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Giovedi, 28 marzo 2024 - San Castore di Tarso ( Letture di oggi)

La città di Dio - libro Diciannovesimo: il fine del bene e la pace in Dio

Sant'Agostino d'Ippona

La città di Dio - libro Diciannovesimo: il fine del bene e la pace in Dio
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Il fine del bene e del male nel pensiero umano (1-9)


Le filosofie e il problema del fine ultimo. 1. 1. Osservo che in seguito dovrò trattare del destino proprio dell'una e dell'altra città, la terrena cioè e la celeste. Ma prima si devono esporre, per quanto lo richiede il criterio di rientrare nei limiti dell'opera, le dimostrazioni degli uomini che si sono affaccendati a costruire la felicità nell'infelicità di questa vita, in modo che la speranza, che Dio ci ha dato, si distingua dai loro vuoti ideali e il vero significato, cioè la felicità, che egli ci darà, sia evidenziato non soltanto con l'autorità divina ma anche con l'impiego del ragionamento che possiamo usare a favore di coloro che non credono. Del fine del bene e del male i filosofi hanno dibattuto nei loro rapporti i vari aspetti in vario modo. Discutendo il problema con la massima diligenza si sono sforzati di stabilire che cosa rende l'uomo felice 1. È fine del nostro bene quello per cui gli altri beni si devono desiderare ed esso per se stesso ed è fine del male quello per cui gli altri mali si devono evitare ed esso per se stesso. In questo modo diciamo fine del bene non là dove termina, sicché cesserebbe di essere, ma là dove raggiunge la compiutezza poiché ha la pienezza; allo stesso modo diciamo fine del male non dove cessa di essere, ma là dove conduce nel danneggiare. Questo fine è dunque il sommo bene e il sommo male. Nell'indagine del suo significato per raggiungere il sommo bene in questa vita e per evitare il sommo male, molto, come ho detto, si sono affaticati coloro che hanno atteso alla ricerca della sapienza nella vuota realtà di questo mondo. Tuttavia la delimitazione imposta dalla natura razionale non ha loro consentito di deviare dal cammino della verità al punto da non porre il fine del bene e del male, alcuni nell'animo, altri nel corpo, altri nell'uno e nell'altro. Da questa tripartita distribuzione di non specificate teorie, Marco Varrone nel libro La filosofia, dopo aver esaminato con diligenza ed acume la grande varietà di dottrine, nota che usando alcune disuguaglianze potrebbe giungere a duecentottantotto teorie, che non si sono ancora verificate ma potrebbero verificarsi.

In Varrone 4 obiettivi e 288 teorie possibili.
1. 2. Per chiarire in breve l'argomento, è opportuno che cominci dalla dottrina che egli ha ideato ed esposto nel libro citato. Dice che vi sono quattro obiettivi, cui gli uomini anelano quasi per istinto naturale, cioè senza precettore, senza l'apporto dell'istruzione, senza l'operosità e la norma del vivere che si chiama virtù e che certamente si apprende. Essi sono il piacere, da cui con diletto è stimolato l'organo del senso, la serenità con cui si ottiene che non si subisca alcun fastidio del corpo, l'uno e l'altro che con un unico termine Epicuro chiama piacere 2 e in genere gli impulsi primi di natura, nei quali si hanno queste esigenze e altre ancora, o nel corpo come l'integrità delle membra e la sua salute o incolumità, o nell'animo come sono le tendenze piccole e grandi che si costatano nel temperamento degli uomini. Dunque questi quattro obiettivi, cioè il piacere, la serenità, l'uno e l'altra e i bisogni più essenziali della natura sono in noi in modo che la virtù, che in seguito l'educazione inculca, si deve desiderare per essi o essi per la virtù o gli uni e gli altri per se stessi. Ne derivano già dodici sistemi giacché con questo metodo ogni settore è triplicato. Se lo rileverò in una, non sarà difficile reperirlo nelle altre. Infatti il piacere del corpo o viene subordinato alla virtù dell'animo o gli è anteposto o associato, quindi è diverso nella tripartita distribuzione dei sistemi. Viene subordinato alla virtù quando è impiegato a favore della virtù. Appartiene infatti a un dovere della virtù vivere per la patria e procreare figli a favore della patria, ma nessuno di questi doveri si può compiere senza il piacere sensibile, perché senza di esso non si consumano per vivere cibo e bevanda né si ha l'accoppiamento affinché si accresca la figliolanza. Quando invece il piacere si antepone alla virtù, esso si appetisce per se stesso e si ritiene che la virtù sia da praticare per esso, nel senso che la virtù produce soltanto l'effetto di ottenere e conservare il piacere sensibile. Tale comportamento è disonorevole perché se la virtù è subordinata al piacere che la domina, non si deve in alcun senso considerare virtù. Tuttavia anche questo detestabile sconcio ha avuto alcuni filosofi come promotori e difensori 3. Il piacere poi si congiunge alla virtù quando non si appetiscono l'uno per l'altra ma l'uno e l'altra per se stessi. Perciò come il piacere o subordinato o preferito o congiunto alla virtù dà origine a tre teorie, così si deduce che la serenità, l'una e l'altro e i bisogni essenziali della vita costituiscono ciascuno tre teorie. Conseguentemente secondo la diversità delle opinioni umane, in alcune questi princìpi sono subordinati alla virtù, in altre preferiti, in altre congiunti e così si giunge a dodici teorie. Ma anche questo numero viene raddoppiato con l'aggiunta di una differenza, cioè della vita associata, poiché chi segue qualcuna di queste dodici teorie o lo fa soltanto per sé o anche per il collega, al quale deve volere il bene che vuole per sé. Perciò vi sono dodici teorie di coloro che ritengono di dover seguire l'una o l'altra soltanto per sé, e altre dodici di coloro, i quali stabiliscono che si deve filosofare in un modo o nell'altro, non soltanto per sé ma anche per gli altri di cui desiderano un bene come il proprio. Queste ventiquattro teorie si duplicano ancora una volta con l'aggiunta delle differenze derivanti dai nuovi accademici e divengono quarantotto. Uno infatti può sostenere e cercare di dimostrare evidente l'una e l'altra di quelle ventiquattro teorie, come cercarono di dimostrare gli stoici che il bene dell'uomo, con cui esser felice, consiste soltanto nei valori dello spirito. Un altro invece può considerare non evidente la teoria, come cercarono di dimostrare i nuovi accademici, poiché ad essi, quantunque non evidente, sembrava probabile. Dunque divengono ventiquattro teorie da parte di coloro che le considerano evidenti a causa della verità, e altre ventiquattro da parte di coloro che, quantunque non evidenti nella verità, pensano di sostenerle a causa della probabilità. Ancora, poiché un tale può seguire l'una o l'altra di queste quarantotto teorie secondo il modo di pensare degli altri filosofi, e un altro secondo il modo di pensare dei cinici, anche da queste diversità le teorie si raddoppiano e diventano novantasei. Inoltre gli uomini possono sostenere e seguire ognuna di esse o per potenziare la vita dedita agli studi, come coloro che hanno voluto e potuto attendere soltanto agli ideali della cultura, ovvero la vita dedita alle attività, come quelli che, sebbene studiassero filosofia, erano molto occupati nell'amministrazione dello Stato o nel regolare gli affari, ovvero organizzata nell'uno e nell'altro settore, come coloro che hanno assegnato intervalli di tempo della propria vita in parte alla libera occupazione degli studi e in parte ad un'attività vincolante. Quindi a causa di queste diversità si può triplicare il numero delle teorie ed estenderlo fino a duecentottantotto.

Il fine ultimo negli Accademici e nei Cinici.
1. 3. Ho desunto questi concetti dal libro di Varrone esponendo con concisione e chiarezza, per quanto mi è stato possibile, i suoi pensieri con parole mie. Sarebbe lungo dimostrare in qual senso, rifiutate le altre teorie, ne scelga una che, a suo avviso, è quella dei vecchi accademici. Egli vuol fare apparire che essi, addottrinati da Platone, professarono dottrine evidenti fino a Polemone che, quarto dopo di lui, resse la scuola la quale fu denominata Accademia. Per questo la distingue dai nuovi accademici per i quali tutte le conoscenze sono prive di evidenza. È un modo di fare filosofia che la scuola ha derivato da Arcesila, successore di Polemone 4. Sarebbe lungo dimostrare esaurientemente che anche quella teoria, cioè dei vecchi accademici, come dal dubbio, così sia immune da ogni errore. Tuttavia l'assunto non si deve tralasciare completamente. Quindi Varrone elimina tutte quelle varianti, che hanno moltiplicato il numero delle teorie, e pensa appunto che si devono eliminare perché non v'è in esse il fine del bene. Ritiene infatti che non si può considerare teoria filosofica se non si differenzia dalle altre nello stabilire un fine diverso del bene e del male. Se infatti non v'è per l'uomo altra ragione del filosofare che essere felice, ciò che lo rende felice è il fine del bene; quindi sola ragione del filosofare è il fine del bene. Perciò non è teoria della filosofia se non è teoria del fine del bene. Si può dunque porre il problema della vita associata, se dev'essere seguita dal saggio, in modo che voglia e provveda il sommo bene, con cui si diviene felici, dell'amico come il proprio, ovvero che in ogni azione agisca soltanto per la propria felicità. Nella fattispecie non v'è il problema del sommo bene ma dell'associare o non associare un compagno alla partecipazione di questo bene, non per la propria persona ma per il compagno, in modo da godere del suo bene come del proprio. Così riguardo ai nuovi accademici, per i quali non vi sono verità evidenti, si pone il problema se i princìpi, in base ai quali si deve filosofare, si devono considerare così, ovvero, come è sembrato opportuno ad altri filosofi, dobbiamo considerarli evidenti. Quindi non si pone il problema se si deve perseguire il fine del bene, ma se si deve dubitare o no sulla verità dello stesso bene che sembra si debba perseguire: cioè, per parlar più chiaramente, se si deve perseguire in maniera che chi lo persegue dica che è vero, ovvero così che chi lo persegue dica che gli sembra vero, sebbene eventualmente sia falso, tuttavia l'uno e l'altro perseguano un solo medesimo bene. Dalla differenza, che si verifica dal contegno e dall'abituale modo di vivere dei cinici non si pone il problema di quale sia il fine del bene, ma se in quel contegno e abituale modo di vivere si deve vivere da chi persegue il bene, qualunque sia il vero da perseguire. In seguito vi furono coloro i quali, sebbene perseguissero diversi beni finali, altri la virtù, altri il piacere, conservavano tuttavia il medesimo contegno e il medesimo abituale modo di vivere, da cui si denominavano cinici. Dunque, qualunque sia il criterio per cui i filosofi cinici si distinguono dagli altri, non valeva assolutamente nulla per scegliere e praticare il bene con cui essere felici. Se infatti vi fosse una differenza, certamente il medesimo contegno costringerebbe a perseguire il medesimo fine e un diverso contegno non lascerebbe raggiungere il medesimo fine.

Da 288 ipotesi a 3 come cominciamento.
2. Anche in relazione ai tre sistemi di vita: uno libero da occupazioni non per pigrizia ma nell'esame attento o nella ricerca della verità, l'altro intento all'amministrazione degli affari, il terzo combinato con l'uno e con l'altro tipo, quando si pone il problema quale dei tre si deve scegliere, non è in discussione il fine del bene ma nel problema si tiene presente quale dei tre procuri impedimento o agevolazione nel conseguire o conservare il fine del bene. Il fine del bene, quando vi si giunge, rende immediatamente felici; invece nel libero esercizio della cultura o nella pubblica occupazione o quando si compie alternativamente l'uno e l'altra non si è senz'altro felici. Molti individui possono vivere in uno di questi tre tipi ed errare nel ricercare il fine del bene con cui l'uomo diviene felice. Dunque il problema del fine del bene e del male, che fonda ogni teoria filosofica, è diverso dal problema sulla vita associata, sul probabilismo degli accademici, sul modo di vestire e di mangiare dei cinici, sui tre tipi di vita, libero da impegni, attivo e combinato dell'uno e dell'altro. Difatti in nessuno di essi si discute del fine del bene e del male. Marco Varrone, adoperando queste quattro varianti, cioè della vita associata, dei nuovi accademici, dei cinici e della tripartizione del tipo di vita è giunto alle duecentottantotto teorie ed altre che possono ugualmente aggiungersi. Eliminandole tutte, perché non introducono alcun problema sul raggiungimento del sommo bene e quindi non si debbono considerare teorie, ritorna a quelle dodici con le quali si pone il problema di quale sia il bene dell'uomo perché, conseguitolo, egli si rende felice, per dimostrare che una è vera, le altre false. Infatti, eliminata la tripartizione del tipo di vita, due terzi del numero si detraggono e rimangono novantasei teorie. Eliminata anche la variante dai cinici, le aggiunte si riducono a metà e divengono quarantotto. Eliminiamo anche ciò che è stato rilevato dai nuovi accademici, di nuovo ne rimane una metà, cioè ventiquattro. Si tolga ugualmente ciò che era stato aggiunto dalla vita associata, le rimanenti sono dodici che la variante suddetta aveva raddoppiato perché divenissero ventiquattro. Di queste dodici non si può affermare affatto che non siano considerate teorie. In esse infatti non v'è altro problema che il fine del bene e del male. Stabilito il fine del bene, all'opposto certamente si ha il fine del male. Affinché esse divengano dodici teorie sono triplicati i quattro princìpi: il piacere, la serenità, l'uno e l'altro e gli impulsi primi di natura che Varrone definisce originari. Questi quattro obiettivi talvolta singolarmente vengono subordinati alla virtù, nel senso che non si perseguono per se stessi, ma a causa dell'imperativo della virtù; talora si antepongono, sicché si ritiene necessaria la virtù non per se stessa, ma per conseguire e conservare questi obiettivi; talvolta si congiungono in modo da reputare che per se stessi si perseguano la virtù ed essi. Quindi moltiplicano per tre il numero quattro e giungono a dodici teorie. Dei quattro obiettivi Varrone ne elimina tre: cioè il piacere, la serenità e l'uno e l'altra, non perché li disapprovi, ma perché gli impulsi originari di natura contengono anche il piacere e la serenità. Non v'è bisogno quindi di questi due obiettivi farne tre, cioè due, quando separatamente si perseguono il piacere e la serenità, e un terzo quando si perseguono insieme, poiché gli impulsi originari di natura li includono e molti altri oltre essi. Quindi Varrone decide di dover indagare diligentemente quale delle tre teorie si deve preferire. Un ragionamento genuino non consente che siano più di una, sia essa in queste tre o in un'altra teoria. Lo vedremo in seguito. Frattanto esaminiamo, il più brevemente e chiaramente possibile, in qual senso Varrone ne scelga una sola delle tre. Infatti queste tre teorie si delineano appunto perché gli impulsi originari di natura si devono perseguire per la virtù o la virtù per gli impulsi originari o l'una e gli altri, cioè la virtù e gli impulsi originari di natura, per se stessi.

