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Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

La città di Dio - Libro Terzo: La storia di Roma in una visione critica

Sant'Agostino d'Ippona

La città di Dio - Libro Terzo: La storia di Roma in una visione critica
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Libro terzo - LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA


Criteri di giudizio dei fatti storici (1-12)

Una realistica visione della storia.
1. Ritengo che è stato detto abbastanza nei confronti dei mali morali e spirituali i quali più degli altri si devono evitare e cioè che gli dèi falsi non si sono affatto preoccupati di aiutare il popolo che li adorava affinché non ne fosse schiacciato dal cumulo, ma si adoperarono piuttosto che ne fosse gravato al massimo. Penso che ora si debba parlare di quei mali, i soli che i pagani non vogliono subire, come povertà, malattia, guerra, saccheggio, schiavitù, strage e altri simili di cui ho già parlato nel primo libro. I malvagi ritengono unici mali questi che non rendono malvagi e non si vergognano di essere malvagi fra le cose che valutano come beni proprio essi che così le valutano. Si stizziscono di più se hanno una cattiva villa che una cattiva condotta come se stimare un bene tutte le cose fuorché se stessi sia il più grande bene dell'uomo. Eppure i loro dèi, quando ne era permesso il culto, non impedirono che accadessero loro questi mali, i soli che essi temevano. Prima della venuta del nostro Redentore in luoghi e tempi diversi l'uman genere fu colpito da innumerevoli e alcune perfino incredibili sventure. Eppure se si eccettuano il popolo ebraico e fuori di esso alcuni che in ogni parte della terra per occulto e giusto giudizio di Dio furono degni della grazia divina, il mondo adorava soltanto questi dèi. Tuttavia, per non farla troppo lunga, non parlerò delle gravissime sciagure degli altri popoli nelle diverse regioni. Parlerò soltanto, per quanto attiene a Roma e all'impero romano, cioè alla città in particolare e alle altre che in tutto il mondo furono alleate o soggette, dei mali che subirono prima della venuta di Cristo, quando appartenevano per così dire al corpo dello Stato.

Il politeismo e la fine di Troia.
2. Comincio da Troia o Ilio, da cui deriva la stirpe dei Romani perché non si deve tralasciare o evadere l'argomento che ho toccato anche nel primo libro 1. Se dunque Ilio aveva e onorava i medesimi dèi, perché fu vinta, saccheggiata e distrutta dai Greci? Furono fatte pagare a Priamo, dicono, i falsi giuramenti di suo padre Laomedonte 2. Dunque è vero che Apollo e Nettuno prestarono servizio a Laomedonte come salariati? Si narra infatti che promise loro un salario e giurò il falso 3. Mi meraviglio che Apollo presentato come divinatore faticò ad un'opera così grandiosa senza prevedere che Laomedonte non avrebbe mantenuto le promesse. Neanche per Nettuno, suo zio paterno, fratello di Giove e re del mare, era dignitoso essere inconsapevole del futuro. Infatti Omero che, come si dice, visse prima della fondazione di Roma, lo presenta nell'atto di divinare un glorioso avvenire alla stirpe di Enea 4, dai cui posteri è stata fondata Roma. Lo avvolse perfino in una nube perché non fosse ucciso da Achille, sebbene bramasse distruggere dalle fondamenta, come confessa nel testo di Virgilio, le mura di Troia spergiura costruite con le proprie mani 5. Dunque dèi così grandi, come Nettuno e Apollo, senza sapere che Laomedonte avrebbe negato la paga, furono costruttori delle mura di Troia, per i grati e per gli ingrati. Riflettano i Romani se non è più pericoloso riconoscerli come dèi che non mantenere loro le promesse giurate. Lo credette molto probabilmente anche Omero perché presenta Nettuno che combatte contro i Troiani ed Apollo in loro favore, sebbene il mito racconti che furono ambedue offesi dal falso giuramento. Se dunque credono ai miti, si vergognino di adorare simili divinità; e se non credono ai miti, non adducano a pretesto i giuramenti falsi di Troia o si meraviglino che gli dèi punirono gli spergiuri di Troia e amarono quelli di Roma. Per quale ragione infatti la congiura di Catilina ebbe in uno Stato tanto grande e tanto depravato un numeroso gruppo di cittadini che l'azione e la parola nutrivano di falso giuramento o di strage civile 6? Quale altra mancanza insomma se non spergiurare commettevano i senatori, tante volte corrotti nei giudizi ed altrettante il popolo nelle votazioni e negli altri affari che si trattavano nelle sue assemblee? A causa infatti dell'immoralità si conservava l'antico istituto del giuramento, non allo scopo di astenersi dai delitti col timore della religione, ma per aggiungere agli altri delitti anche i giuramenti falsi.

Aspetti della mitologia eticamente inspiegabile.
3. Non v'è motivo dunque perché si immagini poeticamente che gli dèi, dai quali, come dicono, fu difeso il dominio di Troia 7, fossero adirati contro i Troiani spergiuri. È chiaro che furono vinti dai Greci più forti. E neanche abbandonarono Troia perché erano indignati per l'adulterio di Paride, come si dice a loro difesa da alcuni. Di solito favoriscono e insegnano i peccati, non li puniscono. All'inizio, come io ho appreso, dice Sallustio, i Troiani che profughi sotto la guida di Enea vagavano senza meta fissa, fondarono Roma e vi si insediarono 8. Se dunque le divinità pensarono di punire l'adulterio di Paride, soprattutto nei Romani o senz'altro anche nei Romani doveva esser punito, perché pure la madre di Enea lo commise. Con quale criterio potevano odiare in Paride quel misfatto se non odiavano nella loro compagna Venere l'atto, per tacere di altri, compiuto con Anchise, da cui aveva avuto Enea? Forse perché uno fu compiuto malgrado lo sdegno di Menelao e l'altro con la condiscendenza di Vulcano? Mi par proprio che gli dèi non siano gelosi delle proprie mogli al punto di accondiscendere ad averle in comune con gli uomini. Si pensa forse che sto schernendo i miti e che non tratto con la dovuta serietà un argomento tanto importante. Dunque, se si vuole, non crediamo che Enea fosse figlio di Venere; lo concedo se crediamo che neanche Romolo lo fu di Marte. Se l'uno, perché non anche l'altro? È forse ammissibile che gli dèi si uniscano a uomini femmine ed è inammissibile che uomini maschi si uniscano alle dee? È dura e piuttosto incredibile la condizione che ciò che per diritto di Venere fu lecito a Marte nell'accoppiamento non fosse lecito nel proprio diritto alla stessa Venere. Ma l'uno e l'altro sono stati confermati da un'autorevole letteratura romana. Cesare a noi vicino non credette di meno di avere per antenata Venere 9 di quel che l'antico Romolo credette di avere per padre Marte.

Interpretazione realistica del mito in Varrone.
4. Si dirà: "E tu credi a queste fole?". No, io non ci credo. Infatti anche Varrone, il più dotto dei Romani, lo ammette, sia pure non risolutamente e non decisamente, comunque indirettamente. È utile, egli dice, agli Stati che gli eroi credano, anche se è falso, di essere stati generati dagli dèi. Così l'animo umano, portatore di questa sicurezza, intraprende con maggiore audacia le grandi imprese, le continua con maggior vigore e, data questa sicurezza, le porta a termine con maggior successo . Questa opinione di Varrone, citata a senso, come mi è stato possibile con le mie parole, apre, come puoi vedere, una larga falla all'inganno perché ci lascia intendere che si poterono imbastire molte credenze già sacrali e quasi religiose, laddove si pensò che ai cittadini giovassero le menzogne perfino sugli dèi.

Incompetenza degli dèi a giudicare la vicenda umana.
5. Ma lasciamo da parte se Venere poté partorire Enea dall'accoppiamento con Anchise o Marte generare Romolo dall'accoppiamento con la figlia di Numitore. In definitiva un problema analogo si rileva anche dalle nostre Scritture, se cioè gli angeli prevaricatori si fossero accoppiati con le figlie dell'uomo. La terra così si popolò di giganti, cioè di grandissimi eroi che nacquero da quell'accoppiamento 11. Quindi per adesso la nostra discussione può riferirsi all'uno e all'altro caso. Se dunque sono veri i fatti che nei loro scrittori si leggono della madre di Enea e del padre di Romolo, per quale motivo potrebbero dispiacere agli dèi gli adulteri degli uomini, quando li sopportano in tutta pace in se stessi? Se poi sono falsi, neanche in tal caso possono adirarsi contro i veri adulteri umani, giacché si compiacciono dei propri adulteri immaginari. Si aggiunge che se non si presta fede all'adulterio per quanto riguarda Marte, allo scopo di non credere neanche quello di Venere, non si può difendere la posizione della madre di Romolo col pretesto dell'accoppiamento col dio. Era una vestale e perciò gli dèi avrebbero dovuto punire più severamente contro i Romani il misfatto sacrilego che contro i Troiani l'adulterio di Paride. Infatti gli antichi Romani sotterravano vive le sacerdotesse di Vesta sorprese nel disonore e invece non condannavano alla pena di morte, ma ad altre pene, le donne adultere. Con maggiore severità appunto proteggevano quelli che ritenevano i santuari del dio che il talamo dell'uomo.

Comune eticità destino di Roma a Troia.
6. Aggiungo un'altra considerazione. Se a quelle divinità dispiacevano i peccati degli uomini al punto di abbandonare Troia alla strage e all'incendio per l'episodio dell'odiato Paride, l'uccisione del fratello di Romolo li avrebbe irritati contro i Romani più gravemente che contro i Troiani il disonore di un marito greco. Li avrebbe irritati di più il fratricidio di una città che sorgeva dell'adulterio di una città che già dominava. E non attiene all'argomento trattato se Romolo comandò di compiere il delitto o se lo compì di propria mano. Molti per sfrontatezza negano il fatto, molti ne dubitano per vergogna, molti non ne parlano per la pena. Ed anche io non voglio trattenermi a investigare accuratamente il fatto attraverso l'esame delle testimonianze di molti scrittori. È noto a tutti che il fratello di Romolo fu ucciso, non da nemici, non da estranei. Se Romolo compì o comandò il delitto, si pensi che egli era il capo dei Romani a maggior diritto di quel che lo fosse Paride dei Troiani. Perché dunque uno, rapitore della moglie altrui, provocò l'ira degli dèi contro i Troiani, e l'altro, uccisore del proprio fratello, attirò la protezione dei medesimi dèi sui Romani? Se poi il delitto fu estraneo all'azione e al comando di Romolo, dato che doveva essere punito, tutta la città ne fu responsabile perché non lo punì e per di più non uccise un fratello ma il padre, che è peggio. Tutti e due infatti furono fondatori ma ad uno non fu consentito di essere re, perché eliminato da un delitto. Non v'è motivo di chiedersi, come penso, quale colpa commise Troia perché gli dèi l'abbandonassero per farla distruggere e quale opera buona compì Roma perché gli dèi la facessero propria dimora per farla prosperare. Questo soltanto c'è, che essendo stati vinti si trasferirono presso i Romani per ingannarli comunque. Anzi rimasero anche a Troia per ingannare, come al solito, i nuovi abitanti di quelle regioni e a Roma riscossero gloria con grandi onoranze esercitando anche più largamente le arti del loro inganno.

