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Venerdi, 19 aprile 2024 - San Leone IX Papa ( Letture di oggi)

PARTE TERZA. ALLA MAGGIOR GLORIA DI DIO

Beata Elisabetta Canori Mora

PARTE TERZA.  ALLA MAGGIOR GLORIA DI DIO
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— Dal 1820 al 1824 —

 

50 – VITTIMA DI RICONCILIAZIONE


Dal dì 8 novembre, giorno del mio ritorno da Albano a Roma, tutto il dì 24 gennaio 1820, giorno nel quale, per ordine del mio padre spirituale, per mezzo della santa obbedienza offrii all’eterno divin Padre, unitamente agli infiniti meriti del suo santissimo Figliolo Gesù Cristo, che si degnasse ricevermi qual vittima di riconciliazione, per bene della santa Chiesa e dei poveri peccatori, offrendomi di patire qualunque pena, qualunque travaglio per ottenere la grazia della riconciliazione di Dio con gli uomini, mentre chiaramente si vede che Dio è fortemente sdegnato con noi, per i tanti peccati che si commettono, che è un puro miracolo dell’infinita sua bontà, che non subissi ogni momento tutto il mondo per i gravi delitti e grandissime indegnazioni, che in essi si commettono dalla maggior parte degli uomini.

Per mezzo dunque della santa obbedienza mi offrii. Fatto questo sacrificio di tutta me stessa, mi pareva di vedermi d’intorno balenare la divina giustizia, e quasi con fulmini del suo giusto rigore volesse incenerirmi. Mi pareva che mi si aprisse la terra sotto i piedi per ingoiarmi; mi pareva ad ogni momento che lo sdegno di Dio volesse vendicare contro di me il suo giusto furore.

In questa angusta situazione, piena di timore e di afflizione ricorrevo alle sante orazioni, ora offrendo il sangue prezioso di Gesù crocifisso, ora gli infiniti suoi meriti.

Mi nascondevo nelle piaghe amorose di Gesù Cristo, per non patire il rigore della divina giustizia, che cercava da me soddisfazione per l’offerta che avevo fatto.

In stato così afflittivo, domandai al mio padre spirituale se questa offerta, che mi aveva fatto fare, fosse stata da lui raccomandata prima al Signore. Il suddetto mi rispose che stessi pur quieta che quanto mi aveva comandato lo aveva fatto per puro impulso di Dio, dopo maturo consiglio e molte orazioni. Questa notizia mi servì di un grande conforto. Il suddetto mio padre spirituale mi diede molto coraggio e mi assicurò essere questo mio povero sacrificio molto grato a Dio.

Fu molto sensibile questo improvviso cambiamento alla povera anima mia, mentre erano passati quasi tre mesi che, per la grandissima quiete di spirito che godeva, alle volte non sapevo se più abitassi la terra o il cielo. La continua presenza di Dio, la familiarità che godevo con lui, i suoi frequenti favori, le sue amorose visite, i suoi castissimi abbracciamenti, per mezzo delle sante unioni, i rapimenti di spirito che il più delle volte per la forte violenza della grazia con cui Dio toccava la povera anima mia, faceva prova di lasciare il corpo per andare rapidamente al suo Dio, che si degnava così fortemente chiamarmi, per mezzo della sua santa grazia, il corpo faceva prova di andare appresso allo spirito, e alle volte mi trovavo, quando tornavo nei sensi, che il mio corpo si posava in terra e mi avvedevo che in quel tempo si era sollevato da terra.

Fu al certo molto sensibile l’improvviso cambiamento, per l’offerta fatta il dì 24 gennaio 1820, come già dissi di sopra. Assicurata che fui dal mio padre spirituale, che la povera mia offerta era stata molto gradita dall’eterno divin Padre, per sua infinita bontà, si degnò Dio di accertarne anche la povera anima.

50.1. Immersa nell’infinita bontà di Dio


Il dì 2 febbraio 1820, giorno della Purificazione di Maria santissima, per mezzo d’intellettuale intelligenza fui alienata dai sensi, e mi fu permesso d’inoltrarmi negli amplissimi spazi della divinità, dove Dio si degnò dare a vedere alla povera anima mia cose molto grandi e sublimi, appartenenti all’infinito suo essere divino.

Cosa mai dirò della grandissima sua magnificenza, con cui dava a vedere alla povera anima mia, con qual gratitudine a sé la chiamava e dolcemente la stringeva al castissimo suo seno, assicurandola dell’eterno suo amore.

Oh qual gioia, oh qual gaudio di paradiso scorreva nel mio spirito non so ridirlo. Piena di santi affetti si rivolgeva verso il suo Dio, sommo suo bene, e annientata in se stessa, piena di propria cognizione, la povera anima mia, tutta bagnata di lacrime: «Mio Dio», esclamava, «mio Dio, mio sommo amore, ah non son degna che voi dal vostro augustissimo trono gettiate neppure uno sguardo sopra di me. E voi, per vostra pura bontà, tanto vi degnate sollevarmi, tanto vi degnate innalzarmi sopra me stessa, che più non mi ritrovo, ma tutta tutta sono inabissata, medesimata in voi, mio sommo bene, mio sommo amore! Sono immersa nell’infinita bontà e immensità vostra, mio Dio, mio tesoro, mio tutto. Io più non mi ritrovo, ma sono medesimata con voi, eccesso incomprensibile di amore! E chi mai potrà ridire qual bene sia godere l’immenso bene che è Dio e che è in Dio? Vengano pure gli uomini più dotti, più elevati, dicano pure quanto vogliono, a mio poco talento mi pare che niente potranno dire, per molto che dicano, in paragone di quello che Dio si degna comunicarsi alle anime per via di intellettuale intelligenza. L’anima mia molto comprende, ma niente sa ridire, tanta è la grandezza, tanta è la magnificenza della cognizione che niente sa spiegare, ma tutta rapita e assorta in Dio se ne resta piena di stupore e di ammirazione, tutta piena di santo amore verso il suo amato bene, che si sente la povera anima mia morire, tanto è l’ardore di questo divino fuoco, che mi consuma e mi fa languire il possesso di questo eterno divino amore, che giorno e notte altro non bramo, altro non cerco con lacrime e con sospiri ardenti che il possesso dell’eterno mio amore, che è Dio, sommo mio bene, infinito mio amore».

Ah, che queste parole, queste dolci espressioni le replicherei cento e mille volte, e tornerei ogni momento a riscrivere che la povera anima mia ama il suo Dio con amore ardentissimo, e sono pronta ogni momento a dare il sangue e la vita per amore di questo divino amante.

50.2. Lo sdegno di Dio


Riprendo il filo, e dico che dal 14 gennaio 1820, dopo fatta la suddetta offerta, molti sono stati i patimenti interni ed esterni che ho sofferto in questi tre mesi di febbraio, marzo e aprile, ma con la grazia di Dio tutto ho superato con pazienza e rassegnazione.

In questo tempo mi sono esercitata nella santa virtù della mortificazione, silenzio, ritiro, raccoglimento e frequenti orazioni, e penitenze, per quanto mi si permettevano dal prudente mio direttore, che vedendomi indebolita di forze e inferma nel corpo, che questi tre mesi suddetti, per molti incomodi non sono che tre volte sortita da casa, e per molti giorni ho guardato il letto, tanto era il male che soffrivo, con tutto questo male mai ho lasciato di fare la santa Comunione. La mattina mi alzavo e andavo nella mia cappella, sentendo la santa Messa. Facevo ogni giorno la santa Comunione. Il più delle volte mi favoriva il mio padre spirituale a celebrare la santa Messa.

Il giorno di san Giuseppe, il dì 19 marzo 1820, dopo la santa Comunione, che ricevetti nella mia cappella dalle mani del mio padre spirituale, che celebrò la santa Messa, fu sopraffatto il mio spirito da uno straordinario favore. Dio mi trasse dai propri sensi lo spirito, fui alienata dai sensi e il mio corpo restò qual cadavere immobile, senza quasi respirare e senza che i polsi dessero segni di vita. Questo seguì per lo spazio di circa nove ore. Dopo il suddetto tempo rinvenni un poco e per buoni tre giorni il mio spirito restò sopito, senza distinguere le cose sensibili della terra.

In questo tempo fu al mio spirito, per mezzo di intellettuale cognizione, mostrato il grande castigo che Dio è per mandare sopra la terra, per le grandi iniquità che si commettono dalla maggior parte degli uomini.

Oh quale spavento, oh quale orrore ne ebbe il povero mio spirito! Mi fu mostrato il braccio onnipotente di Dio che armato stava di forte e pesante flagello, per momentaneamente scaricarlo sopra di noi, miseri mortali. In questa afflittiva situazione vedevo l’umanità santissima di Gesù Cristo, che impediva al suo divino Padre di scaricare il funestissimo colpo, dove quasi tutti gli uomini sarebbero periti sotto sì spietato flagello. La povera anima mia, per il grande spavento di vedere lo sdegno di Dio, piena di santo timore, era tutta profondata in me stessa ed umiliata fino all’intimo del mio nulla, dal profondo del quale, con abbondanti lacrime ed infuocati sospiri chiedevo misericordia, offrendo di tutto cuore il sangue preziosissimo di Gesù e gli infiniti suoi meriti all’eterno divin Padre, acciò si degnasse di placare il suo giustissimo sdegno, irritato contro di noi, infelici peccatori.

50.3. Sospesa la giustizia di Dio


Fatta la preghiera, mi pareva che Dio sdegnasse di riceverla, ma preso dal giusto suo furore, veniva alla determinazione di castigare il mondo, ed in quel momento subissarlo. Sopraffatto il pover mio spirito dalla carità fraterna, per non vedere perire tante anime, che eternamente si sarebbero dannate, con santa fiducia e filiale confidenza, io dicevo: «Ah, mio Dio, mai e poi mai acconsentirò che questo segua! Voi mi avete, per vostra infinita bontà, ricevuta qual vittima di riconciliazione; ah, mio Dio, non sdegnate il povero mio sacrificio, che vi ho fatto di tutta me stessa in unione del sacrificio che vi fece il vostro santissimo Figliolo sopra l’albero della croce. Sì, mio Dio, in unione del suo ricevete il mio, che di tutto cuore torno ad offrirvi per l’esaltazione della santa Chiesa cattolica e per salvare tutto il mondo. Mio Dio, voglio tutti salvi e lo chiedo in nome del vostro santissimo Figliolo. Volgete verso di me il forte castigo, annientatemi, fate di me ciò che vi piace, ma salvate i poveri peccatori, salvate la Chiesa!».

La povera mia preghiera fu avvalorata dal grande amore che Dio porta a tutto il genere umano. L’umanità santissima di Gesù Cristo mi diede tanto valore, tanto coraggio, tanta fu la santa confidenza, che, animata dalla cognizione dell’amore infinito che Dio porta a noi, miseri mortali, m’inoltrai dunque con timore e tremore, perché la maestà di Dio infondeva sommo timore e sommo rispetto, tremavano da capo a piedi alla sua divina presenza, ma ciò nonostante la filiale confidenza che mi diede l’infinito suo amore mi diede coraggio di sostenere il suo braccio onnipotente, e così fu sospeso il colpo formidabile della divina giustizia, che voleva scagliare in quel momento il forte suo braccio vendicatore, che per le nostre grandi iniquità e gravi peccati tiene armato il suo forte braccio di terribile flagello, che al solo vederlo mi fece tanto terrore, che per lo spavento mi sarei nascosta nel cupo più profondo della terra.

A questa vista così spaventevole, caddi in un deliquio mortale e stetti molte ore come morta affatto, senza quasi più respirare e senza pulsazione, di maniera che non davo più segni di vita, ma in questo tempo il mio spirito operava con grande agilità ed attività. A fatto così terribile e spaventoso, piena di timore e di lacrime, volgevo lo sguardo verso l’umanità santissima di Gesù Cristo, facevo una fervida preghiera in vantaggio della santa Chiesa, del clero secolare e regolare, in vantaggio di tutti i poveri peccatori, nel numero dei quali ben conoscevo di avere io il primo posto.

Dicevo: «Gesù mio, difendete voi la vostra causa. Degnatevi di offrire il vostro preziosissimo sangue, placare lo sdegno del vostro divin Padre. Gesù mio, pregate, pregate per noi, poveri peccatori». Ma queste ed altre parole dicevo con tutto l’affetto del cuore, e con tanto fervore che impietosiva il cuore di Dio, mentre io ero risoluta di andare all’inferno per impedire lo sdegno di Dio, giustamente irritato contro tanti ostinati peccatori. Io, benché indegna peccatrice, mi caricavo di ogni patimento, eziandio ancora dell’inferno, per liberare tante anime dal meritato castigo.

Fatta la forte preghiera, Dio, per la sua infinita bontà, si degnò esaudirmi, e mi permise di avvicinarmi alla tremenda sua maestà, e sostenere il forte suo braccio, animata acciò non scaricasse il colpo terribile del suo giusto furore. e così per quel momento fu sospesa la giustizia di Dio, ma non placata; mentre, per le tante iniquità che si commettono, Dio ha stabilito di mandare un terribile castigo sopra la terra, per così lavare tante sozzure ed iniquità che si commettono. La preghiera delle anime che il Signore si degna per sua bontà chiamarle con il nome di sue predilette, queste con le loro preghiere vanno temporeggiando il tempo.

Ma pur verrà questo tempo terribile e tremendo, Dio chiuderà le sue orecchie e non ascolterà preghiera alcuna, ma portato dallo zelo di vendicare i torti gravissimi che riceve la sua divina giustizia, che armata mano tutti tutti severamente punirà, senza che alcuno possa resistere né sfuggire dalla sua mano vendicatrice.

Raccomandiamoci caldamente al Signore acciò si degni usarci misericordia. Pregando un giorno, dopo passata la festa di Pentecoste del medesimo anno 1820, per molte persone facoltose che desideravano sapere quale regolamento potevano prendere nelle presenti circostanze per salvare la loro persona e la loro roba, mentre per tutto il mondo si sentivano delle insurrezioni dei popoli, che facevano temere qualche rivolta nella nostra città di Roma, ad imitazione delle altre nazioni segnatamente nella Spagna.

Da miserabile peccatrice come sono, con tutto l’impegno feci la preghiera al Signore, acciò si degnasse darmi lume per consigliare le suddette persone, benché io non le conoscessi, ma solo a me raccomandate da un mio grande benefattore.

Ecco il sentimento che ne ebbe l’anima nella santa orazione, quando si trovava nel profondo della quiete, e tutta assorta in Dio, che non vi sarà precauzione che sia sufficiente per salvare la roba e le persone, perché la grande opera che è per fare il Signore non c’è chi possa resistere né salvarsi; sicché si renderà vana ogni prevenzione, ogni cautela, quello che si deve fare è ricorrere all’Altissimo, acciò si degni la sua per infinita misericordia annoverarci nel numero di quelli che ha prescelti, i quali saranno annoverati sotto il glorioso stendardo della croce, questi saranno tutti salvi, unitamente a tutti i loro beni. Saranno annoverati sotto questo glorioso stendardo tutti quelli che conserveranno la fede di Gesù Cristo nel loro cuore, e che manterranno la buona coscienza, senza contaminarla nelle false massime presenti, che ne è pieno tutto il mondo.

50.4. Desidero piacere all’Oggetto amato


Dal giorno 19 marzo 1820 fino al 19 di giugno del medesimo anno molti sono stati i patimenti, i travagli, le pene, le angustie che ho sofferto nel mio spirito: smarrimenti di spirito penosissimi, desolazioni afflittissime, ma molto grandi furono ancora i favori, le grazie che si degnò Dio compartirmi nei tre mesi suddetti; ma, per aver trascurato lo scrivere, non so precisamente accennare quante misericordie, quanto amore abbia dimostrato alla povera anima mia peccatrice.

Nel decorso di questi tre mesi molto gravosi furono i patimenti di spirito che dovetti soffrire nei nove giorni antecedenti alla festa dei principi degli apostoli, santi Pietro e Paolo, fui sopraffatta da un cumulo di patimenti tanto gravosi, che mi credevo di non poter sopravvivere a sì forti e penosi patimenti. Questo patire era nell’intimo dell’anima, e mi veniva somministrato da un’interna cognizione di me stessa, vedendomi tanto ingrata verso quel Dio infinitamente buono e tanto parziale amante dell’anima mia.

A questo riflesso era tanto il dolore di averlo offeso, che mi pareva veramente di morire per la veemenza del dolore; tra le lacrime e i sospiri mi pareva che il cuore mi si spezzasse in mille pezzi, questo dolore mi faceva agonizzare, ma dolce agonia, dolce patimento, dolce morte, o bella contrizione quanto degna sei di un cuore tutto infiammato di puro e santo amore!

In mezzo a questo dolore, oh come cresceva a dismisura la bella fiamma della santa carità, il santo amore prendeva possesso della povera anima mia e la faceva dolcemente languire di carità. Oh come in mezzo a questo sacro incendio si accrescevano a dismisura i santi desideri di piacere all’oggetto amato. Oh come tutta si trasformava la mia povera volontà nella sua volontà divina! Qual profondo di umiltà non sentiva in se stessa la povera anima mia, e con sentimento verace si conosceva per la più indegna, per la più vile creatura che abita la terra e che non vi sia stata al mondo mai creatura più indegna di me, e che non sia per esservi creatura più ingrata di me.

Da questo sentimento così profondo era l’anima innalzata a contemplare le infinite perfezioni di Dio, la povera anima mia era sopraffatta dall’infinita amabilità del suo amorosissimo Dio, voleva slanciarsi verso di lui, ma il vedermi ricoperta di tante ingratitudini e di tanti peccati non mi reggeva il cuore di inoltrarmi, ma piena di timore e di eccessivo dolore si annientava in se stessa la povera anima mia non ardiva di inoltrarsi, ma il santo timore m’impediva la velocità del mio rapimento, qual pena sia questa io non lo so spiegare, ma mi pare che possa rassomigliarsi a quel veemente desiderio che soffrono le anime del purgatorio, che vorrebbero congiungersi all’amato bene e ne sono dalla giustizia respinte. Non so spiegare invero qual fosse, se il santo timore o il lume della propria cognizione, che sospingeva il povero mio spirito e non mi dava coraggio di inoltrarmi dove l’infinita bontà di Dio si degnava chiamarmi, e, per mezzo della sua santa grazia, innalzarmi a penetrare gli amplissimi spazi della sovrana sua immensità.

Oh come a questo riverbero divino, che tramandava la luce inaccessibile della sua divinità, la povera anima mia si inabissava in se stessa, e, piena di propria cognizione e di santo timore chiedeva all’immenso Dio pietà e misericordia per sé e per tutti i poveri peccatori.

50.5. I santi apostoli Pietro e Paolo e i quattro alberi misteriosi


Il fatto che sono per raccontare mi seguì il giorno della festa del gran principe degli apostoli, il glorioso san Pietro, 29 giugno 1820. Fui alienata dai propri sensi, proseguendo a pregare il giorno del gran principe san Pietro del 1820, pregando per i bisogni della santa Chiesa cattolica, trovandomi di pregare per la conversione dei peccatori, fratelli miei, nel numero dei quali io occupo il primo luogo, si trovava il mio povero spirito sollevato per mezzo di particolare favore di Dio ad un rapimento celeste, e mi trovavo propriamente vicina a Dio medesimo, per mezzo di una luce inaccessibile ero unita intimamente in Dio in guisa tale che più non mi distinguevo, ma tutto ero trasformata in quella divina luce. Ricevetti la dolce impressione della divina carità. Oh qual giubilo, oh qual contento di paradiso restò nel povero mio cuore! Quando ero in mezzo a questa dolcezza e il mio spirito era circondato da una perfetta quiete, mi parve di vedere aprirsi il cielo, e scendere dall’alto con grande maestà, corteggiato da molti santi angeli, che cantavano inni di gloria, il grandissimo principe degli apostoli san Pietro, vestito degli abiti pontificali, portava nelle mani il pastorale, con il quale segnava sopra la terra una vastissima croce. Nel tempo che il santo apostolo segnava la suddetta croce, i santi angeli gli facevano d’intorno corona, cantavano con sommo rispetto e venerazione, in lode del santo apostolo: «Costitues eos principes super omnem terram», con quello che segue in appresso.