Gli impulsi originari e le virtú.
3. 1. Varrone tenta di stabilire con evidenza quale dei tre obiettivi si debba perseguire come vero con il seguente procedimento. Prima di tutto egli ritiene che si deve esaminare che cos'è l'uomo perché in filosofia non si pone il problema del bene della pianta, dell'animale, di Dio, ma dell'uomo. Ritiene infatti come certo che due princìpi sono nella sua natura, il corpo e l'anima, e non pone in discussione che dei due l'anima è più perfetta e di gran lunga più elevata. Ipotizza invece se l'uomo sia soltanto l'anima in modo che il corpo sia come il cavallo per il cavaliere, poiché cavaliere non è l'uomo e il cavallo, ma soltanto l'uomo, e si chiama appunto cavaliere perché in qualche modo è in rapporto col cavallo; ipotizza inoltre se l'uomo sia soltanto corpo in quanto è in rapporto con l'anima come il bicchiere con la bevanda; infatti non si considera bicchiere unitamente la coppa e la bevanda che la coppa contiene, ma soltanto la coppa perché è commisurata a contenere la bevanda; e ancora che non l'anima o il corpo soltanto ma che l'una e l'altro insieme sono l'uomo e che una parte sono tanto l'anima che il corpo ed egli, per essere uomo come un tutto, risulti delle due parti, allo stesso modo che consideriamo biga due cavalli accoppiati, di cui sia quello di destra che quello di sinistra è parte della biga e non consideriamo biga uno solo di loro, comunque sia rapportato all'altro, ma l'uno e l'altro insieme. Delle tre ipotesi ha scelto la terza e ritiene che l'uomo non è soltanto anima o soltanto corpo, ma unitamente anima e corpo. Quindi afferma che il sommo bene dell'uomo, con cui diviene felice, risulta dall'una e dall'altra componente, dall'anima cioè e dal corpo. Perciò decide che per se stessi si devono perseguire gli impulsi primi di natura e la virtù stessa che l'educazione aggiunge come arte del vivere e che fra i suoi beni spirituali è il bene più alto. La medesima virtù, cioè l'arte del regolare la vita, quando accoglie in sé gli impulsi originari di natura, i quali preesistevano ad essa, ma esistevano anche quando mancava loro l'educazione, li persegue tutti per se stessi ma insieme se stessa e di tutti e di se stessa si vale al fine di sentire diletto e appagamento da tutti più o meno secondo che sono più o meno nobili. Gode tuttavia di tutti e tralascia, se la circostanza lo richiede, i beni meno elevati per ottenere e conservare i più elevati. Ma la virtù non antepone a se stessa nulla dei beni dell'anima e del corpo. Essa usa bene di se stessa e degli altri beni che rendono l'uomo felice. Dove essa non è, sebbene vi siano molti beni, non vi sono per il bene di colui che li ha e perciò non si possono considerare un bene per lui perché, se ne usa male, non possono essergli utili. Dunque la vita dell'uomo, regolata in modo che provi l'appagamento dalla virtù e dagli altri beni dell'anima e del corpo, senza di cui non si può avere la virtù, è considerata felice; più felice se prova l'appagamento anche da altri beni, alcuni o più, senza dei quali si può avere la virtù, molto felice se da tutti i beni, in modo che non gli manchi alcun bene dell'anima o del corpo. Quindi non è la medesima cosa la vita e la virtù, perché non qualsiasi vita ma la vita saggia è virtù, e tuttavia vi può essere qualsiasi vita senza la virtù, ma non vi può essere virtù senza la vita. Direi questo anche della memoria e della ragione e di ogni facoltà simile nell'uomo. Si hanno infatti anche prima dell'educazione, ma senza di esse non si può avere l'educazione e quindi neanche la virtù, alla quale si è educati. Correre velocemente, esser bello di corpo, avere il sopravvento per vigorose energie e altri simili pregi sono tali che la virtù si può avere senza di essi ed essi senza la virtù. Tuttavia sono un bene e secondo gli accademici la virtù li ama per se stessi, li utilizza e se ne appaga come conviene alla virtù 5.

Noi e gli altri nel fine del bene e del male.
3. 2. Affermano che nell'uomo la vita felice è anche comunitaria perché ama il bene e gli amici per se stesso come ama il proprio e lo vuole loro per loro come per sé, tanto se sono in casa come la moglie, i figli e i familiari in genere, sia nel luogo dove v'è la sua casa, come la città e quelli che sono chiamati cittadini o in tutto il globo terrestre, come sono i popoli che a lui congiunge l'umana solidarietà, o nell'universo, che è indicato col nome di cielo e terra, come, a loro avviso, sono gli dèi che, secondo loro, sono amici dell'uomo saggio e che noi abitualmente chiamiamo angeli. Affermano che in nessun modo si deve dubitare del fine del bene e del male e che è questa la distinzione tra loro e i nuovi accademici e che non fa differenza se su questo fine, che reputano evidente, si fa filosofia col modo di vestire e di mangiare dei cinici o con un altro qualsiasi. Affermano inoltre che dei tre tipi di vita, dedito agli studi, agli affari e che risulta dall'unione dei due, a loro va a genio il terzo. Varrone afferma, sulla garanzia di Antioco, maestro di Cicerone e suo, che i vecchi accademici hanno ritenuto e insegnato così, sebbene Cicerone vuol fare apparire che in molti punti fu piuttosto stoico che vecchio accademico. Ma che cosa importa a noi, che dobbiamo giudicare i contenuti, anziché conoscere come importante sugli uomini ciò che ciascuno ha opinato?

Il vero fine è in Dio mediante la fede.
4. 1. Se dunque ci si chiede che cosa risponda la città di Dio, interrogata su questi argomenti ad uno ad uno, e prima di tutto che cosa pensi sul fine del bene e del male, essa risponderà che il sommo bene è la vita eterna, il sommo male la morte eterna e che quindi per conseguire la prima ed evitare la seconda si deve vivere onestamente. E per questo è scritto: Il giusto vive di fede 6. Difatti non abbiamo ancora esperienza del nostro bene, perciò è indispensabile che lo cerchiamo credendo ed anche il vivere onestamente non proviene a noi da noi se non ci aiuta nel credere e nel pregare colui che ci ha dato la fede stessa con cui credere che dobbiamo essere da lui aiutati. Vollero invece esser felici in questo mondo e con incredibile leggerezza rendersi felici da sé coloro i quali ritennero che il fine del bene e del male è in questa vita perché stabilirono il sommo bene o nel corpo o nell'anima o in entrambi e, per esprimersi più diffusamente, o nel piacere o nella virtù o in entrambi, oppure nella serenità o nella virtù o in entrambi, oppure nel piacere assieme alla serenità o nella virtù o in entrambe, oppure negli impulsi originari di natura o nella virtù o in entrambi. Li ha scherniti la Verità nel profeta il quale dice: Il Signore conosce i pensieri degli uomini 7, o, come ha interpretato l'apostolo Paolo tale attestazione: Il Signore conosce i pensieri dei sapienti perché sono vani 8.

Vita irriflessa e controllo.
4. 2. Chi infatti è capace, sia pure con un fiume d'eloquenza, di evidenziare le sofferenze di questa vita? Se ne lamentò, come gli fu possibile, Cicerone nel libro La consolazione per la morte della figlia; ma quanto è ciò che ha potuto?. Quando, dove, come è possibile che i così detti impulsi originari di natura si realizzino così bene in questa vita da non declassarsi nella eventualità? Infatti quale dolore contrario al piacere, quale pena contraria alla serenità può non cadere sul corpo del saggio? Certamente l'amputazione o l'impotenza di una parte del corpo abbatte la piena efficienza dell'uomo, l'imperfezione nega l'avvenenza, la cagionevolezza la salute, la stanchezza le forze, l'intorpidimento e la lentezza l'agilità; e quale di questi può non piombare sull'organismo del saggio? La posizione e movimento, quando sono convenienti e appropriati, si annoverano fra gli impulsi primi di natura; ma che succede se un qualche malanno scuote le membra con un tremito? Che cosa avviene se la spina dorsale è curvata fino a costringere le mani al suolo e in qualche modo rende quadrupede l'uomo? Turberebbe la grazia e dignità del conferire posizione e movenza al corpo. Che cosa dire di quelli che sono considerati beni originari dell'animo, fra i quali come primi due rassegnano per la rappresentazione e l'apprendimento della verità il senso e l'intelletto? Ma di quale natura e in qual misura rimane il senso se, per tacere delle altre facoltà, l'uomo divenisse sordo e cieco? E a qual punto si alieneranno ragione e intelligenza qualora si offuscassero se pur per una qualche malattia divenisse pazzo? Quando i pazzi furiosi dicono e compiono parole e azioni assurde, spesso disdicevoli alla loro buona intenzione e comportamento, anzi contrarie alla loro buona intenzione e comportamento, sia che vi pensiamo o che li vediamo, se vi riflettiamo seriamente, a mala pena possiamo trattenere le lacrime o forse neanche lo possiamo. Che dire di quelli che subiscono invasioni dei demoni? Dove hanno la propria intelligenza oppressa e travolta se lo spirito maligno usa secondo la propria volontà della loro anima e corpo? E non ci si può illudere che un simile malanno in questa vita non può colpire il sapiente. Poi di qual tenore e ampiezza è l'apprendimento della cultura in questo corpo mortale? Leggiamo nel veritiero libro della Sapienza: Il corpo corruttibile appesantisce l'anima e l'esperienza terrena affanna il pensiero che recepisce molte immagini 9. V'è inoltre la spinta o stimolo dell'agire, se in questi termini giustamente si traduce in latino quelle spinte che i Greci chiamano , poiché anche essi l'assegnano ai beni primi di natura. Ed è proprio questa spinta con cui, quando è sconvolta la mente e offuscata la coscienza, si compiono movimenti e gesti degni di pietà che ci fanno rabbrividire.

Conflitto fra la virtú della temperanza e gli impulsi, quindi non fine.
4. 3. C'è poi la virtù, che non è fra gli impulsi primi di natura, poiché si aggiunge in seguito con la mediazione della educazione quando si aggiudica la perfezione dei beni umani. Ma che cosa consegue essa se non lotte continue con le imperfezioni non fisiche ma spirituali, non di altri ma nostre e personali, soprattutto quella virtù che in greco si chiama , in latino "temperanza", con cui si frenano le passioni della carne affinché non conducano la coscienza a consentire ad ogni azione disonesta? 10. Poiché, come dice l'Apostolo, la carne ha desideri contrari allo spirito, non v'è imperfezione a cui non sia contraria una virtù poiché, come dice ancora l'Apostolo, lo spirito ha desideri contrari alla carne. Ed essi, soggiunge, si ostacolano a vicenda sicché non fate quel che vorreste 11. E noi, quando vogliamo essere perfetti nel fine del sommo bene, non vogliamo altro che la carne non abbia desideri contro lo spirito e che in noi non vi sia questa imperfezione contro cui lo spirito abbia desideri. In questa vita, sebbene lo vogliamo, poiché non siamo in grado di ottenerlo, per lo meno otteniamo con l'aiuto di Dio di non arrenderci con lo spirito fiaccato alla carne, che ha desideri contro lo spirito, e di non essere indotti a commettere il peccato col nostro consenso. Non deve avvenire dunque che in questo dissidio interiore ci illudiamo di aver raggiunto la felicità alla quale intendiamo giungere vincendo. E nessuno è saggio al punto di non avvertire per nulla il conflitto contro il piacere immoderato.

Il fine ultimo nel confronto a prudenza, giustizia, fortezza.
4. 4. E che cosa ottiene la virtù che si chiama prudenza? Essa con la sua grande accortezza distingue il bene dal male, affinché nel compiere l'uno ed evitare l'altro non s'insinui l'errore e perciò anch'essa comprova che noi siamo nel male o che il male è in noi. Insegna appunto che il male è consentire al piacere immoderato per peccare e che il bene è non consentirgli per non peccare. E la temperanza ottiene che non si consenta al male al quale la prudenza c'insegna a non consentire, tuttavia né la prudenza né la temperanza lo eliminano da questa vita. Compito della giustizia è assegnare a ciascuno il suo. Ne consegue un giusto ordine naturale in modo che l'anima sia sottomessa a Dio e il corpo all'anima e perciò l'anima e il corpo a Dio. Fa notare perciò che ancora attende a questa funzione anziché serenarsi nel fine di tale funzione. L'anima è tanto meno sottomessa a Dio quanto meno accoglie Dio nei suoi pensieri e tanto meno il corpo è sottomesso all'anima quanto più accoglie desideri contro lo spirito. Finché dunque rimangono in noi questa mollezza, questo contagio, questo sfinimento, come oseremo considerarci già sani e se ancora non sani, come già felici di quella felicità che è nel fine? La virtù che ha nome fortezza, sia pure in una grande saggezza, è testimone irrefutabile dei mali umani che essa è costretta a sopportare con la rassegnazione. Mi stupisco della sfrontatezza con la quale i filosofi stoici sostengono che questi mali non sono mali perché ammettono che da essi, se sono tanto grandi che il saggio non li possa o non li debba sopportare, egli è costretto a infliggersi la morte e uscire da questa vita. È grande l'insensatezza dell'orgoglio in questi individui che pongono nella vita presente il fine del bene e che pensano di rendersi felici da se stessi. Infatti il loro saggio, come essi con sorprendente millanteria lo delineano, anche se diviene cieco, sordo e muto, sia fiaccato nell'organismo e affranto dai dolori e se un qualche altro di simili mali che dire o pensar si possa gli piombi addosso, per cui sia costretto a infliggersi la morte, non deve evitare di considerare felice questa vita sebbene afflitta da questi mali. O vita felice che, per essere finalizzata, chiede aiuto alla morte! Se è felice si persista in essa. In qual senso questi non sono mali, se debellano il bene della fortezza e costringono la fortezza stessa non solo ad arrendersi a loro, ma anche a vaneggiare al punto che essa considera felice la vita e induce ad abbandonarla? Non si può essere tanto ciechi da non avvertire che, se fosse felice, non dovrebbe essere abbandonata. Ma con un chiaro accenno di sofferenza ammettono che si deve abbandonare. Non v'è ragione dunque, una volta fiaccata l'alterezza della presunzione, non ammettere che è infelice. E, per piacere, il celebre Catone si è suicidato per sopportazione o insopportazione? Non l'avrebbe fatto se non avesse accolto con insofferenza la vittoria di Cesare. Dov'è la fortezza? In realtà si arrese, si afflosciò, fu sconfitta al punto da abbandonare, rinunziare, fuggire una vita felice. Ma non era già felice? Era dunque infelice. Dunque erano mali se rendevano la vita infelice tanto da evaderne.