Ingiustificata la nuova distruzione di Troia.
7. Quando poi le guerre civili erano già scoppiate, quale colpa aveva commesso Ilio perché fosse devastata da Fimbria, malvagio individuo del partito di Mario, con più spietata ferocia che in passato dai Greci? Almeno allora molti poterono fuggire dalla città ed alcuni, fatti prigionieri, sia pure in schiavitù, ebbero salva la vita. Invece Fimbria promulgò in precedenza un editto di non risparmiare alcuno e fece bruciare tutta la città e tutti i suoi abitanti. Questo trattamento si meritò Troia non dai Greci che aveva irritato col proprio misfatto ma dai Romani ai quali aveva dato origine con la propria distruzione. Eppure avevano i medesimi dèi che non l'aiutarono affatto ad evitare queste sventure o meglio, e questa è la verità, non ne erano capaci. Ma anche allora abbandonati templi e altari, si allontanarono tutti gli dèi 12 da cui era stata difesa quella città ricostruita dopo l'antico incendio e distruzione? E se si erano allontanati, ne chiedo la giustificazione e trovo che quanto è più buona quella degli abitanti, tanto è meno buona quella degli dèi. Gli abitanti infatti avevano chiuso le porte a Fimbria per mantenere fedele a Silla la cittadinanza e per questo Fimbria adirato l'incendiò o meglio la rase al suolo. Silla era in quel tempo il capo del partito nobile, si accingeva allora a riordinare con le armi lo Stato, non aveva ancora dato i cattivi risultati di questi buoni inizi. Che cosa dunque di meglio, di più onesto e leale e di più degno della madre patria romana avrebbero potuto fare gli abitanti di quella città che conservare la cittadinanza alla più giusta causa dei Romani e chiudere le porte all'assassino dello Stato romano? Ma i difensori degli dèi pensino che quel gesto si cambiò per loro in una immane catastrofe. Gli dèi avrebbero abbandonato gli adulteri e consegnato Troia al fuoco dei Greci perché dalle sue ceneri nascesse una Roma più casta. E allora perché hanno lasciato la medesima città, che è della stirpe dei Romani, nobile figlia che non si ribellava contro Roma ma manteneva la più costante e doverosa fedeltà al partito più legittimo e l'abbandonarono al saccheggio non degli eroi della Grecia ma del più lurido individuo di Roma?. Ovvero poniamo che dispiacesse agli dèi l'adesione al partito di Silla, giacché per mantenere fedele la città a lui quegli sventurati avevano chiuse le porte. E allora perché essi promettevano e preannunciavano tante vittorie al medesimo Silla? Oppure anche in questo caso si fanno conoscere come adulatori dei fortunati anziché difensori degli sventurati. Dunque anche nei tempi antichi Troia non fu distrutta perché abbandonata da loro. I demoni sempre vigili all'inganno hanno fatto ciò che hanno potuto. Distrutte infatti e incendiate tutte le statue assieme alla città, si tramanda, come Livio 13, che rimase intatta soltanto quella di Minerva nonostante la distruzione del suo tempio. E questo non perché si dicesse a loro lode: Gli dèi della patria sotto la cui protezione Troia è continuamente 14, ma perché non si dicesse a loro difesa: Abbandonati templi e altari, si sono allontanati tutti gli dèi. Fu infatti permesso loro di avere potere su quel fatto, non perché da esso si confermasse la loro potenza ma perché da esso si evidenziasse la loro presenza.

Ingiustificato ricorso agli dèi per i fatti della storia.
8. Con quale prudenza infine, dopo la lezione della stessa Troia, si è affidata la difesa di Roma agli dèi di Troia? Un tizio potrebbe rispondere che di solito risiedevano a Roma quando Troia cadde nel saccheggio di Fimbria. E allora perché rimase in piedi la statua di Minerva? Poi se erano a Roma quando Fimbria distrusse Troia, forse erano a Troia quando Roma stessa fu presa e saccheggiata dai Galli; ma siccome sono finissimi nell'udire e velocissimi nello spostarsi, rientrarono subito allo strepito delle oche per difendere almeno il colle capitolino che non era stato preso; del resto erano stati avvertiti troppo tardi per difendere le altre parti.

Religione e pace sotto Numa.
9. Si crede che gli dèi abbiano aiutato anche Numa Pompilio, successore di Romolo, ad avere pace in tutto il periodo del suo regno e a chiudere le porte del tempio di Giano che di solito sono aperte in guerra, per quel titolo, cioè, che egli istituì molti misteri per Roma 15. Ci si deve invece felicitare con quell'uomo per un così lungo periodo di pace, se pure avesse saputo impiegarlo per attività vantaggiose e, disprezzata una dannosa curiosità, avesse cercato con vera pietà il vero Dio. Ora non gli dèi gli accordarono quel periodo di pace, ma forse lo avrebbero ingannato di meno, se non lo avessero trovato inattivo. Quanto lo trovarono meno occupato, tanto più essi lo occuparono. Infatti ciò che egli istituì e con quali mezzi poté associare a sé e alla cittadinanza tali dèi ce lo narra Varrone 16. Se ne parlerà, se il Signore vorrà, più accuratamente a suo luogo 17. Ora l'argomento riguarda i favori degli dèi. Certamente la pace è un grande beneficio, ma è un beneficio del Dio vero, concesso il più delle volte, come il sole, la pioggia e le altre necessità della vita agli ingrati e ai malvagi. Ma se gli dèi hanno concesso a Roma o a Pompilio un bene così grande, perché in seguito non l'hanno mai più accordato all'impero romano anche in periodi di grande dignità morale? Forse che erano più utili i misteri quando venivano istituiti che quando già istituiti venivano compiuti? Al contrario, in quei tempi non c'erano ancora, ma venivano aggiunti perché ci fossero; in seguito c'erano già, ma venivano conservati perché giovassero. Ma che discorso è questo? Sono trascorsi in una lunga pace sotto il regno di Numa quarantatré, o come vogliono altri, trentanove anni 18. In seguito, dopo l'istituzione dei misteri e sotto la protezione e la tutela degli dèi stessi, che erano stati invitati a quelle celebrazioni, per lunghi anni, dalla fondazione di Roma fino ad Augusto, si considera come fatto meraviglioso un solo anno dopo la prima guerra punica in cui i Romani poterono chiudere le porte della guerra.

La guerra come mezzo del potere in Roma.
10. Rispondono forse che l'impero romano non si potrebbe incrementare da ogni parte ed essere celebrato con sì grande gloria se non mediante continue guerre che si succedono ininterrottamente? Bella giustificazione! Per essere grande, perché l'impero dovrebbe essere senza pace? Non è forse preferibile nella fisiologia umana avere una piccola statura con buona salute che giungere a una mole gigantesca con continue disfunzioni e, una volta che l'hai raggiunta, non esser sano ma essere afflitto da malattie tanto più grandi quanto più grandi sono le membra? Cosa ci sarebbe di male e non piuttosto molto di bene se persistessero i tempi antichi? Sallustio li ha compendiati con queste parole: Dunque all'inizio i re (questa dapprima fu nella regione la denominazione del potere) furono diversi; alcuni esercitavano la mente, altri il corpo; allora la vita umana si menava senza desiderio smodato; a ciascuno bastavano le proprie cose 19. Forse perché si allargasse un dominio tanto esteso doveva avvenire ciò che Virgilio denunzia? Egli dice: Fino a che un po' alla volta sopravvennero un periodo deteriore e degenere, la violenza della guerra e l'amore del possedere 20. Ma, dicono, i Romani hanno una giustificazione per le grandi guerre intraprese e condotte a termine, giacché li costringeva a resistere ai nemici che li aggredivano con la violenza non il desiderio smodato della lode umana ma la necessità di difendere la sopravvivenza e la libertà. E sia pure così. Infatti dopo che la società, come scrive lo stesso Sallustio, rafforzatasi con le leggi, le istituzioni e i possedimenti sembrava abbastanza prospera e abbastanza fiorente, come avviene per la maggior parte delle cose umane, dalla ricchezza sorse l'invidia. Quindi i re e i popoli vicini cominciarono ad attaccare con la guerra; pochi fra gli amici erano di aiuto, poiché i più per paura si tenevano lontani dai pericoli. Ma i Romani attivi in pace e in guerra si affaccendavano, preparavano, si esortavano a vicenda, fronteggiavano i nemici, difendevano con le armi la libertà, la patria, la famiglia. Poi appena avevano con il valore allontanato i pericoli, portavano aiuto agli amici alleati e si cattivavano le amicizie più col fare che col ricevere i favori 21. Roma si accrebbe convenientemente mediante questa tecnica. Ma sotto il regno di Numa i nemici aggredivano egualmente e attaccavano con la guerra perché si avesse una pace così lunga, ovvero non si compiva alcuna azione militare perché la pace potesse continuare? Se infatti anche in quel tempo Roma era provocata con guerre e non si resisteva alle armi con le armi, i sistemi usati per tenere quieti i nemici, sebbene non sconfitti in combattimento e non atterriti dalla violenza di Marte, si dovevano usare per sempre e Roma avrebbe dominato sempre tranquilla con le porte di Giano chiuse. Che se questo stato di cose non fu in suo potere, dunque Roma non ebbe la pace fino a che lo vollero i suoi dèi ma fino a che lo vollero i circonvicini che non li attaccarono con la guerra; a meno che simili dèi non si arroghino di vendere a un uomo ciò che un altro ha voluto o non voluto. Importa infatti fino a qual punto sia concesso a questi demoni di atterrire o stimolare le cattive volontà con la propria perversità. Se sempre lo potessero e per un occulto superiore potere non si avesse, in opposizione al loro tentativo, un effetto diverso, avrebbero sempre in loro potere le paci e le vittorie militari che quasi sempre avvengono mediante determinazioni dell'animo umano. Tuttavia che questi fatti avvengono contro le disposizioni degli uomini lo ammettono non solo le favole che falsano molte cose e indicano o significano appena qualche cosa di vero, ma anche la stessa storia romana.

Gli dèi soggiacciono alle passioni umane.
11. Non per altro potere l'Apollo di Cuma, come si venne a sapere, pianse per quattro giorni mentre si combatteva la guerra contro gli Achei e re Aristonico 22. Gli aruspici atterriti dal prodigio ritennero che la statua si dovesse gettare in mare. I maggiorenti di Cuma s'interposero informando che un prodigio simile si era verificato nella medesima statua anche durante la guerra contro Antioco e in quella contro Perseo e poiché si ebbe un esito felice per i Romani attestarono che per delibera del senato erano stati mandati doni al loro Apollo. Allora gli aruspici convocati diedero, come più esperti, il responso che il pianto della statua di Apollo era di buon auspicio per i Romani perché la colonia cumana era greca e il pianto di Apollo significava lutto e sconfitta per la regione, da cui era stato importato, cioè per la stessa Grecia. Subito dopo si ebbe la notizia che re Aristonico era stato vinto e fatto prigioniero e Apollo non voleva certamente che fosse vinto, se ne doleva e lo dava a vedere perfino con le lacrime della propria statua. E per questo non del tutto a sproposito il comportamento dei demoni viene descritto nelle composizioni verosimili, sebbene mitiche, dei poeti. Infatti in Virgilio Diana provò dolore per Camilla, ed Ercole pianse per Pallante che stava per morire 23. Forse per questo Numa Pompilio, sovraccarico di pace, ma non sapendo e non domandandosi chi è che la dava, pensò nella sua inoperosità a quali dèi affidare la difesa della salvezza e del regno di Roma. Non sapeva che l'unico vero onnipotente sommo Dio provvede alle cose del mondo. Rifletteva inoltre che gli dèi di Troia importati da Enea non avrebbero potuto conservare a lungo il regno di Troia e di Lavinio fondato dallo stesso Enea. Ritenne opportuno allora di procacciarsi altri dèi da usare o come custodi dei fuggitivi o come difensori degli invalidi oltre ai primi che erano passati a Roma con Romolo o che sarebbero passati in seguito con la distruzione di Alba.

