 1642).
In mezzo alle guerre ed alle pestilenze, che afflissero il Piemonte ed altre provincie d'Italia, sorsero parecchi Illustri personaggi che colle scienze, colle lettere e colle arti la innalzarono ad alto grado di gloria. Oltre a quelli di cui già vi parlai, resesi illustre un poeta, di nome Lodovico Ariosto, nato nella città di Reggio. Da fanciullo egli fu studiosissimo, e avendo sortito dalla natura molta propensione a comporre versi, dopo avere studiato i classici antichi, compose un poema intitolato L'Orlando furioso; libro assai pregevole per la lingua e per lo stile ond'è dettato, e la potentissima fantasia dell'autore; ma che vi esorto a non leggere, senza accertarvi se sia stato ripulito di parecchie cose, che tornerebbero assai nocevoli ai vostri costumi. Nacque nel 1474, morì nel 1532[22]. {355 [355]}
Altro poeta celebre fu Torquato Tasso, assai rinomato per un suo poema intitolato Gerusalemme liberata, in cui prende a descrìvere le prodezze ed il coraggio mostrato dai crociati quando andarono all'acquisto di Terra Santa caduta in potere dei turchi. Nacque egli in Sorrento, e visse gran tempo nella città di Ferrara. Era dotato di grande ingegno; ma aveva un difetto notevolissimo, poichè non sapeva frenare l'impeto della collera. Per cagione di questo, tratto una volta in prigione, vi dovette rimanere più anni, finchè il Papa, avuta notizia della disgrazia di un sì grande poeta, ottenne dal duca di Ferrara, che fosse lasciato in libertà. Fatto libero si pose a viaggiare per l'Italia, dimorando in più città del Piemonte. Non avendo di che provvedersi una cavalcatura partì da Vercelli a piedi, e dopo una serie di disagi giunse alle porte di Torino così male in arnese, che le guardie noi vollero lasciar entrare. Fortunatamente un letterato suo amico lo vide e gli ottenne di poter entrare in città. Il principe Carlo Emanuele, che ne conosceva l'alto merito, lo trattò con onore e gli fece larghe esibizioni; ma l'animo suo inquieto lo indusse ad abbandonare questa città per ritornare a Ferrara.
I letterati, molti principi, lo stesso Pontefice gli offerirono la corona di alloro, come si era fatto al Petrarca. A questo fine egli fu invitato di recarsi a Roma, e fu solennemente ricevuto dal Papa. Tutto si apparecchiava per la solenne cerimonia, quando cadde in grave malattia. Chiese egli tosto di essere portato al monastero di s. Onofrio, ove tranquillamente spirò nell'aprile del 1595, la vigilia del giorno destinato al suo trionfo. Egli non aveva che cinquantun'anni; il suo corpo nobilmente vestito e colla chioma cinta d'alloro venne trasferito con molta pompa per le vie di Roma fino al sepolcro.
Un altro uomo, che formerà mai sempre la gloria d'Italia, fu Galileo Galilei. Nato a Pisa nel 1564, studiò con molto successo la musica, il disegno, la pittura, le scienze, le lettere, e si segnalò particolarmente nella fisica. Era a' suoi tempi grande protettore delle scienze e delle lettere Ferdinando {356 [356]} I, gran duca di Toscana. Non avrete certamente dimenticato come i sovrani di Toscana dapprima abbiano semplicemente avuto il titolo di duchi sino all'anno 1570. Fu Pio V, il quale mutò il nome di ducato in quello più magnifico di Granducato. D'allora in poi il sovrano fu sempre detto Granduca. Molto mite, miei cari, fu in generale il governo de' granduchi. Essi favorirono molto le scienze; e se Galileo progredì tanto ne' suoi studi, il dovette in gran parte alla generosità di que' principi. Imperocchè il granduca Ferdinando I lo nominò professore all'università di Pisa, quando toccava appena ventisei anni.
Mentre colà dimorava, standosi un giorno in chiesa, osservò la oscillazione di una lampada sospesa, e notò che essa andava e veniva dondolando e percorrendo un bel tratto, poi un altro più piccolo, quindi uno piccolissimo; ma che quella lampada compiva uno di quei tratti o grandi o piccoli nella stessa durata di tempo. Tornato a casa volle ripetere quella esperienza con una cordicella e con un piombino formato a maniera di pendolo. Il fece dondolare, e verificò che sì le oscillazioni maggiori come le minime si compievano sempre in eguale spazio di tempo. Galileo conchiuse da ciò che un pendolo sarebbe uno strumento da aggiungere agli orologi per regolare il giro delle ruote in modo, che non corressero nè più nè meno di quanto è necessario per avere un moto regolare e costante.