Incongruenza in proposito dell'Accademia e del Peripato.
4. 5. Perciò anche coloro i quali hanno ammesso che queste condizioni sono un male, come i peripatetici e i vecchi accademici, di cui Varrone sostiene la teoria, si esprimono in forma più accettabile, ma anche il loro errore desta sorpresa. La vita è felice, sostengono, nonostante questi mali, sebbene siano tanto gravi e da schivare con la morte irrogata a se stesso da colui che li subisce. I dolori strazianti del corpo, dice Varrone, sono un male e tanto più grave in quanto potrebbero aggravarsi; per liberarsene si deve uscire da questa vita. Da quale, prego? Da questa, dice, perché è tormentata da tanti mali 12. Senz'altro dunque è felice negli stessi mali per i quali affermi che si deve fuggire? Ovvero la consideri felice perché ti è permesso di sfuggire da quei mali con la morte? E che diresti se per un giudizio divino fossi irretito in essi, non ti fosse permesso di morire e mai ti fosse consentito di liberartene? In tal caso veramente considereresti infelice una tal vita. Dunque non è infelice per il fatto che si lascia subito. Difatti se fosse eterna, anche da te sarebbe giudicata infelice e non perché è breve deve sembrare che non sia infelicità ovvero, ed è più assurdo, poiché è un'infelicità breve, che si possa considerare felicità. V'è un grande potere in questi mali perché inducono un uomo saggio secondo i filosofi a togliersi quel principio per cui è uomo. Dicono infatti, e dicono il vero, che questo è il primo e più grande richiamo della natura che l'uomo sia in armonia con se stesso, perciò fugga la morte per istinto naturale, così amico di sé da volere con ardore e bramare di essere una creatura animata e di vivere nell'unione di anima e corpo 13. V'è un grande potere in questi mali perché con essi è sopraffatto codesto sentimento naturale, per cui in ogni modo con tutte le forze e tentativi si evita la morte, ed è così sopraffatto che la morte che si evitava è scelta desiderata e se non sopraggiungesse da altra parte verrebbe irrogata personalmente dall'individuo stesso. V'è un grande potere in questi mali che rendono omicida la fortezza, se tuttavia si deve ancora considerare fortezza. Difatti essa è talmente sopraffatta da questi mali che non solo non può con la sopportazione difendere l'uomo, che in quanto virtù ha accolto per guidarlo e proteggerlo, ma che inoltre essa stessa è costretta ad uccidere. Certamente il saggio deve accettare pazientemente anche la morte, ma che proviene da un'altra causa. Ma se, stando a costoro, uno è costretto a infliggersela, si deve anche ammettere che non si tratta soltanto di mali ma di mali intollerabili, perché lo costringono a compiere una simile azione. Quindi una vita che è afflitta dal peso o soggiace all'eventualità di mali tanto grandi e tanto gravi, non sarebbe affatto considerata felice se gli individui, i quali la pensano così, allo stesso modo che, sopraffatti da mali sempre più gravi, si arrendono alla sfortuna quando si irrogano la morte, così soggiogati da determinate riflessioni degnassero di arrendersi alla verità quando cercano la vera felicità. Non devono cioè pensare per sé che si può godere del fine del sommo bene nell'attuale soggezione alla morte perché in questa condizione le virtù stesse, di cui attualmente nell'uomo non si riscontra valore più nobile e vantaggioso, quanto sono un aiuto più valido contro la violenza del pericolo, travaglio e sofferenza, tanto sono più attendibili testimonianze dell'infelicità. Se infatti sono vere virtù, e non possono esserlo se non in coloro in cui è un vero sentimento religioso, non pretendono di ottenere che non soggiacciano alle condizioni d'infelicità gli uomini che le hanno. Le virtù vere non sono ingannevoli, quindi non lo pretendono. Ma fanno sì che la vita umana, la quale è condizionata ad essere infelice per i tanti e grandi mali di questo mondo, allo stesso modo che è immune da morte, sia felice nella speranza dell'aldilà. Non potrebbe essere felice se non fosse immune dalla morte. Quindi l'apostolo Paolo, non degli uomini privi di prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, ma di quelli che vivano secondo il vero sentimento religioso e abbiano quindi vere le virtù che hanno, dice: Nella speranza siamo diventati liberi dalla morte. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con fortezza 14. Come dunque nella speranza siamo diventati liberi dalla morte, così nella speranza siamo diventati felici e non abbiamo in atto la liberazione dalla morte e la felicità ma le attendiamo nel futuro e questo mediante la fortezza. Siamo appunto nei mali che dobbiamo sopportare con fortezza fino a che giungiamo a quei beni, nei quali vi sarà tutto ciò da cui siamo resi felici in maniera ineffabile e nulla che dobbiamo ancora sopportare. E la libertà dalla morte, che vi sarà nell'aldilà, sarà anche la felicità finale. E poiché i filosofi suddetti non vogliono credere a questa felicità perché non la sperimentano, tentano di conquistarne una assai falsa con una virtù tanto più superba quanto più illusoria.

Crisi dei rapporti familiari...
5. Essi sostengono che la vita dell'uomo saggio è socievole, noi lo ammettiamo con significato più ampio. Infatti questa città di Dio, sulla quale noi ormai rigiriamo fra mano il libro diciannovesimo dell'opera, da dove inizierebbe all'origine o continuerebbe nell'evolversi o raggiungerebbe il fine dovuto se la vita dei credenti non fosse socievole? Ma non si può calcolare di quanti e quanto gravi mali sovrabbondi l'umana società nell'angoscia di questa soggezione alla morte. Non si è capaci di valutarli. Ascoltino dai loro commediografi un individuo che col modo di pensare e consenso di tutti dice: Ho preso moglie, che pena ho provato! Sono nati i figli, altro affanno 15. Parimenti le umane condizioni hanno in ogni caso incontrato quelle manchevolezze che il citato Terenzio richiama alla memoria: Ingiustizie, diffidenze, inimicizie, lotta e di nuovo la pace 16. Tali contrasti hanno coinvolto tutti gli avvenimenti umani e si verificano spesso anche negli onesti affetti degli amici, ne sono ripieni gli avvenimenti umani in ogni fatto in cui sperimentiamo come mali indiscutibili ingiustizie, diffidenze, inimicizie, lotta; la pace invece come un bene incerto, perché non conosciamo il cuore di coloro con i quali vogliamo conservarla e se oggi possiamo conoscerlo, non sappiamo certamente come sarà domani. E quali individui sono soliti o devono essere più amici fra di loro che quelli i quali convivono nella medesima casa? Eppure nessuno è sicuro di questo fatto, dato che spesso dalle loro malignità nascoste possono emergere mali tanto più spiacevoli quanto più piacevole fu la pace che fu creduta vera, mentre era molto astutamente simulata. Perciò tocca il cuore di tutti tanto da costringere al lamento ciò che dice Cicerone: Non v'è inganno più nascosto di quello che si cela nel pretesto del dovere o in un certo orpello del vincolo naturale. Tu infatti, stando in guardia, puoi agevolmente schivare colui che ti è ostile, ma questo male nascosto di casa e di famiglia non solo avviene ma angustia prima che tu possa scorgerlo e verificarlo 17. Per questo con grande afflizione si ascolta la parola del Signore: Nemici dell'uomo sono quelli della sua casa 18. Difatti anche se un individuo è tanto forte da sopportare con animo sereno o tanto accorto da schivare con preveggente perspicacia i tranelli che una finta amicizia prepara contro di lui, è indispensabile che egli sia gravemente afflitto dalla perversità di quegli uomini sleali quando sperimenta, se egli è buono, che essi sono pessimi tanto se sono stati sempre cattivi e si sono atteggiati a buoni, come se sono passati dalla bontà a simile malvagità. Se dunque la casa, asilo comune in questi mali del genere umano, non è sicura, che dire della città? Essa infatti, quanto è più grande, tanto il suo tribunale è più gremito da cause civili e criminali, anche se mancano le agitazioni sovversive e assai spesso sanguinose e le guerre civili. E sebbene talora le città siano libere dalle loro vicissitudini, mai lo sono dalla minaccia.

... civili, soprattutto nei processi...
6. Quali pensiamo che siano i processi giudiziari degli uomini sugli uomini, giacché non possono mancare negli Stati che persistono in una pace per grande che sia, e quanto siano meschini e deplorevoli? Difatti quelli che giudicano non possono scorgere la coscienza di coloro sui quali giudicano. Quindi spesso sono costretti a scoprire la verità riguardante un altro processo con la tortura di testimoni innocenti. E che dire quando un tale subisce la tortura in un proprio processo e viene straziato quando s'investiga se è colpevole e un innocente subisce pene certissime per un reato incerto, non perché si scopre che l'ha commesso, ma perché non si sa se l'ha commesso? Perciò l'inconsapevolezza del giudice è spesso rovina dell'innocente. E v'è un altro caso più intollerabile, deplorevole, da bagnare con un fiume di lacrime, se fosse possibile. Quando il giudice infligge la tortura all'accusato, appunto per non uccidere un innocente nell'ignoranza, avviene, per la sventura dell'inconsapevolezza, che uccide il torturato innocente che aveva fatto torturare per non uccidere un innocente. Se dunque secondo la teoria di costoro un tale ha scelto di uscire da questa vita anziché sopportare più a lungo quei tormenti, dichiara di aver commesso ciò che non ha commesso. Se egli è stato condannato e giustiziato, il giudice ancora non sa se ha fatto morire un colpevole o un innocente, sebbene lo ha fatto torturare per non uccidere inconsapevolmente un innocente e perciò ha fatto torturare un innocente per sapere e poiché non sapeva lo ha fatto morire. In questo buio della vita associata il giudice saggio sederà in tribunale o non oserà? Certo che vi sederà. Lo vincola infatti e induce a questo incarico la convivenza umana che egli giudica illecito abbandonare. Infatti non ritiene illecito che testimoni innocenti siano torturati in processi riguardanti altre persone. Vi sono poi coloro che, incolpati e sopraffatti talora dalla violenza del dolore e accusando se stessi ingiustamente, sono anche puniti pur essendo innocenti quando già, sebbene innocenti, sono stati torturati. Inoltre, sebbene non siano puniti con la morte, spesso muoiono nella tortura o in seguito ad essa. Infine talvolta anche gli accusatori, desiderando forse di giovare all'umana convivenza nel senso che i delitti non rimangano impuniti e non riuscendo a provare ciò che contestano ai testimoni che depongono il falso, se il reo resiste disumanamente ai tormenti e non confessa, sebbene contestino il vero, sono condannati dal giudice che ignora. E il giudice non ritiene che tanti e sì grandi mali siano peccati perché, se è assennato, non lo fa nella necessità di fare del male e tuttavia, poiché ve lo induce la convivenza umana, nella necessità di giudicare. Questa è dunque quella che con certezza consideriamo condizione infelice dell'uomo, sebbene non è malvagità del saggio. Forse che egli, nella necessità di giudicare pur ignorando, sottopone a tortura e punisce gli innocenti ed è poco per lui non esser colpevole se in più non è anche felice? Tanto più ponderatamente e in modo più degno dell'uomo avverte in tale necessità una disdetta e la odia in sé e, se è educato alla pietà, grida a Dio: Liberami dalle mie necessità! 19.

... e nel mondo a causa delle diversità di lingua e delle guerre.
7. Dopo lo Stato ovvero città viene il mondo intero, nel quale i filosofi riconoscono il terzo livello dell'umana convivenza, iniziando dalla casa e da essa alla città e poi giungendo fino al mondo. Esso certamente, come l'oceano, quanto è più grande, tanto è più denso di pericoli. Prima di tutto nel mondo la diversità delle lingue rende estraneo un uomo all'altro. Se due s'incontrano e non possano passare oltre ma siano costretti da una qualche circostanza a rimanere insieme e nessuno dei due conosca la lingua dell'altro, i muti animali, anche se di specie diversa, s'intendono più facilmente di loro, sebbene entrambi siano uomini. Infatti poiché soltanto per la diversità della lingua non possono manifestare l'uno all'altro i propri pensieri, non giova nulla a stabilire rapporti una grande affinità di natura al punto che un uomo sta più volentieri col proprio cane anziché con un estraneo. Ma, si obietta, si è avuto un ordinamento in modo che lo Stato dominatore, mediante la pace della convivenza, non solo ha imposto la soggezione ai popoli sottomessi, ma anche la lingua e riguardo ad essa non mancava, anzi era a disposizione un gran numero d'insegnanti di lingua 20. È vero, ma questo risultato è stato raggiunto con molte e immani guerre, con grande scempio di uomini e grande spargimento di sangue umano. Trascorsi questi avvenimenti, non ebbe termine la sventura di simili mali. Difatti non sono mancati e non mancano come nemici i popoli stranieri, contro i quali sempre sono state condotte e si conducono guerre. Però anche l'ampiezza del dominio ha suscitato guerre di una peggiore specie, cioè sociali e civili, dalle quali il genere umano è più miserevolmente sconvolto, tanto mentre si guerreggia per sospenderle una buona volta come quando si teme che scoppino di nuovo. Se io volessi trattare, come conviene, i molti e svariati massacri, le spietate e funeste vicissitudini di tale calamità, sebbene non lo potrei mai come l'argomento richiede, non vi sarebbe un limite a una prolungata trattazione. Ma il saggio, dicono, dovrà sostenere una guerra giusta. Quasi che, se si ricorda di essere uomo, non dovrà affliggersi che gli viene imposta la necessità di guerre giuste perché, se non fossero giuste, non dovrebbe sostenerle e perciò per il saggio non si avrebbero guerre. È infatti l'ingiustizia del nemico che obbliga il saggio ad accettare guerre giuste e l'uomo deve dolersi di questa ingiustizia perché appartiene agli uomini, sebbene da essa non dovrebbe sorgere la necessità di far guerra. Chiunque pertanto considera con tristezza queste sventure così grandi, così orribili, così spietate, deve ammetterne l'infelice condizione; chiunque invece o le subisce o le giudica senza tristezza della coscienza, molto più infelicemente si ritiene felice perché ha perduto il sentimento d'umanità.