L'importazione di nuovi dèi non alleviano i mali.
12. Tuttavia Roma non si degnò di essere contenta dei molti culti religiosi che vi istituì Pompilio. Non aveva ancora il grandissimo tempio di Giove; fu re Tarquinio a costruire il Campidoglio 24. Esculapio venne da Epidauro a Roma 25 allo scopo di esercitare, come medico espertissimo, la sua arte con gloria maggiore nella città più illustre. Venne da Pessinunte anche la madre degli dèi non saprei da quale stirpe 26; era indegno infatti che quando già suo figlio dominava sul colle capitolino, lei fosse ancora nascosta in una località poco conosciuta. Tuttavia se è madre di tutti gli dèi, non solo è venuta a Roma dopo alcuni suoi figli ma ne ha preceduti altri che l'avrebbero seguita. Mi fa un po' meraviglia che proprio lei abbia partorito Cinocefalo perché questi venne dall'Egitto molto più tardi. Se poi anche la dea Febbre è nata da lei, lo decida Esculapio, suo pronipote; ma da qualunque connubio sia nata, gli dèi stranieri non oseranno, penso, considerare oscura una dea cittadina romana. Dunque Roma fu posta sotto il patrocinio di tanti dèi. E chi potrebbe contarli? Indigeni e stranieri, celesti e terrestri, sotterranei e marini, delle fonti e dei fiumi e, come dice Varrone, legittimi e spuri, e di tutti i tipi di dèi maschi e femmine come negli animali 27. Roma dunque posta sotto la protezione di tanti dèi non avrebbe dovuto essere duramente colpita dalle grandi e orribili sventure, come quelle che fra tante citerò in seguito. Col fumo della sua grandezza come con un segnale aveva radunato troppi dèi a difesa. Istituendo e offrendo ad essi templi, altari, sacrifici e sacerdoti offendeva il sommo vero Dio a cui soltanto si devono questi onori debitamente compiuti. Ed era più felice finché visse con un numero minore di essi; ma quanto maggiore divenne, come una nave più grande che imbarca più marinai, pensò di dover procurarsene di più. Non si fidava, credo, che quei pochi con i quali aveva tenuto una condotta abbastanza onesta, se confrontata con una moralità più bassa, fossero sufficienti a soccorrere la sua grandezza. Dapprima infatti sotto gli stessi re, eccetto Numa Pompilio di cui ho parlato dianzi, vi fu il grande male della lotta dovuta alla discordia che indusse a far uccidere il fratello di Romolo.

Dal ratto delle Sabine alle guerre puniche (13-20)


Il ratto delle Sabine.
13. E come mai neanche Giunone, che col suo Giove ormai favoriva i Romani padroni del mondo e gente togata 28, e Venere stessa non riuscì ad aiutare i discendenti del suo Enea affinché i matrimoni si ottenessero con una legittima e giusta istituzione? La sventura della mancanza di donne fu così grande che le rapirono con l'inganno e furono costretti immediatamente a combattere contro i suoceri. Così le sventurate donne, non ancora unite ai mariti mediante un'ingiustizia, ricevevano in dote il sangue dei padri 29. Ma, obiettano, in questo conflitto i Romani vinsero i loro vicini. Simili vittorie, rispondo, risultarono di molte e grandi ferite e morti dall'una e dall'altra parte, tanto dei cittadini che dei confinanti. Considerando la colpa del solo suocero Cesare e del solo suo genero Pompeo, dopo la morte della figlia di Cesare e moglie di Pompeo, con grande e giusto impulso di dolore Lucano esclama: Canto le guerre peggiori di quelle civili per i campi della Tessaglia e il diritto accordato alla scelleratezza 30. Vinsero dunque i Romani ma per costringere con le mani insanguinate nell'uccisione dei suoceri le loro figlie a deplorevoli amplessi. Ed esse non osavano piangere il padre ucciso per non offendere il marito vincitore perché non sapevano, mentre essi ancora combattevano, per chi fare auspici. Non Venere ma Bellona donò simili nozze al popolo romano; o forse Aletto, la furia infernale, poiché ora Giunone favoriva i Romani, ebbe un'autorizzazione più ampia di quando fu istigata dalle sue preghiere contro Enea 31. Andromaca fu fatta prigioniera con una condizione più felice di quella con cui quelle coppie romane si sposarono. Dopo gli amplessi con lei, per quanto trattata da schiava, Pirro non uccise più alcun troiano; i Romani invece uccidevano in battaglia i suoceri mentre ne abbracciavano le figlie nel letto. Andromaca soggetta al vincitore poté soltanto dolersi della morte dei propri cari, non temere 32; le Sabine, congiunte ad uomini che si combattevano, temevano la morte dei padri quando i mariti uscivano in guerra e la piangevano quando rientravano, prive della libertà di temere e di piangere. Infatti o erano tormentate dall'affetto filiale o si rallegravano con crudeltà per le vittorie dei mariti a causa della morte dei cittadini, dei congiunti, dei fratelli, dei padri. Si aggiungeva che, secondo l'alterna vicenda delle guerre, alcune perdettero il marito per mano del padre, altre il padre e il marito per mano dell'uno e dell'altro. Infatti anche per i Romani non furono piccoli i rischi se si giunse all'assedio della loro città. Si difesero chiudendo le porte. Ma furono aperte con la frode e i nemici penetrarono dentro le mura. Avvenne allora nel foro stesso una scellerata e veramente atroce zuffa fra generi e suoceri; i rapitori erano anche sopraffatti e fuggendo ripetutamente entro le proprie case disonoravano le vittorie di prima, sebbene anche esse vergognose e deplorevoli. A questo punto Romolo, disperando ormai del valore dei suoi, pregò Giove perché stessero al proprio posto e per quell'occasione gli trovò il titolo di Statore 33. Non si sarebbe avuta la fine di una sventura così grave se le donne rapite, strappandosi i capelli, non si fossero slanciate nella mischia e, prosternandosi ai padri, non avessero placato la loro giustissima ira non con le armi vittoriose ma con il supplichevole affetto filiale 34. In seguito Romolo, intollerante del fratello come compagno, fu costretto a prendere come socio nel regno Tito Tazio re dei Sabini. Ma come avrebbe potuto sopportare a lungo anche costui se non sopportò il fratello e per di più gemello? Quindi ucciso anche lui, per essere un dio più grande, tenne da solo il regno. E sono questi i diritti delle nozze, queste le giustificazioni delle guerre, questi i patti della fratellanza, dell'affinità, della convivenza, della divinità? Questa infine la vita di una città sotto la protezione di tanti dèi? Puoi osservare che sull'argomento si potrebbero fare molte e serie considerazioni, se il nostro assunto non avesse interesse a quelle che restano e il discorso non volgesse ad altro.

Distruzione di Alba.
14. 1. Che avvenne dopo Numa sotto gli altri re? Con grande danno loro e dei Romani gli abitanti di Alba furono provocati alla guerra perché in definitiva la tanto lunga pace di Numa si era svilita. Vi furono ripetuti massacri dell'esercito di Roma e di Alba e un decremento dell'una e dell'altra città. Alba, fondata da Ascanio figlio di Enea, pur essendo madre di Roma più da vicino che Troia, provocata da Tullo Ostilio venne a conflitto e venuta a conflitto fu afflitta e afflisse, finché a causa dell'egual numero di morti rincrebbero i molti combattimenti. Si decise allora di affidare l'esito della guerra a tre fratelli da una parte e a tre fratelli dall'altra. Dai Romani furono presentati i tre Orazi, dagli Albani i tre Curiazi; dai tre Curiazi furono vinti e uccisi due Orazi e da un solo Orazio i tre Curiazi. Quindi Roma risultò vincitrice mediante quella strage anche nella gara decisiva, sicché dei sei uno solo tornò a casa. Ma per chi furono il danno e la perdita se non per la stirpe di Enea, per i posteri di Ascanio, per la discendenza di Venere, per i nipoti di Giove? Fu infatti peggiore di una guerra civile perché una città figlia combatté con la città madre. E a quest'ultimo combattimento dei tre gemelli si aggiunse un altro delitto veramente atroce. Poiché infatti i due popoli prima erano amici essendo vicini e della medesima stirpe, una sorella degli Orazi era fidanzata ad uno dei Curiazi. Ella, viste le spoglie del fidanzato sul fratello vincitore, si mise a piangere e per questo fu uccisa dal fratello stesso. Mi sembra che soltanto il sentimento di questa fanciulla sia stato più umano di quello di tutto il popolo romano. Ritengo che abbia pianto senza colpa perché soffriva per l'uomo che in base alla fedeltà promessa considerava marito o forse anche per il fratello stesso che l'aveva ucciso, sebbene gli avesse fidanzata la sorella 35. Per qual motivo dunque in Virgilio il pietoso Enea è lodato perché si affligge per il nemico ucciso di sua mano 36? Per qual motivo Marcello, riflettendo sulla comune condizione umana, commiserò col pianto la città di Siracusa perché ricordò che il suo splendore e gloria di poco prima erano caduti per sua mano 37? Riconosciamo, per favore, a un sentimento di umanità che una fanciulla non abbia commesso un delitto perché piangeva il proprio fidanzato ucciso dal proprio fratello, se alcuni uomini ebbero lode perché piansero sui nemici da loro stessi uccisi. Dunque mentre quella piangeva la morte procurata dal fratello al fidanzato, Roma esultava per aver combattuto con grande massacro contro la città madre e per aver vinto con grande effusione di sangue fraterno dall'una e dall'altra parte.

La guerra come l'irrazionale della storia.
14. 2. Perché mi si adducono come pretesto il concetto di onore e il concetto di vittoria? A scanso dei pregiudizi di una folle mentalità, i fatti siano considerati senza orpelli, siano valutati senza orpelli, siano giudicati senza orpelli. Si adduca una colpa di Alba come si adduceva l'adulterio di Troia. Non esiste, non si trova. C'è soltanto che Tullo volle muovere alle armi gli uomini inerti e l'esercito disabituato ai trionfi 38. Per quella colpa dunque fu commesso il grande delitto di una guerra fra alleati e individui della medesima stirpe. Sallustio accenna di passaggio a questa grande colpa. Dopo aver ricordato con lode i tempi antichi, quando senza cupidigia si trascorreva la vita umana e a ciascuno bastavano le proprie cose, soggiunge: Dopo che Ciro in Asia e gli Spartani e gli Ateniesi in Grecia cominciarono a sottomettere città e nazioni, considerarono la passione del dominio una giustificazione della guerra, pensarono che la più grande gloria fosse nel più grande impero 39. Seguono gli altri concetti che aveva iniziato ad esporre. A me può bastare aver citato le sue parole fino a questo punto. La passione del dominio scuote e abbatte il genere umano con grandi sciagure. Vinta da questa passione Roma credeva un trionfo l'aver vinto Alba e denominava gloria l'esaltazione del proprio delitto, giacché, dice la nostra Scrittura, il peccatore si esalta nei desideri della sua anima e si parla bene di chi compie azioni inique 40. Si spoglino dunque dei fatti e vernici menzognere e imbiancature ingannevoli perché siano osservati con esame sereno. Non mi si venga a dire: "Grande quel tale ed anche quell'altro, perché ha combattuto e vinto con quel tale e con quell'altro". Combattono anche i gladiatori, anche essi vincono, anche quella crudeltà ha il premio della lode, ma io penso che è preferibile subire la condizione penosa della inettitudine che procurarsi la gloria di quei combattimenti. Ma chi sopporterebbe tale spettacolo se scendessero nell'arena per battersi due gladiatori, di cui uno è il figlio, l'altro il padre? Chi non lo eliminerebbe? Come dunque poté essere gloriosa la contesa armata fra due città, di cui una la madre, l'altra la figlia? È forse diverso perché in questo caso non c'era l'arena e terreni più spaziosi si riempivano di cadaveri non di due gladiatori ma di molti dei due popoli e perché quelle gare non erano circoscritte all'anfiteatro ma al mondo intero e vi si dava uno spettacolo spietato ai vivi di allora e ai posteri, fin quando se ne estende la fama?