Appuntava il suo misterioso pastorale sopra i quattro lati della suddetta croce segnata, e al momento vedevo apparire quattro verdeggianti alberi, ricoperti di fiori e frutti preziosissimi. I misteriosi alberi erano in forma di croce, erano circondati da una luce risplendentissima, fatta che ebbe questa operazione, andò ad aprire tutte le porte dei monasteri delle monache e dei religiosi. Con interno sentimento distinguevo che il santo apostolo aveva eretto quei quattro misteriosi alberi per dare un luogo di rifugio al piccolo gregge di Gesù Cristo, per liberare i buoni cristiani dal tremendo castigo, che metterà a soqquadro tutto il mondo. Tutti i buoni cristiani, che avranno conservato nel loro cuore la fede di Gesù Cristo, saranno tutti sotto questi misteriosi alberi rifugiati; come ancora tutti i buoni religiosi e religiose, che fedelmente avranno nel loro cuore conservato lo spirito del loro santo istituto saranno tutti sotto questi misteriosi alberi rifugiati e liberi dal tremendo castigo. Così dico di tanti buoni ecclesiastici secolari ed altro ceto di persone, che avranno conservato la fede nel loro cuore, questi saranno tutti salvi. Ma guai a quei religiosi e religiose inosservanti, che disprezzarono le sante regole, guai, guai, perché tutti periranno sotto il terribile flagello. Così dico di tutti i cattivi ecclesiastici secolari e ogni altro ceto di persone, di ogni stato, di ogni condizione, che dati in preda al libertinaggio e vanno dietro alle false massime della riprovata filosofia presente. Questi sono contro le massime del santo evangelo, negano la fede di Gesù Cristo, questi infelici tutti periranno sotto il peso del braccio sterminatore della divina giustizia di Dio, alla quale nessuno potrà resistere.

Rifugiati che erano tutti i buoni cristiani sotto i misteriosi alberi, che li vedevo sotto la forma di belle pecorelle, sotto la custodia del loro pastore san Pietro, al quale tutte prestavano umile soggezione e rispettosa obbedienza, queste simboliche comparse significa il popolo cristiano: che milita sotto il glorioso stendardo della croce, il quale sarà immune dal tremendo castigo, che Dio è per mandare sulla terra, per i tanti peccati che si commettono dalla maggior parte del cristianesimo.

50.6. Dio si riderà di loro


Fatta dunque dal santo apostolo la suddetta operazione di assicurare sotto i misteriosi alberi il piccolo gregge di Gesù Cristo, il santo apostolo risalì al cielo, accompagnato dai santi angeli che con lui erano discesi. Risaliti che furono al cielo, il cielo si ammantò di tenebroso azzurro, che il solo mirarlo faceva terrore, un caliginoso vento con l’impetuoso suo soffio dappertutto si faceva sentire, con l’impetuoso e tetro suo fischio urlando nell’aria qual fiero leone col suo fiero ruggito l’orrido suo eco per tutta la terra faceva risuonare.

Il terrore, lo spavento poneva tutti gli uomini e tutti gli animali in sommo spavento, tutto il mondo sarà in rivolta e si uccideranno gli uni con gli altri, si trucideranno tra loro senza pietà. Nel tempo della sanguinosa pugna, la mano vendicatrice di Dio sarà sopra questi infelici, e con la sua onnipotenza punirà il loro orgoglio e la loro temerarietà e sfacciata baldanza, si servirà Dio della potestà delle tenebre per sterminare questi settari, uomini iniqui e scellerati, che pretendono di atterrare, di sradicare dalle sue profonde radici, di buttar giù dai suoi più profondi fondamenti la nostra santa madre Chiesa cattolica.

Questi uomini indegni pretendono di balzare Dio dal suo augustissimo trono, per mezzo della loro perversa malizia. Dio si riderà di loro e della loro malizia, e con un solo cenno della sua destra mano onnipotente punirà questi iniqui, permettendo alla potestà delle tenebre di sortire dall’inferno, e queste grandi legioni di demoni scorreranno tutto il mondo, e per mezzo di grandi rovine eseguiranno gli ordini della divina giustizia, a cui questi maligni spiriti sono soggetti, sicché né più né meno di quanto lo permetterà Dio potranno danneggiare gli uomini e le loro sostanze, le loro famiglie, i loro poderi, villaggi, città, case e palazzi, e ogni altra cosa che sussisterà sopra la terra.

Comanderà Dio imperiosamente alla potestà delle tenebre che facciano crudo scempio di tutti i suoi ribelli, che temerariamente ardirono di offenderlo con tanto ardire e baldanza. Permetterà Dio che siano castigati questi uomini iniqui dalla crudeltà dei fieri demoni, perché volontariamente alla potestà del demonio si soggettarono, e con loro si confederarono a danneggiare la santa Chiesa cattolica. Permetterà Dio che da questi maligni spiriti siano puniti, per mezzo di morte cruda e spietata. E perché il povero mio spirito bene apprendesse questo sentimento della giustizia divina, mi fu mostrato l’orrido carcere infernale. Vedevo aprirsi dal profondo cupo della terra una tenebrosa e spaventevole caverna, piena di fuoco, dove vedevo sortire tanti demoni, i quali, presa chi una figura e chi un’altra, chi da bestia, chi umana, venivano tutti ad infestare il mondo e fare dapertutto stragi e rovine.

Ma buono per i veri e buoni cristiani, mentre in loro favore avranno il valevole patrocinio dei gloriosi santi apostoli san Pietro e san Paolo. Questi vigileranno alla loro cura e custodia, acciò quei maligni spiriti non possano nuocere né la loro roba né le loro persone; ma questi buoni cristiani saranno preservati ed immuni dalle spietate rovine che faranno questi maligni spiriti, con il permesso di Dio e non altrimenti, mentre questo immenso Dio è l’assoluto padrone del cielo e della terra e dell’inferno, la cui tenebrosa potestà non può farci alcun danno senza il suo sommo permesso, senza la sua volontà.

Permetterà Dio a questi maligni spiriti di fare molte rovine sulla terra, deguasteranno tutti quei luoghi dove Dio è stato ed è oltraggiato, profanato, idolatrato e sacrilegamente trattato: tutti questi luoghi saranno demoliti, rovinati, e perderanno ogni loro vestigio.

50.7. La riconciliazione di Dio con gli uomini


Fatta la suddetta operazione, puniti gli empi con morte crudele, demoliti questi indegni luoghi, vidi ad un tratto riasserenare il cielo, ed immantinente dall’altezza di esso vidi scendere sulla terra un maestoso trono, dove vedevo il santo apostolo san Pietro maestosamente vestito degli abiti pontificali, corteggiato da immenso numero di angeli, i quali gli facevano d’intorno corona, e cantando inni di gloria in lode del santo, ossequiandolo qual principe della terra. In questo tempo vidi nuovamente aprire il cielo e scendere con gran pompa e maestà il glorioso san Paolo, che con autorevole potestà di Dio, in un baleno scorreva tutto il mondo, e incatenava tutti quei maligni spiriti infernali, e li conduceva avanti al santo apostolo, il quale con il suo autorevole comando li tornò a confinare nelle tenebrose caverne, donde ne erano usciti. Al comando del santo apostolo san Pietro tutti tornarono nel baratro dell’inferno.

Al momento si vide sulla terra apparire un bello splendore, che annunziava la riconciliazione di Dio con gli uomini; dai santi angeli fu condotto il piccolo gregge di Gesù Cristo avanti al trono del gran principe san Pietro. Questo gregge era quel suddetto gregge di buoni cristiani, che in tempo del tremendo castigo sarà rifugiato sotto i misteriosi alberi anzidetti, significati quali gloriosi stendardi della croce, insegna misteriosa della nostra santa religione cattolica. I misteriosi frutti dei suddetti alberi sono i meriti infiniti di Gesù crocifisso, che per amore del genere umano volle essere appeso sopra l’albero della croce.

Presentato che fu dai santi angeli il piccolo numero dei cristiani avanti al trono del gran principe degli apostoli san Pietro, tutti quei buoni cristiani gli fecero profonda riverenza, e benedicendo Dio fecero i loro più umili ringraziamenti a Dio ed al santo apostolo, per avere retto e sostenuto la Chiesa di Gesù Cristo e il cristianesimo, acciò non andasse errato nelle false massime del mondo. Il santo scelse il nuovo pontefice, fu riordinata tutta la Chiesa secondo i veri dettami del santo Evangelo, si ristabilirono gli ordini religiosi, e tutte le case dei cristiani divennero tante case religiose, tanto era il fervore, lo zelo della gloria di Dio, che tutto era ordinato all’amore di Dio e del prossimo. In questa maniera si formò in un momento il trionfo, la gloria, l’onore della Chiesa cattolica: da tutti era acclamata, da tutti stimata, da tutti venerata, tutti si diedero alla sequela di essa, riconoscendo tutti il vicario di Cristo, il sommo pontefice.

51 - CON SAN GIOVANNI BATTISTA DELLA CONCEZIONE PER LIBERARE LE ANIME DEI PURGANTI


51.1. Per tuo mezzo vuol salvare molte anime


La povera peccatrice Giovanna Felice della Santissima Trinità si protesta di scrivere alla maggior gloria di Dio e maggior mia confusione, e per obbedienza del suo padre spirituale, e per soddisfare all’obbligo del mio dovere di dare un esatto conto del mio povero spirito al suddetto padre. Mi accingo a scrivere questi fogli, dopo avere invocato il suo santo nome in aiuto ed implorato il santo lume, acciò si degni illuminare la mia mente, acciò possa scrivere con purità e semplicità di spirito, e per adempire alla sua santissima volontà, avendomene Dio fatto fino dai primi anni un preciso comando.

52 – L’AMORE DI DIO DISPREZZATO DAGLI UOMINI


Racconto come nello scorso mese di dicembre 1820, il dì 8, giorno della Immacolata Concezione di Maria santissima, per mezzo di una illustrazione divina, mi manifestò il Signore l’irritato suo sdegno giustissimo contro tutto il genere umano, facendomi conoscere l’empietà, l’indegnazione le enormi ingratitudini che si commettono dagli uomini contro la sua divina legge ed il suo santo Evangelo, da ogni sorta di persone, tanto ecclesiastiche che secolari.

Si degnò il Signore di inoltrarmi fino negli ampli spazi della sua divinità, dove mi diede a vedere ed a conoscere le infinite sue misericordie e l’eterno suo amore. Qual meraviglia e qual rapimento di spirito recasse alla povera anima l’eterna magnificenza del mio eterno Dio, non mi è al certo possibile il poterlo spiegare, mentre era tanta la grandezza della cognizione, che restai rapita nel penetrare tanta magnificenza, che il povero mio intelletto non poteva arrivare a comprenderlo, né poteva penetrare simile grandezza.

Dopo aver goduto questo gran bene inarrabile ed incomprensibile, mi fece Dio conoscere quanto sia disprezzato dagli uomini questo suo grande amore, mi diede a vedere gli oltraggi sacrileghi che si commettono, in una parola, in un tratto vidi tutte le iniquità che inondano la terra, e tutte le abominazioni che si commettono dai libertini e le forti manovre che si fanno dai nemici della nostra santa religione cattolica, che cercano tutte le maniere di poterla del tutto distruggere.

«Mira, o figlia», mi diceva l’eterno Dio, «qual contrapposto di iniquità è mai questo che si fa all’eterno mio amore. La mia giustizia è ormai stanca di sostenere il grave peso di queste grandi enormità. L’eterno mio Padre più non vuole accettare i sacrifici delle anime sue dilette, che quali vittime si offrono con rigide penitenze, per sostenere l’irritato suo sdegno. Queste, unite ai miei meriti, cercano di placare la sua giustizia, ma già più non ascolta né preghiere né vittime. È già determinato il terribile decreto di castigare e punire con tutta severità l’iniquità degli uomini con terribile castigo. Il decreto è stabile, permanente ed irrevocabile. Figlia, non mi pregare, mentre la preghiera su di ciò io sdegno».

Ed intanto, facendomi la dimostrazione della sua inesorabile giustizia, mi levò la libertà e la volontà di pregare per questa grande causa.

Oh quale afflizione mi recasse e qual timore mi rendesse il vedere lo sdegno di Dio non posso con parole esprimerlo, il vedere l’iniquità degli uomini e la loro ingratitudine verso il bene sommo di un Dio amante. A confronto così dissonante fui sopraffatta da un deliquio mortale, che mi ridusse ad agonizzare per molte ore; tornata nei propri sensi, piena di spavento e di terrore, per aver veduto Dio sdegnato giustamente contro di noi, senza poterlo placare, restò la povera anima mia nel pianto e nell’afflizione.

52.1. Vidi la Chiesa tutta in soqquadro


La maggior mia pena fu di vedere la Chiesa di Dio tutta in soqquadro, tutta sbaragliata e dispersa, per l’infedeltà dei sacri ministri, che dovrebbero sostenerla a costo del proprio sangue, ed invece la tradiscono col sostenere le false massime del mondo, col lasciarsi guidare dalla politica mondana. Sdegnato Dio di questa loro infedeltà, aveva decretato di traslare altronde la cattedra infallibile della verità di Chiesa santa. Sdegnato mi si fece vedere il grande apostolo san Pietro, zelatore dell’onore di Dio, e Paolo santo quale guerriero unito alle milizie angeliche traslatar voleva dalla inefanda città di Roma la cattedra di san Pietro.

E come potrò mai ridire quale pena, e quale afflizione mai recasse al povero mio spirito determinazione così tragica e sì luttuosa per il cristianesimo? Piena di mestizia e di dolore, appena potevo sostenere l’afflitto mio corpo e l’abbattuto mio spirito per l’accaduto fatto, che mi portai dal mio padre spirituale, e piena di lacrime gli comunicai quanto nelle orazioni mi era accaduto. Sentendo il notato padre tutto il racconto per estensum, fattomi varie interrogazioni, mi fece coraggio e mi disse che stessi quieta, mentre credeva che questa fosse una illustrazione del Signore alla quale io dovevo corrispondere con fedeltà, perciò mi comandò di pregare caldamente e con tutto il fervore l’altissimo Dio, acciò si degnasse, per mezzo della umanità santissima di Gesù Cristo, di lasciarmi la libertà di pregare per la santa Chiesa, acciò non fosse dispersa così, e che non avesse permesso di traslatarla, ma che avesse dato luogo alla sua misericordia, e non avesse privato questa povera città di Roma, benché immeritevole, di possedere tesoro sì santo, qual è la cattedra di san Pietro.

Avvalorata la povera anima mia dall’obbedienza del mio padre spirituale, mi presentai all’orazione, con sommo rispetto e riverenza mi misi alla presenza di Dio, umiliandomi profondamente e annientandomi in me stessa, così presi a parlare con l’eterno mio Dio: «Amorosissimo mio Signore, padrone assoluto del cielo e della terra, ecco prostrata ai vostri piedi santissimi la creatura più vile che abita la terra, riconoscendomi affatto indegna delle eterne vostre misericordie, mi conosco meritevole di mille inferni, per i miei gravi peccati ed enormi ingratitudini che ho commesso contro di voi, sommo mio bene, ciò nonostante questa grande verità, che io confesso di avervi offeso e strapazzato, mio amorosissimo Dio, supplichevole mi presento al vostro augusto trono, e col cuore tremante e con la bocca sulla polvere mi prostro d’innanzi alla vostra divina maestà, e benché conosca che sono terribili i vostri eterni giudizi, ciò nonostante mi fo coraggio di pregarvi, benché voi, mio Dio, mi abbiate manifestato di sdegnare questa preghiera. Perdonate dunque il mio ardire, e per gli infiniti meriti nel vostro santissimo Figliolo, permettetemi di pregarvi, mentre voi sapete l’obbedienza che mi ha imposto il vostro ministro, mio padre spirituale. Per l’amore che voi portate a questa santa virtù, degnatevi di esaudirmi, mio Dio, non sdegnate di esaudire la povera mia preghiera mentre intendo di unirla alla preghiera del vostro santissimo Figliolo, quando dall’albero della croce vi pregò per i suoi crocifissori: Pater, dimitte illis non enim sciunt quid faciunt, parola degna dell’infinita carità del vostro eterno amore. Affidata dunque a queste parole dell’eterna Sapienza, io mi rivolgo a voi, eterno mio Dio, e piena di fiducia, mi faccio ardita di pregarvi per i bisogni di santa Chiesa e per tutti i poveri peccatori, ed in discolpa di questi miserabili, che non sanno quello che si fanno, offendendo la vostra divina maestà. Io, da miserabile peccatrice qual sono, vi presento la povera mia preghiera in unione di quella preghiera che vi fece il vostro santissimo Figliolo. Sì, eterno mio Dio, non sdegnate di esaudirmi, ché io, qual vittima di espiazione e di riconciliazione, mi offro di patire ogni sorta di patimenti, unitamente agli affanni gravosissimi che ha sofferto il vostro santissimo Figliolo».Con molte lacrime, gemiti e sospiri, ripetevo con fervore eccessivo e con ardente amore la medesima preghiera.

52.2. «Prosegui a pregare con fiducia»


In questo stato di cose, mi si fece vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, che con voce piacevole così mi parlò: «Figlia benedetta dal mio Padre, è molto piacevole a me la tua preghiera, non ti stancare, prosegui con fiducia a pregare: la tua preghiera ed il tuo sacrificio, unito ai miei meriti, placheranno il suo giustissimo sdegno. Fatti coraggio! l’eterno mio Padre non è sdegnato con te. Prosegui con fervore a pregare, che otterrai quanto brami e desideri. Ma prepàrati, o mia figlia, a patire grandi cose per amor mio. Dovrai sostenere una forte battaglia con la potestà delle tenebre, questi faranno grande forza per sopraffarti, servendosi dei supplizi più barbari per affliggere il tuo corpo, i tuoi sensi saranno abbattuti e tormentati dai più forti patimenti, il tuo spirito dovrà soffrire una desolazione ed agonia in qualche maniera simile a quella che io patii nella mia passione e morte. Ma Dio ti prometto la mia particolare assistenza e ti sovverrò con i miei più particolari favori».

Incoraggiata l’anima mia dalle parole del mio divino Redentore, che con tanta piacevolezza ed amore mi parlava: «Sì», gli dissi con veracità di spirito e con amore ardente, «eccomi pronta, Gesù mio, per amor vostro a soffrire qualunque patimento. Io mi sacrifico ben volentieri; ma chi mi darà coraggio di sostenere la forte battaglia contro i miei nemici? Mentre voi mi avete detto che dovrò in qualche maniera rassomigliarmi a voi in questo patimento, e che dovrò sostenere una desolazione di spirito ed un’agonia mortale, e in questo stato di cose dovrò sostenere la forte battaglia con la potestà delle tenebre, io che sono la creatura più vile della terra, tanto abominevole per tanti peccati commessi? Io che altro non merito che l’inferno, per essere peggiore dei demoni medesimi, avendo oltraggiato con tanti peccati la vostra divina maestà. E come potrò io sostenere con le deboli mie forze una simile battaglia? Mio Dio, dubito di me stessa e temo di arrendermi alle voglie del nemico tentatore».

E con dirotto pianto e con affannosi sospiri esclamavo ed imploravo il divino aiuto, con queste parole: «Quid retribuam Domino, pro omnibus qui retribuant mihi? Calicem salutaris accipiam et nomen Domini invocabo».

Con queste ed altre simili espressioni andava la povera anima mia implorando il divino aiuto: «Mio Dio», dicevo, «degnatevi di non abbandonarmi in questo doloroso conflitto, mentre dubito di essere pervertita dai miei nemici e di mancarvi di fedeltà». Piangevo e sospiravo per il timore di essere infedele al mio Dio.