Il male degli amici e congiunti ci affligge.
8. Ma supponiamo che non si verifichi un tipo d'ignoranza simile alla follia, che tuttavia nella sventurata condizione di questa vita si verifica spesso in maniera che si crede amico chi è nemico e nemico chi è amico. Allora in questa umana convivenza assai colma di errori e di sofferenze ci confortano soltanto la fede non simulata e la solidarietà di veri e buoni amici. E quanti più amici e in più luoghi ne abbiamo, tanto più lungamente e profondamente temiamo che non provenga loro un qualche malanno dal cumulo di malanni di questa vita. Non solo siamo preoccupati che siano afflitti dalla fame, dalle guerre, malattie e oppressioni e che in tale schiavitù subiscano pene tali che non riusciamo neanche ad immaginare ma anche, e il timore è ancora più pungente, che non passino alla slealtà, alla malvagità e all'ingiustizia. E talora questi fatti avvengono, e tanto più numerosi quanto più numerosi sono gli amici, e giungono alla nostra conoscenza. E un uomo non può comprendere da quali vampe sia bruciato il nostro cuore a meno che anch'egli non le provi. Preferiremmo apprendere che sono morti, sebbene senza dolore neppure questa notizia possiamo apprendere. Non può avvenire che non provochi in noi melanconia la morte di coloro, la cui vita ci allietava per i conforti dell'amicizia. Se qualcuno la condanna, condanni, se ci riesce, le conversazioni fra amici, proibisca o interrompa l'affetto amichevole, spezzi con disumana insensibilità della coscienza i legami di tutti gli umani rapporti e dimostri che se ne deve usare in maniera che da essi nessun allettamento invada l'animo. Se questo non può assolutamente avvenire, non potrà in alcun modo accadere che non ci rechi amarezza la morte di uno la cui vita ci arreca dolcezza. Ne deriva infatti anche il pianto come una ferita o lesione di un cuore non disumano e per guarirla si usano doverose parole di conforto. Infatti non per questo non si guarisce, che anzi quanto l'animo è più buono, tanto in esso più prontamente e facilmente si guarisce la ferita. Sebbene dunque la vita dei mortali venga afflitta ora in forma più tenue ora più aspra dalla morte delle persone più care, soprattutto di quelli che hanno legami di parentela all'umana convivenza, tuttavia preferiremmo udire o vedere che i nostri cari sono morti anziché decaduti dalla fede o dai buoni costumi, cioè morti nell'anima stessa. La terra è piena di questa smisurata congerie di mali e perciò è stato scritto: Forse non è tentazione la vita dell'uomo sulla terra? 21. Il Signore stesso ha detto: Guai al mondo a causa degli scandali! 22 e ancora: Poiché è sovrabbondata la malvagità, la carità di molti si raffredderà 23. Ne consegue che ci rallegriamo per i buoni amici morti e sebbene la loro morte ci affligga, essa stessa con maggior certezza ci conforta perché essi sono stati immuni dai mali da cui in questa vita anche gli uomini buoni sono sopraffatti o depravati o sono esposti all'uno e all'altro pericolo.

Insicurezza con gli esseri dell'aldilà.
9. V'è poi la società dei santi angeli assegnata da quei filosofi, i quali hanno sostenuto che gli dèi sono nostri amici, al quarto grado, quasi a passare dalla terra all'universo per includere in qualche modo anche il cielo. Non temiamo affatto che simili amici in questa società ci affliggano con la loro morte o depravazione. Però essi non comunicano con noi, come gli uomini, in un rapporto di familiarità e anche questo fa parte delle pene di questa vita. Satana poi, come leggiamo, si trasforma talvolta in un angelo della luce 24 per tentare coloro che è opportuno ammaestrare in tal modo o è giusto ingannare. È quindi necessaria una grande misericordia di Dio affinché l'uomo, quantunque creda di avere come amici gli angeli, non subisca al contrario come finti amici i demoni e tanto più dannosi quanto più astuti e lusinghieri. E la grande misericordia di Dio è indispensabile alla grande infelicità umana la quale è gravata da tanta ignoranza che facilmente è tratta in inganno dalla loro falsità. Ed è assolutamente certo che nella città empia i filosofi, i quali hanno sostenuto di avere gli dèi per amici, sono incappati nei demoni malvagi ai quali la città stessa è sottomessa per avere con essi un tormento eterno. Infatti dai loro riti sacri o meglio sacrilegi, con i quali hanno pensato di onorarli, e dai giuochi veramente spudorati in cui sono esaltati i loro delitti e con i quali hanno pensato di renderseli propizi, dato che gli dèi stessi operavano ed esigevano simili e sì gravi ignominie, appare evidente di qual genere erano quelli da loro onorati.

Universalità e ineluttabilità della pace (10-20)


La pace nell'eternità.
10. Ma neanche i santi e fedeli adoratori dell'unico vero sommo Dio sono immuni dai loro inganni e dalla tentazione di varia specie. In questo luogo d'insicurezza e tempi di malvagità non è vana neanche quest'ansia di raggiungere con un desiderio più fervido quella sicurezza in cui è pace sommamente piena e certissima. In quello stato infatti si avranno le componenti dell'essere, quelle cioè che al nostro essere sono conferite dal Creatore di tutti gli esseri, non solo buone ma perenni, non solo nello spirito che si redime con la pienezza del pensiero, ma anche nel corpo che sarà restituito alla vita con la risurrezione; vi saranno le virtù che non lottano contro gli impulsi o i vari mali, ma che hanno come premio della vittoria la pace eterna che nessun nemico può turbare. È infatti la felicità finale il fine stesso della perfezione che non ha limite. Qui ci consideriamo felici, quando abbiamo la pace nei limiti in cui qui si può conseguire con una vita onesta, ma questa felicità, paragonata alla felicità che consideriamo finale, è piuttosto infelicità. Quando come uomini posti nel divenire abbiamo nel divenire delle cose la pace che si può avere in questa vita, se viviamo onestamente, la virtù usa bene dei suoi beni; quando invece non l'abbiamo, la virtù usa bene anche i mali che l'uomo sopporta. Ma allora è vera virtù quando volge tutti i beni, di cui usa bene, tutto ciò che ottiene col buon uso del bene e del male e se stessa a quel fine, in cui per noi vi sarà una pace tanto bella e tanto grande che non ve ne può essere una più bella e più grande.

Pace e vita eterna come fine.
11. Perciò potremmo dire che la pace è il fine del nostro bene, come l'abbiamo detto della vita eterna, soprattutto perché alla città di Dio, della quale tratta questa nostra dissertazione assai impegnativa, si dice in un Salmo: Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda, Sion, il tuo Dio, perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte; in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli colui che ha posto la pace come tuo fine 25. Quando infatti saranno state rinforzate le sbarre delle sue porte, nessuno entrerà in essa e nessuno ne uscirà. Perciò come suo fine in questo caso dobbiamo ravvisare quella che intendiamo dimostrare come pace finale. Anche il nome simbolico della città, cioè Gerusalemme, come ho già detto, s'interpreta "visione della pace". Ma poiché il termine "pace" si usa frequentemente anche per le cose nel divenire, in cui perciò non si avrà la vita eterna, ho preferito denominare "vita eterna" anziché "pace" il fine della città celeste in cui si avrà il sommo bene. Di questo fine dice l'Apostolo: Ora infatti liberati dal peccato e divenuti servi di Dio, avete la vostra maturazione nella santificazione e come fine la vita eterna 26. Però da quelli che non hanno dimestichezza con la Bibbia si può intendere per vita eterna anche la vita dei malvagi o secondo alcuni filosofi a causa dell'immortalità dell'anima o anche secondo la nostra fede a causa della pena perpetua dei reprobi che non potranno essere tormentati in eterno se non vivranno in eterno. Pertanto, affinché più agevolmente si comprenda da tutti, si deve considerare fine della città eletta, in cui essa avrà il sommo bene, o la pace nella vita eterna o la vita eterna nella pace. È così grande il bene della pace che, anche negli eventi posti nel divenire di questo mondo, abitualmente nulla si ode di più gradito, nulla si desidera di più attraente, infine nulla si consegue di più bello. E se volessimo parlarne più a lungo, non saremmo, come suppongo, di peso ai lettori tanto in relazione al fine della città eletta, di cui stiamo parlando, come in relazione all'attrattiva della pace che a tutti è cara.

Tutti vogliono la pace.
12. 1. Chiunque in qualsiasi modo considera i fatti umani e il comune sentimento naturale ammette con me questa verità; come infatti non v'è alcuno che non voglia godere, così non v'è chi non voglia avere la pace. Anche quelli che vogliono la guerra non vogliono altro che vincere, desiderano quindi con la guerra raggiungere una pace gloriosa. La vittoria infatti non è altro che il soggiogamento di coloro che oppongono resistenza e quando questo si sarà verificato, vi sarà la pace. Dunque con l'intento della pace si fanno le guerre anche da coloro che si adoperano a esercitare il valore guerresco dirigendo le battaglie. Ne risulta che la pace è il fine auspicabile della guerra. Ogni uomo cerca la pace anche facendo la guerra, ma nessuno vuole la guerra facendo la pace. Anche quelli i quali vogliono che sia rotta la pace, nella quale vivono, non odiano la pace ma desiderano che sia trasmessa al loro libero potere. Dunque non vogliono che non vi sia la pace ma che vi sia quella che essi vogliono. Inoltre, sebbene con un complotto si oppongono agli altri, non ottengono quel che intendono se non conservano una sembianza di pace con gli stessi cospiratori e congiurati. Anche i briganti, per essere più violentemente e sicuramente pericolosi alla pace degli altri, vogliono mantenere la pace dei gregari. Ma anche se un tale sia tanto superiore di forze e rifiuti i confidenti al punto che non si affida ad alcun gregario e da solo compie rapine, insidiando e prevalendo sulle persone che ha potuto assalire e uccidere, conserva certamente una certa parvenza di pace con coloro che non può uccidere e ai quali vuole che sia tenuto nascosto quel che fa. In casa certamente si adopera di essere in pace con la moglie e i figli e riceve da essi gioia se gli obbediscono a un cenno. Se ciò non avviene, si adira, reprime, punisce e, se è necessario, anche infierendo stabilisce la pace nella propria casa. Difatti avverte che essa non vi può essere se le altre componenti della compagine domestica non sono sottomesse a un capo quale egli è nella propria casa. Perciò se gli si offrisse la dipendenza di più persone, di una città, di un popolo che gli fossero sottomessi come voleva che gli fossero sottomessi quelli della propria casa, non si nasconderebbe più come un brigante nei covi ma si esalterebbe come un distinto sovrano, sebbene in lui persista la medesima cupidigia e cattiveria. Dunque tutti desiderano conservare la pace con i propri associati perché vogliono che essi vivano secondo il loro arbitrio. Vogliono perfino, se è possibile, rendere a sé soggetti coloro con i quali fanno la guerra e imporre loro le leggi della propria pace.

Pace anche in Caco e nelle fiere.
12. 2. Ma supponiamo un individuo quale lo canta un poetico mitico racconto che, forse a causa dell'insocievole selvatichezza, hanno preferito considerare un semiuomo anziché un uomo 27. Il suo regno dunque fu la solitudine di un'orribile spelonca quasi emblema di una cattiveria senza pari. Da essa infatti derivò il nome, perché in greco "cattivo" si dice , perché così si chiamava. Non v'era una moglie che ascoltasse e scambiasse con lui una parola affettuosa; non avrebbe scherzato con i figli piccini e comandato ai grandicelli; non avrebbe goduto della conversazione di un amico e neanche di Vulcano, suo padre, di cui soltanto fu non poco più felice, perché egli non aveva messo al mondo un mostro simile. Non doveva dare nulla a nessuno ma portar via tutto ciò che volesse e, se gli fosse possibile, chi volesse. Tuttavia nella sua spelonca solitaria il cui suolo sempre, come si narra, era intriso di un sangue recente, niente altro voleva che la pace e dentro di essa nessuno doveva essergli importuno, né la violenza o la paura di un altro doveva turbare la sua tranquillità. Inoltre bramava avere la pace con il proprio corpo e si sentiva bene nelle proporzioni con cui l'aveva. Quando s'imponeva alle parti del corpo sottomesse e per calmare il più presto possibile la propria soggezione alla morte, che a causa del bisogno gli si ribellava e provocava la ribellione della fame per separare e cacciare l'anima fuori del corpo, rapiva, uccideva e divorava e sebbene brutalmente selvaggio provvedeva in modo brutalmente selvaggio alla pace della propria vita e salute. Perciò se avesse voluto avere anche con gli altri la pace, che si adoperava con sufficiente avvedutezza di avere nella propria spelonca e in se stesso, non sarebbe considerato né cattivo né un mostro né un semiuomo. Ovvero se la forma del corpo e il rigurgito di orride fiamme allontanava da lui la compagnia degli uomini, forse incrudeliva non per il desiderio di nuocere ma per la necessità di vivere. In verità costui forse non è esistito o, e questo è più verosimile, non era quale è rappresentato dall'immaginazione poetica; infatti se Caco non fosse molto accusato, Ercole sarebbe poco lodato. Un uomo simile o meglio un semiuomo, più ragionevolmente, come ho detto, si crede che non sia esistito, come molte altre fantasticherie dei poeti. Le stesse fiere più crudeli, da cui egli ha derivato una parte, giacché è stato considerato una semifiera 28, difendono la propria specie con una forma di pace accoppiandosi, generando, partorendo, curando e nutrendo la prole, sebbene la maggior parte siano asociali e solitari, non cioè come le pecore, i cervi, le colombe, gli storni, le api, ma come i leoni, i lupi, le volpi, le aquile, le civette. Qualsiasi tigre sussurra teneramente ai propri nati e, calmata la ferocia, li accarezza. E lo sparviero, sebbene da solo si disponga in volute alle rapine, opera l'accoppiamento, costruisce il nido, cova le uova, nutre i pulcini e con la sua quasi madre di famiglia conserva nella pace che gli è possibile il vincolo familiare. A più forte ragione l'uomo è indotto in certo senso dalle leggi della propria natura a stringere un vincolo e a raggiungere la pace con tutti gli uomini per quanto dipende da lui. Anche i malvagi fanno la guerra per la pace dei propri associati e vorrebbero, se possibile, che tutti lo fossero affinché tutti e tutte le cose siano sottomesse a uno solo per il semplice motivo che con l'amore o con il timore tutti si accordino nella sua pace. In tal modo la superbia imita Dio alla rovescia. Odia infatti con i compagni l'eguaglianza nella sottomissione a lui, ma vuole imporre ai compagni un potere dispotico invece di lui. Odia dunque la giusta pace di Dio e ama la propria ingiusta pace. Tuttavia non può non amare la pace qualunque sia. Di nessuno si ha una deformità tale contro la natura da cancellare le ultime tracce della natura.