La guerra è sempre fratricida.
14. 3. Tuttavia gli dèi tutelari del dominio di Roma e quasi spettatori di tali lotte sentivano insoddisfatta la propria passione finché la sorella degli Orazi come compenso dei tre Curiazi uccisi non fu aggiunta dall'altra parte anche essa come terza ai due fratelli dalla spada del fratello. Così Roma che aveva vinto non aveva un minor numero di morti. Poi per avere il vantaggio della vittoria Alba fu distrutta, in cui, terza nell'ordine, avevano abitato le divinità troiane, dopo Troia distrutta dai Greci e dopo Lavinio, in cui Enea aveva costituito un regno provvisorio di nomadi. Ma secondo il loro costume gli dèi anche da essa erano fuggiti e per questo è stata distrutta. Quanto dire che si erano allontanati tutti gli dèi da cui era stato conservato quel dominio 41. Si erano allontanati già per la terza volta perché come quarta fosse loro affidata Roma. Erano scontenti di Alba, in cui aveva regnato Amulio dopo aver espulso il fratello ed erano contenti di Roma, in cui aveva regnato Romolo dopo avere ucciso il fratello. Ma prima che Alba fosse distrutta, il suo popolo fu travasato, dicono 42, in Roma in modo che di due si facesse una città. E sia, così è avvenuto. Tuttavia quella città, regno di Ascanio, terzo domicilio degli dèi troiani e città madre fu distrutta dalla città figlia. E perché i superstiti della guerra costituissero di due un solo popolo, il molto sangue versato dell'uno e dell'altro ne fu un legame degno di compassione. Perché ormai dovrei parlar singolarmente delle medesime guerre ripetutesi tante volte sotto gli altri re, che sembravano chiuse con una vittoria ma erano di nuovo condotte con tante stragi e di nuovo ancora riprese dopo il patto e la pace fra suoceri e generi, tra la loro stirpe e i discendenti? Non piccolo indizio di questa sventura fu che nessuno di quei re chiuse le porte della guerra. Nessuno di loro dunque con tanti dèi tutelari regnò in pace.

Romolo nella storia e nella leggenda.
15. 1. E quale è stata la fine degli stessi re? Per quanto riguarda Romolo, se la veda l'esaltazione mitica con cui si afferma che fu accolto in cielo; se la vedano alcuni scrittori romani i quali hanno detto che a causa della sua crudeltà fu fatto sparire per ordine del senato e che fu incaricato alla chetichella non saprei quale Giulio Proculo perché dicesse che gli era apparso e che per mezzo suo ordinava al popolo romano di venerarlo fra le divinità 43. In questo modo il popolo, che aveva cominciato a sollevarsi contro il senato, fu ricondotto alla calma. Era avvenuta anche un'eclissi solare e poiché la massa ignorante non sapeva che si era verificato per una legge fissa del corso del sole, lo attribuiva ai meriti di Romolo. Al contrario, se quello fosse stato il cordoglio del sole, si doveva piuttosto pensare che egli fosse stato ucciso e che il delitto veniva denunziato anche con l'oscuramento della luce del giorno, come di fatto avvenne quando il Signore per la crudele empietà dei Giudei fu crocefisso 44. Il fatto appunto che allora era la Pasqua dei Giudei, celebrata solennemente nel plenilunio, dimostra che l'oscurarsi del sole non dipendeva dal corso regolare dei corpi celesti, mentre di regola l'eclissi di sole avviene nel novilunio. Abbastanza chiaramente Cicerone mostra che l'apoteosi di Romolo fu piuttosto creduta che avvenuta, giacché pur esaltandolo nei libri Sullo Stato con le parole di Scipione, scrive: Ha conseguito un così alto onore perché, non essendosi improvvisamente più fatto vedere in seguito a un'eclissi di sole, si pensò che fosse annoverato nel numero degli dèi. Nessun mortale poté mai raggiungere una simile reputazione senza un'eccezionale distinzione nel valore 45. Quando dice che improvvisamente non fu più visto, si intende certamente o la violenza del temporale o la segretezza di una uccisione delittuosa. Gli altri scrittori romani aggiungono infatti all'eclissi solare anche un improvviso temporale che sicuramente o offrì l'occasione al misfatto o fece scomparire esso stesso Romolo 46. Infatti pure di Tullo Ostilio, terzo re dopo Romolo, anche egli folgorato, non si credette, come dice Cicerone nella medesima opera, che con tale morte fosse accolto fra gli dèi 47. I Romani non vollero estendere a tutti, cioè svilire, ciò che era accertato, ossia opinabile, di Romolo, se il fatto fosse attribuito con facilità anche ad un altro. Dice inoltre apertamente nelle orazioni invettive: Abbiamo per gratitudine a voce di popolo innalzato fino agli dèi immortali l'uomo che fondò questa città 48. Mostra così che non era divenuto dio realmente ma che per gratitudine, a causa dei meriti del suo valore, era stato esaltato dalla tradizione. Nel dialogo Ortensio, parlando dell'eclissi normale del sole, afferma: Affinché produca le stesse tenebre che produsse nella morte di Romolo, la quale avvenne durante un'eclissi solare 49. Qui evidentemente non teme di parlare della morte di un uomo, perché parlava da pensatore e non da encomiasta.

La vicenda triste dei suoi successori.
15. 2. Gli altri re di Roma, esclusi Numa Pompilio e Anco Marzio che morirono di malattia 50, subirono una fine orribile. Come ho già detto, Tullo Ostilio, vincitore e sterminatore di Alba, morì folgorato assieme a tutta la famiglia 51. Il primo Tarquinio fu fatto uccidere dai figli del suo predecessore 52. Servio Tullio fu ucciso con un esecrando delitto dal genero Tarquinio il Superbo che gli successe nel regno 53. Tuttavia non si allontanarono gli dèi abbandonando templi e altari quando fu commesso questo assassinio contro il migliore re del popolo romano. Eppure affermano che furono indignati per l'adulterio di Paride al punto di fuggire dalla misera Troia e abbandonarla ai Greci per essere distrutta col fuoco. Anzi Tarquinio successe al suocero da lui stesso ucciso. Gli dèi, senza allontanarsi ma rimanendo presenti, videro questo detestabile assassino divenir re con l'uccisione del suocero, gloriarsi di molte guerre e vittorie e costruire con i bottini di guerra il Campidoglio 54, sopportarono anche che Giove loro re in quell'augusto tempio, cioè nell'edificio costruito dall'assassino, dominasse e regnasse su di loro. Infatti non aveva costruito il Campidoglio quando era ancora innocente per essere in seguito espulso da Roma per le sue malvagità, ma giunse al regno, durante il quale costruì il Campidoglio col commettere l'esecrabile delitto. La causa per cui più tardi i Romani lo scacciarono dal regno esiliandolo dalla città fu la colpa, non sua ma del figlio, della violazione di Lucrezia, e commessa non solo a sua insaputa ma anche in sua assenza 55. Assediava allora la città di Ardea, era in guerra per il popolo romano. Non sappiamo che cosa avrebbe fatto se fosse venuto a conoscenza del misfatto del figlio. Tuttavia senza conoscere la sua sentenza e senza informarlo il popolo gli tolse il dominio, quindi fatto entrare l'esercito con l'ordine di abbandonarlo e chiuse le porte, non lo lasciò tornare in città. Egli dopo pesanti guerre, con cui sollevando i popoli vicini logorò i Romani, abbandonato da coloro nel cui aiuto aveva sperato, non riuscì a riacquistare il regno. Condusse comunque nella città di Tuscolo vicina a Roma per quattordici anni, come si narra, vita privata in tranquillità, giunse alla vecchiaia assieme alla moglie 56 e si spense con una fine più desiderabile di quella del suocero ucciso col delitto del genero e, come si narra, col consenso della figlia 57. Tuttavia i Romani non denominarono questo Tarquinio crudele o scellerato ma superbo forse perché per un altro genere di superbia non sopportavano il suo orgoglio di re. Infatti non presero in considerazione il delitto dell'uccisione del suocero, il migliore dei loro re, tanto che lo elessero re. In proposito mi meraviglio che abbiano dato una così grande ricompensa a un delitto così grave senza ricorrere a un delitto più grave. E gli dèi non si allontanarono abbandonando templi e altari. Ma qualcuno potrebbe difendere questi dèi col dire che rimasero a Roma per punire con pene i Romani anziché aiutarli con favori perché li ingannavano con vane vittorie e li sterminavano con guerre sanguinose. Questa fu la vita dei Romani nel periodo encomiabile dello Stato fino all'espulsione di Tarquinio il Superbo per circa duecentoquarantatré anni. Eppure tutte quelle vittorie, ottenute con molto sangue e grandi sventure, non estesero il suo dominio oltre le venti miglia dalla città 58. Ed è uno spazio che non si può affatto paragonare all'attuale territorio di una qualsiasi città della Getulia.

L'implacabile Giunio Bruto.
16. A questo periodo aggiungiamo anche quello in cui, come dice Sallustio, si amministrò con diritto giusto e moderato, mentre si avevano il timore da parte di Tarquinio e la grave guerra con l'Etruria 59. Infatti finché gli Etruschi aiutarono Tarquinio che tentava di rioccupare il regno, Roma fu logorata da una grave guerra. E Sallustio dice che lo Stato fu amministrato con legislazione giusta e moderata, perché il timore incalzava e non perché decideva la giustizia. In quel breve periodo fu veramente funesto l'anno in cui, dopo la fine del potere regio, furono eletti i primi consoli. Essi intanto non portarono a termine il loro anno. Giunio Bruto infatti depose ed esiliò da Roma il collega Lucio Tarquinio Collatino 60. Subito dopo egli cadde in combattimento uccidendo a sua volta il nemico, dopo aver fatto uccidere in precedenza i figli e i fratelli della moglie, perché aveva scoperto che congiuravano per ristabilire Tarquinio 61. Virgilio, ricordato l'episodio con ammirazione, immediatamente ne prova orrore per senso di umanità. Dice infatti: Un padre per l'amata libertà condannerà a morte i figli che preparavano nuove guerre; ma subito aggiunge l'esclamazione: Sciagurato, in qualsiasi modo i posteri giudicheranno quei fatti. Comunque, egli dice, i posteri giudichino i fatti, cioè vantino ed esaltino un individuo che ha ucciso i figli, Bruto è uno sciagurato. E come a consolare lo sciagurato, soggiunse: Vincono l'amore della patria e l'immensa passione della gloria 62. E in Bruto, che uccise perfino i figli e non poté sopravvivere al nemico figlio di Tarquinio da lui ferito a morte perché a sua volta ferito a morte, mentre a lui sopravvisse Tarquinio, non sembra vendicata l'innocenza del collega Collatino? Questi, pur essendo un buon cittadino, subì, dopo l'espulsione di Tarquinio ciò che aveva subito lo stesso Tarquinio che era un tiranno. Si narra infatti che anche Bruto fosse consanguineo di Tarquinio 63 ma fu la omonimia a danneggiare Collatino, perché aveva come nome anche Tarquinio. Si doveva costringerlo a mutare il nome non la patria; in definitiva nel suo nome si sarebbe avuto un termine di meno, si sarebbe chiamato Lucio Collatino. Ma per questo appunto non fu costretto a perdere ciò che avrebbe potuto perdere senza danno per costringerlo a perdere la carica di primo console e la cittadinanza sebbene buon cittadino. Anche questa detestabile ingiustizia di Giunio Bruto e niente affatto vantaggiosa allo Stato è gloria? E per commetterla vincono l'amor di patria e l'immensa passione della gloria? Ormai espulso il tiranno Tarquinio, fu eletto console assieme a Bruto il marito di Lucrezia, Lucio Tarquinio Collatino. Giustamente il popolo badò nel cittadino ai costumi, non al nome. Ma Bruto, che avrebbe potuto privare il collega nella carica, istituita da poco per la prima volta, soltanto del nome se esso gli dava fastidio, spietatamente lo privò della patria e della carica. Si compirono queste malvagità, avvennero queste sciagure nello Stato romano quando si amministrò con legislazione giusta e moderata. Anche Lucrezio, eletto in luogo di Bruto, morì di malattia prima che l'anno finisse. Furono Publio Valerio, che era succeduto a Collatino e Marco Orazio, sostituito al defunto Lucrezio, a chiudere quell'anno fatale e cupo che ebbe cinque consoli 64. E proprio in quell'anno lo Stato romano diede l'avvio alla nuova carica politica del consolato.