Passò pure ad insegnare filosofia a Padova, dove inventò il telescopio, che è un maraviglioso cannocchiale, con cui si vedono gli oggetti mille volte più grossi di quel che si vedrebbero ad occhio nudo. Con questo osservò la luna, pel primo riconobbe che le macchie, le quali si scorgono coi semplici occhi nostri nel disco lunare, non altro sono che valli e montagne, di cui seppe anche misurare l'estensione. Scoprì eziandio molte stelle sino allora sconosciute, e pel primo asserì che quella striscia bianca, la quale si vede in notte serena fasciare il cielo, e che si chiama via lattea, è uno spazio tutto seminato di stelle a noi lontanissime.
La fama dell'ingegno del Galileo crebbe tanto, che il granduca e i Fiorentini desideravano che egli tornasse in patria. Ritornò egli di fatto, e il granduca, gli assegnò cinquemila {357 [357]} franchi all'anno con piena libertà di occuparsi ne' suol profondi studi. Questo grand'uomo era d'indole focosa e proclive alla collera al pari del Tasso, ma sforzavasi di vincerne gl'impeti senza lasciar trascorrere la lingua ad ingiurie. Era religioso e caritatevole assai; perciò istruiva eoo ammirabile pazienza i giovani volenterosi di studiare, e col suo proprio danaro sovvenne più d'una volta gli scolari poveri, acciocchè potessero continuare i loro studi. Costoro gli erano cosi riconoscenti ed affezionati, che l'obbedivano e l'amavano come padre.
Ma il fatto più luminoso, e che fece parlare molto nella storia di Galileo, fu un suo libro sul movimento della terra. Pretendeva egli, siccome ora generalmente si crede, che non già il sole girasse intorno alla terra, sibbene la terra si volgesse intorno al suo proprio asse ogni spazio di ventiquattro ore, e che intanto in un anno compisse un vasto giro intorno al sole. Questa opinione era già stata manifestata ed insegnata cento anni prima dal canonico Copernico, filosofo prussiano, nè mai se gli era fatto rimprovero, perchè egli insegnava queste cose come ipotesi, ovvero supposizioni sue proprie senza mischiarvi la religione.
Ma Galileo volle andare più avanti, e pretese di provare che il suo sistema era fondato sulla Bibbia; colla quale asserzione veniva a conchiudere essere tale la mente del Creatore nel creare questi astri; onde cangiava in verità di fede una semplice opinione. Il che non mai si potè, nè si potrà asserire. Perciò fu avvisato per ordine del papa Paolo V a non voler fare un domma di fede di cose solamente probabili; ad insegnare liberamente il suo sistema, ma a non lo mischiare colla Bibbia. Questa volta l'indole bizzarra del Galileo non seppe moderarsi. Si persuase che tutti la sbagliassero, e che egli solo vedesse il vero; e giunse fino a dire che la Chiesa doveva difiniti vano ente approvare il suo sistema. Era vi in quei tempi un tribunale ecclesiastico detto inquisizione, da una parola latina, che vuol dire cercare, perchè aveva per iscopo di cercare ed esaminare quelli, i quali dicevano o scrivevano cose contrarie alla religione. Trovato che si fosse alcuno colpevole, il quale non volesse emendarsi, veniva denunziato alle autorità civili, da cui era giudicato secondo le leggi penali di ciascun regno. Molti sovrani {358 [358]} chiesero al Papa di poter aprire nei loro regni uno di questi tribunali, il cui scopo non fu mai di condannare, ma solo di giudicare i fatti e le azioni contrarie alla religione; dopo li consegnava alle autorità secolari, ohe si giudicavano secondo le leggi civili.
Desideroso che il suo sistema fosse approvato dalla Chiesa, Galileo andò a Roma, e vi riscosse grandi applausi per le nuove sue scoperte. Nel trasporto della gloria egli dimandò che il Papa e l'inquisizione dichiarassero il suo sistema fondato sulla Bibbia. Il giudizio proferito non fu quale Galileo si aspettava; fu conchiuso non potersi con certezza definire che il sistema di Copernico fosse conforme alla Bibbia. Laonde venne imposto a Galileo di non più mischiare le verità certe de' libri santi colle sue private opinioni: lasciato in libertà di fare altrimenti tutte le congetture che egli desiderasse.