Pace nelle cose che sembrano negarla.
12. 3. Chi sa anteporre l'onestà alla depravazione, l'ordine al disordine nota che la pace dei disonesti nel confronto con quella delle persone oneste non si può considerare pace. Ma è anche indispensabile che un essere nel disordine sia in pace in qualche, da qualche e con qualche parte delle cose nelle quali esiste o delle cose di cui è composto, altrimenti non esisterebbe affatto. Ad esempio, se qualcuno fosse appeso con la testa all'ingiù, è certamente in disordine la posizione del corpo e l'ordine delle sue parti, perché la sezione che la natura pone in alto sta in basso e quella che essa vuole in basso sta in alto. Questo disordine ha turbato la pace del fisico e perciò è penoso, ma l'anima è in pace col corpo e si preoccupa della sua salute e quindi v'è chi se ne duole. E se l'anima messa fuori dalle sue sofferenze se ne separasse, finché rimane la connessione delle membra, quel che rimane non è senza una certa connessione delle parti e quindi è ancora nella pace chi è appeso. E poiché il corpo è spinto alla terra e oppone resistenza al laccio col quale è sospeso, tende all'ordine della pace e in certo senso chiede con la voce del peso il luogo in cui riposare e, sebbene esanime e senza alcuna percezione, non si estrania dalla pace naturale del proprio ordine o perché la possiede o perché ad essa è mosso. Se infatti si adoperasse un intervento con preparati che non permettano alla conformazione del cadavere di corrompersi e dissolversi, una certa pace ancora unirebbe le parti alle parti e congiungerebbe tutta la massa ad uno spazio terreno e conveniente, e perciò in pace. Se invece non s'impiegasse premura nell'imbalsamare, ma si lasciasse il corpo al procedimento naturale per un certo tempo, esso si scomporrebbe con esalazioni contrastanti che contrariano il nostro senso, fatto che si percepisce nella puzza, finché si ricongiunge agli elementi del mondo e ritorna alla loro pace nelle singole parti un po' alla volta. Ma di questo fenomeno non sfugge assolutamente nulla alle leggi del sommo Creatore e Ordinatore, dal quale è retta la pace dell'universo. Infatti anche se dal cadavere di un animale più grande spuntino fuori piccoli animali, per la medesima legge del Creatore i singoli piccoli corpi sono sottomessi alle piccole anime con la pace della salute. Ed anche se la carne degli animali morti viene divorata da altri animali, trova le medesime leggi partecipate al tutto che accordano nella pace le cose convenienti alle convenienti per la sopravvivenza di ogni specie degli esseri posti nel divenire, in qualunque spazio siano distribuiti, a qualunque componente siano uniti e in qualunque essere siano trasformati e mutati.

La pace e l'ordine.
13. 1. La pace del corpo dunque è l'ordinata proporzione delle parti, la pace dell'anima irragionevole è l'ordinata pacatezza delle inclinazioni, la pace dell'anima ragionevole è l'ordinato accordo del pensare e agire, la pace del corpo e dell'anima è la vita ordinata e la salute del vivente, la pace dell'uomo posto nel divenire e di Dio è l'obbedienza ordinata nella fede in dipendenza alla legge eterna, la pace degli uomini è l'ordinata concordia, la pace della casa è l'ordinata concordia del comandare e obbedire d'individui che in essa vivono insieme, la pace dello Stato è l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini, la pace della città celeste è l'unione sommamente ordinata e concorde di essere felici di Dio e scambievolmente in Dio, la pace dell'universo è la tranquillità dell'ordine. L'ordine è l'assetto di cose eguali e diseguali che assegna a ciascuno il proprio posto. Perciò gli infelici, poiché in quanto infelici, non sono certamente nella pace, sono privi della tranquillità dell'ordine, in cui non v'è turbamento, tuttavia, poiché a ragione per giustizia sono infelici, nella loro stessa infelicità non possono essere fuori dell'ordine, non perché uniti agli uomini felici ma perché separati da loro nell'imperativo dell'ordine. Essi, se vivono senza turbamento, si uniformano con adattamento per quanto insufficiente alle condizioni in cui si trovano e perciò v'è in loro una certa tranquillità dell'ordine, v'è dunque una certa pace. Però sono infelici poiché, sebbene a causa di una certa serenità non provano dolore, non si trovano tuttavia nella condizione in cui devono essere sereni e non sentir dolore, più infelici ancora se non sono in pace con la legge da cui è retto l'ordine naturale. Quando provano dolore, è avvenuto il turbamento della pace in quella componente in cui provano dolore; v'è invece ancora la pace in quella componente in cui il dolore non brucia e il coordinamento non si è dissolto. Come dunque v'è una vita senza dolore, ma il dolore non vi può essere senza la vita, così v'è una pace senza la guerra, ma la guerra non vi può essere senza una determinata pace, non nel senso che è guerra, ma nel senso che si conduce da individui o in individui che sono determinati esseri. Non lo sarebbero certamente se non persistessero in una pace, qualunque essa sia.

Relatività della pace e del bene nella vita.
13. 2. Pertanto v'è un essere in cui non v'è alcun male o meglio in cui non vi può essere alcun male, ma è impossibile che vi sia un essere in cui non vi sia alcun bene. Neanche l'essere del diavolo, in quanto è essere, è un male, è il pervertimento che lo rende malvagio. Quindi non si mantenne nella verità 29, ma non eluse il giudizio della verità, non perseverò nella tranquillità dell'ordine, però non sfuggì al potere dell'Ordinatore. Il bene di Dio, che è nel suo essere, non lo sottrae alla giustizia di Dio, dalla quale viene restituito all'ordine e con essa Dio non riprova il bene che ha creato ma il male che il diavolo ha commesso. Infatti non toglie il tutto che ha dato all'essere, ma sottrae qualcosa, qualcosa lascia affinché vi sia chi prova dolore per ciò che ha sottratto. E il dolore è attestazione del bene sottratto e del bene lasciato. Se non fosse stato lasciato del bene, egli non potrebbe dolersi del bene perduto. Infatti chi pecca è più malvagio se gioisce del detrimento dell'onestà; chi si rattrista, invece, anche se non ottiene alcun bene, prova dolore per il detrimento della salute. Difatti l'onestà e la salute sono entrambe un bene e si deve provar dolore anziché rallegrarsi per la perdita di un bene, se non v'è il compenso d'un bene migliore ed è migliore l'onestà della coscienza che il benessere del corpo. Perciò, senza dubbio, il disonesto si duole nella pena più convenientemente di come si è rallegrato nella colpa. Come dunque il rallegrarsi del bene perduto con la colpa è prova della volontà cattiva, così il dolersi del bene perduto con la pena è prova di un essere buono. Chi infatti si duole di avere perduto la pace del proprio essere, si duole per determinati residui della pace in base ai quali avviene che il suo essere è a lui caro. Con giustizia poi avviene che nella pena finale i disonesti e gli infedeli rimpiangano nei tormenti la perdita del bene dell'essere nell'avvertire che lo ha sottratto Dio infinitamente giusto perché lo hanno disprezzato come donatore infinitamente buono. Dio dunque, Creatore infinitamente sapiente e Ordinatore infinitamente giusto di tutti gli esseri che ha costituito l'uman genere posto nel divenire come il più grande dei valori terreni, ha concesso agli uomini alcuni beni convenienti a questa vita, cioè la pace nel tempo in conformità con la vita posta nel divenire mediante la salute, la sopravvivenza e la solidarietà della propria specie e tutti i mezzi che sono indispensabili a difendere e riacquistare questa pace. Ad esempio, sono quegli oggetti che adeguatamente e convenientemente sono a disposizione dei sensi: la luce, il suono, l'aria da respirare, l'acqua da bere e ogni cosa che è adatta a nutrire, coprire, curare e abbellire il corpo. E questo nell'intesa molto ragionevole che chi abbia usato rettamente di questi beni nel divenire, proporzionati alla pace di esseri posti nel divenire, ne ottenga altri notevolmente più importanti, cioè la pace fuori del divenire e la gloria e l'onore ad essa corrispondenti nella vita eterna per essere felici di Dio e del prossimo in Dio; chi invece ne avrà usato male non consegua quei beni e perda questi.

La pace con se stessi e con gli altri.
14. Quindi per sé l'uso dei beni temporali è in relazione al godimento della pace terrena nella città terrena, nella città celeste è in relazione al godimento della pace eterna. Se fossimo animali irragionevoli, non tenderemmo ad altro che all'ordinata conformazione delle parti del corpo e alla placazione degli impulsi, a niente dunque fuorché all'appagamento della sensibilità e all'abbondanza delle soddisfazioni affinché la pace del corpo giovi alla pace dell'anima. Se manca la pace del corpo è ostacolata la pace dell'anima irragionevole perché non può raggiungere la placazione degli impulsi. L'una e l'altra insieme favoriscono quella pace che hanno l'anima e il corpo nel loro rapportarsi, cioè la pace di una vita ordinata in buona salute. Come infatti gli esseri viventi mostrano di amare la pace del corpo quando sfuggono al dolore e la pace dell'anima quando, per placare l'insorgere degli impulsi, cercano il piacere, così sottraendosi alla morte indicano chiaramente quanto amino la pace con cui si rapportano l'anima e il corpo. Ma poiché nell'uomo è operante l'anima ragionevole, egli sottopone alla pace dell'anima ragionevole tutto ciò che ha in comune con le bestie, per rappresentarsi un oggetto col pensiero e agire in conformità a tale oggetto, in modo che in lui vi sia un'ordinata armonia del conoscere e dell'agire, che avevo considerato come pace dell'anima ragionevole. Allo scopo necessariamente vuole non essere afflitto dal dolore, non turbato dallo stimolo, non distrutto dalla morte per conoscere il da farsi e in base a tale conoscenza organizzare vita e comportamento. Ma affinché nell'indagine sulla conoscenza, a motivo del potere ridotto dell'uman pensiero, non incorra nella falsità di qualche errore, ha bisogno del magistero divino al quale sottomettersi con certezza e dell'aiuto al quale sottomettersi con libertà. Ma finché è in questo corpo soggetto al divenire, è in viaggio lontano dal Signore, cammina nella fede e non nella visione 30. Perciò riferisce ogni pace tanto del corpo come dell'anima e insieme dell'anima e del corpo a quella pace che l'uomo, posto nel divenire, ha con Dio che è fuori del divenire, in modo che gli sia ordinata dalla fede con l'obbedienza sotto la legge eterna. Ora Dio maestro insegna due comandamenti principali, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo 31, nei quali l'uomo ravvisa tre oggetti che deve amare: Dio, se stesso, il prossimo, e che nell'amarsi non erra chi ama Dio. Ne consegue che provvede anche al prossimo affinché ami Dio perché gli è ordinato di amarlo come se stesso, così alla moglie, ai figli, ai familiari e alle altre persone che potrà e vuole che in tal modo dal prossimo si provveda a lui, se ne ha bisogno. Perciò sarà in pace con ogni uomo, per quanto dipende da lui, mediante la pace degli uomini, cioè con un'ordinata concordia nella quale v'è quest'ordine, prima di tutto che non faccia del male a nessuno, poi che faccia del bene a chi può. Dapprima dunque v'è in lui l'attenzione ai suoi cari, perché ha l'occasione più favorevole e facile di provvedere loro tanto nell'ordinamento della natura come della stessa convivenza umana. Dice l'Apostolo: Chi non provvede ai suoi cari e soprattutto ai familiari ha abiurato la fede ed è peggiore di un infedele 32. Da tali condizioni sorge appunto la pace della casa, cioè l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei familiari. Comandano infatti quelli che provvedono, come l'uomo alla moglie, i genitori ai figli, i padroni ai servi. Obbediscono coloro ai quali si provvede, come le donne ai mariti, i figli ai genitori, i servi ai padroni. Ma nella casa del giusto, che vive di fede 33 ed è ancora esule dalla sublime città del cielo, anche coloro che comandano sono a servizio di coloro ai quali apparentemente comandano 34. Non comandano infatti nella brama del signoreggiare ma nel dovere di provvedere, non nell'orgoglio dell'imporsi, ma nella compassione del premunire.

Pace e ordine anche nella schiavitú.
15. Lo prescrive l'ordine naturale perché in questa forma Dio ha creato l'uomo. Infatti egli disse: Sia il padrone dei pesci del mare e degli uccelli del cielo e di tutti i rettili che strisciano sulla terra 35. Volle che l'essere ragionevole, creato a sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l'uomo dell'uomo, ma l'uomo del bestiame. Per questo i giusti dell'antichità furono stabiliti come pastori degli armenti e non come re degli uomini 36, ed anche in questo modo Dio suggeriva che cosa richiede l'ordine delle creature, che cosa esige la penalità del peccato. Si deve capire che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all'uomo peccatore. Perciò in nessun testo della Bibbia leggiamo il termine "schiavo" prima che il giusto Noè tacciasse con questo titolo il peccato del figlio 37. Quindi la colpa e non la natura ha meritato simile appellativo. Si avanza l'ipotesi che l'etimologia degli addetti alla servitù sia derivata nella lingua latina dal fatto che coloro i quali per legge di guerra potevano essere ammazzati, se conservati dai vincitori, venivano asserviti ed erano denominati appunto dal conservare 38. Ed anche questo non avviene senza la sanzione del peccato. Infatti, anche quando si conduce una guerra giusta, dalla parte avversa si combatte per il peccato ed ogni vittoria, anche se favorisce i malvagi, umilia i vinti per giudizio divino tanto se corregge le colpe, come se le punisce. Ne è testimone il profeta Daniele quando, essendo in prigionia, confessa a Dio i propri peccati e i peccati del suo popolo e con devoto dolore confessa che questa è la causa della prigionia stessa 39. Dunque prima causa della schiavitù è il peccato per cui l'uomo viene sottomesso all'uomo con un legame di soggezione, ma questo non avviene senza il giudizio di Dio, nel quale non v'è ingiustizia ed egli sa distribuire pene diverse alle colpe di coloro che le commettono. Il Padrone di tutti dice: Chiunque commette peccato è schiavo del peccato 40; e per questo molti fedeli sono schiavi di padroni ingiusti ma non liberi perché: Ciascuno è aggiudicato come schiavo a colui dal quale è stato vinto 41. E certamente con maggior disimpegno si è schiavi di un uomo che della passione poiché la passione del dominio, per non parlare delle altre, sconvolge con un dominio molto crudele il cuore dei mortali. In quell'ordine di pace col quale alcuni uomini sono soggetti ad altri, come giova l'umiltà a quelli che sono schiavi, così nuoce la superbia a coloro che sono padroni. Per natura, secondo la quale all'inizio Dio formò l'uomo, non v'è schiavo dell'uomo o del peccato. Però la schiavitù come pena è ordinata secondo quella legge che comanda di mantenere l'ordine naturale e proibisce di violarlo perché, se il peccato non fosse avvenuto contro quella legge, non vi sarebbe nulla da reprimere dalla schiavitù come pena. Perciò l'Apostolo consiglia anche che gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni e che prestino loro servizio in coscienza con buona volontà 42. Così, se non possono essere lasciati in libertà, essi stessi rendano libera la propria schiavitù, non prestando servizio con perfida paura ma con un affetto leale perché abbia fine l'ingiustizia e siano privati di significato la supremazia e il potere umano 43, e Dio sia tutto in tutti 44.