Crisi della società romana secondo Sallustio.
17. 1. Allora diminuito ormai il timore, non perché le guerre fossero cessate, ma perché non incalzavano tanto gravemente, finito cioè il tempo in cui si amministrò con legislazione giusta e moderata, seguirono le condizioni che il citato Sallustio espone in breve così: In seguito i patrizi trattarono la plebe come schiava, ne disposero della vita e dell'opera con diritto regio, la privarono della proprietà dei campi e amministrarono da soli con l'esclusione di tutti gli altri. La plebe, oppressa dalla vessazione e soprattutto dalle tasse giacché doveva subire l'imposta e insieme il servizio militare per le continue guerre, occupò armata il monte Sacro e l'Aventino e così rivendicò i tribuni della plebe e gli altri diritti. Fine delle discordie e della lotta fra le due parti fu la seconda guerra punica 65. Perché dunque dovrei subire continue dilazioni e imporle ai lettori? Da Sallustio è stata rilevata la grande crisi della società romana, perché da lungo tempo e per tanti anni fino alla seconda guerra punica le guerre non cessarono di turbarla dall'esterno e le discordie e le sedizioni civili nell'interno. Pertanto quelle vittorie non sono state gioie piene di individui felici ma vuote consolazioni d'individui infelici e sollecitazioni ingannevoli d'individui guerrafondai a subire continue sventure prive di risultato. E i buoni Romani non devono arrabbiarsi con noi perché diciamo queste cose, sebbene non devono essere né richiesti né avvertiti in proposito, perché è assolutamente certo che non si arrabbieranno affatto. Infatti io, inferiore per cultura letteraria e disponibilità di tempo, non posso certamente dire più duramente cose più dure dei loro scrittori, tanto più che i Romani stessi si sono applicati e costringono i loro figli ad applicarsi per conoscerli. Ma coloro che si arrabbiano non mi perdonerebbero certamente se fossi io a dire queste parole di Sallustio: Si ebbero moltissimi tumulti, sedizioni e infine guerre civili, giacché pochi potenti, la cui influenza parecchi avevano accettato, aspiravano alle cariche con la speciosa adesione al partito senatoriale o democratico. Furono considerati buoni anche i cattivi cittadini e non per benemerenze verso la società, giacché tutti erano depravati, ma il più ricco e più capace nel commettere ingiustizia era considerato onesto perché difendeva lo stato presente delle cose 66. Dunque gli storiografi hanno considerato di pertinenza di una onorata libertà non tacere i mali della propria città, sebbene in molti passi sono stati costretti a lodarla con alto encomio, perché non conoscevano quella ideale, nella quale si devono raccogliere i cittadini dell'eternità. Che cosa dunque dovremmo far noi che dobbiamo avere una libertà tanto più grande, quanto è migliore e più certa la nostra speranza in Dio, quando rinfacciano i mali presenti al nostro Cristo? E lo fanno per distogliere le coscienze più deboli e inesperte da quella città in cui soltanto si potrà vivere in una felicità perpetua? E io non dico contro i loro dèi cose più tremende di quelle dette allo stesso modo dai loro scrittori che essi leggono ed esaltano, giacché da loro le ho apprese e non sono certamente da tanto di dirle tutte e come loro.

Sciagure militari e civili.
17. 2. Dove erano dunque quegli dèi, che si ritiene di dover onorare in vista dell'insignificante e fuggevole felicità di questo mondo, quando i Romani, ai quali con l'astuzia dell'impostore si esibivano per farsi onorare, erano travagliati da tante sciagure? Dove erano quando il console Valerio fu ucciso mentre difendeva con successo il Campidoglio, al quale esiliati e schiavi avevano appiccato il fuoco 67? Eppure era stato di maggior aiuto egli al tempio di Giove che a lui la ressa di tante divinità col loro re ottimo massimo, di cui aveva salvato il tempio. Dove erano quando la cittadinanza, afflitta dal male incessante delle sedizioni, in un breve periodo di tranquillità, aspettava gli ambasciatori mandati ad Atene per derivarne le leggi, fu spopolata da grave fame e pestilenza 68? Dove erano quando, in altra occasione, il popolo travagliato dalla fame creò il primo prefetto della provvigione annuale e aumentando la fame Spurio Melio, per il fatto che offrì grano alla massa affamata, fu incolpato di aspirare al regno e su richiesta del medesimo prefetto fu condannato dal dittatore Lucio Quinzio, rimbambito dall'età, e fu giustiziato, durante un gravissimo e pericolosissimo tumulto popolare, dal capo della cavalleria Quinto Servilio 69? Dove erano quando, scoppiata una gravissima epidemia, il popolo a lungo e pesantemente logorato, prese la deliberazione, mai avutasi prima, di offrire nuovi lettisterni agli dèi inefficienti 70? Si stendevano dei letti conviviali in onore degli dèi e da quell'uso ebbe nome questo rito sacro o meglio sacrilegio. Dove erano quando l'esercito romano, poiché combatteva male, per dieci anni continui aveva ricevuto presso Veio frequenti e pesanti sconfitte, se infine non fosse stato soccorso da Furio Camillo che in seguito l'ingrata città condannò 71? Dove erano quando i Galli presero, saccheggiarono, incendiarono e riempirono di stragi Roma 72? Dove erano quando una straordinaria epidemia menò tanta strage di cui morì anche Furio Camillo che difese prima l'ingrata patria dai Veienti e poi la protesse anche dai Galli?. Durante questa epidemia i Romani introdussero gli spettacoli teatrali, altra nuova peste non per il loro corpo ma, che è molto più funesto, per la loro moralità 73. Dove erano quando si sospettò che un'altra forte mortalità fosse dovuta ai veleni propinati da certe matrone e si scoprì che la moralità di molte nobili donne insospettate era più rovinosa di qualsiasi epidemia 74? O quando ambedue i consoli con l'esercito, assediati dai Sanniti alle forche caudine, furono costretti a stipulare con loro un patto disonorevole al punto che consegnati come ostaggi seicento cavalieri romani, gli altri, perdute le armi, spogliati e privati del resto dell'armatura, furono fatti passare sotto il giogo dei nemici, con un solo indumento addosso 75? O quando, mentre alcuni erano colpiti da grave pestilenza, molti altri, anche nell'esercito, morirono folgorati 76? O quando, scoppiata un'altra paurosa epidemia, Roma fu costretta a chiamare Esculapio da Epidauro per servirsene come di un dio medico 77, perché le frequenti fornicazioni, cui aveva atteso da giovanotto, non avevano permesso a Giove, che da tempo comandava in Campidoglio, di apprendere la medicina? O quando in seguito all'alleanza simultanea di Lucani, Bruzi, Sanniti, Etruschi e Galli Senoni, in un primo tempo furono uccisi i legati romani e poi fu sconfitto l'esercito guidato dal pretore e morirono assieme a lui sette tribuni e tredicimila soldati? O quando dopo lunghe e gravi sedizioni a Roma, alla fine la plebe, con ostile discordia, fece secessione sul Gianicolo? Era così grave il danno di questa sciagura che in vista di essa, e questo avveniva in pericoli di estrema gravità, fu creato dittatore Ortensio il quale, fatta tornare la plebe, morì durante la magistratura. Non si era mai verificato prima di lui ad alcun dittatore. Fu quindi un reato più grave degli dèi, perché era già presente Esculapio.

Dopo Pirro le pestilenze.
17. 3. E scoppiarono in quei tempi tante guerre che per carenza di soldati furono arruolati i proletari, così chiamati perché attendevano a generare prole non potendo fare il soldato per mancanza di mezzi. Anche Pirro, un re della Grecia, fatto venire dai Tarentini, venuto allora in grande fama, divenne nemico dei Romani. Mentre egli consultava Apollo sulla futura eventualità dei fatti, il dio con discreto buon garbo diede un responso così ambiguo che, qualunque delle due eventualità si fosse verificata, egli come divinatore se la cavava. Rispose infatti: "Ti dico, o Pirro, che puoi vincere i Romani"; o anche: "Ti dico, o Pirro, che i Romani ti possono vincere". Così, sia che Pirro vincesse i Romani o che i Romani vincessero Pirro, il vaticinatore poteva aspettare senza preoccupazioni l'uno o l'altro evento. Si verificò comunque un grande e spaventoso massacro dell'uno e dell'altro esercito 80. Tuttavia in quel caso vinse Pirro che poteva perciò dal proprio punto di vista considerare divinatore Apollo, se subito dopo in altra battaglia non avessero vinto i Romani. Durante così grande strage militare scoppiò anche una grave morìa di donne. Morivano nella gravidanza prima di dare alla luce i figli. Esculapio, penso io, si scusò del fatto perché era di professione primario medico non levatrice. Morivano con la medesima patologia anche gli animali domestici al punto da far credere che perfino la generazione degli animali cessasse 81. Quell'inverno fu memorabile perché incredibilmente rigido al punto che a causa delle nevi, le quali rimasero a una preoccupante altezza per quaranta giorni anche nel foro, perfino il Tevere gelò. Se si fosse avuto ai nostri tempi, costoro ne avrebbero dette tante e tanto grosse. Allo stesso modo una straordinaria epidemia, finché infierì, ne fece morire molti. Ed essendosi prolungata con maggiore virulenza nell'anno successivo malgrado la presenza di Esculapio, si consultarono i libri sibillini 82. In questo tipo di oracoli, come ricorda Cicerone nel libro Sulla divinazione, abitualmente si crede di più agli interpreti che spiegano le cose dubbie come possono o come vogliono 83. Il responso fu che causa dell'epidemia era il fatto che molti occupavano abusivamente parecchi edifici sacri. Così per il momento Esculapio fu scolpato dall'accusa d'incapacità o di trascuratezza. Gli edifici erano stati occupati senza che alcuno lo impedisse perché erano state inutilmente a lungo rivolte suppliche a una così folta moltitudine di divinità. Così un po' alla volta i locali venivano disertati dai devoti in modo che essendo vuoti si potevano senza offesa di alcuno adibire agli usi umani. Per far cessare la pestilenza furono fatti restituire e restaurare. E se in seguito non fossero rimasti sconosciuti perché di nuovo abbandonati e occupati, non si darebbe certamente merito alla grande erudizione di Varrone che scrivendo sugli edifici sacri ne ricorda molti ignorati 84. In quel caso non si ottenne la fine della epidemia ma per un po' di tempo una diplomatica scusa per gli dèi.

La prima guerra punica.
18. 1. Con le due guerre puniche poi, dato che fra i due domini la vittoria rimase a lungo incerta con alterne possibilità e due popoli forti si sferravano attacchi violentissimi e con molti mezzi, i regni più piccoli furono abbattuti. Molte città illustri per fama furono distrutte, molte travagliate, molti Stati mandati in rovina. Molte regioni e paesi furono interamente devastati. Molte volte i vinti divennero vincitori dall'una e dall'altra parte. Molte persone furono uccise tanto fra i combattenti che fra la popolazione civile. Una enorme quantità di navi fu distrutta nelle guerre navali o colata a picco nelle numerose tempeste. Se mi sforzassi di esporre o richiamare, anche io sarei soltanto uno storiografo 85. In quell'occasione la città di Roma presa da grande timore ricorse a rimedi vani e ridicoli. Furono ripresi per ordine dei libri sibillini i giochi secolari, la cui celebrazione era stata stabilita ogni cento anni e che era stata sospesa per dimenticanza in tempi più tranquilli. I pontefici ristabilirono anche gli spettacoli sacri agli dèi inferi anche essi aboliti negli anni migliori del passato. Quando furono ristabiliti, infatti, era un gran divertimento rappresentare anche scenicamente che l'Ade si arricchiva di tanti morti. I poveri disgraziati appunto rappresentavano come spettacoli dei demoni e come lauti banchetti dell'Ade le guerre rabbiose, le sanguinose inimicizie, le funeste vittorie dell'una e dell'altra parte. Niente di più degno di compassione si ebbe durante la prima guerra punica della sconfitta subita dai Romani tanto duramente che fu fatto prigioniero anche Regolo. Ne ho parlato nel primo e nel secondo libro. Uomo veramente grande e in un primo tempo vincitore e soggiogatore dei Cartaginesi avrebbe portato a termine definitivamente la prima guerra punica se per eccessivo desiderio di lode e di gloria non avesse imposto agli stanchi Cartaginesi condizioni più pesanti di quanto essi potessero sopportare. Se l'imprevedibile sconfitta, la schiavitù indecorosa, il giuramento fedele e la morte veramente crudele di quell'uomo grande non costringe gli dèi ad arrossire, si vede proprio che sono fatti d'aria e che non hanno sangue.