Trovandomi in questa forte derilizione di spirito, mi apparve nuovamente l’amorosissimo mio Signore, riempiendomi di consolazione con la sua amabilissima presenza, così nuovamente prese a parlarmi: «Figlia diletta mia, allontana da te il soverchio timore. Io ti prometto la particolare assistenza della mia grazia. Io sarò sempre con te, e se io sono con te, chi sarà contro di te? chi ti potrà nuocere? e chi mai ti potrà sovrastare? Dunque, fatti coraggio e non dubitare, fìdati di me. Io ti prometto, da quel Dio che sono, di farti riportare la compiuta vittoria dei tuoi nemici».

Quale consolazione recasse alla povera anima mia una tale promessa, e qual forza e coraggio prendessi contro i miei nemici non è possibile poterlo spiegare. Affidata alle parole immancabili della divina Sapienza, si degnò Dio in quell’istante di comunicarmi il dono della fortezza e della scienza, per poter vincere e superare i miei nemici. Si degnò darmi un lume straordinario di propria cognizione e di basso concetto di me stessa, perché il nemico infernale non potesse né abbattermi, né vincermi con dettami della sua superbia.

52.3. Battaglia contro spietati nemici


Non passarono molti giorni che dovetti attaccare la grande battaglia con i miei spietati nemici. Il surriferito fatto mi seguì il dì 8 dicembre 1820, come già dissi, e il combattimento seguì il 18 gennaio 1821.

Mi si fece dunque vedere la potestà delle tenebre, che armata mano erano quelli spiriti infernali tutti congiurati contro di me, e con baldanza e superbia su burlavano di me, schernendomi ed insultandomi, mostrandomi i più crudeli supplizi infernali, facevano prova di spaventarmi, perché mi fossi arresa alle loro voglie, con farmi negare la fede di Gesù Cristo, e rendermi loro seguace.

Certo che il solo vedere quei mostri infernali cotanto arrabbiati e così brutti e spaventosi, tanto sdegnati contro di me, il veder poi quei barbari supplizi infernali, dico al certo che mi spaventarono, ma la promessa che mi aveva fatto il mio Dio di aiutarmi, per mezzo della sua divina grazia, questa mi dava un grande coraggio, non solo di vedere quei supplizi, ma eziandio di provarli. Mi raccomandavo intanto al mio buon Dio, acciò mi aiutasse in questo penoso conflitto, ed intanto quei maligni spiriti, arrabbiati, perché non mi arrendevo alle loro voglie, mi furono addosso, e con verghe di ferro mi dettero molte percosse. Quali e quanti fossero i supplizi che mi fecero provare quei maligni spiriti non è di mente umana poterlo comprendere.

Oltre i gravi patimenti che pativa il mio corpo, per mezzo dei barbari supplizi che la loro voglia mi davano, che in appresso manifesterò alla meglio che mi sarà possibile, mentre a gloria di Dio devo dire, e a maggior mia confusione, che nessuno di questi supplizi si possono rassomigliare ai più barbari e crudi supplizi che usarono i persecutori di Chiesa santa contro i santi martiri, perché mi pare, a mio poco talento, che non abbiano che fare, né abbiano paragone a questi supplizi infernali, inventati a bella posta dalla rabbia di quei maligni spiriti, ma in qualunque modo sia, non intendo sostenere la mia sciocca proposizione, ma per dire solo per verità il mio sentimento, e perché possa risultare l’infinita misericordia dell’onnipotente Dio, senza la quale devo confessare con tutta la veracità del mio spirito, che al solo vedere la spaventevole bruttezza di quei maligni spiriti e i supplizi infernali che tenevano nelle loro mani, solo bastava per farmi arrendere alle loro voglie; ma buon per me, che, assistita dalla divina grazia, potei con prontezza e fortezza di spirito ridermi della loro barbarie, perché la povera anima mia, umiliandosi profondamente fino all’abisso del proprio suo nulla, diceva con grande fiducia e santa libertà di spirito: «Omnia possum in eo qui me confortat, ad maiorem Dei gloriam», così dicendo si diede principio alla sanguinosa pugna. Fui assalita dalle più fiere tentazioni e desolazioni di spirito, il corpo era abbattuto nei sensi con i più spietati tormenti.

52.4. Sopraffatta da un male mortale


In questo stato di cose, fui sopraffatta da un male mortale, che mi privò affatto dei sensi; stetti sempre combattendo dal giorno 18 gennaio 1821 fino al giorno 25 febbraio del medesimo anno. Sicché 17 giorni stetti sempre combattendo e soffrendo i più spietati tormenti.

I professori medici mi avevano spedita affatto, mentre la mia vita, per i gravi patimenti, era ridotta agli ultimi estremi. Per otto giorni continui non potei prendere cibo di sorta alcuna, neppure una stilla d’acqua, nonostante che fosse così abbattuto e derelitto il mio corpo, si vedeva dalle persone assistenti che il mio corpo tutte le ore era così malmenato e strapazzato che muoveva, a chi lo vedeva, grandissima compassione. Permetteva Dio, per accrescimento dei miei patimenti, di non riconoscere neppure il mio padre spirituale, che ad ogni istante si trovava presente, per darmi, con l’autorevole suo comando qualche conforto, mentre era ben noto al suddetto mio padre, la causa di questo mio grave patimento. Non mancò il lodato padre di aiutarmi in questo tempo con le preghiere e ferventi orazioni e comandi precettivi allo spirito delle tenebre, giacché io ero incapace di conoscere la sua voce, mentre per i gravi patimenti avevo perduto l’umana sensazione. Non mancò il suddetto mio padre di avvisare il medico curante che non avesse adoperato l’umana medicina, mentre ad altro non servirebbe che per aggravare il mio patimento.

A questo avviso il prudente dottore non mise in pratica che quei rimedi che credette opportuno, per sollevare in qualche maniera la mia umanità.

Non sto qui a dire quello che in questi giorni seguì nella mia casa, che per essere tutta circondata dai maligni spiriti, questi altro non facevano che mettere in somma confusione tutti i miei parenti, che erano tutti accorsi, per riparare alla mia grave malattia. Tra questi nasceva molta disparità di pareri, e così facevano una grande confusione. E questo tutto era per istigazione dei maligni spiriti. Io chiaramente distinguevo la causa della loro confusione, ma non la potevo riparare, servendomi questo ancora di sommo patimento.

53 – I SUPPLIZI DEGLI SPIRITI MALIGNI


Per non mancare all’obbligo troppo doveroso che mi corre di dare a vostra paternità reverendissima un esatto conto di quanto segue nel mio spirito, per soggettarmi in tutto e per tutto alla santa obbedienza ed al savio suo parere e consiglio, mi accingo ad accennare alla meglio che mi sarà possibile, quali e quanti furono i patimenti interni ed esterni che dovetti soffrire da questi ministri della potestà infernale, come ancora degli aiuti speciali che ricevetti dalla divina grazia e i favori particolari che ricevetti dall’altissimo Dio e con quale misericordia si degnò sostenere la mia grande miseria e debolezza, che al solo rifletterlo mi serve di umiliarmi ed annientarmi fino al profondo del mio nulla e di ringraziamento continuamente l’infinita bontà del mio buon Dio, per avermi di sua propria mano aiutata e difesa per riportare di questi nemici la compiuta vittoria.

Fu dunque il mio corpo battuto e flagellato con verghe di ferro, e questo si fece con tanta empietà da quei maligni spiriti che mi parve che mi avessero infrante tutte le ossa, che solo questo bastava per farmi morire, e al certo sarei morta, se non avesse dopo di questo accorso Dio medesimo a guarirmi, per mezzo di luce divina, uno splendore chiarissimo venne ad investire il mio malmenato corpo, e con il suo splendore contatto immantinente restai sanata e piena di gaudio di paradiso restò la povera anima mia, dileguandomi la desolazione e la tristezza.

Dio l’abbracciò e la strinse al castissimo suo seno, e la rese molto più forte per sostenere la battaglia dei spietati nemici.

In secondo luogo mi diedero un supplizio così barbaro, tutto proprio di casa del diavolo, che credetti veramente di non poterlo superare, credetti proprio di morire. Questo fu di mettermi al collo una collana ben grossa di ferro, e stringerla tanto con tanta crudeltà e barbarie che m’impedì di potere prendere cibo di sorta alcuna, né prendere neppure una stilla di acqua. Per la grave compressione mi si inulgirì tutta la gola e la bocca, che muoveva compassione a chi mi assisteva. Questo supplizio lo patii per lo spazio di otto giorni, oltre ciò con un crudo ferro mi martirizzavano la bocca e la gola, che per essere così esulgirita pativo spasimi di morte. Nel vedere che per otto giorni continui non avevo preso cibo di sorta alcuna, neppure una stilla d’acqua, con un male tanto grande alla bocca e alla gola, tutti credevano che non potessi campare, segnatamente il medico dava per disperata la mia guarigione.

Ma buon per me che la misericordia di Dio vegliava sopra di me: ecco il solito splendore divino, che tutta tutta a sé mi attrasse, ed immantinente guarisce tutti i miei malori e consola e conforta la povera anima mia. Dio mi parla al cuore e mi chiama «oggetto delle sue più alte compiacenze», e mi stringe fortemente al suo castissimo seno; e come potrò mai ridire qual fuoco di carità mi comunicò l’eterno suo amore, qual coraggio mi donò per viepiù patire per la sua gloria e per il suo onore e per il bene della santa Chiesa e per la salvezza eterna delle anime dei miei prossimi.

53.1. Inchiodata sopra una croce


Terzo supplizio. Fui poi da questi maligni spiriti, con somma crudeltà e barbarie, inchiodata sopra una croce. Qual dolore patissi nelle mani e nei piedi non è possibile poterlo ridire. Questo supplizio mi fece propriamente agonizzare. Stando in questa dolorosissima e desolata situazione, quei maligni spiriti m’insultavano, mi beffavano e mi dicevano: «Ecco di che moneta ti paga il tuo Dio, a cui giurasti la tua fedeltà! sciocca che sei, negagli quella fedeltà che gli giurasti, che non ti promettiamo di farti beata sulla terra, noi ti daremo onori, gloria, grandezze e quanto mai puoi desiderare. Una sola tua parola ci basta: devi dire che tutto il cuore che rinunzi Dio, che vuoi essere anticristiana, questo basta, questo basta», tutti gridavano a viva voce quei maligni spiriti, «altrimenti noi non lasceremo mai di perseguitarti, e con replicati supplizi ti daremo la morte, il tuo Dio ti ha lasciato nelle nostre mani ed abbiamo sopra di te tutta la potestà».

53.2. Atto di fede


A queste parole la povera anima mia, aiutata dalla divina grazia, con grande coraggio rispondeva: «Voglio essere fedele al mio Dio fino all’ultimo respiro della mia vita, sono contenta di patire e mi protesto di essere fedele seguace di Gesù crocifisso. A questo oggetto rinnovo la professione che feci nel santo battesimo: rinunzio al mondo, al demonio e alla carne, rinunzio alle sue pompe alle sue vanità e alle tue nefande suggestioni, e maligno spirito delle tenebre. Dio solo voglio amare, Dio solo voglio venerare, Dio solo voglio seguire con la perfetta osservanza dei suoi santi comandamenti, soggettando il mio intelletto a credere tutti i misteri della santa fede e tutto quello che crede la santa Chiesa cattolica apostolica romana. Per questa santa fede sono sempre pronta di dare il sangue e la vita ed in questa santa fede voglio vivere e morire».

53.3. Un colpo di lancia al cuore


A questa mia protesta si accrebbe viepiù la loro rabbia contro di me, e con sommo furore e sdegno mi scagliarono un colpo di lancia al cuore, così afflittivo e doloroso fu per me questo colpo, che credetti di rendere l’anima a Dio, che invocavo con grande fiducia il suo divino aiuto. In questo doloroso conflitto non furono vane le mie speranze, mentre ad un tratto si cambiò la mia luttuosa scena in teatro di paradiso.

53.4. La visione beatifica di Dio


Mi si diede a vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo tutta raggiante di luce, corteggiato da schiere angeliche, e di sua propria mano mi schiodò dalla croce e mi medicò con unguento prezioso, che scaturiva dal suo sacrosanto costato ed immantinente restai sanata, poi mi fece godere una armonia angelica che sollevò la mia mente a contemplare la visione beatifica di Dio. Il godere di questo gran bene mi fece affatto dimenticare tutte le pene e martiri sofferti, qual bene sperimentai nell’anima, qual consolazione qual gaudio di paradiso non mi è possibile il poterlo spiegare. Dico di aver goduto la visione beatifica di Dio sommo bene, ma intendo dire per quanto si può godere da un’anima ancora viatrice. Ma siccome la cosa fu tanto grande e magnifica, che non ho termini di spiegarlo altrimenti, a questo oggetto mi sono servita di questa espressione, come per la pura e sincera verità. Come sempre mi sono regolata nei poveri ed ignoranti miei scritti, di non aver mai declinato dalla verità del fatto, ma devo confessarlo a gloria del mio Dio di avere piuttosto diminuito che ingrandito, e molte volte di aver troncato certi fatti, perché mi servono di somma confusione e rossore e di grande umiliazione, attesa la mia cattiva corrispondenza ed ingratitudine verso un Dio che mi dimostra tanto amore e tanta carità.

53.5. Ancora sevizie del tentatore


Riprendo il filo del racconto. Goduto dunque di questo grandissimo bene veramente inarrabile, con il quale fu ristorato il mio spirito ed il mio corpo, ma non finirono qui i miei patimenti e le sevizie del maligno tentatore. Dovetti soffrire un altro martirio molto crudele, che mi fece spasimare per vari giorni e varie notti; questo fu di mettermi quei maligni spiriti con somma empietà certe piastrine di ferro molto calcate dentro le orecchie, servendosi di certi ferri molto appuntiti per calcarle ben dentro, che per essere le suddette piastrine fini e taglienti, queste mi davano un dolore tanto grande nelle orecchie, che veniva a darmi uno spasimo alla testa e al collo, tanto afflittivo che credevo ogni momento di morire. E mi pare al certo che a tutti questi patimenti non avrei potuto sopravvivere senza una grazia speciale di Dio, mentre io non ho termini di spiegarlo, mi fa terrore il solo accennarli. Questi spasimi di morte mi fecero perdere affatto la ragione, che non conoscevo più i giusti sensi, di più, oltre a questo, quello che pativo nello spirito non è di mente umana il poterlo comprendere né immaginare, né io che l’ho provato il poterlo ridire.

Mi comparivano quei maligni spiriti in forma di animali tanto brutti e spaventevoli che mi davano un terrore terribile, e mi riempivano di sommo spavento. Queste bruttissime bestie giravano tutta la mia casa, senza però potersi a me accostare né darmi alcuna molestia, ma la mia maggiore afflizione era di vedere queste brutte bestie che inseguivano continuamente le mie due figliole, che mi assistevano. Questo era per me di somma afflizione che le avrei volute sempre tenere al mio fianco, accanto al mio letto, per timore che quando partivano dalla mia camera dubitavo sempre di qualche sinistro avvenimento, perché vedevo quei bruttissimi animali che gli andavano appresso per offenderle. Io in questi casi tenevo il crocifisso nelle mani e la reliquia della santissima croce, raccomandandomi caldamente al Signore acciò le avesse liberate dalle insidie di quegli animali così feroci, cioè dalle insidie di quegli spiriti maligni.

Non mancò il mio amorosissimo Dio di aiutarmi e di soccorrermi con i suoi speciali favori per così darmi forza e coraggio, per sostenere la fierissima battaglia, e per riportarne la compiuta vittoria, come il mio Dio già mi aveva promesso.

Affidata alla sua immancabile promessa, mi rendevo forte ed invincibile, ad onta di ogni patimento; sentivo maggiore ansietà di viepiù patire per la maggior gloria del mio Dio, per il quale sentivo ardere nel mio cuore la viva fiamma della santa carità. Sentivo grande impegno di sostenere la santa Chiesa cattolica e tutto il Cristianesimo, a costo della propria vita. A questo oggetto facevo fervide preghiere, ed unendo il mio patire ai forti patimenti di Gesù Cristo, Signor nostro, e siccome Dio si degnava per sua infinita bontà gradire ed accettare il mio patire e mi prometteva di dar luogo alla sua infinita misericordia, di non castigare severamente il Cristianesimo, come già aveva determinato, come già si è detto nei passati fogli. Questa promessa tanto m’incoraggiava che tenevo per bene impiegato di patire assai di più, di maniera che mai mi lamentai né mostrai il minimo atto d’impazienza, ma il tutto soffrivo con molta sofferenza. Questo mi è stato detto da quelle persone che mi assistevano, ma senza di questo, dicono che molto bene si avvedevano quanto grande fosse il male che io soffrivo.

53.6. Vicende politiche di Roma e del Papa


La promessa che mi fece il mio Dio, che avrebbe per allora sospeso il flagello della sua irritata giustizia e che avrebbe dato luogo alla sua misericordia, ben presto si avverò. La povera città di Roma ne provò i buoni effetti, mentre passati i 27 giorni della mia malattia si avverò la promessa che mi aveva fatto il Signore.

Vennero in Roma le truppe austriache, per la rivoluzione dei napoletani, che volevano invadere la città di Roma. La terribile setta dei carbonari, per promulgare la perversa loro Costituzione, non mancarono a costoro i partitanti, quali erano nella nostra città di Roma in grande numero, i quali tutti cospiravano a mandare via il Santo Padre, Papa Pio Settimo, col malizioso pretesto di metterlo in sicuro per timore di una insurrezione di popolo.

Questo veramente sarebbe stato un passo terribile e molto funesto per la povera città di Roma; con la partenza del Santo Padre sarebbe accaduto quello che è già accaduto nel Regno di Spagna: per la medesima Costituzione ai poveri spagnoli conviene gemere sotto la tirannia di questa barbara legge, con sommo pregiudizio del Cattolicesimo, perché tutto tende a distruggere la nostra santa religione cattolica.

Anche noi gemeremmo ancora in questo infelicissimo stato, se non fossero state le grandi preghiere e gli anticipati sacrifici che avessero fatto mediatrice la misericordia di Dio, per mezzo degli infiniti meriti di Gesù Cristo. Avevano dunque tentato tutte le strade per mandar via da Roma il Santo Padre, e gli avevano incusso tanto timore e con fortissime ragioni lo avevano persuaso a partire. E difatti una notte avevano allestita una carrozza da viaggio per condurlo a Civitavecchia, ed avevano già nei giorni antecedenti preparato tutto l’equipaggio per la sua partenza, dicendo che per ora lo trasferivano in questa città, che se poi gli affari del governo fossero andati male lo avrebbero condotto in altre parti. Questa era tutta una manovra dei medesimi settari, che volevano balzar via il Santo Padre.

Con la sua partenza sarebbero partiti molti cardinali e signori e prelati, mentre erano già tutti in sommossa per partire da Roma. Con questo malizioso pretesto volevano prendere loro le redini del governo di Roma, e così renderla schiava della barbara loro Costituzione. Castigo ben dovuto a questa popolazione per la grande insubordinazione che si usa al governo ecclesiastico e per il poco e niente rispetto che si porta ai sacerdoti e ai religiosi, che ormai sono divenuti lo scherno ed il ludibrio degli stolti mondani, che inventano a bella posta delle calunnie con l’insidiare i loro patrimoni, con l’usurpazione dei loro beni ecclesiastici. Per mezzo di illustrazioni divine io conoscevo chiarissimamente tutte queste trame, e non altro facevo dal mio letto, semiviva dai grandi strapazzi sofferti, che poi terminerò di raccontare, altro dunque non facevo dal mio letto che raccomandare al Signore la santa Chiesa e il sommo Pontefice, perché Dio gli avesse dato lume di non partire da Roma.

53.7. Consigli di Elisabetta a Pio VII


A questo proposito dissi al mio confessore che vedesse di far sapere al Santo Padre che non si facesse sopraffare dalle persuasive di quelli che lo consigliavano e sollecitavano alla partenza, ma che fosse restato in Roma, che la misericordia di Dio avrebbe trionfato sopra i nostri nemici.