Pace nella famiglia anche per gli schiavi.
16. Perciò anche se i nostri onesti patriarchi ebbero degli schiavi regolavano la pace domestica in modo da distinguere, per quanto riguarda i beni temporali, l'eredità dei figli dalla condizione degli schiavi, ma per quanto riguarda il culto di Dio, nel quale si sperano i beni eterni, provvedevano con eguale amore a tutti i componenti della propria famiglia 45. L'ordine naturale impone questa prescrizione sicché da essa è derivata la denominazione di padre di famiglia e si è così universalmente diffusa che anche i padroni, che esercitano il potere ingiustamente, godono di essere così denominati 46. Ma coloro che sono veri padri di famiglia spronano tutti nella famiglia come propri figli ad onorare e rendersi propizio Dio, perché desiderano vivamente di giungere alla famiglia del cielo dove non è più necessario il dovere di comandare a individui soggetti a morire. Non sarà necessario infatti il dovere di spronare esseri beati di una sublime immortalità. E per giungervi debbono sopportare di più i capi di famiglia nel comandare che gli schiavi nell'obbedire. E se qualcuno nella casa ostacola la pace della famiglia, viene rimproverato o con la parola o con la sferza o con un altro qualsivoglia genere di pena consentita dalla giustizia, per quanto lo permette l'umana convivenza, a favore di colui che viene rimproverato perché sia riordinato alla pace dalla quale si era distolto. Come infatti non è proprio della disposizione a fare il bene ottenere approvando che si perda un bene più grande, così non è proprio della disposizione a non fare il male permettere, perdonando, che s'incorra in un male più grave. Compete dunque al dovere di chi non fa il male, non solo non fare del male ad alcuno, ma reprimere il peccato o punirlo affinché o chi viene colpito sia corretto dal castigo o gli altri siano ammoniti dall'esempio. Ora la famiglia dell'individuo è un inizio o una piccola parte dello Stato ed ogni inizio è in relazione a un determinato compimento del proprio modo di essere e ogni parte all'interezza del tutto di cui è parte. Ne consegue dunque evidentemente che la pace familiare sia in relazione a quella civile, cioè che l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei familiari sia in relazione all'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini. Pertanto conviene che il padre di famiglia tragga dalla legge dello Stato le disposizioni con cui regolare la propria famiglia in modo che si armonizzi alla pace dello Stato.

Pace, ordine e religione nelle due città.
17. Ma la famiglia di persone, che non vivono di fede, persegue la pace terrena dagli utili e interessi di questa vita che scorre nel tempo. Invece la famiglia delle persone che vivono di fede attende quei beni che sono stati promessi come eterni nell'aldilà e usa i beni terreni posti nel tempo come un esule in cammino. Non usa cioè di quelli da cui sia attratta e stornata dalla via con cui tende a Dio, ma di quelli con cui sia sorretta a sostenere più agevolmente e non accrescere affatto i fardelli del corpo corruttibile che appesantisce l'anima 47. Perciò l'uso dei beni necessari a questa vita, posta nel divenire, è comune alle une e alle altre persone, all'una e all'altra famiglia, ma l'intento dell'uso è esclusivamente personale ad ognuno e assai diverso. Così anche la città terrena, che non vive di fede, desidera la pace terrena e stabilisce la concordia del comandare e obbedire dei cittadini, affinché vi sia un certo consenso degli interessi nei confronti dei beni pertinenti alla vita soggetta al divenire. Invece la città celeste o piuttosto quella parte di essa, che è esule in cammino nel divenire e vive di fede, necessariamente deve trar profitto anche da questa pace fino a che cessi la soggezione al divenire, alla quale è indispensabile una tale pace. Perciò, mentre nella città terrena essa conduce una vita prigioniera del suo cammino in esilio, ricevuta ormai la promessa del riscatto e il dono della grazia spirituale come caparra, non dubita di sottomettersi alle leggi della città terrena, con le quali sono amministrati i beni messi a disposizione della vita che è nel divenire. Così, essendo comune l'essere nel divenire, nei beni che lo riguardano è mantenuta la concordia fra le due città. La città terrena però ha avuto alcuni dotti, che l'insegnamento divino condanna, i quali, o per una loro ipotesi o perché ingannati dai demoni, hanno creduto che molti dèi si devono rendere benevoli agli interessi umani e che determinati oggetti spettano per assegnazione a determinate loro competenze, ad uno il corpo, a un altro lo spirito e nel corpo ad uno la testa, ad un altro il collo e ognuna delle altre parti a ognuno di loro. Ugualmente nello spirito a uno spetta l'intelligenza, all'altro la scienza, ad uno l'ira, all'altro l'avidità, e per le cose che sono necessarie alla vita, a uno il bestiame, a un altro il grano, a uno il vino, a un altro l'olio, ad uno i boschi, a un altro il denaro, ad uno la navigazione, a un altro guerre e vittorie, ad uno i matrimoni, a un altro parti e fecondità, e ad altri altri beni. La città del cielo sa invece che un solo Dio si deve adorare e ritiene con vero sentimento religioso che a lui soltanto si deve essere sottomessi con quella sottomissione la quale in greco è detta , e soltanto a Dio si deve. È avvenuto quindi che non poteva avere in comune le leggi della religione con la città terrena e che a loro difesa necessariamente doveva dissentire da essa e che era di peso agli altri, i quali la pensavano diversamente, e che doveva sopportare la loro collera, gli odî e gli assalti delle persecuzioni, salvo quando riuscì a trattenere l'efferatezza degli avversari, qualche volta per paura del numero e sempre con l'aiuto di Dio. Dunque questa città del cielo, mentre è esule in cammino sulla terra, accoglie cittadini da tutti i popoli e aduna una società in cammino da tutte le lingue. Difatti non prende in considerazione ciò che è diverso nei costumi, leggi e istituzioni, con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene, non invalida e non annulla alcuna loro parte, anzi conserva e rispetta ogni contenuto che, sebbene diverso nelle varie nazioni, è diretto tuttavia al solo e medesimo fine della pace terrena se non ostacola la religione, nella quale s'insegna che si deve adorare un solo sommo e vero Dio. Dunque anche la città del cielo in questo suo esilio trae profitto dalla pace terrena, tutela e desidera, per quanto è consentito dal rispetto per il sentimento religioso, l'accordo degli umani interessi nel settore dei beni spettanti alla natura degli uomini soggetta al divenire e subordina la pace terrena a quella celeste. Ed essa è veramente pace in modo che unica pace della creatura ragionevole dev'essere ritenuta e considerata l'unione sommamente ordinata e concorde di avere Dio come fine e l'un l'altro in lui. Quando si giungerà a quello stesso stato, non vi sarà la vita destinata a morire, ma definitivamente e formalmente vitale, né il corpo animale che, finché è soggetto a corruzione, appesantisce l'anima, ma spirituale senza soggezione al bisogno e interamente sottomesso alla volontà. La città del cielo, mentre è esule in cammino nella fede, ha questa pace e vive onestamente di questa fede, quando al conseguimento della sua pace eterna subordina ogni buona azione, che compie verso Dio e il prossimo, perché la vita della città è essenzialmente sociale.

Teoresi contro gli Accademici per dubbio, certezza, opinione.
18. Per quanto riguarda la famosa caratteristica che Varrone ha applicato ai nuovi accademici, per i quali non v'è certezza 48, la città di Dio respinge assolutamente come irrazionale una tale forma di dubbio. Essa possiede infatti una conoscenza irrefutabilmente certa degli oggetti che si rappresenta con pensiero e ragionamento, sebbene limitata a causa del corpo corruttibile che appesantisce l'anima perché, come dice l'Apostolo: Conosciamo da un aspetto 49. Inoltre per l'evidenziarsi di qualsiasi oggetto ha fiducia dei sensi dei quali, tramite il corpo, la coscienza si serve, perché s'inganna, fino a destare compassione, chi ritiene che non si deve affatto aver fiducia in essi 50. Crede anche ai testi della sacra Scrittura dell'Antico e Nuovo Testamento, che riteniamo canonici, da cui ha avuto origine la fede, della quale vive il credente 51 e mediante la quale procediamo senza dubitare finché siamo in cammino lontani dal Signore 52. Tuttavia, rimanendo integra ed evidente la fede, noi dubitiamo senza disapprovazione critica di alcune nozioni che non ci siamo rappresentati né con la sensazione né col pensiero, non ci sono state rese evidenti dalla Scrittura canonica e che non sono pervenute alla nostra conoscenza mediante testimonianze cui è assurdo non credere.

Prassi contro i Cinici nei tre tipi di vita.
19. Non importa certamente nulla alla città celeste con quale contegno e tenore di vita, se non è contro i divini comandamenti, si professi la fede con cui si giunge a Dio; quindi neanche ai filosofi, quando diventano cristiani, impone di mutare il contegno e modo di vivere, se non ostacolano la religione, ma di mutare solamente le false dottrine. Quindi non si preoccupa affatto di quella caratteristica che Varrone ha desunto dai cinici 53, se non induce a un comportamento contro la decenza e la temperanza. Riguardo poi ai tre tipi di vita: dedito agli studi, attivo e misto, sebbene, salva la fede, si possa in ognuno di essi trascorrere la vita e giungere al premio eterno, importa tuttavia che cosa si raggiunga nella ricerca della verità e che cosa s'impegni per dovere di carità. Così non si deve essere dediti allo studio al punto che non si pensi al bene del prossimo, né così attivi che non si attui la conoscenza metafisica di Dio. Nello studio non deve allettare l'inetta assenza d'impegni, ma la ricerca e il raggiungimento della verità, in maniera che si abbia un progresso e non si rifiuti all'altro quel che si è raggiunto. Nella vita attiva non si devono amare le dignità in questa vita o il potere, poiché tutto è vanità sotto il sole 54, ma l'attività stessa che si esercita con la dignità o potere, se si esercita con onestà e vantaggio, cioè affinché contribuisca a quel benessere dei sudditi che è secondo Dio. Ne ho parlato precedentemente 55. Ha detto perciò l'Apostolo: Chi aspira all'episcopato aspira a un nobile lavoro 56. Volle spiegare che cos'è l'episcopato perché è denominazione di un lavoro e non di una dignità. La parola è greca e se ne ha etimologicamente il significato. Infatti chi è preposto sovrintende a coloro ai quali è preposto perché ne ha la cura. appunto significa essere intento, quindi, se si vuole, si può tradurre "soprintendere", affinché capisca che non è vescovo chi si illude di avere il comando senza giovare. Perciò non ci si distoglie dall'attitudine di conoscere la verità perché è attitudine pertinente a un lodevole impegno nello studio. Al contrario, non conviene aspirare a una carica superiore senza la quale non può essere governato uno Stato, sebbene in termini di amministrazione sia governato come conviene. Pertanto l'amore della verità cerca un religioso disimpegno, l'obbligo della carità accetta un onesto impegno. E se questo fardello non viene imposto, si deve attendere e ricercare e intuire la verità, e se viene imposto, si deve accettarlo per obbligo di carità, ma anche in questo caso non si deve abbandonare del tutto il diletto della verità, affinché non venga a cessare quell'attrattiva e non opprima questa obbligazione.

Pace nell'eternità e pace nel tempo.
20. Pertanto il sommo bene della città di Dio è la pace eterna definitiva, non quella attraverso la quale i mortali passano col nascere e il morire, ma quella in cui gli immortali rimangono senza alcuna soggezione ai contrari. Chi dunque può negare che quella vita è sommamente felice e nel confronto non giudica sommamente infelice questa che trascorre nel tempo anche se è colma dei beni dell'anima, del corpo e del mondo esteriore? Ma chiunque la giudica in maniera da riferire il suo scorrere al fine di quella vita che ama con grande ardore e che spera con grande fiducia, non assurdamente si può considerare felice anche in questo tempo di quella speranza anziché di questa vicenda. La vicenda presente senza la speranza è una falsa felicità e una grande infelicità. Difatti non ha esperienza dei veri beni dell'anima poiché non è vera saggezza quella la quale, nelle azioni che giudica con la prudenza, compie con la fortezza, frena con la temperanza, distribuisce con la giustizia, non orienta la propria scelta a quel fine in cui Dio sarà tutto in tutti 57, in un'eternità certa e in una pace definitiva.

Il vero Stato e lo Stato romano (21-28)


Implicanza di popolo, Stato, diritto, giustizia.
21. 1. Perciò è ora l'occasione di esporre, con la brevità e chiarezza che potrò, la tesi che ho promesso di dimostrare nel secondo libro di questa opera 58, sulla base delle definizioni che in Cicerone usa Scipione, nei libri su Lo Stato, e cioè che non è mai esistito uno Stato romano. Definisce in sintesi che lo Stato (res publica) è la cosa del popolo 59. Se la definizione è vera, non è mai esistito lo Stato romano, perché mai fu cosa del popolo, ed egli ha dimostrato che questa è la definizione dello Stato. Ha infatti definito il popolo come l'unione di un certo numero d'individui, messa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli interessi 60. Nel dibattito spiega che cosa intende per conformità del diritto, poiché dimostra che senza la giustizia non si può amministrare lo Stato; è impossibile dunque che si abbia il diritto in uno Stato in cui non si ha vera giustizia. L'atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia ed è impossibile che si compia secondo il diritto l'atto che si compie contro la giustizia. Infatti non si devono definire e considerare diritto le illegali istituzioni di certi individui, poiché anch'essi considerano diritto la norma che promana dalla sorgente della giustizia. È falso inoltre ciò che per sistema si afferma da alcuni, i quali sostengono l'erronea opinione che è diritto quel che promuove l'interesse del più forte 61. Pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l'unione d'individui messa in atto dall'uniformità del diritto e quindi neanche il popolo secondo la definizione di Scipione e Cicerone; e se non v'è il popolo, non v'è neanche la cosa del popolo, ma di una massa d'individui che non merita il nome di popolo. Quindi se lo Stato è cosa del popolo, ma non si ha un popolo perché non è associato nella conformità del diritto, inoltre non si ha il diritto perché non v'è la giustizia, si conclude senza alcun dubbio che lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato. La giustizia infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo. Dunque non è giustizia dell'uomo quella che sottrae l'uomo stesso al Dio vero e lo rende sottomesso ai demoni infedeli. Questo non è distribuire a ciascuno il suo. Chi estorce il campo di colui dal quale è stato acquisito e lo cede a chi non ha alcun diritto su di esso è ingiusto, a più forte ragione non è giusto chi sottrae se stesso al Dio Signore, da cui è stato creato, e si rende schiavo degli spiriti malvagi.