Calamità in quel periodo.
18. 2. Non mancarono in quel periodo sventure gravissime nella città. In una straordinaria inondazione del Tevere quasi tutte le parti pianeggianti della città furono battute perché alcune furono travolte dalla violenza come di un torrente, altre rimasero inondate e sommerse per lungo tempo come in uno stagno. A questa calamità seguì il fuoco, ancor più pericoloso. Dopo avere invaso alcuni edifici più illustri attorno al foro, non risparmiò neanche il tempio di Vesta. D'altronde gli era molto familiare perché in esso le vestali, non tanto onorate quanto condannate, avevano la mansione di mantenergli quasi una vita perpetua con l'assidua sostituzione delle legna da bruciare. In quel caso il fuoco non solo si mantenne in vita ma incrudelì anche. Le vestali atterrite dalla sua violenza non riuscirono a salvare dall'incendio gli oggetti fatali che avevano già procurato la rovina delle tre città in cui avevano dimorato. Allora il pontefice Metello, dimentico in certo senso della propria incolumità, si precipitò e sebbene mezzo abbruciacchiato li mise in salvo 86. Il fuoco non riconobbe neanche lui, oppure vi era in quel posto una divinità che, anche se lo fosse stata, non riusciva a fuggire da sola. Quindi un uomo poté aiutare le insegne divine di Vesta anziché esse l'uomo. E se non erano capaci di respingere da se stessi il fuoco, in che cosa potevano aiutare la città contro le acque e le fiamme? Eppure si pensava che ne proteggessero l'incolumità. Il fatto in sé dimostrò che non potevano proprio un bel niente. Non farei certamente queste obiezioni se dicessero che quegli oggetti sacri non erano destinati a difendere i beni temporali ma a significare gli eterni; perciò se eventualmente venivano distrutti, perché corporali e visibili, non veniva tolto nulla a quei significati, cui erano destinati, e potevano essere riacquistati per i medesimi usi. Invece essi con incredibile cecità ritengono possibile il fatto che in virtù di quegli oggetti, che potevano essere distrutti, la salvezza terrena e il benessere temporale della patria non potevano essere distrutti. Pertanto, quando si dimostra loro che malgrado l'incolumità degli oggetti sacri sono sopravvenute o la perdita della salvezza o la sciagura, si vergognano di mutare un parere che non sono capaci di difendere.

I disastri della seconda guerra punica.
19. Per quanto riguarda la seconda guerra punica, sarebbe troppo lungo rammentare le stragi dei due popoli che combatterono per tanto tempo e su un vasto territorio. Per confessione stessa di coloro che hanno inteso non tanto di narrare le guerre romane quanto piuttosto di esaltare la dominazione romana, il vincitore fu pari al vinto 87. Infatti quando Annibale, partendo dalla Spagna, superò i Pirenei, attraversò la Gallia, valicò le Alpi devastando e sottomettendo tutte le regioni con le forze aumentate lungo il tragitto e precipitò come torrente nel valico verso l'Italia, si ebbero molti sanguinosi combattimenti, molte volte i Romani furono sconfitti, molti paesi passarono al nemico, molti furono presi e distrutti, si ebbero dure battaglie il più delle volte gloriose per Annibale data la sconfitta romana. Che dire del disastro di Canne, tremendo oltre ogni pensare? Dopo di esso si dice che Annibale, per quanto molto crudele ma saziato dell'enorme massacro dei suoi più spietati nemici, abbia comandato di risparmiarli. Dopo la strage mandò a Cartagine tre moggi di anelli d'oro per far capire che in quella battaglia era caduta molta nobiltà romana e che la segnalava meglio la misura che il numero 88. Si doveva da ciò dedurre che il massacro del resto dell'esercito, tanto più numeroso quanto più povero che giaceva senza anelli, era più da congetturarsi che da segnalarsi. Ne seguì una così forte carenza di soldati che i Romani coscrissero i delinquenti dopo aver assicurato loro l'impunità ed emanciparono gli schiavi per costituire e non solo per redintegrare un esercito che era così un disonore. Mancavano le armi per gli schiavi, o meglio tanto per non far torto per gli ormai liberti destinati a combattere per lo Stato romano. Le armi furono detratte dai templi come se i Romani volessero dire ai propri dèi: "Deponete le armi che avete tenuto in mano inutilmente, perché i nostri schiavi forse possono fare qualche cosa di utile con quei mezzi con cui voi nostre divinità non siete state capaci". Non bastando più l'erario per corrispondere lo stipendio, le ricchezze private divennero di pubblico uso. Ciascuno pose in comune il proprio avere al punto che oltre tutti gli anelli e le bolle, pietosi simboli di nobiltà, il senato stesso e a più forte ragione gli altri ceti e classi non si lasciarono alcun oggetto d'oro 89. Chi sopporterebbe i nostri avversari se in questi tempi fossero costretti a tanta povertà? Li sopportiamo appena adesso che in vista di un superfluo divertimento si dà più denaro agli attori di quanto ne fu ammassato allora per le legioni in vista di un disperato tentativo di salvezza.

La fine di Sagunto.
20. Ma fra tutti i disastri della seconda guerra punica il più degno di pietà e di deplorazione fu il massacro di quei di Sagunto. Questa città della Spagna, amicissima del popolo romano, fu distrutta perché gli si mantenne fedele. Annibale, violato il patto con i Romani, proprio da questa circostanza cercava il pretesto per provocarli alla guerra. Dunque assediava con ferocia Sagunto. Appena si seppe a Roma, furono mandati degli ambasciatori ad Annibale per indurlo ad abbandonare l'assedio. Non tenuti in alcun conto, essi andarono a Cartagine e lamentarono la violazione del patto ma tornarono a Roma senza aver concluso nulla. Durante questi indugi la disgraziata città molto ricca e molto cara alla Spagna e a Roma fu distrutta dai Cartaginesi all'ottavo o nono mese d'assedio. Fa raccapriccio leggerne e tanto più narrarne la fine. La ricorderò comunque brevemente giacché è molto pertinente all'argomento. Dapprima fu straziata dalla fame; si narra da alcuni che i cittadini si cibarono perfino dei cadaveri dei caduti. Infine stremati, per evitare almeno di cadere prigionieri nelle mani di Annibale, allestirono pubblicamente un grande rogo, nelle cui fiamme, dopo essersi anche trafitti di spada assieme ai propri familiari, tutti si abbandonarono. In questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa gli dèi ghiottoni e ciarlatani nebulosi che bramano il grasso delle vittime e ingannano con la foschia di presagi ambigui; in questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa, soccorrere una città molto amica del popolo romano e non permettere che subisse la catastrofe perché la subiva per aver mantenuta la fedeltà. Essi certamente intervennero quando si alleò mediante un patto allo Stato romano. Dunque perché mantenne fedelmente il patto, che sotto la loro protezione aveva stretto mediante delibera, che aveva reso vincolante con la fedeltà e indissolubile col giuramento, è stata assediata, schiacciata, distrutta da un uomo sleale. Se è vero che in seguito sono stati gli dèi ad atterrire e allontanare con temporali e fulmini Annibale vicinissimo alle mura di Roma, l'avrebbero dovuto fare anche prima. Oso dire appunto che sarebbero stati più onesti se avessero infuriato col temporale in favore degli amici dei Romani, i quali erano in pericolo proprio per non tradire la fedeltà ai Romani e non avevano mezzi di difesa, anziché in favore dei Romani che combattevano per se stessi ed erano ricchi di mezzi nel fronteggiare Annibale. Se fossero perciò difensori del benessere e dell'onore di Roma, ne avrebbero stornato la grave imputazione della rovina di Sagunto. Stoltamente dunque ora si crede che in virtù della loro protezione Roma non è andata in rovina malgrado la vittoria di Annibale, giacché non furono capaci di soccorrere la città di Sagunto affinché non andasse in rovina nel mantenere l'amicizia per Roma. Supponiamo che il popolo saguntino fosse cristiano e subisse tale sventura per la fede nel Vangelo, a parte che non si sarebbe data la morte con la spada o nel rogo, supponiamo comunque che subisse lo sterminio per la fede nel Vangelo. Avrebbe sofferto nella speranza per cui aveva creduto in Cristo, cioè non per la ricompensa di un tempo molto breve ma di una eternità senza fine. Ma a proposito di codesti dèi che, come si afferma, sono adorati o se ne va in cerca per adorarli al solo scopo che sia assicurato il benessere del mondo che fugge velocemente; che cosa mi risponderanno nei confronti dello sterminio di Sagunto coloro che li difendono e li scolpano? Faranno certamente lo stesso discorso che sulla fine di Regolo. Ma c'è una differenza. Quegli era un individuo, questa un'intera cittadinanza, sebbene causa della fine dell'uno e dell'altra sia stata la conservazione della fedeltà. Proprio per essa Regolo volle tornare ai nemici e Sagunto non volle passare ai nemici. Dunque il mantenimento della fedeltà provoca lo sdegno degli dèi? Ed è possibile che nonostante la protezione degli dèi siano perduti non solo individui ma intere città? Scelgano fra le due cose quella che preferiscono. Se gli dèi si sdegnano contro la fedeltà mantenuta, scelgano i rinnegati per essere onorati. Se poi è possibile che, malgrado il loro favore individui e città, colpiti da molti e gravi tormenti, vadano in rovina, gli dèi sono adorati senza il risultato del benessere terreno. La smettano dunque di arrabbiarsi coloro che pensano di essere divenuti disgraziati con la perdita dei misteri dei propri dèi. Anche se fossero rimasti e gli dèi li avessero aiutati, potevano non soltanto, come avviene adesso, lamentarsi del disastro avvenuto ma anche andare completamente in rovina dopo essere stati orrendamente straziati come Regolo e quelli di Sagunto.