Prudentemente mi rispose il mio padre spirituale che questo avvertimento non si poteva fare al Santo Padre senza andare incontro a grandi ciarle, mentre era sentimento comune dei politici di mettere in sicuro il Santo Padre col farlo partire da Roma, e che tanto non si sarebbe ottenuto il mio intento, e che si sarebbe dovuto manifestare quello che molto premeva di tenersi occulto.

Io mi persuasi di questa giusta ragione, mi disse però che avessi fatto fervide preghiere al Signore, acciò gli avesse dato lume di conoscere l’inganno per disprezzare tutti gli umani consigli, e così potesse deliberare di sua propria libertà e volontà di non partire da Roma. A questo saggio consiglio del mio direttore mi misi con tutto l’impegno a pregare il mio amorosissimo Dio, che non avendo io mezzi umani di avvisare il Santo Padre, avesse con la sua infinita sapienza trovato il modo di avvisarlo.

Ben presto si degnò il mio Dio di esaudire le mie povere preghiere. Ecco che ad un tratto diede Dio tanto di agilità al mio spirito, che poté in un momento penetrare il Palazzo del Quirinale e poté liberamente parlare spiritualmente per via di intelligenza manifestare al Santo Padre i miei sentimenti dettati dallo Spirito del Signore, e così dargli tutti quei documenti che credevo necessari per la sua permanenza in Roma. E difatti puntualmente mise in pratica quanto il povero mio spirito gli aveva manifestato. Nonostante tutti i consigli e le grandi persuasive, e la carrozza che era già attaccata per farlo partire, lasciò tutti i consiglieri, e disse che in luogo di partire voleva andare a riposare, e che non voleva partire a nessun costo.

Questa improvvisa ed inaspettata deliberazione del Santo Padre, guastò ad un tratto tutti i piani già fatti e stabiliti dai maligni settari. Nacque in loro una grande confusione, questo fu un lavoro della grazia del Signore di così confonderli. Sicché le truppe napoletane, invece di avanzare verso Roma, come già avevano determinato, si riempirono di timore precipitosamente e lasciarono le loro medesime fortezze; senza sparare neppure un cannone, si diedero precipitosamente alla fuga.

Le truppe austriache, sentendo questo fatto, avanzarono e senza sparare cannoni, senza combattere, s’impadronirono delle loro fortezze e liberamente andarono a Napoli, benché i napoletani fossero nel numero di cinquantamila soldati. La loro precipitosa fuga ad altro non si può attribuire che ad una grande misericordia di Dio, che volle così risparmiare la vita a molte migliaia di persone. Così la povera città di Roma restò libera da questa terribile invasione, che sarebbe stata il principio delle funeste nostre sciagure e terribili tribolazioni. Eppure, chi lo crederebbe? questo portentoso prodigio, operato dalla misericordia di Dio, da pochi si conosce e si confessa. Oh santa fede, quanto sei oscurata ai tempi nostri, lume, mio Dio, lume vi chiedo.

54 – GRAVI PATIMENTI E FAVORI DIVINI


Riprendo il racconto della suddetta battaglia, sostenuta con la potestà delle tenebre, altri gravissimi patimenti sofferti, altre misericordie e favori ricevuti dall’infinita bontà del mio Dio, e come mi fece trionfare sopra i miei spietati nemici, e come il Signore mi diede grazia di trionfare vittoriosamente e dare a questi infernali spiriti la fuga, e come vergognosamente restarono da me vinti e fugati mediante l’aiuto della potenza, della sapienza e dell’infinita bontà di Dio, che regolava tutti i miei pensieri, parole ed operazioni, senza quasi io conoscessi quello che facevo, mentre di tratto in tratto mi ispirava chiaramente quello che dovevo fare. Ed io puntualmente seguivo l’interna illustrazione del Signore, che sempre ed in ogni momento chiamavo in mio aiuto, per vedermi così circondata ed infestata da quei maligni spiriti, che erano nel numero di mille e più.

Questi si erano divisi in più legioni ed avevano preso possesso di tutta la mia casa, cantina, tetti, in una parola si erano impadroniti di ogni angolo di questa mia casa. Mi pareva al certo molto difficile poterli tutti fugare; ma l’infinita misericordia di Dio mi diede grazia e forza in poche ore di poterli, nel nome santissimo di Dio, tutti fugare dalla mia casa, e rimandarli nel cupo abisso dell’inferno, da dove erano sortiti per permissione di Dio, per così farmi trionfare sopra la potestà delle tenebre. Questi maligni spiriti dovettero tutti vergognosamente partire, e, a loro malgrado, confessare e assoggettare la loro superbia all’alta potestà di Dio, col restar vinti da una vilissima creatura peccatrice, come sono io, mediante il divino aiuto della grazia del medesimo Dio, a cui piacque di farmi trionfare sopra i miei nemici.

Oh infinita bontà, oh infinita misericordia, quanto ti devo ringraziare, non c’è giorno che non ricordi questo segnalato favore, questa grande misericordia che mi ha usato il mio Dio, di fugare questi mille e più demoni, che avevano preso possesso della mia casa. Questo numero si raccoglie da un fatto seguitomi nel tempo che seguì la loro fuga, come a suo luogo dirò.

54.1. Un demonio prese la forma del mio confessore


Proseguo a raccontare i patimenti, i travagli, e le forti angustie ed il crudele gioco che questi barbari si prendevano di me, con tanta crudeltà e baldanza e a tutto loro costo mi volevano dare la morte, con tante pene e dolori che mi facevano soffrire, dopo avermi con tanto spasimo e dolore crocifissa, come già dissi nei passati fogli.

In questa dolorosissima situazione mi trattenevo, in mezzo a mille scherni, beffe ed insulti. Credevo, per l’acerbità dei forti dolori, ogni momento di rendere l’anima a Dio. Non mancò a questi maligni spiriti di trovare la maniera più crudele, la malizia più fina per tormentarmi l’anima e il corpo. Uno di questi maligni spiriti prese la forma del mio confessore, il suo abito religioso, il suo personale, la sua parlata e pronunzia spagnola, del tutto era a lui simile. Comparve dunque nella mia camera tutto rabbuffato ed adirato contro di me, chiamandomi impostora, superba, meritevole di ogni castigo e di ogni infame morte per non aver dato ascolto ai suoi consigli, perché molte altre volte mi era apparso questo finto confessore e mi aveva dato pessimi consigli, da me sempre disprezzati per mezzo della grazia di Dio.

Qual pena recasse al povero mio spirito questo disprezzo non è immaginabile: «Come», dicevo, «il mio confessore, sa perché patisco, pure lui mi consigliò, mi obbligò di offrirmi qual vittima di espiazione per i presenti bisogni di santa Chiesa, e per il bene di tutto il Cattolicesimo. Come, adesso si è dimenticato di tutto quello che nello scorso mese io gli dissi, che l’eterno divino Padre, per mezzo di Gesù Cristo, aveva per sua bontà accettato il mio povero sacrificio, e che degnato si sarebbe di dar luogo alla sua misericordia, col sospendere l’imminente flagello, ma che io avevo molto da patire e dovevo sostenere una crudele battaglia con la potestà delle tenebre, e che tutto l’inferno avrebbe congiurato contro di me? Adesso che si avvera la promessa che il Signore mi ha fatto e sono sul punto di ottenere la divina misericordia, invece di aiutarmi e soccorrermi, non solo mi abbandona in questo grave patimento e grande pericolo, ma di più mi disprezza, mi schernisce, mi insulta, mi consiglia ad arrendermi alle voglie dei miei nemici. Io lo credevo un santo, e adesso mi pare un uomo tanto cattivo e malizioso. Questo veramente non l’avrei mai creduto. Qual pena mi desse questa frode, questo malizioso inganno di Satanasso non è possibile i1 poterlo spiegare; pena grande, credendo che in realtà questo ministro di Dio avesse pervertito e fosse diventato un apostata; pena grande, per vedermi priva di ogni umano soccorso, mentre da altri non potevo sperarlo, ma solo dal mio proprio confessore, il quale sapeva tutto il fatto, e per avermi diretta per lo spazio di anni quattordici, conosceva appieno il povero mio spirito.

Questo apparente inganno dava tanta afflizione al mio spirito, tanto era grande la pena e l’angustia che non la potevo arrivare a superare. Ogni giorno mi si rendeva più sensibile. Questo malizioso inganno seguì fino dai primi giorni della mia tribolazione, e sempre più si accrebbe l’inganno, fino all’ultimo giorno che, con la grazia di Dio vinsi la forte battaglia e restai vittoriosa dei miei spietati nemici.

Il finto confessore era il più crudele mio giudice e carnefice insieme, mentre ogni giorno viepiù incrudeliva contro di me, ordinando a bella posta a quei maligni spiriti che se non volevo arrendermi alle loro voglie, mi avessero strapazzato con crudeli tormenti. E quando stavo così derelitta ed agonizzante sopra la croce, di sua propria mano mi scagliò cinque grosse pietre, a guisa di selci infuocati, nei fianchi, dove mi fecero cinque dolorosissime piaghe, che credevo proprio di morire per il grande spasimo. Credeva il finto confessore che con questo altro barbaro patimento io mi arrendessi, ma troppo grande era l’assistenza del mio buonissimo Dio, che a tutti i momenti sperimentavo i tratti benefici della sua divina grazia.

Vedendo dunque che io non mi arrendevo, ma ero sempre più forte e stabile nell’essere fedele al mio Dio, disprezzando ogni sorta di patimento, e con eroica fortezza, somministratami dalla grazia di Dio, ero sempre più forte, con somma rabbia, pieno di sdegno se ne partì furiosamente dalla mia camera.

54.2. Mai tentata contro la purezza


Digressione. In mezzo a tanti patimenti, oltraggi ed insulti, non fu mai a costoro permesso che mi offendessero contro la santa purità. Neppure permesso gli fu di tentarmi contro questa santa virtù che io, da miserabile come sono, tanto amo e stimo, per essere virtù tanto cara al mio Dio, per amore della quale sono sempre pronta a dare il sangue e la vita, piuttosto che adombrare questa santa virtù, per l’acquisto della quale tanto, e poi tanto mi raccomando al Signore che mi levi la vita prima che avessi da macchiare questa santa virtù.

Questa grazia la chiedo di tutto cuore per gli infiniti meriti di Gesù Cristo. Spero che non sia per negarmi questa grazia, benché, mi riconosco indegna di ottenerla; ma tanto spero nella sua infinita bontà, e quando il mio Dio mi dà a conoscere che per amor suo devo patire: «Sì», dico, «mio Dio, eccomi pronta a patire ogni sorta di patimento, ma vi chiedo in grazia di non permettere che resti offesa in me la virtù della santa purità».

E difatti in mezzo a tanti strazi, flagelli e supplizi, mai fu snudato il mio corpo, ma sempre mi rilasciarono una piccola tonachella di lana bianca, che io soglio portare in luogo della camicia di tela.

Non avrei al certo potuto sostenere una sì forte e sì crudele battaglia, se il mio Dio prima e dopo il forte attacco non mi avesse, con la sua reale presenza, prima fortificata e resa, per mezzo della sua divina grazia, invincibile e terribile a tutto l’inferno stesso; mentre tutta la loro malizia non fu bastante a vincere l’eroica costanza che mi fu somministrata dalla grazia del Signore.

La mia fortezza confondeva altamente la loro superbia ed il mio spirito ogni giorno più in mezzo a tanti patimenti si rendeva instancabile la mia pazienza, e prendevo viepiù lena di patire con somma allegrezza e maggior costanza, sollecitando quei maligni spiriti a far prova della mia fedeltà.

54.3. I favori di Dio


Quali e quanti fossero i favori divini non è al certo possibile manifestarli. Frequentemente ero visitata da Maria Santissima che mi si dava a vedere corteggiata da stuolo di sante vergini. L’amabile presenza di questa divina Madre, il suo nobile corteggio, riempiva il mio cuore di dolcezza di Paradiso, le sue amabilissime parole, chiamandomi col dolce nome di figlia sua prediletta, la sua carità, con l’approssimarsi al mio letto e di propria mano risanare con il suo divino contatto tutte le mie piaghe e restituire all’istante la perduta salute. Risanare il mio corpo infranto per le fiere percosse. Consolare il mio afflitto spirito con celesti consolazioni di Paradiso. Arrivare perfino ad encomiare la mia virtù, alla presenza di quelle sante vergini.

Qual tenerezza e qual profonda umiltà recò il suo elogio al povero mio spirito. Quante lacrime di amore, di annientamento insieme, versai dai miei occhi. Nuova offerta facevo di tutta me stessa per la gloria di Dio. Quale fuoco di santa carità incendiava il mio cuore, non posso al certo esprimerlo. Questi divini favori erano tanto esuberanti e tanto grati al mio cuore, che mi facevano affatto scordare tutto quello avevo sofferto e patito, anzi mi davano un grande desiderio, una grande ansietà di più patire.

Altri favori celesti ricevuti. Più volte godei della divina presenza dell’umanità santissima di Gesù Cristo, che a bella posta mi compariva tutto cinto d’immensa gloria, corteggiato da grande numero di Angeli e Santi, segnatamente dai santi Apostoli. Oh come in tutti questi gloriosi santi si distingueva l’alta gloria dei santi apostoli Pietro e Paolo, godendo la preminenza sopra agli altri santi, stando al fianco del loro divino Maestro, Signor nostro Gesù Cristo, godendo così più da vicino il glorioso suo splendore e la divina sua gloria.

Oh come questo immenso stuolo di Angeli e Santi lodavano, benedicevano, amavano, ringraziavano l’altissimo Dio degli eserciti, assoluto padrone del cielo e della terra!

54.4. Alla presenza dell’augustissima Trinità


L’umanità santissima di Gesù Cristo era unita alla sua divinità, sicché la povera anima mia si trovò alla presenza dell’augustissima Trinità, godendo di questo altissimo ed incomprensibilissimo mistero, fui subito tutta assorta in Dio. Restarono estatiche le potenze dell’anima mia, un torrente di gaudio di paradiso inondò il mio spirito. Qual profonda riverenza ed ossequioso rispetto sentivo in tutta me stessa, quale stupore, qual meraviglia, io non ho termini sufficienti di poterlo spiegare, quale magnificenza, quale altezza porta con sé questo altissimo e profondissimo mistero. Dico altissimo e profondissimo, perché la sua triplicità immensa contiene tutto l’infinito suo essere e tutte le sue divine perfezioni sono racchiuse in questo altissimo mistero.

In questa estasi prodigiosa e meravigliosa insieme, dico prodigiosa e meravigliosa estasi, perché avanti alla tremenda maestà di Dio, mi pareva di essere un piccolissimo insetto della terra. La sua infinita grandezza, con l’estremità della mia somma bassezza tanto altamente mi confondeva e mi annientava. Questo contrapposto così dissonante mi faceva conoscere l’alta bontà di Dio nell’avermi tanto innalzata sopra me stessa.

Oh qual profondo di umiltà sentivo nell’anima mia, quale annientamento di me stessa sentivo alla sua divina presenza. Il suo benigno sguardo era sopra questo misero insetto, comunicandomi e manifestandomi i suoi divini sentimenti e le sue divine determinazioni. Mi diede a conoscere grandi cose riguardanti la Chiesa militante; tutto questo non fu con parole sensibili, ma per cognizione intellettuale ed intima penetrazione: Dio mi manifestava la sua divina volontà per via di intelligenza. Così mi diceva senza parlarmi, ma in assai più chiaro modo che se mi avesse parlato sensibilmente.

54.5. «Riformerò il mio popolo e la mia Chiesa»


Ecco le sue divine espressioni: «Mia diletta figlia, hai vinto! il tuo sacrificio costante e forte ha fatto violenza alla mia irritata giustizia. Per l’amore che ti porto, altra determinazione prendo, e in luogo di castigare severamente tutto il mondo, come avevo determinato, sospendo per ora il severo castigo e do luogo alla mia misericordia. Mia diletta figlia, voglio compiacerti con l’appagare i tuoi santi desideri, voglio pagarti quello che patisti per amor mio. Rallegrati, o figlia, oggetto delle mie compiacenze. Non più disperso sarà il Cristianesimo, né Roma priva sarà di possedere il tesoro della cattedra dell’infallibile verità di Chiesa santa. Io riformerò il mio popolo e la mia Chiesa. Manderò zelanti sacerdoti a predicare la mia fede, formerò un nuovo apostolato, manderò il mio divino Spirito a rinnovare la terra. Riformerò gli Ordini religiosi per mezzo di nuovi riformatori santi e dotti, e tutti possederanno lo spirito del mio diletto figlio Ignazio di Loyola. Darò un nuovo pastore alla mia Chiesa, dotto e santo, ripieno del mio spirito, con il suo santo zelo riformerà il gregge di Gesù Cristo».

Mi diede a conoscere molte altre cose concernenti questa riforma, vari sovrani che sosterranno la santa Chiesa cattolica e saranno veri cattolici. Depositando i loro scettri e corone ai piedi del Santo Padre, vicario di Gesù Cristo, vari regni lasceranno i loro errori e torneranno nel seno della cattolica fede. Intere popolazioni si convertiranno e riconosceranno per vera religione la fede di Gesù Cristo. Cose tutte che in quei momenti potevo tutte con chiarezza accennare, ma, siccome Dio non vuole che siano manifeste le sue divine determinazioni, fece sì che io in quel tempo non riconoscessi il mio proprio confessore e direttore, come in appresso dirò ed ho già detto nei passati fogli.

In quei momenti molte cose potevo dire nella maniera che seguirà la suddetta riforma. Mentre Dio, se mi è lecito il dirlo, per sua infinita bontà, si degnò ammettere a consiglio la povera anima mia col manifestarle le sue divine determinazioni riguardanti questa grande opera. Non so se il mio modo di parlare sia troppo ardito, ma non mi diparto dalla verità dell’accaduto fatto, e lo scrivo, a maggior gloria di Dio e a maggior mia confusione, con tutta l’ingenuità del povero mio cuore, come ho usato nei poveri miei scritti, che non ho mai declinato dalla pura verità. Ciò nonostante mi faccio un dovere di tutto assoggettare al savio parere di vostra paternità reverendissima, attendendone con utile e rispettosa soggezione la savia sua approvazione o disapprovazione, assoggettando il mio intelletto al rettissimo suo consiglio.

Conoscevo dunque le divine determinazioni di Dio, i suoi rettissimi giudizi, tutto vedevo, tutto conoscevo chiarissimamente e il tutto approvavo per giusto, santo e retto: ecco come trionfano i tre divini attributi di un Dio trino ed uno, che in tutto si glorifica in se stesso. Questa cognizione, questa penetrazione di Dio fece sì che la povera anima mia altamente si compiacesse dell’infinita immensità di Dio, e così si perdeva affatto nella sua divina immensità, e l’anima mia perdeva la qualità del suo proprio essere e si trasformava tutta in Dio; come si perderebbe e trasformerebbe una piccola goccia di vino in mezzo al vasto mare, questa goccia più non si troverebbe. In modo più speciale e senza paragone assai più sublime, si trasformò la povera anima mia in Dio; senza paragone, assai più unita e medesimata, senza però poterlo spiegare né comprenderlo per la sua sublimità e grandezza.

Dio, per giusti suoi giudizi, non vuole che si manifestino le sue divine determinazioni, e bene mi avvedo che sia così, perché, di tutto quello che mi manifestò con tanta chiarezza di questa riforma che sta per fare, io ne sapevo tutte le minime circostanze che, quando guardavo il letto, ne parlavo con tanta chiarezza con la mia figliola minore, e adesso che scrivo né io né la suddetta lo ricordiamo, perché Dio le ha cancellate dalla nostra mente, l’anima mia le tiene queste determinazioni di Dio, come in sé racchiuse, senza poterle manifestare, quello che posso dire, però, è che questa grande opera non si farà senza un grande sconvolgimento di tutto il mondo, di tutte le popolazioni, ancora di tutto il clero secolare e regolare, di tutte le corporazioni religiose dell’uno e dell’altro sesso, dovendo tutte essere riformate, secondo lo Spirito del Signore ed i dettami delle primitive regole dei loro santi fondatori ed istitutori.