Sottomissione religiosa, politica, morale.
21. 2. Nei medesimi libri su Lo Stato si discute con chiara, aspra e accesa polemica contro l'ingiustizia a favore della giustizia. In precedenza, poiché si dibatteva a favore di alcuni aspetti dell'ingiustizia contro la giustizia e si affermava che soltanto mediante l'ingiustizia lo Stato può essere costituito e amministrato, si pose come principio validissimo che è ingiusto che gli uomini siano sottomessi al potere di altri uomini. Tuttavia se una città dominatrice, che amministra uno Stato esteso, non applica l'ingiustizia così intesa, non può signoreggiare le province. Si ebbe in risposta da parte della giustizia che è giusto che per simili individui sia operatrice d'interessi la sottomissione e che per loro interesse si verifichi il fatto, quando si verifica con giustizia, cioè quando si toglie agli scellerati l'insubordinazione della violenza e quando, assoggettati, si troveranno in condizioni migliori, poiché non assoggettati si trovarono in condizioni peggiori. Si aggiunse che fosse tenuto presente un tale criterio, come a trarre un palese modello dalla natura e si formulò questo pensiero: "Perché dunque Dio domina sull'uomo, l'anima sul corpo, la ragione sulla passione e sulle altre inclinazioni depravate dell'anima?". Da questo modello si trasse l'insegnamento che per alcuni è vantaggiosa la sottomissione e che per tutti è vantaggioso essere sottomessi a Dio. L'anima spirituale, che è sottomessa a Dio, domina secondo onestà il corpo e nell'anima la ragione, sottomessa a Dio Signore, domina secondo onestà la passione e gli altri impulsi. Perciò se l'uomo non è sottomesso a Dio si deve ritenere che in lui non v'è giustizia, poiché è assolutamente impossibile che l'anima non sottomessa a Dio domini secondo giustizia il corpo e la ragione umana gli impulsi. E se in un individuo di tale tipo non v'è giustizia, certamente neanche nell'associazione d'individui di questo tipo. Non v'è dunque la conformità del diritto che rende popolo un certo numero d'individui dal quale lo Stato ha il nome come di cosa del popolo. Che dire poi degli interessi, dato che il gruppo di uomini associati, anche dalla partecipazione ad essi, come comporta la suddetta definizione, si denomina popolo? Se infatti rifletti con attenzione, non v'è alcun interesse per i viventi che vivono senza religione, come vive ogni individuo che non è sottomesso a Dio ed è sottomesso a demoni tanto maggiormente irreligiosi, perché pretendono che si sacrifichi a loro come a divinità, sebbene siano spiriti molto immondi. Ritengo tuttavia che è sufficiente quanto ho detto della conformità del diritto, perché da questa definizione si deduca che non v'è popolo da cui derivi la denominazione di cosa del popolo, se in esso non v'è la giustizia. Obiettano forse che i Romani nel loro Stato furono sottomessi non a spiriti immondi ma a buoni e santi dèi. Ma perché ripetere critiche che ho già trattato quanto è necessario, anzi più del necessario? Chi tramite i libri dell'opera è giunto a questa parte non può mettere in dubbio che i Romani si sono sottomessi a demoni malvagi e impuri, a meno che non sia un cretino o sfacciatamente attaccabrighe. Ma per tacere di quale stampo siano gli dèi che onoravano con sacrifici, nella Legge del vero Dio è scritto: Chi sacrificherà agli dèi e non soltanto al Signore, sarà votato allo sterminio 62. Dunque colui, che con una sì grande punizione ha dato questo comandamento, volle che non si sacrificasse a dèi né buoni né cattivi.

V'è un unico vero Dio.
22. Ma si può obiettare: "Ma chi è questo Dio e con quali argomenti si dimostra che i Romani dovevano essergli sottomessi al punto da non onorare con sacrifici se non lui?". È indice di grande accecamento chiedere ancora chi è questo Dio. Egli è il Dio di cui i Profeti hanno predetto gli eventi che costatiamo. Egli è il Dio da cui Abramo ebbe l'annunzio: Nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli 63. E anche quelli stessi, che sono rimasti nemici del nome cristiano, lo vogliano o no, riconoscono che l'annunzio si è compiuto in Cristo il quale, secondo la stirpe, proviene da quella discendenza. Egli è il Dio, di cui lo Spirito divino ha parlato per mezzo di uomini e gli eventi da loro predetti si sono avverati per mezzo della Chiesa, che vediamo diffusa in tutto il mondo. Ne ho trattato nei libri precedenti. È lo stesso Dio che Varrone, il più illustre letterato romano, ritiene sia Giove, sebbene non sappia quel che dice; ho ritenuto tuttavia di esporre il suo pensiero, poiché un uomo di così grande erudizione non ha potuto ammettere che il Dio in parola non esistesse o fosse di bassa estrazione. Egli credette che fosse quel che riteneva come il Dio supremo 64. Infine è lo stesso Dio che Porfirio, il filosofo più dotto, sebbene durissimo avversario dei cristiani, ammette come il grande Dio attraverso gli oracoli di quelli che egli ritiene dèi 65.

Porfirio con Apollo oltraggia il Cristo...
23. 1. Nell'opera che intitola La filosofia degli oracoli Porfirio raccoglie e distribuisce i responsi ritenuti divini su argomenti riguardanti la filosofia. Devo usare le stesse sue parole come risultano tradotte dal greco. Egli dice: A uno che chiedeva quale dio doveva propiziarsi nel ricondurre la moglie dal cristianesimo, Apollo diede questa risposta in versi. Queste sono le parole attribuite ad Apollo: Forse potrai più facilmente scrivere nell'acqua con lettere stampate o, sbattendo delle leggere piume, volare come un uccello nell'aria, che dissuadere il sentimento dell'empia moglie depravata. Prosegua come vuole, insistendo nelle insignificanti falsità e cantando di compiangere con le falsità il Dio morto, che la morte più obbrobriosa, collegata con l'uso della lancia, ha ucciso negli anni più belli perché condannato da giudici che agivano rettamente. Dopo questi versi di Apollo, tradotti in latino senza metrica, Porfirio ha aggiunto le parole: Con questi versi egli ha svelato il fallimento della loro credenza, perché afferma che i Giudei onorano Dio più dei cristiani. È il passo in cui, sfigurando il Cristo, ha preferito i Giudei ai cristiani, perché sostiene che i Giudei onorano Dio. Così ha interpretato i versi di Apollo, nei quali afferma che il Cristo fu fatto uccidere da giudici che agivano rettamente, come se Egli sia stato giustamente punito da loro che giudicavano con onestà. Riflettano su che cosa ha detto di Cristo il menzognero aruspice di Apollo e che Porfirio ha creduto, ovvero egli stesso forse ha immaginato che l'aruspice abbia detto ciò che non ha detto. In seguito esamineremo com'è coerente con se stesso o come faccia corrispondere fra di loro gli stessi oracoli. Al momento afferma che i Giudei, come difensori di Dio, hanno giudicato giustamente il Cristo, perché hanno ritenuto che doveva essere straziato con la morte più obbrobriosa. Quindi si doveva ascoltare il Dio dei Giudei, al quale rende testimonianza, quando dice: Chi sacrificherà agli dèi e non soltanto al Signore sarà votato allo sterminio 66. Ma veniamo ad argomenti più evidenti e ascoltiamolo affermare che il Dio dei Giudei è un Dio grande. Così, riguardo alla domanda con cui interrogò Apollo, che cosa sia meglio: la parola, il pensiero o la legge, dice: Rispose in versi con queste parole. E aggiunge i versi di Apollo, fra i quali vi sono questi che io riporterò quanto può bastare. Dice: Davanti a Dio, creatore e re prima di tutte le cose, tremano cielo e terra, il mare, i luoghi occulti degli abissi e rabbrividiscono perfino i numi. Loro legge è il Padre che i santi ebrei molto onorano 67. Con questo oracolo del suo dio Apollo Porfirio ha affermato che il Dio degli ebrei è tanto grande che perfino gli dèi ne hanno timore. Avendo detto Dio: Chi sacrifica agli dèi sarà votato allo sterminio, mi meraviglio che lo stesso Porfirio non l'abbia temuto e sacrificando agli dèi non abbia temuto di essere sterminato.

... con Ecate lo onora...
23. 2. Questo filosofo parla bene del Cristo, come se abbia dimenticato l'ingiuria di cui poco fa ho parlato, ovvero come se i suoi dèi nel sonno abbiano oltraggiato il Cristo e svegliandosi lo abbiano ritenuto buono e lodato secondo il merito. Poi, come se stesse formulando una verità sorprendente e incredibile, dice: Certamente al di là di ogni aspettativa può sembrare quel che sto per dire. Gli dèi hanno considerato il Cristo molto devoto e hanno ricordato che è stato reso immortale anche per la sua predicazione. Gli dèi - soggiunge - dicono che i cristiani al contrario sono corrotti, depravati, avviluppati nell'errore e proferiscono molti oltraggi contro di loro. Aggiunge poi altri brani come responsi degli dèi che oltraggiano i cristiani, e dopo di essi afferma: A coloro che chiedevano se Cristo è Dio, Ecate rispose: Tu sai come l'anima umana dopo il corpo si perfeziona, ma separata dalla sapienza è sempre in errore. Quell'anima è di un uomo insigne; essi lo adorano perché la verità non è in loro. Quindi collegando, dopo questo responso, parole sue, dice: Dunque Ecate ha detto che era un uomo molto devoto e che la sua anima, come quella degli altri uomini devoti dopo la morte, fu stimata degna dell'immortalità e perciò i cristiani, che sono insipienti, lo adorano. E aggiunge: A coloro che interrogavano: Ma perché dunque è stato condannato?, la dea diede questo responso: Il corpo è sempre soggetto a tormenti che lo spossano; invece l'anima degli uomini devoti ha la propria dimora nella casa del cielo. Però quell'anima diede per fatalità ad altre anime d'impigliarsi nell'errore e ad esse il destino non concesse di ottenere i doni degli dèi né di avere il riconoscimento di Giove l'immortale. Sono perciò detestati dagli dèi perché, sebbene ad essi per destino non fu dato di conoscere il Dio né di ricevere doni dagli dèi, Egli fatalmente permise loro d'impigliarsi nell'errore. Egli, essendo devoto, come tutti i devoti, ebbe dimora in cielo. Quindi non lo biasimerai e avrai pietà della pazzia degli uomini, facile pericolo in essi di cadere da lui con la testa all'ingiù 68.

... ma l'uno e l'altra sono contro il Cristianesimo.
23. 3. Non si può essere tanto stolti da non capire che questi oracoli furono contraffatti da un uomo astuto e insieme grande avversario dei cristiani o con una eguale intenzione furono trasmessi dagli impuri demoni. Difatti, poiché lodano Cristo, si può credere che con verità biasimano i cristiani e così, se ci riescono, sbarrano la via della salvezza eterna in cui si diviene cristiani. Capiscono che non contrasta la loro svariata furbizia nel nuocere se si crede a loro quando lodano il Cristo, purché si creda loro quando biasimano i cristiani. Difatti rendono colui, che crede l'uno e l'altro, un tale elogiatore del Cristo da non voler essere cristiano in modo che il Cristo, da lui lodato, non lo liberi dalla tirannia dei demoni, soprattutto perché essi lodano il Cristo in un senso che chi lo ritiene come essi lo dichiarano non è un cristiano ma un eretico fotiniano. Questi ammette Cristo soltanto come uomo e non anche come Dio, in modo che per la sua mediazione non si può avere la salvezza ed evitare o sciogliere i tranelli di questi diavoli spacciatori di frottole. Noi non possiamo accettare né Apollo, che infama il Cristo, né Ecate che lo decanta. Quegli infatti pretende che il Cristo sia ritenuto un disonesto, perché afferma che fu condannato da giudici che agivano rettamente; questa afferma che fu un uomo molto devoto, ma uomo soltanto. Però una è la mira di lui e di lei: adoperarsi cioè che gli uomini non siano cristiani perché, se non saranno cristiani, non potranno essere liberi dal loro potere. Questo filosofo, o piuttosto coloro che accolgono simili così detti oracoli contro i cristiani, ottengano prima, se ci riescono, che Ecate e Apollo si accordino nei confronti del Cristo e che l'una e l'altro insieme o lo condannino o lo onorino. Se ci riuscissero, noi per lo meno eluderemmo i demoni imbroglioni che oltraggiano e insieme lodano il Cristo. Poiché infatti un dio e una dea loro dissentono fra sé sul Cristo, poiché quegli lo oltraggia, questa lo loda, gli uomini, se reagiscono giudiziosamente, non li credono quando parlano male dei cristiani.