Ma gli uomini grandi, miei cari, si lasciano talvolta inebriare dalla superbia, e spesso non sanno umiliarsi e confessare la miseria umana. Tale fu Galileo. Egli rifiutò di assoggettarsi al giudizio dell'inquisizione, e solamente vi si sottomise quando si minacciò di consegnarlo alle.autorità civili; ed era già in procinto di dovere subire la pena, se avesse protratto più a lungo la sua emendazione. Ecco come egli parla di questo affare scrivendo ad uno de' suoi discepoli. «Il Papa, egli dice, mi trattò come uomo degno della sua stima: per luogo di arresto io ebbi il delizioso palazzo della Trinità. Quando arrivai al santo uffizio, fui cortesemente accolto dall'assessore. Io fui costretto a ritrattare la mia opinione, e in punizione mi furon proibiti i miei dialoghi, e venni congedato dopo sei mesi di soggiorno in Roma. Siccome la peste serpeggiava in Firenze, mi fu assegnato per dimora il palazzo del migliore mio amico, l'arcivescovo di Siena, ove godetti la più dolce tranquillità.»
Vi ho parlato alquanto a lungo di questo fatto, perchè molti storici, avversi alla cattolica religione, sogliono travisarlo in maniera assai diversa: ma voi ritenete che chi vi dice diversamente da quanto vi ho raccontato non espone la verità[23]. {359 [359]}
Galileo fece moltissime altre scoperte senza più mischiarsi in cose di religione. Finalmente in età di settant'otto anni cadde ammalato; e sentendosi al termine de'suoi giorni, qual uòmo savio e buon cristiano, chiese di ricevere i conforti della cattolica religione; indi spirò nel 1642.
XIX. Masaniello Pescivendolo. (Dal 1648 al 1660).
Dopo la pace di Castel Gambresi e più ancora dopo il trattato di Gherasco gli Spagnuoli rimasero padroni di molti stati Italiani; Lombardia, Sicilia, Sardegna, Napoli erano governate da un vicerè a nome del re di Spagna. Siccome poi la Spagna facevasi vedere in que' tempi la prima potenza d'Europa, così tra pel dominio che aveva in Italia e l'influenza che esercitava sopra gli altri stati, si può dire che l'Italia divenne spagnuola. Per cento quarant' anni, cioè dal 1560 al 1700, sebbene in Italia siano stati pochi moti di guerra, ad eccezione delle discordie insorte tra i Francesi e il duca di Savoia, nulladimeno l'Italia ebbe molto a soffrire sotto al governo di padroni così lontani, siccome erano gli Spagnuoli. Il re di Spagna mandava bensì uomini chiari per senno e per valore a governare i paesi, che egli possedeva tra noi; ina per lo più essi attendevano a dilatare il loro dominio, e a far danaro da spedire nella Spagna. Fra costoro devo farvi menzione particolarmente di un generale, di nome Leganez, governatore di Milano. Esso ebbe grande parte nelle guerre che agitarono il Piemonte dal 1630 al 1644. Per conquistare questi paesi al suo sovrano, egli erasi recato con poderoso esercito nel Monferrato, ponendo strettissimo assedio a Casale. Questa apparteneva al duca di Savoia Carlo Emanuele II, i cui stati, essendo egli ancora in tenera età, erano governati da sua madre, chiamata Maria Cristina.
La principessa Maria ebbe il dolore di vedere i suoi due {360 [360]} cognati unirsi agli Spagnuoli; sicchè trovatasi nell'impossibilità di resistere, fece una lega col re di Francia, in forza della quale ella cedevagli Cherasco, Sa vigliano e Carmagnola. Dal che i suoi cognati presero motivo di eccitare i sudditi a ribellarsi contro di lei, che per ciò si vide costretta di fuggire da Torino. Il re di Francia inviò un famoso generale di nome Harcourt con molti soldati in soccorso dei Piemontesi.
I due capitani fecero le prime loro prove di valore sotto le mura di Casale (anno 1640), dove gli Spagnuoli toccarono una flerissima rotta. Piacevole ed arguta fu la risposta del generale francese dopo questa vittoria. Leganez pieno di dispetto gli mandò a dire: Se io fossi re di Francia vi farei tagliare la testa per avere arrischiata la battaglia con forze così deboli. Ed io, rispose Harcourt, se avessi l'onore di essere re di Spagna, farei decapitare il marchese Leganez per essersi lasciato vincere da un pugno di gente. Dopo quella battaglia Leganez raccolse le sue genti, e, fatta nuova leva di soldati, si recò ad assediare Torino. Fatti lunghi, ma inutili sforzi per impadronirsi di questa capitale, depose il pensiero di conquistare il Piemonte, e coll'avanzo del suo esercito ritornò a Milano.
La duchessa tosto ritornò a Torino riaoquistando parecchie città, che le erano state tolte. Giunta intanto al termine della reggenza, consegnò le redini del governo al figliuolo Carlo Emanuele II (anno 1648).