Non dubito punto però che a suo tempo e luogo, quante volte a Dio piaccia, possa il mio spirito manifestare tutto ciò che Dio si degnò manifestarmi intorno a questa riforma, e allora, con umile e rispettosa soggezione, comunicherò a vostra paternità reverendissima i sentimenti dello Spirito del Signore.

In quel tempo che ero così illuminata, parlando con la suddetta mia figlia minore, le dicevo: «Adesso vi dico tante belle cose, perché il Signore mi tiene aperto, davanti agli occhi della mente, il libro della divina sapienza, sicché, io leggo quello che parlo; ma quando si chiuderà questo libro, io non potrò dirvi più niente di tante belle cose che ora vi dico».

E difatti fu così, chiuso il libro, le dicevo: «Figlia, voi siete desiderosa di sentire le divine scienze, riguardanti i sovrani misteri della nostra santa fede e dell’infinito amore che Dio porta a noi poveri peccatori, vorreste proseguire ad udire le belle cose che vi dicevo negli scorsi giorni. Il libro è chiuso, io non posso più leggere, e niente più di quello che ho detto posso dirvi. Quando il Signore tornerà, per sua bontà, ad aprirmi il libro della divina sapienza, allora, se Dio lo vorrà, tornerò a parlare e dirò tutto quello che lui vuole. Figliola mia», le soggiunsi piangendo, «pregate Dio per me, perché io non tradisca il suo santo amore con qualche grave colpa, ditegli che mi levi la vita se non l’ho da amare con tutta l’ampiezza del mio povero cuore». Così finì il mio discorso in quella giornata con la suddetta figlia. Si concentrò il mio spirito in Dio, godendo nell’ intimo dell’anima la divina scienza, che si degnava Dio trascendere nell’intimo del mio cuore, inebriandolo del suo divino amore.

55 – VERA SEGUACE DI GESÙ NAZARENO


Avverto che a questo cartolaro deve aggiungersi un altro cartolaro, dove si riportano altri fatti e si dà termine a tutto l’accaduto di questa diabolica battaglia, sostenuta a maggior gloria di Dio contro la potestà delle tenebre. (vedi pagina 692)

Per mezzo di illustrazioni divine io conoscevo chiarissimamente tutte queste trame, e non altro facevo dal mio letto, semiviva dai grandi strapazzi sofferti, che poi terminerò di raccontare; altro dunque non facevo dal mio letto, di raccomandare al Signore la santa Chiesa e il sommo Pontefice, perché Dio gli avesse dato lume di non partire da Roma.

Dissi al mio confessore che vedesse di far sapere al Santo Padre che non si facesse sopraffare dalle persuasive di quelli che lo consigliavano e sollecitavano alla partenza, ma che fosse restato in Roma, che la misericordia di Dio avrebbe trionfato sopra i nostri nemici.

Prudentemente mi rispose il mio padre spirituale che questo avvertimento non si poteva fare al Santo Padre senza andare incontro a grandi ciarle, mentre era sentimento comune dei politici di mettere in sicuro il Santo Padre col farlo partire da Roma, e che tanto non si sarebbe ottenuto l’intento e che si sarebbe dovuto manifestare quello che molto premeva di tenere occulto.

Io mi persuasi di questa giusta ragione, mi disse però che avessi fatto fervide preghiere al Signore, affinché gli avesse dato lume di conoscere l’inganno, per disprezzare tutti gli umani consigli, e così potesse deliberare di sua propria libertà e volontà di non partire da Roma.

A questo saggio consiglio del mio direttore, mi misi con tutto l’impegno a pregare il mio amorosissimo Dio, che non avendo io mezzi umani di avvisare il Santo Padre, avesse pensato con la sua infinita sapienza il modo di avvisarlo.

Ben presto si degnò il mio Dio di esaudire la mia povera preghiera. Ecco che ad un tratto diede Dio tanto di agilità al mio spirito che poté penetrare il Palazzo del Quirinale, e poté il mio spirito parlare spiritualmente con il Santo Padre e dargli tutti quei documenti che credeva necessari per la sua permanenza in Roma. E difatti puntualmente mise in pratica quanto il povero mio spirito gli aveva detto, nonostante tutti i consigli e le grandi persuasive, e la carrozza che era di già attaccata per farlo partire, lasciò tutti i consiglieri e disse che invece di partire voleva andare a riposare, e che non voleva partire a nessun costo.

Questa improvvisa ed inaspettata deliberazione del Santo Padre guastò ad un tratto tutti i piani già fatti e stabiliti dai maligni settari, e nacque in loro una grande confusione, sicché le truppe napoletane invece di avanzare si riempirono di timore e si ritirarono, e lasciarono le fortezze senza sparare un cannone. Le truppe austriache senza combattere si impadronirono delle loro fortezze e poterono andare in Napoli senza sparare un cannone, mentre i Napoletani, benché fossero nel numero di cinquantamila, si dettero alla fuga.

Così la misericordia di Dio risparmiò la vita a molte migliaia di persone, e così la povera città di Roma restò libera da questa invasione. Certamente questo non si può altro che attribuirlo ad una grande misericordia di Dio. Eppur, chi lo crederebbe, da pochi si conosce e si confessa questa verità.

55.1. Guarisce Pio VII


Racconto un fatto che sempre ho taciuto, e adesso per obbedienza lo riporto in questi fogli, per averlo trascurato a suo luogo. In occasione che il nostro Santo Padre, papa Pio Settimo, si era portato in villeggiatura a Castel Gandolfo, ebbe la disgrazia di cadere nella sua camera, ed attesa la percossa stette molto male. Questo fu dell’anno 1816 o dell’anno 1817, salvo il vero, perché adesso precisamente non mi ricordo. Si stava in timore che perdesse la vita, non si mancava di pregare il Signore per la sua conservazione e guarigione. Avendo io amicizia con una donna, che era in casa di un prelato molto familiare al Santo Padre, per il suo impiego, pregando dunque caldamente il Signore per la sua guarigione, mi intesi ispirata di inviare a questa medesima donna una piccola bottiglietta di acqua di Gesù Nazareno, unita ad una mia lettera, dove la pregavo di vedere di far prendere quell’acqua benedetta al Santo Padre.

Questo buon prelato non credette conveniente di darla, per il timore che si fosse formato qualche sospetto da quelli che lo assistevano, per essere molto gelosa la vita del sovrano.

Stando in orazione, conobbi tutte queste difficoltà, sicché mi raccomandai caldamente al Signore che avesse provveduto, con tratto della sua divina sapienza, alla guarigione del Santo Padre.

Fatta la preghiera mi alienai dai sensi, e il mio spirito ad un tratto si trovò a Castel Gandolfo, nella stanza dove era il Santo Padre malato, dove vidi un bello splendore di chiarissima luce, nel mezzo della quale vedevo i santi Re magi che, presa la bottiglietta dell’acqua benedetta, che io avevo mandato alla suddetta mia amica, questi santi Re si degnarono con le proprie mani di dare a bere di quell’acqua al Santo Padre. Ed infatti in pochi giorni si sentì la sua guarigione.

55.2. «Lo vuoi salvo? Salvo l’avrai»


Racconto per obbedienza del mio padre spirituale un altro fatto che ho trascurato di scrivere, che mi seguì l’anno scorso 1820. Nel mese di luglio si ammalò un padre di famiglia, persona molto benestante di un paese vicino a Roma, mio conoscente, e molto bene affetta mi era tutta la sua famiglia, dai quali avevo ricevuto molte carità. Mi scrissero dunque la loro grande afflizione per la malattia del loro genitore. Mi dispiacque veramente la loro afflizione e da miserabile peccatrice lo raccomandai caldamente al Signore.

Si degnò Dio, per sua infinita bontà, di darmi una interna illustrazione, dove mi fece conoscere la sua giusta determinazione, che era per questo uomo giunto il termine della sua vita e che doveva morire. A questo interno sentimento non potei replicare, ma dovetti umilmente adorare i giustissimi decreti di Dio, padrone assoluto di tutte le sue creature, le quali senza replica devono obbedire al loro Creatore.

Non potendo pregare per la salute del corpo di questo infermo, pregai caldamente per la sua salute eterna, ed in questa orazione mi avvidi del bisogno che aveva questa povera anima. Ed intanto ricevevo lettere di molta premura tanto dai parenti dell’infermo, quanto da una loro e mia amica dello stesso paese. Questa mi scriveva con grande impegno e mi informava delle grandi orazioni che si facevano per ottenere la salute di questo infermo. Mi credetti in dovere di scrivere a questa mia buona amica e le dissi che tutte le orazioni che facevano fare, le avessero rivolte all’eterna salute di questo infermo, che io da miserabile peccatrice mi sarei unita alle loro fervide preghiere, le quale puntualmente eseguii.

Conosciuto dunque il bisogno di quest’anima, mi misi di proposito a pregare. Stetti tre ore in orazioni, dalle ore venti fino alle ore ventitré del giorno di venerdì, nel qual giorno il suddetto infermo rese la sua anima a Dio. Stando in orazioni Dio, per sua infinita bontà, si degnò sollevare il mio spirito, dove mi fece vedere la discussione della causa di quest’anima ed il terribile giudizio che era di perdizione. A questa funesta nuova, non so spiegare qual fosse l’impegno che intese il povero mio spirito per ottenere a questo infelice la grazia. Piansi amaramente, pregai con tutto il fervore, mi offersi a patire, perorai di tutto cuore per la sua gran causa, per ottenergli la vita eterna per mezzo degli infiniti meriti di Gesù Cristo.

Ero fuori di me stessa per il dolore e per l’afflizione, ciò nonostante pregavo incessantemente con abbondanti lacrime e con affannosi sospiri. Proseguivo la preghiera, quando ad un tratto si sopì il mio spirito, e mi parve in quel tempo di trovarmi davanti al grande tribunale di Dio, dove vedevo quest’anima tutta tremante e confusa per il grande rendimento di conti che doveva fare a Dio, sommo giudice e testimone di tutta la sua vita, di passa settanta anni.

Vedevo dunque il sommo giudice sdegnato, il suo santo Angelo custode che teneva un piccolo libricciolo nelle sue mani, che stava tutto mesto e dolente, che non aveva coraggio di aprire. Vedevo poi un arrogante demonio, che teneva un grandissimo libro nelle sue mani, e con somma audacia e superbia pretendeva di aprire il grosso volume davanti a questo infelice che stava pieno di terrore e spavento; il povero mio spirito se ne stava profondato nel suo nulla, quanto mai afflitto e pieno di spavento nel vedere questo gran fatto, ma la compassione e la carità mi diedero coraggio. Piena di lacrime mi rivolsi a Maria santissima e al suo santissimo Figliolo. «Ah Gesù mio», gli dissi, «non condannate quest’anima, ve ne supplico per la vostra passione e morte e per i dolori della vostra santissima Madre, vi prego, per la vostra infinita bontà, di volermi ricordare la promessa che mi avete fatta di salvare tutti quelli che mi avessero fatto del bene. La vostra parola non può mancare, in voi confido, in voi spero, Gesù mio, questo è un mio benefattore, salvatelo per carità, ve ne supplico per il vostro preziosissimo sangue. Io so benissimo che non merito questa grazia, ma la vostra parola non può mancare. Oggi è venerdì, giorno nel quale voi avete sparso tutto il vostro prezioso sangue, e che perdonaste un ladro, salvate adesso quest’anima, Gesù mio, non la giudicate, nel vostro santo nome salvatela».

Con queste ed altre simili parole pregava la povera anima mia. Ma chi lo crederebbe? Oh infinita bontà di Dio, veramente incomprensibile, il mio buon Gesù si degnò rispondermi: «Figlia, la tua preghiera fa violenza al mio cuore, lo vuoi salvo? lo avrai».

Nel sentire proferire queste parole dall’umanità e divinità santissima di Gesù Cristo, credetti veramente di morire, parte per la grande consolazione, parte per il profondo rispetto e venerazione. Non sto qui a dire tutti i santi affetti di cui fu in un momento ricolma la povera anima mia, la gratitudine grande verso il mio Dio, la profonda umiltà nel vedere esaudita la povera mia preghiera, una consolazione di spirito che mi faceva struggere in lacrime di santo amore. Non finirono qui le mie consolazioni, volle Dio, per sua infinita bontà, farmi vedere il compimento della grazia, col farmi assistere di presenza all’infinita sua misericordia.

Ecco dunque che si viene alla finale sentenza, ecco che vedo Gesù Cristo cinto di gloria e di maestà, seduto sopra splendide nubi, tutto raggiante di splendida luce, corteggiato da molti santi e da innumerabili schiere angeliche. Vi era Maria santissima tutta ammantata di chiarissima luce, corteggiata da molte sante vergini.

Vidi poi presentare la suddetta anima per essere giudicata. Il sommo giudice Gesù Cristo ordinò che si presentasse il suo processo. Un santo Angelo prese il gran libro dalle mani del suddetto demonio e lo presentò al sovrano giudice, il quale prese un sigillo e lo pose sopra la cicatrice del suo divino costato, il sigillo restò tinto del suo preziosissimo sangue e sopra quel gran libro impresse tre sigilli. Con questo venne a significare che per grazia non voleva giudicare questa anima, ma la voleva salvare per mezzo della sua infinita misericordia, senza giudicare la sua causa.

Impressi i tre sigilli, ordinò ad un altro santo Angelo che lo avesse annegato nel mare immenso della sua divina misericordia. Annegato che fu il libro, quest’anima ricevette l’eterna benedizione, e come potrò io ridire di qual gaudio di paradiso fu ricolmo il povero mio spirito, quanto mai mi consolai nel Signore, quali e quanti mai furono i miei ringraziamenti non mi è possibile il poterlo esprimere. Restai fuori di me stessa, per il grande stupore nel considerare l’infinita bontà di Dio. Non mi pareva di credere a me stessa, mi struggevo in lacrime d’amore e di tenerezza, lodavo e benedicevo il mio Dio.

Volle il Signore darmi un altro attestato di sicurezza dell’eterna salute di questo defunto: circa le ore ventitré i parenti fecero benedire da un religioso francescano l’infermo agonizzante con la reliquia di san Francesco. Il figlio si tratteneva in ginocchioni ai piedi del letto del padre, raccomandandosi al Signore. Aveva l’infermo attaccato sopra il suo inginocchiatoio, accanto al letto, un piccolo quadruccio con l’immagine del mio Gesù Nazareno. Il suddetto giovane, guardando questa santa immagine, la quale pregavo incessantemente in questo tempo, vide con sommo suo stupore che la sacra immagine, sciolta la mano, rivolta verso il padre moribondo, si degnò dargli la santa benedizione. Il giovane restò estatico, e fuori di se stesso, nel vedere un simile prodigio.

Venendo in Roma, di sua propria bocca mi fece questo racconto, e mi disse di non poter fare questo racconto senza sentirsi tutto commuovere da santi affetti. Mi disse ancora che questo fatto fu tanto chiaro che non avrebbe avuto difficoltà di contestarlo. Questo giovane credo certo che non sia capace di dire una menzogna, essendo persona di buona vita e molto dedito alla pietà, avendo ancora la matura età di anni 35, essendo già padre di cinque figli. Io lo pregai di non manifestare questo fatto, ma tenerlo occulto, per quanto gli fosse possibile, che le grazie del Signore ci devono rallegrare e consolare in Dio medesimo.

55.3. Il motivo della persecuzione demoniaca


Prendo nuovamente a raccontare gli altri patimenti sofferti nella suddetta sanguinosa battaglia, e pongo fine a questo afflittivo fatto senza più stancare la sofferenza di chi legge, come ancora liberarmi dal tedio che mi reca questo racconto.

Venne dunque in mente ad uno di quei maligni spiriti, che a gran folla si trattenevano burlandomi, offendendomi e con scherni insultavano la mia pazienza, compiacendosi di avermi inchiodata sopra una croce con tanta crudeltà, si rallegravano di avermi ridotto in quel deplorabile stato. Costui disse ad alta voce: «Gli manca il titolo per cui l’abbiamo così ridotta», tutti gli altri con grida di consolazione a viva voce gridavano: «Ha ragione, ha ragione, gli manca il titolo, gli manca il titolo», e così dicendo viepiù m’insultavano dicendomi: «Un’altra pena ti aspetta, presto si affretti, presto si affretti». Ed intanto presero una tavoletta dove era scritto a lettere maiuscole: Questa è vera seguace di Gesù Nazareno. Tutti quei maligni spiriti rispondevano ad alta voce: «Questo è il motivo per cui la perseguitiamo». Ed intanto, presa una pesante mazza di ferro ad uso di martello, con grosso chiodo dalla punta acutissima, nei miei piedi, già trafitti, con spasimo crudele lo affissero. A quegli spietati colpi credetti propriamente di finire la vita, per l’acerbità del dolore; fui, per l’eccessivo dolore, sopraffatta da un deliquio mortale.

In quel tempo fui visitata dal mio Dio, e la celeste consolazione mi restituì la vita, perché mi pareva veramente di essere propriamente morta affatto. Ma quando tornai in me stessa non mi potevo dare a credere che il mio corpo fosse sano e senza alcuna lesione. Mi guardavo le mani, mi guardavo i piedi, che trovai tutti sani e senza alcun dolore. Un torrente di consolazione celeste inondava la povera anima mia, un gaudio di paradiso scorreva nel mio cuore e ne partecipava ancora il mio corpo, in maniera che mi sentivo rinvigorita e tanto contenta che mi mettevo a cantare le canzoncine più belle riguardanti l’amore di Dio.

La grande carità che sentivo nello spirito mi necessitava di parlare del santo amore di Dio, questo lo facevo con tanto affetto e fervore che ben tosto chi mi ascoltava piangeva di tenerezza, segnatamente la mia figliola minore che sempre si tratteneva perennemente accanto al mio letto. Questa, più delle altre persone assistenti, si avvedeva del tutto e ne provava in sé i buoni effetti, la quale mi ha confidato che la mia malattia le è stata più fruttuosa per il suo spirito che gli esercizi spirituali. Mentre io non mancavo, in questo tempo, di darle i più chiari sentimenti dell’amore grande che ci porta Dio. Specialmente parlavo della passione e morte di Gesù Cristo con tanto amore, tanta dolcezza, tanta scienza, e ci trovavo tutto il pascolo spirituale che mai dire si possa.

In queste sette parole trovavo i sette doni dello Spirito Santo, che mi dava grazia di interpretare l’altezza di queste divine parole, che contengono tutta la vita cristiana e la vera perfezione. Oh quale e quanto impegno sentiva il mio cuore di potere insegnare a tutti queste celesti dottrine, così persuader tutti a lasciare i vizi e le basse cose della terra, e così fare che tutti fossero veri seguaci di Gesù crocifisso.

Non terminarono qui i miei patimenti, sebbene questo fosse l’ultimo supplizio che mi dettero quegli infernali nemici; ma, non potendo più molestare il mio corpo, perché il mio Dio per sua bontà più non glielo permise, inventarono un’altra malizia del tutto diabolica per affliggere barbaramente il povero mio spirito. Questa trama me la ordirono fino dai primi giorni di questo funesto mio combattimento. Funesto per loro, ma non per me, perché mediante la divina grazia restai di loro vittoriosa, gloriosa, senza mai arrendermi alle loro voglie e superando con fortezza e costanza la loro barbara crudeltà, confessando, in mezzo a quei barbari patimenti, la fede di Gesù Cristo, compiacendomi altamente di essere così straziata per mantenermi fedele seguace di Gesù crocifisso, nel quale ho posto tutta la mia speranza e fiducia.