Incoerenza del politeista.
23. 4. Certamente però Ecate, ovverosia Porfirio, quando loda il Cristo, nel dire che per fatalità egli permise ai cristiani che s'impigliassero nell'errore, manifesta tuttavia le ragioni di quello che egli ritiene un errore. Prima di esporle con le sue parole, chiedo, qualora per fatalità il Cristo permise ai cristiani l'impiglio nell'errore, se l'ha permesso volendo o non volendo. Se volendo, in che senso è giusto? Se non volendo, in che senso è nella beatitudine? Ma ormai ascoltiamo le ragioni dell'errore. Vi sono - dice - in un determinato luogo i più piccoli spiriti terreni soggetti al potere di demoni cattivi. I sapienti degli ebrei dei quali uno è stato Gesù, come hai appreso dalle divinazioni di Apollo riferite precedentemente, gli ebrei dunque allontanavano gli uomini devoti da questi demoni pessimi e dagli spiriti di minore entità e impedivano che si dedicassero a loro, ma volevano che venerassero prevalentemente gli dèi del cielo e soprattutto Dio Padre. Anche gli dèi - soggiunge - lo ingiungono e in precedenza abbiamo dimostrato in qual senso suggeriscono di volgere la mente a Dio e comandano di adorarlo in ogni luogo. Però gli ignoranti d'indole cattiva, ai quali in verità il destino non ha concesso di ottenere doni dagli dèi e di avere il concetto dell'immortale Giove, non ascoltando né gli dèi né gli uomini di Dio, hanno rifiutato tutti gli dèi e perfino non hanno odiato ma onorato i demoni proibiti e, pur fingendo di onorare Dio, non compiono soltanto le azioni con cui Dio si adora. Certamente Dio, come Padre di tutti, non ha bisogno di alcuno, ma per noi è bene, quando lo adoriamo mediante la giustizia, la castità e le altre virtù, rendendo la nostra vita un'invocazione a lui mediante l'imitazione e la ricerca su lui. La ricerca infatti purifica, l'imitazione rende simili a Dio operando l'attaccamento a lui 69. Certamente Porfirio ha parlato bene di Dio Padre e ha dichiarato con quale tenore di vita si deve onorare. I libri profetici degli ebrei sono pieni di tali insegnamenti, quando è raccomandata o lodata la santità della vita. È in errore soltanto nei confronti dei cristiani ovvero li calunnia tanto quanto gli suggeriscono i demoni che egli ritiene dèi. Eppure non è difficile ad alcuno richiamare alla memoria le rappresentazioni oscene ed indecenti che si tenevano nei teatri e nei templi in ossequio agli dèi e volgere l'attenzione ai riti, preghiere e discorsi che si svolgono nelle chiese e a ciò che si offre al Dio vero e dedurne dove si ha l'edificazione e dove la demolizione della moralità. Soltanto una suggestione diabolica ha potuto imbeccare o suggerire a Porfirio una menzogna così insignificante ed evidente che i cristiani onorano, anziché odiare, i demoni che gli ebrei vietano di adorare. Ma il Dio, che hanno adorato i saggi degli ebrei, vieta di sacrificare anche ai santi angeli del cielo e alle virtù di Dio, che in questo nostro cammino verso la morte veneriamo ed amiamo come cittadini della somma beatitudine. Difatti egli proclama solennemente nella Legge, che ha dato al suo popolo ebreo, e dice molto minacciosamente: Chi sacrifica agli dèi sarà sterminato 70. E non si deve pensare che è stato prescritto di non sacrificare ai demoni più cattivi e agli spiriti della terra, che Porfirio considera i più piccoli o più piccoli 71. Infatti nella sacra Scrittura costoro sono stati considerati dèi non degli ebrei ma dei pagani, concetto che evidentemente in un Salmo i Settanta hanno espresso traducendo: Poiché tutti gli dèi dei pagani sono demoni 72. E affinché dunque non si pensasse che è stato proibito di sacrificare a questi demoni e che sia permesso sacrificare agli dèi del cielo, a tutti o ad alcuni, subito soggiunge: Se non al Signore solo, affinché nelle parole: Al Signore solo non si ritenga che il sole è il Signore, cui si deve sacrificare. Nella Scrittura in greco si riscontra facilmente che non si deve interpretare in quel senso.

Ritorna l'assunto della sottomissione religiosa, politica, morale.
23. 5. Dunque il Dio degli ebrei, al quale anche l'illustre filosofo rende una così grande testimonianza, diede la Legge al suo popolo ebraico, scritta in ebraico, non ermetica e ignota, ma già divulgata presso tutti i popoli. In essa è stato scritto: Chi sacrifica agli dèi e non soltanto al Signore sarà sterminato 73. Non occorre ricercare molte nozioni su tale argomento in questa sua Legge e nei suoi Profeti. Non occorre ricercarle perché non sono incomprensibili e sporadiche, occorre raccoglierle, perché sono evidenti e abbondanti, e inserirle in questo mio dibattito perché da esse risulti un concetto, più splendente della luce, che il Dio vero e sommo non ha voluto che si sacrificasse ad alcuno, ma soltanto a sé. Ecco questo solo comando, espresso in poche parole, senza dubbio con grandiosità e veemenza ma con verità, da quel Dio che i più dotti fra i pagani esaltano con accento sublime; si ascolti questo comando, si tema e si osservi affinché lo sterminio non colga i trasgressori. Dice: Chi sacrifica agli dèi e non soltanto al Signore sarà sterminato, non perché Egli abbia bisogno di qualche cosa, ma perché conviene a noi essere suoi. Nelle sacre Scritture degli ebrei si canta a lui: Ho detto al Signore: Tu sei il mio Dio perché non hai bisogno dei miei beni 74. Suo splendido e ottimo sacrificio siamo noi stessi, cioè la sua città. Celebriamo il rito di questo significato con le nostre offerte, che sono note ai fedeli, come nei libri precedenti ho dichiarato 75. La parola di Dio ha fatto udire per mezzo dei Profeti ebrei che sarebbero cessate le vittime che, come figura simbolica del futuro, offrivano i Giudei e che i popoli dell'Oriente e dell'Occidente avrebbero offerto un unico sacrificio 76, come costatiamo che già sta avvenendo. Ne ho allegato, nei limiti della sufficienza, alcuni brani e li ho già inseriti in quest'opera 77. Vi sono però luoghi in cui non v'è questo giusto ordinamento che il Dio vero e sommo domini secondo la sua grazia su una città sottomessa, in modo che essa non offra sacrifici se non a lui e perciò in tutti gli individui, appartenenti alla medesima città e a Dio sottomessi, l'anima spirituale con un ordinamento regolare secondo la fede domini sul corpo e la ragione sugli impulsi. Così che come un solo giusto così l'unione del popolo dei giusti vive di fede, la quale opera mediante l'amore con cui si ama Dio, come si deve amare, e il prossimo come se stesso. Dove dunque non v'è un simile tipo di giustizia, certamente il popolo non è l'unione degli uomini associata dalla conformità del diritto e della partecipazione degli interessi. Se non lo è, non è popolo, se è vera questa definizione del popolo. Quindi non v'è neanche lo Stato come cosa del popolo perché non si ha la cosa del popolo se non si ha il popolo.

Roma e gli altri paesi della storia furono popolo e Stato.
24. Il popolo si può definire non con questa formula, ma con un'altra, cioè: il popolo è l'unione di un certo numero d'individui ragionevoli associati dalla concorde partecipazione degli interessi che persegue. Quindi per stabilire di quali caratteristiche sia ciascun popolo, si devono tener presenti gli interessi che esso persegue. Tuttavia, quali che siano gli interessi che persegue, se l'unione è di un certo numero non di animali ma di persone ragionevoli ed è costituita dalla concorde partecipazione agli interessi che persegue, a ragione è considerata un popolo e tanto più civile quanto più è unito da costituzioni civili, tanto più barbaro quanto più è unito da costituzioni incivili. Secondo questa nostra definizione il popolo romano è un popolo e il suo è senz'altro uno Stato. La storia attesta quali interessi quel popolo perseguì nei primi tempi e quali nei periodi successivi e con quali usanze, giungendo a sanguinose sommosse e da esse alle guerre sociali e civili, rese vana con la depravazione la concordia che in certo senso è la prosperità del popolo. Ne ho parlato abbondantemente nei libri precedenti 78. Tuttavia non direi che esso non è un popolo e che il suo non è uno Stato, finché perdura una determinata unione di un certo numero di esseri ragionevoli, associato dalla concorde partecipazione agli interessi che persegue. Quel che ho detto di questo popolo e di questo Stato s'intenda che lo dico e lo penso di Atene e degli altri paesi della Grecia, dell'Egitto, della primeva Babilonia d'Assiria e di qualsiasi altro popolo, mentre nei propri Stati ressero piccole e grandi estensioni di territorio. In genere la città dei non credenti difetta della lealtà della giustizia perché ad essa Dio non ingiunge, come se fosse a lui sottomessa, di offrire sacrifici a lui soltanto e perciò in essa l'anima non ingiunge secondo onestà e fede al corpo e la ragione agli impulsi.

Corrispondenza di vita religiosa e dignità morale.
25. Sebbene dunque sembri che l'anima eserciti con dignità il dominio sul corpo e la ragione sugli impulsi, se l'anima e la ragione non sono sottomesse a Dio, come Egli stesso ha ordinato di essergli sottomessi, certamente esse non esercitano in senso morale il dominio sul corpo e sugli impulsi. È impossibile infatti che eserciti il dominio sul corpo e sugli impulsi la coscienza che non conosce il vero Dio e non è sottomessa al suo dominio, ma è profanata da demoni molto viziosi che la depravano. Quindi anche le virtù che le sembra di avere, con cui può esercitare il dominio sul corpo e sugli impulsi, se le riferirà a conseguire e conservare un fine che non sia Dio, sono piuttosto impulsi che virtù. E sebbene da alcuni si ritenga che le virtù siano veramente morali quando sono rapportate a se stesse e non sono conseguite per altro scopo, anche in questo senso sono gonfie di orgoglio e non devono essere considerate virtù ma impulsi. Come infatti non deriva dalla carne, ma è superiore alla carne il principio che la fa vivere, così non deriva dall'uomo, ma è superiore all'uomo il principio che fa vivere l'uomo nella felicità e non soltanto l'uomo ma qualsiasi potestà e virtù del cielo.

Nel tempo pace tra le due città.
26. Dunque, come l'anima è vita del corpo, così vita felice dell'anima è Dio, di cui dice la sacra Scrittura dell'Antico Testamento: Felice il popolo, di cui Dio è il Signore 79. Dunque è infelice il popolo estraniato da questo Dio. Anch'esso tuttavia persegue una certa sua pace non riprovevole, che però non manterrà per il fine perché non ne usa bene prima del fine. Ma interessa anche a noi che frattanto, in questa vita, l'abbia poiché, mentre le due città sono ancora commischiate, anche noi utilizziamo la pace di Babilonia. Da essa il popolo di Dio si svincola mediante la fede per porsi in cammino frattanto nel suo territorio. Per questo anche l'Apostolo esorta la Chiesa di pregare per i sovrani e dignitari di lei aggiungendo le parole: Per trascorrere una vita serena e tranquilla in tutta pietà e carità 80. Anche il profeta Geremia, nel predire la schiavitù all'antico popolo di Dio e nell'ingiungere per divina ispirazione che andassero con sottomissione a Babilonia, perché obbedivano a Dio anche con tale sopportazione, esortò che si pregasse per essa con le parole: Perché nella sua pace v'è anche la vostra pace 81, certamente quella nel tempo perché essa è comune ai buoni e ai cattivi.

La vera pace terrena verso la pace celeste.
27. La pace propriamente nostra si ha con Dio anche nel tempo mediante la fede e nell'eternità si avrà con lui nella visione 82. Ma nel tempo tanto la pace comune come quella propriamente nostra è pace più come sollievo dell'infelicità che come godimento della felicità. Anche la nostra dignità morale, sebbene sia vera in riferimento al vero fine del bene al quale si rapporta, è così relativa in questa vita da consistere più nella remissione dei peccati che nella pienezza della virtù. Lo conferma la preghiera di tutta la città di Dio che è in cammino sulla terra. Difatti lo grida a Dio in tutti i suoi adepti: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori 83. E questa preghiera non è valida per coloro la cui fede è morta, perché senza le opere 84, ma per coloro la cui fede è operante mediante l'amore 85. Infatti la ragione, sebbene sottomessa a Dio, tuttavia nell'attuale soggezione alla morte e nel corpo corruttibile, che appesantisce l'anima 86, non pienamente domina gli impulsi, perciò è indispensabile alle persone oneste una tale preghiera. Sebbene si abbia il dominio, non si ha senza contrasto il dominio sugli impulsi. Inoltre in questa condizione di debolezza qualcosa s'insinua anche in chi sa bene contrastare o domina già su tali nemici vinti e sottomessi e perciò si pecca, se non con un'azione deliberata, certamente con una parola che sfugge o con un pensiero vagabondo. E quindi, finché si esercita un dominio sugli impulsi, non v'è pace piena perché gli impulsi che resistono sono superati con una lotta pericolosa e quelli che sono stati superati non ancora sono debellati in un tranquillo riposo, ma sono sempre contenuti da un affannoso esercizio della libertà. Di tutte queste tentazioni nella sacra Scrittura è stato detto brevemente: Forseché la vita dell'uomo sulla terra non è una tentazione? 87. Quindi nessuno, salvo un esaltato, può presumere di vivere in maniera da non ritenere necessario di dire a Dio: Rimetti a noi i nostri debiti. Ma costui non è un grande ma un borioso tronfio, al quale con giustizia si oppone colui che dà la grazia agli umili. Perciò si ha nella Scrittura: Dio resiste ai superbi ma dà la grazia agli umili 88. In questo mondo dunque si ha la giustizia in ogni individuo affinché Dio domini sull'uomo sottomesso, l'anima spirituale sul corpo, la ragione sugli impulsi, anche se insorgono, o sottomettendoli o contrastandoli, inoltre affinché si chieda a Dio la grazia delle buone opere, il perdono dei peccati e si offra il ringraziamento per i beni ricevuti. V'è poi la pace finale, alla quale si deve riferire e per il conseguimento della quale si deve osservare l'attuale giustizia. In essa la nostra natura, liberata per mezzo della non soggezione alla morte e al divenire, non avrà più impulsi e non resisterà più ad ognuno di noi o tramite l'altro o da se stessa. In quella pace dunque non è necessario che la ragione domini gli impulsi perché non ci saranno, ma Dio dominerà l'uomo, l'anima spirituale il corpo e sarà così grande la serenità e la disponibilità alla sottomissione, quanto è grande la delizia del vivere e dominare. E allora in tutti e singoli questa condizione sarà eterna e si avrà la certezza che è eterna e perciò la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà il sommo bene.

Per i reprobi dolore e guerra nell'eternità.
28. Al contrario, per coloro che non appartengono alla città di Dio si avrà un'infelicità eterna, la quale è considerata una seconda morte 89. Difatti non si può affermare che l'anima in quello stato vive, perché è estraniata dalla vita di Dio, e neanche il corpo, perché sarà soggetto ad eterni tormenti e perciò la seconda morte sarà più atroce perché non potrà aver fine con la morte. Ma come l'infelicità è contraria alla felicità e la morte alla vita, così la guerra appare contraria alla pace. Perciò giustamente si pone il problema, dato che la pace è stata precedentemente esaltata come fine degli eletti, che cosa o di quale natura al contrario si deve intendere guerra come fine dei reprobi. Chi si pone questo problema esamini che cosa vi sia di funesto e di esiziale nella guerra e costaterà che non v'è altro che l'urto degli avvenimenti in reciproco conflitto. E non si può pensare a una guerra più grave e più rovinosa di quella in cui la volontà è contraria all'inclinazione e l'inclinazione alla volontà, in modo che simili contrasti non cessano con la vittoria dell'una sull'altra, e in cui la veemenza del dolore è in tale conflitto con la natura del corpo che l'una non cede all'altra. In questo mondo allorché capita questo conflitto o vince il dolore e la morte strappa la sensitività, o vince la natura e la guarigione fa cessare il dolore. Di là invece rimane il dolore per affliggere e persiste la natura per soffrire, perché né l'una né l'altra cessa affinché non cessi la pena. Ai due fini del bene e del male, il primo da raggiungere, l'altro da evitare, passeranno mediante il giudizio, al primo i buoni, al secondo i malvagi. Parlerò di questo giudizio, nei limiti che Dio mi concederà, nel libro seguente.