Dalle guerre civili all'impero (21-31)


Ingratitudine contro Scipione e altri fatti disumani.
21. Tratto brevemente del periodo fra la seconda e la terza guerra punica, quando, come dice Sallustio, i Romani vissero con la più alta moralità e con la massima concordia 90. Tralascio molti fatti pensando ai limiti della mia opera. In quel tempo dunque di alta moralità e di massima concordia, Scipione, il liberatore di Roma e dell'Italia, stratega egregio e ammirevole della seconda guerra punica tanto orribile, tanto disastrosa e pericolosa, vincitore di Annibale e trionfatore di Cartagine, sebbene la sua vita fin dall'adolescenza, come si narra 91, fosse dedicata agli dèi e cresciuta nei templi, fu vittima delle accuse dei rivali. Esiliato dalla patria, che aveva salvata e liberata col proprio valore, passò il resto della vita e la finì nella cittadina di Literno. Nonostante il suo insigne trionfo, non fu mai preso dal desiderio di rivedere Roma, ordinò anzi, come si narra 92, che dopo la morte nemmeno il funerale si celebrasse nell'ingrata patria. Subito dopo per la prima volta a mezzo del proconsole Gneo Manlio, vincitore dei Galati, s'introdusse a Roma la dissolutezza asiatica peggiore di ogni nemico. Si racconta 93 che per la prima volta si cominciarono a vedere divani guarniti di bronzo e tappeti preziosi; furono introdotte le suonatrici durante i conviti e altre forme di depravazione. Ma mi sono prefisso di parlare per ora di quei mali che gli uomini subiscono contro voglia e non di quelli che compiono volontariamente. E perciò attiene a questo discorso soprattutto l'episodio che ho citato di Scipione, che, cioè, vittima dei rivali, morì fuori della patria che aveva liberata, poiché le divinità di Roma, dai cui templi aveva allontanato Annibale, non lo ricambiarono, sebbene siano onorate soltanto per il benessere terreno. Ma appunto perché Sallustio ha affermato che in quei tempi esisteva la più alta moralità, ho pensato che si dovesse ricordare l'episodio della frivolezza asiatica, affinché s'intenda che Sallustio ha parlato così nel confronto con altri tempi, in cui la moralità, a causa di gravissime discordie, fu certamente peggiore. Proprio allora, cioè fra la seconda e l'ultima guerra punica fu anche promulgata la legge Voconia perché non fosse costituita erede una donna, neanche se figlia unica 94. Non so che cosa si può prescrivere o pensare di più ingiusto che una legge simile. Comunque nell'intermezzo fra le due guerre puniche il decadimento fu più sopportabile. L'esercito si logorava soltanto con guerre esterne ma si consolava con le vittorie; in città non si avevano le discordie avutesi in altri tempi. Ma nell'ultima guerra punica con un solo attacco dell'altro Scipione, che per questo ebbe anche egli il soprannome di Africano, la rivale della dominazione romana fu letteralmente estirpata. Ma lo Stato romano fu oppresso da un peso grave di mali. Data infatti la sicurezza nel benessere, da cui con l'eccessiva corruzione morale furono accumulati quei mali, si può affermare che fu più di danno la rapida distruzione che la lunga rivalità di Cartagine. Tralascio tutto il periodo fino a Cesare Augusto il quale, come è noto, sottrasse del tutto ai Romani la libertà che, anche secondo la loro opinione, non era più apportatrice di gloria ma di lotte e disastri e ormai completamente priva di nerbo e vigore, richiamò tutti i poteri all'illimitata autorità regale, rinvigorì e ringiovanì, per così dire, lo Stato quasi cadente per decrepitezza. Di tutto questo periodo tralascio dunque le varie stragi militari dovute a cause diverse e il patto con Numanzia che è una macchia d'infamia. Erano fuggiti da una gabbia alcuni galli ed erano stati, a sentir loro, di malaugurio per il console Mancino 95, come se in tanti anni, durante i quali la piccola città cinta d'assedio aveva logorato l'esercito di Roma e cominciava a sbigottire lo stesso Stato romano, gli altri comandanti l'avessero attaccata con auspicio favorevole.

L'eccidio di Romani ordinato da Mitridate.
22. Ometto, ripeto, questi fatti, sebbene non vorrei passare sotto silenzio che Mitridate, un re dell'Asia, diede ordine che in un solo giorno fossero uccisi i Romani che soggiornavano in qualsiasi posto dell'Asia e che attendevano con molte ricchezze ai propri affari. Così fu fatto 96. Fu uno spettacolo raccapricciante che un individuo, dovunque fosse stato trovato, in un campo, in una via, in un castello, nella casa, in un borgo, in piazza, in un tempio, a letto, a mensa, senza che se l'aspettasse e contro ogni diritto venisse ucciso. Grande fu il lamento di coloro che venivano uccisi, grande il pianto dei presenti e forse anche di coloro che uccidevano. Dura fu la condizione degli ospitanti non solo nel vedere a casa propria quelle stragi ma anche nel doverle compiere, costretti come erano a cambiare improvvisamente il viso da una gentile espressione di cortesia a un gesto da nemico compiuto in tempo di pace e, direi, con ferite d'ambo le parti, perché il ferito era colpito nel corpo e chi colpiva nella coscienza. Tutti quei Romani non si erano curati degli àuspici? Non avevano forse gli dèi domestici e pubblici da consultare, quando dalle loro case partirono per quel viaggio senza ritorno? Se non li hanno consultati, i nostri contemporanei non hanno motivo per lamentarsi della nostra civiltà, giacché da tempo i Romani disprezzano queste inutili pratiche. Se poi li hanno consultati, mi si dica quale profitto hanno dato dette pratiche quando erano ammesse dalle leggi umane senza alcuna restrizione.

Conseguenze funeste delle guerre sociali.
23. Ma ormai devo far menzione, nei limiti delle mie possibilità, dei mali che furono tanto più disastrosi perché interni: discordie civili o piuttosto incivili, che non erano più sedizioni ma vere guerre in città durante le quali fu versato molto sangue e le passioni di parte non si limitarono alle polemiche e alle varie voci della pubblica opinione ma inferocivano ormai apertamente con le armi. Le guerre sociali, le guerre servili, le guerre civili fecero versare molto sangue romano e produssero l'immiserimento e lo spopolamento dell'Italia. Infatti prima che si organizzasse contro Roma la lega laziale, tutti gli animali addomesticati, cani, cavalli, asini, buoi e tutte le altre bestie di proprietà dell'uomo, tornate rapidamente allo stato selvaggio e dimentiche dell'addomesticamento, abbandonate le case, vivevano brade e aborrivano l'avvicinarsi non solo degli estranei ma anche dei padroni, con la morte o il pericolo di chi osava molestarli da vicino 97. E fu segno di un grande male se fu segno, ma fu un gran male se non fu anche segno. Se fosse avvenuto ai nostri giorni, vedremmo i nostri contemporanei più rabbiosi di quel che gli uomini di allora videro i propri animali.

Le sedizioni dei Gracchi.
24. Inizio dei mali civili furono le sedizioni dei Gracchi suscitate dalle leggi agrarie. Volevano distribuire al popolo i terreni che la nobiltà possedeva illegalmente. Ma osare di eliminare una ingiustizia ormai vecchia fu molto pericoloso e, come il fatto dimostrò, veramente deleterio. Molte uccisioni furono eseguite quando fu ucciso il primo dei Gracchi; così pure quando, non molto tempo dopo, fu ucciso il fratello. Infatti tanto nobili che popolani venivano giustiziati non in base alle leggi e col mandato dei magistrati ma durante le turbolenze e nei conflitti armati. Dopo l'uccisione del secondo Gracco il console Lucio Opimio, che aveva incitato alle armi contro di lui la città, dopo averlo abbattuto e ucciso assieme ai compagni, ordinò una grande strage di cittadini. Avendo poi fra mano l'inchiesta e perseguendo gli altri gregari col processo giudiziario, ne fece condannare a morte, come si racconta, tremila 98. Si può congetturare il numero delle esecuzioni di un cieco conflitto armato se l'informazione dovuta alla procedura ha fornito un sì gran numero di sentenze. L'uccisore del Gracco ne vendette la testa al console avendo in cambio il peso corrispondente in oro. Era un contratto stipulato prima dell'eccidio. Fu ucciso in quel caso con i figli anche l'ex console Marco Fulvio.

Le dee Concordia e Discordia.
25. Con opportuna delibera del senato, nel luogo in cui avvenne il fatale tumulto, in cui tanti cittadini di qualsiasi classe caddero, fu eretto il tempio a Concordia, perché testimone della pena dei Gracchi, colpisse la vista dei comizianti e ne stimolasse la memoria. Ma costruire un tempio a quella dea fu unicamente uno scherno contro gli dèi. Sembra quasi che se fosse stata in città, questa non sarebbe andata in rovina benché disgregata da tanti dissensi. Ma forse Concordia, colpevole del delitto di avere abbandonato la coscienza dei cittadini, meritò di essere rinchiusa in quel tempio come in un carcere. E per quale motivo, se volevano adeguarsi ai fatti, in quel posto non costruirono un tempio a Discordia? E si può dare una ragione per cui la concordia è una dea e la discordia no, in maniera che secondo la distinzione di Labeone una sia buona, l'altra cattiva? Anche egli, come sembra, aveva questa opinione perché nota che a Roma era stato eretto il tempio tanto a Febbre che a Salute. Per lo stesso motivo doveva essere eretto non solo a Concordia ma anche a Discordia. I Romani dunque scelsero di vivere con grave rischio irritando una dea così malvagia e non ricordarono che la fine di Troia ebbe inizio con il suo sdegno. Non essendo stata invitata con gli altri dèi, suscitò col pretesto di una mela d'oro la lite di tre dee e da qui la rissa delle divinità, la vittoria di Venere, il rapimento di Elena e la distruzione di Troia. Pertanto se, eventualmente sdegnata perché a Roma non meritò di avere un tempio come gli altri dèi, turbava per questo la città con tante sommosse, è probabile che si sia sdegnata più aspramente nel vedere che nel luogo di quella strage, quanto dire della sua opera, era stato eretto un tempio alla sua rivale. I dotti e i sapienti masticano bile quando schernisco queste sciocche credenze. Prestando tuttavia il culto a divinità buone e cattive, non escono dal dilemma di Concordia e Discordia, sia che abbiano trascurato il culto a queste dee e abbiano loro preferito Febbre e Bellona, alle quali hanno costruito templi fin dall'antichità, sia che avessero adorato anche esse, perché quando si è allontanata Concordia, Discordia ha infierito trascinandoli fino alle guerre civili.

Le guerre civili, la guerra sociale e servile.
26. Pensarono dunque di porre davanti ai comizianti come eccellente salvaguardia dalle sommosse il tempio di Concordia, testimone della strage e del supplizio dei Gracchi. Quale profitto ne ricavarono lo indica il peggiorarsi degli avvenimenti che seguirono. In seguito gli oratori si affaticarono non ad evitare l'esempio dei Gracchi ma a superarne l'intento, come il tribuno della plebe Lucio Saturnino, il pretore Gaio Servilio e più tardi Marco Druso. In seguito alle loro sommosse si ebbero dapprima delle stragi fin d'allora gravissime e poi scoppiarono le guerre sociali. L'Italia ne fu spaventosamente danneggiata e ridotta in uno stato d'incredibile desolazione e spopolamento. Seguirono la guerra servile e le guerre civili. Si ebbero molti combattimenti, fu versato molto sangue, tanto che le popolazioni italiche da cui era rinvigorita la dominazione romana, furono trattate come barbari. Soltanto gli storiografi 99 poi sono riusciti ad esporre in che modo fosse preparata da pochissimi gladiatori, meno di settanta, la guerra servile, a qual numero giungessero gli insorti e come fossero decisi ed energici, quali condottieri del popolo romano gli insorti sconfiggessero e quali città e regioni devastassero e in che modo. E non fu la sola guerra servile. Gli schiavi devastarono anche la provincia della Macedonia e poi anche la Sicilia e il litorale. E chi, data la proporzione degli avvenimenti, potrebbe parlare delle tante e orribili razzie operate dai pirati e delle loro coraggiose guerre?

La guerra civile mariana.
27. Mario, già macchiato del sangue dei concittadini per averne uccisi molti del partito avverso, vinto a sua volta, era fuggito da Roma. La città respirò appena un po' quando, per usare le parole di Cicerone, vinse il partito di Cinna e Mario. In quella circostanza con l'uccisione di uomini illustri si spensero gli occhi della città. In seguito Silla punì la crudeltà di questa vittoria e non c'è bisogno di dire con quale diminuzione di cittadini e con quanto danno per lo Stato 100. Di questa vendetta, la quale fu più dannosa che se i delitti puniti fossero rimasti impuniti, ha detto Lucano: Il rimedio non rispettò la misura e andò troppo al di là del punto in cui le malattie guidarono la mano del medico. Morirono i colpevoli, ma perché soltanto altri colpevoli poterono sopravvivere. Fu data libertà agli odi e l'ira, sciolta dai freni delle leggi, infierì 101. Nella guerra civile fra Mario e Silla, senza considerare quelli che erano morti in combattimento, le strade, le piazze, i fori, i teatri, i templi nella città stessa erano pieni di cadaveri. Era difficile giudicare quando i vincitori avessero causato un numero più alto di morti, se prima per vincere o dopo perché avevano vinto. Dapprima con la vittoria di Mario, quando tornò dall'esilio, a parte le uccisioni avvenute dovunque, la testa del console Ottavio fu posta sui rostri, i Cesari furono uccisi da Fimbria nelle proprie case, i due Crassi, padre e figlio, furono sgozzati l'uno di fronte all'altro, Bebio e Numitorio trascinati con un arpione morirono spargendo gli intestini per la strada, Catulo si sottrasse alle mani dei nemici prendendo il veleno, Merula, flamine diale, tagliandosi le vene sacrificò a Giove col proprio sangue. Davanti agli occhi dello stesso Mario venivano uccisi cittadini soltanto se al loro saluto egli non porgeva loro la mano.