Nella sua onnipotenza sono certa e sicura di riportare la compiuta vittoria. Così dicevo, con grande coraggio, insultando la potestà delle tenebre: «A te, o Satanasso», dicevo, «mancheranno tormenti per affliggermi, verrà meno la tua crudeltà, ma a me non mancherà fortezza di superare e disprezzare la tua tirannia. Non potrai alterare neppure un momento la mia volontà, non potrai al certo cancellare Dio dal mio cuore. A questo onnipotente Dio ho giurato e giuro la mia fedeltà, e mediante la sua divina grazia spero di essere fedele fino all’ultimo respiro della mia vita».

Con queste ed altre simili parole confondevo la baldanza di questi infernali nemici.


56 – CONTINUA LA SANGUINOSA BATTAGLIA


56.1. Un demonio negromante


Riprendo il filo del racconto. La trama maliziosa, ordita fino dai primi giorni, fu che un demonio, sotto la forma di negromante, si mise sopra la porta della mia camera di guardia per tentare tutti quelli che nella mia camera entravano. Si serviva costui di certo fumo, che tramandava dalla sua bocca, che a bella posta affumicava tutti quelli che entravano. Quel fumo oscurava i loro intelletti e li rendeva incapaci di distinguere i giusti sensi. Tutti questi interpretavano a sinistro senso il mio male e facevano una confusione fra loro per la varietà dei pareri. Questa era un’arte fatta per accrescimento delle mie pene, perché io tutto vedevo e conoscevo, donde derivava la loro confusione e dissonanza di pareri.

La mia figlia minore non ignorava questo fatto, mentre io gliene avevo fatto la confidenza, in maniera che, quando qualcuno entrava, io le dicevo: «Oh, quanto è affumicato questo tale, adesso sentirete quanti diverbi e confusioni succederanno». E di fatto seguiva così. Tutto questo era per istigazione di quel demonio negromante, che assiduamente si tratteneva sulla porta della mia camera, per fare che tutti quelli che mi venivano a visitare, in luogo di giovarmi, mi avessero maggiormente gravata, con l’interpretare a sinistro senso il mio male, e fare per questo grande confusione, con sommo pregiudizio della mia salute e con pericolo, ancora, della mia vita.

Oltre di che era tanto forte l’istigazione che varie persone, sopraffatte dalla tentazione del demonio, non ebbero difficoltà a dire che questo mio male era tutta una mia finzione. Altre persone, egualmente tentate, dicevano che ero pazza. Altre persone bugiardamente dicevano cose che io mai feci, né dissi.

I miei parenti, istigati dal tentatore, molto più degli altri tentati, non tentavano altro che la mia rovina spirituale e temporale. Mentre, offuscati nelle idee, cercavano di applicarmi i più forti rimedi per potermi guarire, non si avvedevano che fabbricavano la mia rovina.

Per istigazione del detto demonio negromante uno dei miei fratelli, per zelo male inteso, non ebbe difficoltà di intessere tre grosse corde, a guisa che si legano i tori e le bufale, con queste corde bestiali pretendeva di legarmi, perché, mediante un’illustrazione interna datami da Dio, mi volli alzare dal letto e con l’asperges e acqua santa andavo benedicendo tutta la mia casa. Accompagnata dalle mie due figlie andavo nel nome di Dio fugando tutti quei maligni spiriti, che avevano preso possesso della mia casa, e così ne andavo io riprendendone il possesso. Di tratto in tratto mi dava Dio a conoscere, come infatti seguì, quello che dovevo fare per fugare tutti questi demoni, ed io, mediante la sua divina grazia, adempivo puntualmente la divina ispirazione, camminando per la casa, sempre accompagnata ora da una figlia ed ora da tutt’e due. Queste furono testimoni oculari di tutte le mie operazioni, che per istigazione del demonio erano non solo interpretate a sinistro senso, ma ancora, malignate con delle false menzogne, tanto dai miei parenti, segnatamente dal surriferito fratello, autore delle ben grosse corde, come da una donna di servizio, che era contro di me, veramente allucinata dal demonio.

56.2. Demoni imprigionati in una scatola


In questo tempo che io stavo facendo questa grande opera di fugare questa moltitudine di demoni, mediante la divina grazia, mentre Dio mi aveva dato tutta la potestà, nel suo santissimo nome, di tutti fugarli, come difatti seguì, presi tutte le chiavi delle porte della mia casa e in atto di padronanza aprii e chiusi le suddette porte, ed intanto con l’asperges in mano e con molte orazioni andavo aspergendo tutta la casa di acqua santa; servendomi, ancora, del campanello della cappella, suonandolo di tratto in tratto, come voce di Dio, per radunare in un luogo solo tutti quei maligni spiriti, che erano tutti dispersi per la mia casa.

In questo tempo, con molto fervore, chiedevo lume al Signore, perché mi desse grazia di conoscere quello che dovevo fare. Dicevo piena di fiducia: «Illumina, Domine, tenebras meas, mio Dio, mio Signore, insegnatemi quello che devo fare».

Non furono vane le mie speranze perché erano stabilite nell’onnipotenza di Dio. La mia persona avvilì ad un tratto l’orgoglio di tutti quei maligni spiriti, nel vedermi in piedi girare per tutta la casa, munita di acqua santa e di campanello. Io cercavo dove si fossero radunati, mentre non sapevo quale fosse il luogo dove Dio li aveva confinati. Ma il mio Dio, per sua bontà, non mancò di manifestarmi il luogo dove li aveva confinati. Con grande loro confusione e rossore, si erano tutti annientati in piccoli semetti di erbetta, dentro di una scatola non più lunga di un palmo e di altezza meno di mezzo palmo.

Oh grandezza di Dio, quegli spiriti che pocanzi giravano tutta la mia casa, pieni di tanta superbia e baldanza, eccoli per virtù di Dio tutti annientati e confusi in una piccola scatola, senza potermi più nuocere, anzi paventavano e tremavano alla mia voce. Oh potenza di Dio, e chi mai non si fiderà di te? E come potremo noi dubitare del tuo divino soccorso nelle nostre tribolazioni, se tu sei onnipotente? Sia dunque tutta tua la gloria e l’onore di questa grande opera, che mi fece trionfare sopra tutti questi miei spietati nemici.

Con interna illustrazione Dio mi ordinò che presa avessi quella scatola e immantinente l’avessi data alle fiamme. Puntualmente obbedii all’interna illustrazione. Nel nome dell’onnipotente Dio, presi con somma intrepidezza e senza alcun timore la suddetta scatola, andai al camino e misi sopra il fuoco la scatola; ma siccome mi parve che non fosse sufficiente il fuoco che vi era, presi molta carta bianca per incendiarla sollecitamente. Con coraggio aprii la scatola e la rovesciai sopra il grande focolare, così potei in qualche maniera avere un embrione del numero di quei maligni spiriti, che mi avevano perseguitato. I grandi botti che fecero quei semetti unitamente alla scatola parevano al certo archibugiate.

La mia figliola minore, che fu presente a questo fatto, ai botti, molto si spaventò, ma io le dicevo: «Non vi prendete pena, questa è un’opera del Signore». Nel fare questa operazione andavo recitando dei Salmi, segnatamente il Magnificat. Ruppi ancora tre piccole pile che erano sopra allo stesso camino vuote, rassembrandomi come quei ministri del santuario che sono vuoti dello spirito del Signore e si trattengono per sola apparenza vicino ai sacri altari. Con somma mia pena lo dico che di questi tali purtroppo ve ne sono, che non sono vestiti che di sola apparenza. Oh che cosa lacrimevole è mai questa!

56.3. I parenti ministri del demonio


Proseguo il racconto. La potestà delle tenebre vedendosi vinte ed oppresse da una povera donnicciola come sono io, ognuno può immaginare quale potesse essere la loro rabbia ed il loro sdegno contro di me. Questa superba potestà dovette tornare all’inferno, e invece di riportare il trionfo dovette tornare piena di vergognosa confusione, e a suo marcio dispetto doveva confessare l’onnipotenza di Dio, che sa trionfare sopra le sue creature e in un istante sa umiliare e confondere la diabolica malizia.

Il vedere una vile creaturella peccatrice, come sono io, vedermi vittoriosa della loro crudeltà, la somma facilità che Dio mi diede, la potestà che il Signore mi compartì per tutti a me assoggettarli e tutti fugarli e nuovamente rilegarli nel cupo abisso dell’inferno, ognuno potrà tirare la giusta conseguenza, qual potesse essere la loro rabbia contro di me. Non potendomi più perseguitare né offendere di propria mano ricorsero ad un’altra malizia per fare l’ultimo tentativo, per vedermi almeno storpia o ridurmi in un fondo di letto. Si servirono del mezzo dei miei parenti con l’accrescimento della forte tentazione che dava loro contro di me.

Questi dunque, come furiosi ministri, volevano venire all’esecuzione di legarmi crudelmente con quelle suddette corde diabolicamente intessute, con violenza mi si fecero addosso, e la surriferita donna, più tentata degli altri contro di me, mi si avventò alle gambe e calcandole con tanta forza che le ossa fecero un crocchio tanto forte, che la mia figlia credette che mi si fossero rotte tutte e due le gambe. Questo mi apportò un grande dolore, e se non fosse stata la grazia di Dio, le gambe sarebbero sicuramente restate rotte. Mentre io intesi infrangermi le ossa, uno dei miei fratelli mi si fece addosso, prendendomi con gagliardia e spietata forza per le braccia, scuotendomi con tanta violenza che fu un vero prodigio di Dio che non me le rompesse.

Oltre la grande scossa che ne soffrì tutta la mia macchina, con tutto questo io sempre mi feci forte invocando l’aiuto del mio crocifisso Signore, unendo alle sue pene le pene mie, tenendolo sempre non solo nel cuore, ma ancora lo tenevo sempre nelle mie mani, il crocifisso mio bene, dove trovavo in questi gravi travagli tutto il mio grande conforto, benché più volte con disprezzo me lo facessero cadere in terra, con grave pena del povero mio cuore. Io chiaramente distinguevo che questo era l’ultimo sforzo di Satanasso, e che quelli erano fortemente tentati contro di me, sicché, invece di sentire sdegno contro di loro, io ne sentivo compassione, e compativo i maltrattamenti che mi davano, non sentendo il minimo rancore contro di loro.

Per ribattere dunque la loro tentazione, presi un’aria di contegno, ed intanto non lasciavo di raccomandarmi al Signore. In questo tempo, alla presenza di tutti, feci leggere ad una delle mie figlie la passione di Gesù Cristo, e così, in queste gravi pene, andavo pascolando il mio povero spirito perseguitato ed oppresso da tutta questa turba di parenti, che in questo giorno si erano nella mia casa tutti radunati, a caso, senza sapere l’uno degli altri. Loro credevano una casualità, ma io ben sapevo che non era casualità, ma un’arte diabolica di averli nella mia casa condotti, perché non potendomi più perseguitare di propria mano, era il demonio ricorso alla tentazione per farmi rovinare nell’anima e nel corpo.

Non sto qui a dire quanto grande fosse la confusione che seguì fra loro, per la diversità dei sentimenti, mentre altro non si cercava, sotto un apparente bene, che la totale mia rovina. Cosa veramente da compatirsi e non da biasimarsi, mentre non erano loro che mi maltrattavano, ma la forte tentazione che li subornava.

Cosa potrò dir mai della donna di servizio che, tentata più degli altri contro di me, faceva maggior confusione, riportando ciarle del tutto inventate non solo nella propria mia casa, ma ancora nelle altre case. E così più che mai si accrescevano le forti confusioni, sempre a mio danno ordite. Non intendo per questo pregiudicare il mio prossimo, perché conosco molto bene che tutti erano allucinati dalla forte tentazione.

56.4. Le tre corde per legarmi


Torno un passo indietro per raccontare un’altra circostanza che avevo dimenticato. Prima di farmi leggere la passione di Gesù Cristo, come pocanzi ho detto, seguì un altro fatto. Sento un’interna ispirazione, mi alzo da sedere e vado nella camera opposta, guardo sotto di una tela dove trovo le tre corde preparate per legarmi. Le prendo e le porto nella mia camera e me le pongo in seno rimirando il diabolico supplizio che mi aspettava. Questa mia operazione, questo mio ritrovato riempì di somma confusione e di gran timore tutti i miei parenti, e dicevano fra loro: «Chi gliel’ha mai detto che sotto quella tela c’erano le corde?» E stavano tutti sbigottiti. La mia figlia minore, illuminata dal Signore, in questo giorno sempre stette al mio fianco per difendermi, sebbene più volte provarono a strapparla via con grande violenza; ma questa si attaccava al mio braccio e diceva: «Ammazzatemi pure, ma mai sarà che io lasci mia madre, sono contenta di morire al suo fianco».

In questo giorno non si curò neppure di pranzare, per non lasciarmi in preda a quei fieri manigoldi. In questo tempo non lasciavo di raccomandarmi al Signore, il quale m’ispirò di bruciare della mollica di pane sopra del fuoco. Mi feci dare dalla figlia uno scaldino e bruciai la mollica di pane. Io mi avvedevo chiaramente che quel fumo dileguava in parte la loro tentazione. In questa mollica bruciata io andavo considerando quando il mio Dio si degnò di immolarsi umanato sopra il patibolo della croce, consumato dal suo medesimo fuoco d’amore. Mano a mano che quel misterioso fumo s’innalzava, fiaccava nei miei parenti la tentazione, ed io sentivo un grande accrescimento di fortezza con una sicura speranza di vincere e di superare la diabolica malizia, nel nome dell’altissimo Dio, a cui mi ero tutta dedicata, e ne aspettavo con sicurezza, dal suo onnipotente braccio, la compiuta vittoria.

56.5. Mio fratello mi si fece addosso


In questo tempo tenevo le corde sopra al mio seno, e ne andavo sciogliendo la barbara orditura. Consideravo intanto la crudeltà usata verso il benedetto mio Gesù, e i barbari patimenti da lui sofferti per mio amore. Alle sue pene univo le mie, ed intanto, per viepiù incoraggiare la povera mia umanità oppressa ed angustiata, mi feci alla presenza di tutti i miei parenti leggere da una delle mie figlie la passione di Gesù Cristo.

Questa lezione durò circa un’ora. Finita la lezione, nella quale il mio spirito fu confortato dal Signore, e in questo conforto presi maggior vigore per sostenere questa ultima sconfitta, finita la lezione, terminai di sciogliere le crude corde. Quando ad un tratto mi si fece addosso il mio fratello, autore delle medesime e con mali termini mi levò furiosamente dalle mani le corde che io avevo già disciolte, più per virtù di Dio che per mia industria sciolte. Ed ebbe il coraggio, in mia presenza, di rintessere il barbaro supplizio, e poi con cenni i più alteri e superbi mi mostrava lo sdegno più fiero che aveva contro di me. Questo atto di poca carità usatami da questo fratello veramente mi fu molto sensibile. Dicevo fra me stessa: «A quelli che si giustiziano pure gli si tiene nascosto il capestro che li deve impiccare, pur gli si usa questa carità, e a me mi si lavora il supplizio avanti dei propri occhi. Da chi? da un fratello! Che crudeltà è mai questa».

In questo barbaro caso ricorrevo con grande fervore al mio Dio per il timore di sentire qualche moto di odiosa avversione contro questo fratello, perché mi pareva di conoscere che il fine per cui mi maltrattava fosse indiretto. Perché il demonio per mezzo di tentazione gli faceva credere che con la mia rovina avrebbe fatto la sua fortuna con l’impadronirsi della mia casa e delle mie due figlie. Immaginando che una persona che mi protegge per pura misericordia di Dio in questo caso che io non fossi più abile affatto, gli avesse conferito un posto di molto lucro, come si può dare tentazione più sciocca di questa? Mi pare al certo un castello in aria, formato del tutto dalla fantasia. Ma sia come si voglia, ne lascio a Dio il giudizio.

56.6. Il padre spirituale ordina di legarla


L’ora era tarda, già era suonata l’Ave Maria, e questo fratello fremeva per fare la barbara operazione di legarmi. E per consolidare questa opera, e per giustificare se stesso appresso degli altri parenti, conoscenti, e ben affetti alla mia famiglia, si servì del mezzo del mio confessore, che era in quel momento venuto a visitarmi. Fece dunque a questo ministro di Dio una forte rappresaglia contro di me con delle false supposizioni, molte inventate e molte male interpretate ed immaginate a suo modo. Il mio confessore, che già era carico di ciarle riportate dalla donna di servizio, condiscese alle sue voglie col dire: «Legatela». Altro il diavolo non volle che questa parola uscisse dalla bocca del mio padre spirituale per intessere una matassa ben grande di impicci e di confusione.

Il mio fratello venne nella mia camera dopo aver avuto questo permesso, male a proposito, perché lo aveva ottenuto per mezzo di una falsa e del tutto bugiarda rappresentanza. Venne dunque nella mia camera esultando, diceva tutto contento e con ironia: «Ha detto il padre spirituale che si leghi», ma io a questo ordine male inteso non ci volli stare. Mentre conoscevo che non ero obbligata a sottomettermi a questa determinazione del mio direttore, perché per la falsa rappresentanza fattagli dal fratello gli aveva ingiustamente strappato dalla bocca questo permesso. Di più fece ancora che il mio padre spirituale di propria bocca mi ordinasse di obbedire in tutto e per tutto ai miei parenti. Io che già avevo inteso l’ordine irriflessivo che aveva dato di legarmi, che se si metteva in pratica sarebbe stata la mia rovina, mentre io non ignoravo che questo voleva il demonio, a questo oggetto si servì di questa circostanza col prendere di sorpresa il mio direttore che sono sicura e certa che se l’avesse ponderato mai e poi mai avrebbe dato un simile ordine. Mi si presentò dunque il mio direttore e mi disse che obbedito avessi ai miei parenti in tutto e per tutto.

Il buon ministro di Dio non conosceva che l’obbedire a questi sarebbe stato lo stesso che obbedire al diavolo, che li tentava e sollecitava a massacrarmi e farmi davvero perdere l’uso della ragione col dissanguarmi, come si erano già prefissi. In uno stato di tanta debolezza in cui ero già ridotta, come non bastasse il sangue che cervelloticamente mi avevano già cavato, e dalle tempie e dalle braccia, che se sono risorta si deve attribuire a un puro miracolo dell’onnipotenza di Dio, mentre, per bene andarmi, dovevo restare scema di testa per la copiosa sanguigna fattami dalle tempie. Sia benedetto in eterno Dio che lo permise, per fare sempre più risaltare la sua infinita misericordia e per accrescere sempre più le mie grandi obbligazioni verso l’infinito suo amore, che è verso di me veramente inarrabile. A mia maggior confusione devo dire, e a sua maggior gloria, che tutta la mia vita è stata sempre un prodigio del suo parziale amore.

Non posso fare a meno d’interrompere il filo del racconto, senza rinvenire di tratto in tratto le infinite misericordie del Signore, mentre il povero mio cuore è sempre sopraffatto dall’amore e dalla gratitudine dell’infinito suo amore verso di me, miserabile sua creatura peccatrice.

57 – LA MIA MISERICORDIA NELLE TUE MANI


57.1. Volevo consultare un altro maestro di spirito


Riprendo il racconto. Risposi, dunque, al mio direttore che più non lo conoscevo per mio confessore, ma che solo lo riconoscevo per un religioso, e come tale lo stimavo e lo rispettavo, e non altrimenti, e che non credevo di essere obbligata di obbedirlo a quanto mi aveva comandato, cioè di obbedire ai miei parenti.

Mi ero veramente prefissa di sentire il parere di un altro maestro di spirito, per mia quiete e per assicurarmi se il povero mio spirito andava ingannato da falso spirito, sebbene nella mia coscienza non sentivo per questo la minima pena, perché non trovavo che mai avessi né finto, né alterato, né falsificato alcuna cosa; ma trovavo nella mia coscienza il buon testimonio di aver sempre palesato, con tutta ingenuità e schiettezza, quanto passava nel mio spirito ai rispettivi miei direttori. Successivamente uno agli altri, segnatamente a questo lodato padre, che sono anni quattordici che dirige il mio spirito, non trovavo di averlo mai e poi mai ingannato, ma solo di avergli sempre manifestato il mio spirito con semplicità e purità, e senza altro fine che per glorificare Dio e per assoggettarmi, con tutta umiltà e sommissione, al suo savio parere e consiglio. Trovavo ancora di averlo sempre obbedito in tutto quello che mi aveva comandato, e di non aver mai fatta cosa alcuna, riguardante il mio spirito, senza il suo permesso.