Questo principe nei primi anni del suo governo rivolse le sue cure a sedare una rivoluzione, che i Valdesi avevano suscitato contro di lui; sostenne una breve guerra contro ai Genovesi; poi godè perfetta pace durante il suo regno, che tutto impiegò a bene de' suoi sudditi. Attese a riordinare la milizia, a costruire strade e a compiere opere di magnificenza, fra cui il palazzo Carignano, il palazzo reale, la cappella del SS. Sudario e i portici di Po.
Trista era la sorte del Piemonte nella occupazione delle armi Spagnuole e Francesi; ma assai più tristo era lo stato dei Napolitani e Siciliani per la grande smania, che il vicerè aveva di far danaro, arricchire se stesso, e mandarne in Ispagna. Le somme estratte dal solo regno di Napoli nello spazio di pochi anni montarono oltre a cinquecento {361 [361]} milioni di franchi. Per accumulare sì enormi somme erano indispensabili gravi imposte. Case, campi, suppellettili, persone, ogni sorta di animali e di commestibili era aggravata da tali pesi, che quasi tutto il provento delle terre cedevasi ai gabellieri. In que' tempi molte famiglie, non potendo più procacciarsi i necessari alimenti, lasciarono i paesi nativi per andare a cercarsi ospitalità presso gente straniera. Anche i cittadini di Milano, che dugent'anni prima sommavano a trecentomila, si ridussero a centomila; la qual cosa faceva che molti tratti di terreno rimanessero incolti per mancanza di contadini, ed il commercio restasse privo di avventori. Il malcontento allora divenne universale, e nulla mancava se non un capo per venire ad un'aperta ribellione.
Certo Alessio di Palermo, capitale della Sicilia, di professione battiloro, cioè artefice che riduceva l'oro e l'argento in foglie molto sottili, aveva tentato di scuotere il grave giogo, e, riuscito a guadagnarsi il popolo ed i nobili, venne proclamato primo capitano e re di Sicilia. Ma sorpreso dagli Spagnuoli fu condotto al patibolo insieme co' suoi compagni (anno 1647). Casi più gravi avvennero a Napoli, che non si poterono così facilmente sedare, e che ebbero funestissime conseguenze. Il vicerè di Napoli, chiamato conte Arcos, uomo insaziabile, per avere una grossa somma da spedire alla Spagna, come ne era stato richiesto, non sapendo su che cosa imporre ancora un balzello, stabilì una tassa particolare sulle frutta, che colà sono principale nutrimento della povera gente.
Un cèrto Tommaso Aniellò di Amalfi, comunemente detto Masaniello, pescivendolo, non potendo più vivere del suo mestiere, si era posto a fare il fruttaiuolo nella città di Napoli. Egli e i suoi compagni di piazza rimasero sbalorditi alla nuova gabella. Il malcontento crebbe ognor più pel rigore e pei modi villani, con cui i gabellieri facevano le esazioni. Una domenica mattina, cioè sette luglio 1642, nacque un tumulto nella piazza, e questo fu la scintilla che accese il fuoco della ribellione. Chi grida da una parte, chi dall'altra; uomini e donne, vecchi e fanciulli si radunano intorno a Masaniello. Era questi un bel giovine, gagliardo della persona, e di forza tale, che con un pugno poteva gittare a terra un uomo dei più robusti. Corrono i gabellieri per sedare il tumulto; ma rimangono malconci di pugni e di bastonate, {362 [362]} e costretti a ritirarsi. Accorrono a squadre i soldati colle armi, ma non sono più a tempo, perchè era divenuto immenso il numero degli insorti; i quali da tutte parti acclamando per capo Masaniello, arditamente respingono i soldati reali e in poche ore diventano padroni della città.
Quel Masaniello, miei cari, era un rozzo negoziante, privo di lettere, senza pratica di milizia o di governo; tuttavia il suo acume di mente, la sua probità, il suo disinteresse e il desiderio di sollevare la povera sua patria da tante angherie fecero sì, che egli potesse sostenere le parti di principe e di capitano, trattando con maravigliosa attitudine i più gravi affari.
Il vicerè si argomentò di combattere Masaniello colla forza; ma scorgendo inutile ogni tentativo, pensò di venire ad un accordo. Riconoscendolo capitano generale di Napoli, gli promise l'abolizione di tutti i balzelli, gli offerì una ricca collana d'oro, grandi onori e grasse pensioni. Masaniello, dubitando della lealtà del vicerè, rifiutò tutte le proposte, e continuò ad essere il difensore de