La guerra civile sullana.
28. La vittoria di Silla che seguì, quanto dire la punitrice della crudeltà di Mario, ottenuta col molto sangue dei cittadini già versato, pur essendo finita la guerra ma rimanendo le rivalità, proprio in periodo di pace infierì più crudelmente. Alle prime e alle ultime stragi del primo Mario se ne aggiunsero altre più gravi da parte di Mario il giovane e di Carbone del partito di Mario. Quando Silla stava per ritornare, costoro disperando non solo della vittoria ma anche della vita riempirono la città con altre loro carneficine. Infatti oltre la strage che si aveva da ogni parte, fu assediato il senato, e dalla curia, come se fosse un carcere, i senatori venivano condotti alla decapitazione. Il pontefice Muzio Scevola, sebbene niente per i Romani era più santo del tempio di Vesta, fu ucciso mentre abbracciava l'altare e spense quasi col proprio sangue il fuoco che ardeva perpetuamente per la continua sorveglianza delle vestali. Poi Silla entrò vincitore in città. Nella villa pubblica egli, giacché non la guerra ma la pace mieteva vittime, ne abbatté, non in combattimento ma con un ordine, ben settemila che si erano arresi e per questo anche inermi. In città poi qualsiasi partigiano di Silla poteva uccidere chi volesse. Per questo era assolutamente impossibile calcolare i morti fino a che non fu consigliato a Silla di lasciarne vivere alcuni perché si dessero individui a cui i vincitori potessero comandare. Fu frenata allora la furiosa licenza di ammazzare che impazzava dovunque e fu proposta con grande soddisfazione una tavola la quale conteneva duemila nomi di cittadini dell'una e dell'altra classe nobile, cioè equestre e senatoria, che dovevano essere uccisi e proscritti. Rattristava il numero ma consolava il limite al massacro, e la tristezza per il fatto che tanti dovevano morire era minore della gioia perché gli altri cessavano di temere. Tuttavia la loro tranquillità, per quanto crudele, si dolse profondamente dei raffinati sistemi di morte riservati ad alcuni di coloro che erano stati condannati a morte. Qualcuno fu sbranato dalle mani inermi dei carnefici, uomini che straziavano un uomo vivo con maggior efferatezza di quanto siano solite le belve con un cadavere trovato in terra. Un altro fu fatto vivere a lungo, o meglio morire a lungo fra grandi sofferenze perché gli avevano cavati gli occhi e amputate parti del corpo ad una ad una. Furono messe all'asta, come se fossero ville, alcune illustri città; la sorteggiata fu tutta condannata ad essere ammazzata come se si trattasse dell'esecuzione di un solo delinquente. I fatti avvennero in periodo di pace dopo la guerra, non per accelerare il conseguimento della vittoria ma per dare rilievo a quella già conseguita. La pace gareggiò con la guerra in crudeltà e vinse. La guerra abbatté uomini armati, la pace inermi. La guerra significava che chi poteva essere ucciso, poteva se gli riusciva, uccidere a sua volta; la pace non significava che chi era scampato vivesse ma che morendo non desse più fastidio.

Confronti con le guerre esterne.
29. Quale furore di genti straniere, quale crudeltà di barbari si può paragonare a questa vittoria di cittadini su concittadini? Che cosa ha visto Roma di più efferato, macabro e desolante, forse l'antico saccheggio dei Galli e il recente dei Goti o piuttosto la violenza di Mario e Silla e degli altri uomini eminenti nei rispettivi partiti? Fu come la violenza degli occhi di Roma contro le sue membra. I Galli uccisero i senatori dovunque li avessero trovati in tutta Roma, fuorché nella rocca del Campidoglio che comunque era la sola ad essere difesa. A coloro però che si trovavano su questo colle permisero per lo meno di riscattare la vita con l'oro; e sebbene non potessero toglierla con le armi, avrebbero potuto farla deperire con un lungo assedio. I Goti poi hanno risparmiato tanti senatori che farebbe meraviglia se ne hanno uccisi alcuni. Invece Silla, e Mario era ancora vivo, s'insediò come vincitore sul Campidoglio, che fu rispettato dai Galli, per decretare le carneficine; e quando Mario gli sfuggì per tornare più violento e sanguinario, egli dal Campidoglio, anche con delibera del senato, privò molti della vita e delle sostanze. Per i partigiani di Mario poi nell'assenza di Silla non vi fu alcun oggetto santo che risparmiassero se non risparmiarono neanche Muzio cittadino, senatore, pontefice, nell'atto che stringeva con disperato abbraccio l'altare stesso in cui erano, a sentir loro, i destini di Roma. L'ultima tavola di Silla inoltre, per non parlare di molte altre uccisioni, mandò a morte più senatori di quanti i Goti riuscirono a derubare.

Le altre guerre civili e fine di Cicerone.
30. Con quale fronte dunque, con quale coraggio, con quale improntitudine, con quale stoltezza o meglio pazzia non rinfacciano i fatti antichi ai loro dèi e rinfacciano i recenti al nostro Cristo? Le crudeli guerre civili, più dannose, per confessione anche dei loro scrittori, di tutte le guerre esterne, da cui, come è stato giudicato, lo Stato non solo fu colpito ma completamente rovinato, sono scoppiate prima della venuta di Cristo. Per una concatenazione di delitti si venne dalla guerra di Mario e Silla a quelle di Sertorio e di Catilina, il primo proscritto, l'altro protetto da Silla; poi a quella di Lepido e Catulo, dei quali uno voleva rescindere, l'altro approvare gli atti di Silla; poi a quella di Pompeo e Cesare. Pompeo era stato seguace di Silla ma ne aveva già eguagliato o anche superato il prestigio. Cesare non tollerava il prestigio di Pompeo perché ne era privo, ma lo superò dopo che l'altro fu sconfitto e ucciso. Da costoro le guerre civili passarono all'altro Cesare, detto in seguito Augusto. Il Cristo nacque mentre egli era imperatore. Lo stesso Augusto sostenne numerose guerre civili, durante le quali morirono molti uomini illustri fra cui anche Cicerone, l'eloquente statista. Avvenne che una congiura di alcuni nobili senatori uccise col pretesto della libertà politica Caio Cesare, vincitore di Pompeo, accusato di aspirare al regno. Egli comunque aveva usato con clemenza della vittoria civile e aveva donato vita e onori ai propri avversari. Parve allora che Antonio, ben diverso per moralità da Cesare e profondamente depravato in tutti i vizi, aspirasse ad ereditarne il prestigio. Cicerone gli resisteva vigorosamente per la libertà della patria. S'era fatto notare intanto come giovane di indole ammirevole, l'altro Cesare, figlio adottivo di Caio Cesare che, come ho detto, fu chiamato Augusto. Cicerone favoriva il giovane Cesare affinché si affermasse il suo prestigio contro Antonio. Sperava che rimossa e abbattuta la signoria di Antonio, l'altro avrebbe restituito la libertà politica. Ma era ciecamente imprevidente del futuro al punto che proprio quel giovane, di cui sosteneva la capacità nel governo, permise ad Antonio come per un tacito accordo di uccidere Cicerone stesso e sacrificò alla propria signoria quella libertà politica per cui il meschino aveva tanto gridato.

I cataclismi naturali.
31. I nostri avversari, che sono ingrati al nostro Cristo di beni tanto grandi, accusino i propri dèi di mali tanto grandi. È vero, quando si verificavano quei mali, gli altari delle divinità profumavano d'incenso d'Arabia e olezzavano di fresche ghirlande 102, splendevano le vesti sacerdotali, gli edifici sacri scintillavano, si sacrificava, si dava spettacolo, s'impazziva nei templi, anche se per ogni dove si versava da cittadini tanto sangue dei concittadini, non solo in altri luoghi ma perfino in mezzo agli altari degli dèi. Cicerone non scelse un tempio in cui rifugiarsi perché Muzio lo aveva scelto invano. Costoro invece, che tanto ingiustificatamente insultano la civiltà cristiana, o si rifugiarono negli edifici più illustri dedicati a Cristo o ve li condussero i barbari per salvarli. Io sono certo di una cosa e chiunque giudica senza partigianeria viene sicuramente d'accordo con me. Lascio da parte altri fatti perché molti ne ho citati e sono di più quelli sui quali ho ritenuto di non dovermi dilungare. Se il genere umano avesse ricevuto l'insegnamento cristiano prima delle guerre puniche e ne fosse seguita la grande catastrofe che attraverso quelle guerre desolò l'Europa e l'Africa, ognuno di questi che esercitano la nostra pazienza avrebbe attribuito tali sciagure soltanto alla religione cristiana. Ancora più insopportabili, per quanto riguarda i Romani, sarebbero le loro grida se al manifestarsi e diffondersi della religione cristiana avessero fatto seguito il saccheggio dei Galli, il disastro dell'inondazione del Tevere e dell'incendio, ovvero le guerre civili che sono il disastro più grande. E rinfaccerebbero sicuramente ai cristiani come colpe altre sventure che si verificarono contro ogni aspettativa tanto da essere considerati prodigi, se si fossero verificate ai tempi del cristianesimo. Ometto quei casi in cui si ebbe più del mirabile che del dannoso, come il fatto che buoi hanno parlato, che bimbi non ancor nati hanno gridato alcune parole dal grembo materno, che serpenti sono volati, che donne e galline sono divenute di sesso maschile e altri simili prodigi che si trovano nei loro libri, non poetici ma storici 103, e che, veri o falsi, non producono negli uomini danno ma stupefazione. Ma quando si ebbe una pioggia di terra o di sabbia o di pietre (non nel senso di grandine come talora si dice, ma proprio di pietre) 104, questi fenomeni poterono certamente recare danni anche gravi. Si legge negli scrittori che a causa delle lave dell'Etna, le quali dal vertice del monte colarono fino alla spiaggia, il mare si mise in ebollizione fino ad infuocare gli scogli e a sciogliere la pece delle navi 105. Il fenomeno non costituì un lieve danno, sebbene sia singolare fino all'inverosimile. Hanno scritto che in un'altra eruzione del vulcano la Sicilia fu invasa da tanta cenere da far crollare per il sovraccarico e il peso i tetti della città di Catania. I Romani mossi a compassione dal disastro per quell'anno le condonarono il tributo 106. Hanno scritto anche che il numero delle cavallette in Africa, quando era già provincia romana, ebbe del prodigioso; dicono che distrutte le frutta e la vegetazione si buttarono in mare in una nube enorme al di là di ogni calcolo. Lì morirono e furono restituite alla spiaggia. Essendo l'aria divenuta infetta scoppiò una così grave epidemia che, come si racconta, nel solo regno di Massinissa, morirono ottocentomila individui e molti di più nelle regioni vicine al mare 107. Assicurano che ad Utica delle trentamila reclute che vi erano ne rimasero diecimila. Dunque la superficialità, che dobbiamo tollerare e alla quale siamo costretti a rispondere, rinfaccerebbe ognuno di questi fatti alla religione cristiana se li riscontrasse ai tempi del cristianesimo. Eppure non li rinfacciano ai loro dèi, di cui vogliono ristabilito il culto per non subire questi mali per quanto minori, sebbene gli antichi politeisti ne abbiano subiti ben più gravi.