Queste riflessioni mi rendevano quieto e tranquillo lo spirito, ma quello che mi affliggeva era che mi pareva di conoscere che il mio padre spirituale dimostrasse della dubbiezza circa il mio spirito, dubitando che in me ci fosse della falsità. E questo lo rilevavo dal suo portamento e da varie proposizioni da lui dette in tempo del grave mio male, che venivano a disapprovare il mio spirito.

Questa fu una cosa che mi cagionò molta afflizione, perché la sua dubbiezza mi faceva credere che io fossi ingannata dal demonio. A questo solo oggetto avevo deciso di sentire, per mia quiete, il parere di un altro direttore. Dicevo: «Se in me c’è sbaglio, se in me c’è errore, voglio assolutamente che si corregga, a costo di ogni mia grave pena, perché io altro non desidero che di salvare questa povera anima mia, a gloria del medesimo Dio. E se mai per mia disgrazia vi fosse nel mio spirito errore o sbaglio sono contenta di farne la più aspra e severa penitenza».

Questi erano i miei sentimenti, che poi non si misero in pratica, mentre il mio direttore prudentemente si oppose a questa mia determinazione, questo mio risoluto parlare mise un grande giudizio ai miei parenti, i quali impallidirono e si ammutolirono, e non ebbero più ardire di parlare, mentre credevano di arrivare al loro intento, supponendo che io mi soggettassi ad una erronea obbedienza.

In simile guisa avevano subornato il medico, dicendogli che era ordine del mio confessore che mi soggettassi alla loro volontà, perciò il loro sentimento era di legarmi e dissanguarmi.

Il buon medico, per non contraddirli, essendo anch’esso tentato contro di me, mi ordinò subito due copiose sanguigne; ma la mia dichiarazione fatta al mio confessore mandò all’aria in un momento il loro piano, restando tutti confusi, non sapendo più che fare. Intanto, il suddetto padre se ne andò al suo convento.

57.2. Il signor Giovanni mi liberò dai parenti


In questo tempo, per mia buona sorte e per pura misericordia di Dio, giunse in casa mia una persona di molto riguardo e di molta stima, molto a me bene affetto, il quale, sentendo la barbara risoluzione e la crudeltà che volevano praticare contro di me, pianse amaramente e molto se ne afflisse, e non avendo neppure coraggio di trovarsi presente a questo mio strazio, se ne voleva partire senza neppure entrare nella mia camera, ma si contentò di solo affacciarsi con la testa sulla porta per quanto vedermi, pensando che io non lo vedessi. Ma il Signore, che voleva per suo mezzo liberarmi da questa grande sevizia, permise che, appena mise la testa nella mia camera, io lo chiamassi per nome: «Signor Giovanni», così gli dissi, «signor Giovanni, fratello mio in Gesù Cristo, favorisca pure, la prego. Prego per carità di liberarmi dalle mani di questi tentati parenti, che vogliono fare da padroni in casa mia. Prego lei di assumere in mia vece questa padronanza, per metter freno agli sconcerti che sono per fare, con grave pregiudizio della mia salute, e forse ancora della mia vita».

Questo buonissimo mio amico e fratello in Gesù Cristo, a questo mio parlare, tanto s’impietosì che non poteva contenere le lacrime, ma, piangendo dirottamente, mi disse: «Io mi faccio carico di tutto, e da questo momento in poi nessuno avrà più ardire di molestarla. Io ne assumo il comando, e le prometto che non si farà né più né meno di quello che lei vuole. Dica pure a me i suoi sentimenti e si assicuri certo che saranno tutti eseguiti».

Questa promessa tranquillizzò il mio spirito e mi misi in una perfetta calma. Questo pio galante uomo parlava per puro impulso di Dio, che in quel momento si degnò di illustrare la sua mente per farmi questo gran bene, per così porre fine a tante mie sciagure, come difatti seguì. Questo non si può negare che fosse un tratto benefico della grazia di Dio, come il suddetto mi ha più volte assicurato, che per mezzo di lume interno si accinse ad operare, sentendosi spronato da forte impulso di condiscendere a quanto io volevo, trovando che le mie domande erano giuste e rette.

Questo lodato signore, vedendomi in piedi che molto pativo e soffrivo, parte per la grave angustia di essermi fino allora veduta bersagliare dai parenti, parte per la debolezza per il grave male sofferto, mi disse che credeva bene che andassi a letto, chiedendolo per carità e per non vedermi tanto patire. Io risposi che avrei subito obbedito. Si partirono tutti dalla mia camera, ed io, assistita dalle mie due figlie, me ne andai a letto.

Tornarono tutti nella mia camera, ma nessuno dei miei parenti ebbe più ardire di molestarmi, e neppure di proferir parola contro di me. Il buonissimo mio amico e fratello in Gesù Cristo mi disse che il medico mi aveva ordinato il sangue, se credevo bene di cavarlo. Io gli risposi ridendo che non avevo bisogno di levarmi sangue, che le sanguigne mi avrebbero precipitata.

Il suddetto si fidò della mia parola, e così andarono all’aria ancora le sanguigne. Mi disse ancora che il medico aveva detto che mi aveva trovato nel polso una gran febbre, io gli risposi che il medico fosse tornato a visitarmi la mattina, che mi avrebbe trovato perfettamente bene di polso. Mentre nel mio polso altro non vi era che la grande agitazione e la pena che fino allora avevo sofferto. Si persuase alle mie parole, e così fu soprasseduto ogni sorta di rimedio, ogni sorta di medicamento, mentre io lo assicurai di non aver bisogno di rimedi umani.

La mattina venne il medico e mi trovò come io avevo detto la sera, mi trovò di polso perfettamente bene e del tutto guarita. Con sommo suo stupore pareva che non se ne potesse persuadere di vedermi tanto pacifica e tranquilla, per avermi veduta negli scorsi giorni oppressa da tanti mali che gli facevano paura. Non restò in me che la pura debolezza, senza alcun altro male di quelli che avevo negli scorsi giorni sofferto, ma mi trovai in quel medesimo momento perfettamente guarita. Per vari altri giorni guardai il letto, per la sola debolezza e prostrazione di forze.

57.3. Ho scusato i parenti


I miei parenti, dunque, quella medesima sera se ne tornarono alle loro case pieni di stupore, confessando l’opera prodigiosa del Signore, che in un momento aveva cambiato aspetto alla cosa da loro male interpretata, perché credevano il mio male irrimediabile e disperato affatto, quando lo videro del tutto svanito in un momento, con loro meraviglia e stupore. Veramente sono compatibili. Loro credevano un male naturale, volevano ripararlo, sicché non operavano con cattivo animo contro di me, ma erano troppo assai frastornati dalla forte tentazione del demonio, che neppure loro sapevano quello che facevano.

Io li ho scusati, non lagnandomi di alcuno, non avendo altra mira che di raccontare il fatto dal principio sino alla fine, alla maggior gloria di Dio e per obbedienza del mio padre spirituale, che mi ordinò di scrivere. E, per non lasciare interrotto il suddetto racconto, aggiungo ancora che la donna di servizio, lei ancora altamente confusa, forse per le false ciarle riportate, si licenziò dal mio servizio, e di questo ne fui pienamente contenta, per giusti miei fini riguardanti la gloria di Dio.

Bisogna premettere, prima del surriferito racconto seguito la sera, come poc’anzi ho detto, e premettere quello che seguì la mattina. Eccone dunque il racconto. Fin dalla mattina il Signore mi aveva promesso che in quella giornata sarei restata vittoriosa di tutti i miei nemici, visibili ed invisibili, grazie al suo divino aiuto. Come difatti seguì, come già ho detto nel passato racconto, questo fu il giorno 15 febbraio 1821. La mattina dunque mi volli alzare dal letto per andare in cappella, che era contigua alla mia camera. Questo molto mi fu contrastato dai miei parenti, che appena giorno si portavano a bella posta in casa mia per far da padroni e contrariarmi tutto quello che volevo e dicevo. Si opposero severamente a questa mia richiesta, ma io tanto pregai, tanto mi raccomandai che mi dettero il permesso di alzarmi. Questa richiesta la feci, perché Dio me ne aveva fatto un assoluto comando. Mi alzai e andai nella mia cappella, dove feci fervide preghiere, raccomandandomi caldamente al Signore. Stetti molto tempo in orazione.

Dio per sua bontà mi manifestò quello che dovevo fare per fugare tutti i demoni, che erano nella mia casa, e tutto il regolamento che dovevo tenere in quella giornata, assicurandomi il mio Dio che in quel medesimo giorno, per mezzo del suo divino aiuto, avrei trionfato sopra i miei nemici. Come difatti seguì, ed ho già detto nei passati fogli.

57.4. La Chiesa non sarà perseguitata


Per mezzo dunque di interna illustrazione, mi diede a conoscere Dio che se nei passati giorni, per amor suo e per sostenere la santa cattolica Chiesa e per il bene di tutto il Cattolicesimo, mi ero contentata per compiacere la sua divina carità di spontaneamente scendere all’inferno, per mezzo di tanti patimenti, sarei prima della notte risorta gloriosamente a nuova vita, vale a dire che avrei riacquistato quello che avevo perduto per mezzo di tanti patimenti, che avrei riacquistato la giusta sensazione e non sarei stata più oppressa da quei travagli ed angustie fino allora sofferte. Avrei riacquistato ogni diritto, ogni ragione sopra me stessa e sopra la mia casa, e che la mia vita sarebbe regolata dalla sua divina sapienza, che mi avrebbe fatto partecipe dei suoi santissimi doni, e che la sua divina grazia sarebbe scesa sopra di me in grande copia, e che l’anima mia avrebbe sempre abbondato e partecipato di favori celesti. E che tenessi per certo e sicuro che si sarebbe avverata la promessa che mi aveva fatta di liberare la nostra città di Roma dall’invasione eminente dei Napoletani, che la sovrastava ora per ora. E, così avrebbe compiaciuto le mie brame e il grande mio desiderio di non vedere perseguita e dispersa la romana Chiesa cattolica da questi barbari persecutori, che con dettami di una apostatica costituzione pretendono di levarla dai suoi propri cardini, perseguitandola dai propri suoi fondamenti con una massima del tutto opposta al santo Vangelo.

Così si degnò Dio di parlarmi intimamente, senza strepito di parole sensibili, ma solo per via di intelligenza intellettuale, per mezzo di alta cognizione, dettata dalla sua divina sapienza all’anima mia ed ammaestrata dalla divina sua scienza, per così conoscere la nuova maniera di trattare intimamente con lui, e per conoscere con maggior chiarezza di prima le sue divine perfezioni, e per sempre più accrescere nel mio spirito il fuoco della divina carità.

Fu illustrata la mia mente per mezzo dei sette doni dello Spirito Santo, di cui il mio Dio mi aveva fatto partecipe di questi sette doni per innalzare la povera anima mia a trattare familiarmente con la sua divina e sovrana maestà. E così trattenermi intimamente con lui, per farmi conoscere con maggiore chiarezza il suo infinito essere sovrano e divino.

Si tratteneva, dunque, la povera anima con la sua divina maestà, con sommo rispetto, riverenza e sommissione, ma insieme con una santa confidenza proprio filiale, che non si opponeva a quella umile soggezione e sommissione dovuta alla sua infinita grandezza. Con umile sentimento e ossequioso rispetto, pregavo a liberarci dall’imminente invasione dei Napoletani e dal tirannico giogo della loro costituzione, che a momenti ci sovrastava. Pregavo incessantemente per la santa Chiesa cattolica, perché in questa occasione non fosse tiranneggiata ed oppressa. Raccomandavo il sommo Pontefice, tutto il clero regolare e secolare, tutto il Cristianesimo. Finalmente tornavo a pregare per la città di Roma, affinché non perdesse il dominio della cattedra infallibile della verità di santa Chiesa.

Così dunque si degnò Dio di parlarmi intimamente: «Mia diletta figlia, tu riporti il trionfo della mia Chiesa. Tu facesti violenza al mio cuore col sostenere virilmente un diluvio di patimenti per amor mio, così ti facesti mediatrice e in luogo della giustizia che volevo in questi momenti far trionfare per mezzo di severo castigo, ecco invece nelle tue mani la mia misericordia. Non più disperso e ramingo sarà il gregge di Gesù Cristo, né la tua Roma perderà il dominio della cattedra infallibile della verità di santa Chiesa. Vedi, o mia amatissima figlia, fin dove giunge l’amor mio per condiscendere la tua volontà, le tue brame. Sei paga? Brami altra prova dell’infinito amore che ti porto?».

57.5. Non capisco perché mi amate tanto


A queste amorose espressioni, così rispose la povera anima mia al suo Dio: «Ah mio amorosissimo Dio, basta, non più. Il vostro amore altamente mi confonde e profondamente mi umilia. Io non capisco perché tanto mi amate, e cosa mai voi troviate in me, che tanto vi piace, che vi degnate di esaudire le povere mie preghiere e di condiscendere le mie voglie? Ah mio Dio, per carità, perdonate il mio ardire, e si adempia in tutto e per tutto la vostra santissima volontà. Mi protesto che altro non voglio se non che la mia volontà, sia assolutamente la vostra volontà, e se mi sono offerta e sacrificata a patire, mio Dio, voi lo sapete, altro non volli, altra mira non ebbi che di compiacere la vostra santissima volontà».

Nuovamente tornò a parlare il mio Dio: «I santi tuoi desideri dettati dalla mia fede, dalla mia speranza, dalla mia carità, che fino dal Battesimo io ti infusi con particolare amore nel tuo cuore, queste virtù unite alle altre, che mi sono compiaciuto donarti, ti formano oggetto delle più alte mie compiacenze. Figlia, hai vinto la mia giustizia. Rallegrati, che la grazia è nelle tue mani. Sospendo il flagello e do luogo per ora alla mia misericordia».

Torna l’anima a parlare con il suo Dio: «Ah mio amorosissimo Dio, le vostre parole sono degne veramente del vostro infinito amore, ma a dismisura altamente mi confondono. Non posso negare a me stessa gli alti favori che ho sempre ricevuti dall’infinita vostra maestà. Io tutti li ricordo, ma qual confusione è per me di conoscere ancora la mia cattiva corrispondenza e il grande abuso che ho fatto delle vostre divine misericordie. Mio Dio, tengo vivamente presenti alla mente i grandi oltraggi che vi ho fatto, i grandi peccati che ho commesso. Mio Dio, mio Signore, l’enorme mia ingratitudine mi umilia profondamente, mi annienta, mi inabissa nel proprio mio nulla. Mi confondo nella stessa mia cattività avanti alla vostra tremenda maestà infinita. Mio Dio, mio sommo amore, vi domando milioni di volte perdono, vi domando milioni di volte pietà, ve ne domando misericordia, ne sono pentita e pentita di vero cuore, voi lo vedete, voi lo sapete. Mio Dio, propongo con la vostra santa grazia, prima morire, che mai più darvi il minimo disgusto, di farvi la minima offesa. Mi protesto di vivere e di morire tutta abbandonata nel vostro divino beneplacito e nell’adempimento perfetto della vostra santissima volontà. E di amarvi e servirvi fedelmente per quanto varranno le mie forze, fino all’ultimo respiro della mia vita, per mezzo della vostra divina grazia, che imploro dalla vostra infinita bontà».

In questa guisa terminò la mia orazione.

58 – TI FARÒ PARTECIPE DELLA MIA POTESTÀ


58.1. Volevo tacere per non essere molesta


Riprendo il filo del racconto. Come poc’anzi ho detto, stetti altri quindici giorni guardando il letto. Il mio padre spirituale per sua bontà ogni giorno mi favoriva a celebrare la santa Messa, e mi somministrò in questi giorni la santissima Comunione. Dovevo guardare il letto più per la continua alienazione dei sensi che per la naturale debolezza per le grandi e continue comunicazioni celesti e speciali favori di Dio.

Si degnava Dio trattenere la povera anima mia in certi colloqui con la sua divina sapienza, ma così belli, ma così alti ed eleganti che l’anima ne restava rapita e santamente innamorata, godendo un bene di paradiso. Restava estatica e tutta assorta in Dio per le alte cognizioni che riceveva, che se in quel tempo avessi potuto scrivere, avrei detto grandi cose riguardanti l’infinita bontà di Dio, molto profittevoli e di molta consolazione per le anime che si danno alla vera sequela di Gesù crocifisso.

Oh quanto sono ricche quelle anime che abbandonando il mondo e la sua vanità, disprezzando se stesse. Cercano solo, con l’esercizio delle sante virtù, imitare l’umanato Signore e, per quanto sia possibile, copiare in se stesse i propri suoi lineamenti e del crocifisso, loro maestro, essere perdute amanti. Questa è la vera ricchezza, questa è la vera scienza, questa è la nostra vera, verissima nostra felicità.

Riprendo a raccontare come passai i suddetti quindici giorni che dovetti guardare il letto, alla meglio che mi sarà possibile, proseguirò a manifestare i divini favori ricevuti, così porrò fine a questo mio racconto, riservandomi, in fine di questo, di manifestare altri patimenti sofferti in tempo della mia grave tribolazione poc’anzi detta, volendoli a bella posta tacere per non essere tanto molesta a chi legge, nel sentire tante barbare sciagure, che mi pare si renda impossibile che si possano credere da chi legge e da chi ascolta. Eppure la tribolazione fu assai più maggiore di quello che possa mai da me dirsi, perché mi mancano i termini per poterlo spiegare. Dio solo, che si degnò assistermi ed aiutarmi, lui solo comprende quanto fosse il mio patire nella sua totalità.

Volevo dunque occultarli, ma per espresso comando del mio padre spirituale mi conviene narrarli alla meglio che so e posso del che farò in fine di questo racconto dei surriferiti quindici giorni.

58.2. Avrai parte nel mio regno


Il giorno 21 febbraio 1821 nel prepararmi per fare la santa Comunione, mi diede Dio a godere nell’intimo dell’anima mia un gaudio, una dolcezza straordinarissima, tutta propria del paradiso. Trovandomi immersa in questo gran bene, chiedevo con tutta l’effusione del mio cuore al mio Dio, di tornare per amor suo a patire nuovamente tutto quello che negli scorsi giorni avevo di già patito e sofferto, mentre era tanto grande l’amore e la carità che sentivo verso il mio Dio, che mi pareva poco quello che avevo sofferto e patito. Chiedevo con somma ansietà di viepiù patire per amor suo.

Piacque tanto a Dio questo mio desiderio che così si degnò parlarmi: «Mia dilettissima figlia, oggetto delle mie più alte compiacenze, inòltrati senza timore nei più ampi spazi della mia divinità. Il mio amore ti trasse dal tuo proprio nulla per unirti perfettamente, per via d’amore e di compiacenza, alla mia divinità. Compiaciti dunque, o figlia, di godere di questo gran bene che ti somministra la mia medesima umanità divina. Ecco l’amor tuo per la mia grazia fin dove giunse! Morta a te stessa risorgi per me a una nuova vita. Tertia die resurrexit a mortuis. Avrai parte nel mio Regno ed intanto in terra ti farò partecipe della mia potestà. La mia potenza, la mia sapienza, la mia bontà in te voglio magnificare, per dimostrare l’amore che ti porto. Per mezzo della mia grazia sei divenuta terribile all’inferno, e alla tua voce la potestà delle tenebre resterà confusa e il suo orgoglio resterà da te, in mio nome, vinto e soggiogato, giacché per mezzo della mia grazia arrivasti tanto oltre che potesti levarmi dalla mano il terribile decreto».

A questi amorevolissimi tratti dell’infinita bontà del mio Dio, qual fosse il profondo della mia umiliazione non mi è possibile il poterlo ridire. Non trovavo termini sufficienti per potermi inabissare nel proprio mio nulla, per quanto era grande il sentimento di propria cognizione. Con abbondanti lacrime ed intima sommissione esprimevo il vivo sentimento del povero mio cuore al mio amorosissimo Dio, mostrandogli il mio amore e l’ardente mio desiderio di compiacere in tutto e per tutto la sua santissima ed amabilissima volontà.

In questi sentimenti amorosi passavo dal mio letto le intere giornate, godendo un bene che mi rapiva il cuore e mi teneva tutta assorta in Dio.

Per non dissipare il mio spirito, in questi quindici giorni me ne stavo sempre chiusa all’oscuro senza ricevere nessuno, fuorché quelle persone che erano di pura necessità, servendomi a bella posta del mezzo termine della debolezza per godere nella solitudine e nella quiete di quel bene che mi veniva somministrato dalla grazia di Dio in larga copia.

58.3. Voglio morire crocifissa per amore del Signore


Il giorno 22 febbraio 1821, la divina sapienza prosegue a parlare con la povera anima mia, manifestandomi cose degne della sua infinita grandezza, ma non posso dare di queste ragguaglio, perché precisamente non le ricordo. Solo accennerò i sentimenti vivi dell’anima che, sopraffatta dalla divina carità, si tratteneva ai piedi della croce, parlando con il crocifisso suo bene, sapienza infinita.

L’anima mia, ebbra di santo amore, così esclamava piangendo e sospirando, chiedeva all’amato suo Signore di patire, così gli diceva: «Con te voglio, o Signore, portare la mia croce e nella tua doglia atroce io ti voglio seguir. Ma troppo inferma e lassa, donami tu coraggio in questo alto e arduo viaggio della mia eternità. Dubito di smarrirmi sul monte del dolore, ma il tuo santo amore mi riempie di speranza il cuor. Col tuo prezioso sangue già mi segnasti i passi che io devo camminar. Dunque ché più tardare? Sopra il Calvario io per suo amore crocifissa voglio morire. Ricevi intanto, o mio Signore, la forte brama di questo mio cuore, che fedeltà torna a giurar. Non che potranno né affanni, né pene mai dividermi dal sommo mio bene, creature tutte, intendetemi bene, quello che amo è il mio Gesù. Né terra, né mare, né il cupo infernale dividermi mi possono dal mio Gesù. È tanta la fiamma che mi arde nel seno che l’alma vien meno languire la fa. Oh croce, oh chiodi, oh spine, non più tardate a farmi morir». Con queste ed altre amorose espressioni la povera anima mia sfogava l’ardente brama di patire per amore del suo Dio crocifisso.

Non tardò punto l’amato Signore a dare amoroso riscontro all’anima della sua gratitudine, così prese a parlare: «Qual contento mi dài, o diletta mia figlia, nel vederti presso di me, scevra affatto di ogni altro amore e di ogni affetto. Qual contento dài al mio cuore, di quanta compiacenza mi sei. Io saprò ben premiare il tuo amore».

A queste amorose espressioni viepiù si accresceva la brama di patire. La mattina seguente quando mi favorì il mio padre spirituale, per celebrare nella mia cappella la santa Messa ed insieme somministrarmi la santissima Comunione, che io dal mio letto, priva di forze ricevevo: «Padre mio», gli dissi, «mi faccia la carità, nel santo sacrificio della Messa di questa mattina, torni nuovamente ad offrirmi al Signore. Ratifichi di bel nuovo la mia offerta a Dio, gli dica pure da parte mia che se è di suo piacere e di sua soddisfazione di vedermi patire, io sono pronta per compiacerlo fino da questo momento, di tornare a patire non solo tutto quello che ho sofferto e patito negli scorsi giorni, ma ancora di più».

Il mio buon direttore molto si meravigliò ed insieme si rallegrò di vedere in me tanta fortezza e prontezza di patire per amore di Dio e in vantaggio del mio prossimo. Ne ringraziò e ne diede lode a Dio, il quale per sua bontà si degnava darmi tanta grazia. Mi promise di farlo con tutto l’affetto del suo cuore. Io gli soggiunsi che avesse nella cappella bruciato sopra del fuoco un poco di zucchero, che io intendevo di struggermi, per amore del mio Dio, come incenso sul fuoco. Così si fece. Nel tempo che si innalzava quel fumo, il mio spirito godeva una dolcezza, una soavità propria di paradiso, che mi ricreò l’anima e il corpo.

58.4. Roma liberata dal grande castigo


Il giorno 6 del medesimo mese di febbraio 1821, ebbi un preciso comando dal Signore: che mi fossi portata alla chiesa di San Giovanni in Laterano per ossequiare lui, la sua divina maestà, e fare i dovuti ringraziamenti per la grazia ricevuta di aver liberata la città di Roma dal grande castigo che la sovrastava, come si è già detto nei passati fogli. Ed insieme avessi formato l’intenzione di prendere possesso di quella chiesa a nome di tutti i cattolici, essendo la detta chiesa la dominante di questa nostra città di Roma, questo atto io lo dovevo fare per riacquistare il diritto che si era perduto di possedere la cattedra dell’infallibile verità di Chiesa santa, come si è già detto a suo luogo nei passati fogli. Mi fece conoscere Dio che a me conveniva di riprendere questo possesso di già perduto, mentre io lo avevo riacquistato per mezzo della sua divina grazia, con l’aver sostenuto virilmente per amor suo un diluvio di gravissimi patimenti.

La mattina seguente il giorno 27 detto, io comunicai al mio direttore quanto Dio mi aveva comandato. Il buon religioso, al mio parlare, raccapricciò e restò altamente sorpreso, parendogli veramente impossibile il poterlo eseguire, mentre era tanto grande la mia debolezza e prostrazione di forze che, se parlavo un poco a lungo, venivo meno e avevo bisogno per rinvenire di odorare dell’aceto. E questa gita io sapevo che si doveva fare il primo di marzo. Umanamente pareva impossibile che mi potesse riuscire, neppure per lo spazio di altri quaranta giorni. Ciò nonostante mi rispose il mio direttore che, sebbene questo pareva impossibile, se Dio lo vuole mi darà la grazia, la forza di poterlo fare, che se Dio voleva fare questo prodigio di rendermi immantinente le forze, perché mettessi in pratica i suoi divini ordini, credeva in dovere di non opporsi, sicché mi dette tutto il permesso e la licenza di poterlo eseguire.

Il primo di marzo 1821, dunque, feci la mia gita a San Giovanni in Laterano, nel giorno di giovedì. Mi alzai dal letto di buon ora, feci la santa Comunione nella mia cappella, secondo il solito. Celebrò la santa Messa il mio padre spirituale, e da quella mattina in poi mi tornarono le forze e non dovetti più guardare il letto, fuori che quando il mio spirito era tanto chiamato intimamente da Dio. Dovetti allora ricorrere ad adagiarmi sopra il letto, perché restavo alienata dai sensi, e questo lo facevo per occultare i favori celesti che ricevevo dal mio Dio a quelli della mia casa, immaginandosi che fosse naturale debolezza.

La gita si fece in carrozza, accompagnata dalle mie due figlie. Questo si fece per espresso comando del prudente mio direttore che andassi in carrozza, ma io avrei avuto tanto coraggio e spirito di fare il viaggio a piedi, benché dalla mia abitazione vi sia molta lontananza. Il mio buon amico e fratello in Gesù Cristo, che tutto sapeva unitamente al mio padre spirituale, con altra carrozza in mia compagnia vennero a San Giovanni, sopraffatti dallo stupore nel vedermi piena di spirito, senza aver neppure bisogno di appoggiarmi.

Ascoltai una Messa, feci tutta la navata di San Giovanni, mentre da una porta entrai e dall’altra uscii. Feci la Scala Santa senza neppure appoggiarmi. Nel ritornare a casa visitai la chiesa di Santa Maria Maggiore, e così compii e soddisfeci a quanto mi aveva comandato Dio. Mi diede a conoscere Dio che molto aveva gradito il povero mio ossequio e il mio rendimento di grazie. Mi benedì, mi chiamò «sua amica carissima, figlia obbediente alla sua divina volontà», mi fece ossequiare da molti santi Angeli, mostrandomi a loro qual figlia sua prediletta arbitra del suo cuore. Questa moltitudine di santi Angeli mostravano le loro alte ammirazioni nel vedere la povera anima mia peccatrice tanto amata e tanto favorita dal loro Creatore e supremo Signore. Pieni di gioia e di contento tripudiavano di gaudio e con piena allegrezza cantavano inni di gloria al loro Signore, magnificando le sue infinite misericordie. Ne provarono ancora i buoni effetti delle divine misericordie le anime sante del Purgatorio, perché io chiesi in grazia al Signore la loro liberazione.

In quella santa giornata che Dio, per pura sua bontà, si mostrava tanto propenso e tanto liberale verso di me, che mi diceva: «Chiedi quanto vuoi che tutto otterrai», mi approfittai di questa buona occasione, gli dissi: «Mio Dio, padre delle divine misericordie, vi prego di aprire le porte del Purgatorio, affinché vengano tutte quelle anime benedette a lodarvi e benedirvi per tutta l’interminabile eternità».

Al momento, per comando di Dio, andarono in volo molti santi Angeli a dischiudere quelle ferali porte, e un numero immenso di quelle sante anime se ne volarono al cielo, corteggiate dai loro santi Angeli custodi.

Non dimenticai ancora di pregare per la salute eterna di tutti i miei benefattori, e nuovamente mi promise Dio che li avrebbe tutti salvati. Mi diede Dio a conoscere, ancora, molte cose riguardanti i presenti bisogni della santa Chiesa e le sue giuste determinazioni, che a suo tempo avrebbe prese sopra di essa.

59 – DOVE GIUNSE L’ARTE DIABOLICA


59.1. Racconto quello che volevo tacere


Con molto mio rincrescimento e grave mia pena, torno in fine dei presenti fogli, come promisi negli antecedenti, a dare ragguaglio di altri patimenti sofferti. Mi accingo dunque nuovamente ad affliggere il cuore e a tediare l’orecchio di chi legge con altro funesto racconto, per manifestare fin dove giunse l’arte diabolica per farmi arrendere alle loro diaboliche voglie e per strapparmi dal seno di Gesù Cristo, e rendermi loro seguace col darmi in preda alle passioni; ma niente fecero tutte le loro maliziose arti. Troppo forte è il vincolo con cui Dio si è degnato legare e stringere la povera anima mia al cuore suo santissimo. Non furono, per la grazia di Dio, bastanti tutte le sorti dei loro artifici. Anche i patimenti, le pene, le angustie che mi facevano provare mi stringevano viepiù al mio Dio, e sempre più mi trovavo a Dio unita e legata con catene di dolcezza e di soavità

Proseguo dunque il funesto racconto seguitomi fino dai primi giorni del mio patire, il quale fatto volevo tacere per non essere tanto molesta, e per non stancare la sofferenza di vostra paternità reverendissima col raccontare cose che non paiono credibili, ma pure il fatto è così. Scrivo avanti al mio Gesù crocifisso, al quale con molta frequenza mi raccomando e chiedo lume affinché mi dia grazia di scrivere con purità e semplicità di spirito, e devo confessare, a mia maggior confusione, che non sarei stata al certo capace di scrivere quanto ho scritto senza il suo divino aiuto e particolare illustrazione, che mi comparte nel tempo che sto scrivendo. Per obbedire a vostra paternità e per non mancare al mio dovere, racconto quello che volevo tacere a bella posta per i surriferiti motivi di non essere tanto molesta.

59.2. Il demonio incantatore


Scrivo altri tre fatti seguitimi nel surriferito tempo della grave mia battaglia, come nei passati fogli ho già detto. Mi accingo a darne il ragguaglio, alla meglio che potrò, a gloria di Dio e per obbedienza.

Mi apparve nella mia camera un demonio sotto la forma di incantatore, e nella mia medesima camera faceva il diabolico incantesimo. Io mi protesto di essere digiuna affatto di questa malizia, né so se si faccia così l’incantesimo per mai aver parlato, per mai aver veduto né letto simili cose. Si presentava dunque nella mia camera un uomo di alta statura accompagnato da altro demonio sotto la forma di ragazzo, il quale portava una saccoccia dove vi erano tutti gli ordigni per fare l’incanto. Scioglieva la detta saccoccia e somministrava di mano in mano quello che l’incantatore gli richiedeva. Gli ordigni erano un libro che si metteva a leggere con voce molto bassa, leggendo con somma fretta, segnando di tratto in tratto il libro con il suo piccolo bastone, che teneva sempre nelle mani. Una tromba artificiale che allungava e scortava a suo talento, ponendola alla sua bocca, dopo che l’aveva molto distesa parlava in quella tromba con voce molto sommessa, che io non sentivo le parole che diceva. Volgendo la tromba ai quattro angoli della mia camera, diceva altre parole, poi seguitava a parlare sempre per mezzo di quella tromba con voce molto bassa. Un fischio che di tratto in tratto lo poneva nella sua bocca, e il trillo di quel fischio era tanto acuto e forte, che stordiva e mi offendeva l’orecchio e mi dava una grande afflizione di spirito. Con il bastone faceva un segno rotondo in terra, a guisa di cerchio, nel mezzo del quale faceva mettere il suddetto ragazzo il quale faceva dei gesti, degli atti con le mani e con i piedi che io non sapevo cosa significassero.

L’incantatore tornava a prendere la detta tromba, distendendola parlava or qua or là sempre con voce bassa. L’altro strumento era una caraffa di cristallo, ma io questa non so descriverla per essere fatta di una fattura e in modo tutto ritorto. In questa caraffa, poneva della stoppa mescolata con altra roba oliosa, l’accendeva e la poneva dentro alla caraffa la quale aveva delle aperture, a guisa di sfiatatoi per i quali tramandava un densissimo fumo. Questa operazione seguiva sempre di notte.

La detta diabolica operazione dava tanto pena al mio spirito, che non ho termini di poterlo spiegare. Mi pareva di perdere il raziocinio, restavo tanto confusa e ottenebrata, con tanta pena ed afflizione, che mi trovavo quasi del tutto smarrita. Terminato l’incantesimo, costui se ne partiva senza proferir parola di sorta alcuna, fuori di quello che aveva detto nella tromba, come ho già detto.

Era tanto grande la pena che mi recava questo diabolico patimento, che al solo vedere l’incantatore, quando si presentava nella mia camera, mi levavo tutta in gelido sudore di morte dalla testa fino ai piedi. Questa era una pena che io non saprei a qual pena rassomigliarla, era proprio una pena infernale. Oltre di ciò, le funeste conseguenze che portava questo diabolico incantesimo. Mi si presentavano alla vista le cose più tragiche, afflittive, funeste e luttuose. Mi pareva di vedere le mie due figlie date in preda al libertinaggio e alla dissolutezza. Le vedevo danzare con giovani libertini, che le volevano sedurre, e tante altre funestissime rappresentanze, tutte ordite a bella posta alle gravi offese di Dio, tutte tendenti ad oltraggiarlo ed avvilire la sua santità, la sua divina sovranità, la sua onnipotenza.

Qual patimento, quali afflizioni ne provava il mio spirito non è di mente umana il poterlo comprendere. Qual pena mi recassero queste magiche, diaboliche rappresentanze, che ad altro non tendevano che ad offendere il mio amato Signore, al quale io sempre e poi sempre e perennemente facevo ricorso, invocando con molta fiducia il suo divino aiuto.

Non erano vane le mie speranze, né restava delusa la mia fiducia, ma prontamente Dio benignamente mi faceva sperimentare il divino soccorso, senza del quale mi si rendeva affatto impossibile il sostenere le diaboliche frodi contro di me in simil guisa ordite. Per mezzo di questa diabolica frode mi comparivano molti spiriti maligni, sotto la forma di religiosi, di sacerdoti, di persone di carattere insigne e tutti mi persuadevano a non farmi tanto tormentare, e che avessi piegata la fronte ai loro voleri. Mi dicevano che non apparteneva a me il sostenere la santa Chiesa cattolica, ma che spettava al capo visibile di essa, e che era cosa molto ingiusta il tanto patire per quello che a me non spettava e non mi apparteneva, e che avessi lasciato questo arduo assunto, questa difficile impresa.

59.3. Un forte rimprovero dalla divina giustizia


Il giorno 25 marzo 1821, festa dell’Annunciazione di Maria Santissima, dopo la santa Comunione, veramente ebbi a morire per il forte rimprovero che ebbi dalla divina giustizia per essermi fatta mallevatrice con l’offrirmi in unione dei meriti infiniti di Gesù Cristo qual vittima di riconciliazione, affinché la divina giustizia non avesse, col suo onnipotente braccio, vendicato giustamente con il furore della sua inesorabile giustizia i tanti oltraggi ed enormi ingratitudini e nefandità che si commettono dalla maggior parte degli uomini, che a briglia sciolta camminano la via della perdizione.

Mi vidi dunque in un momento quasi sopraffatta dai fulmini dell’irato suo sdegno, che cercava da me soddisfazione. Intimorita ed oppressa non sapevo cosa rispondere per mia discolpa, mentre, per mezzo di lume interno, chiaramente conoscevo il disprezzo e l’abuso che si fa della divina misericordia di un Dio di infinita maestà.

Questi uomini, miserabili e senza senno, altro non fanno che rendere a Dio male per bene, abusando della sua infinita misericordia. Ogni giorno più divengono baldanzosi e superbi, cercando di conculcare la santa fede e la sua divina legge con opere e dettami i più nefandi di miscredenza e di apostasia, servendosi delle stesse parole delle sacrosante Scritture e santi Evangeli per pervertire i giusti sensi, per sostenere la loro perversa malizia e massime indegne.

Sdegnato Dio da questi ed altri eccessi di iniquità, quasi pentito di avere ascoltato le mie suppliche ed il povero mio sacrificio che da indegna peccatrice avevo fatto per ordine di Dio medesimo e con il permesso del mio padre spirituale, come si è riferito nei precedenti fogli. Vedendomi dunque redarguita tanto aspramente dal mio Dio, e vedendomi balenare d’intorno i fulmini della sua irritata giustizia, non sapevo a quale partito appigliarmi. Piena di timore e di spavento, mi scusavo dicendo: «Mio Dio, luce eterna, placate il vostro giustissimo sdegno irritato giustamente contro di me, miserabile peccatrice. Ma per gli infiniti meriti del vostro santissimo figliolo e per la sua vita, passione e morte, abbiate misericordia di me, placatevi per la vostra infinita carità, prendete sopra di me qualunque soddisfazione, purché resti placata la vostra divina giustizia. Eterno mio Dio, perdonate il mio ardire, per l’assunto che mi sono incaricata di sostenere l’iniquità degli uomini, ma mi protesto che altro non cerco, altro non bramo, altro non desidero che la maggior gloria vostra. A questo solo fine mi indussi a pregarvi e farmi mallevatrice di sì forte incarico». E volgendo le mie afflitte pupille gemebonde dal dirotto pianto, con interrotti sospiri, tremante qual foglia all’urto di rapido vento, tutta inorridita dallo spavento, riconcentrata nell’abisso del mio nulla, mi volgevo verso l’umanità di Gesù Cristo, e così presi a parlare: «Amorosissimo mio Gesù, voi voleste e mi comandaste che mi offrissi al vostro divin Padre in unione dei vostri santissimi meriti. Vi prego di aiutarmi adesso, in questo doloroso conflitto: la sua giustizia è contro di me. Aiutatemi, Gesù mio, e non permettete che l’anima mia perisca».

59.4. Mi portò nell’Orto di Getsemani


A queste parole il benedetto Signore conduceva la povera anima mia nell’Orto di Getsemani. «Non temere», mi diceva il buon Gesù, «non temere, o mia diletta figlia, il giusto furore dell’eterno mio Padre, perché non è sdegnato con te. Fatti coraggio, ed impara da me a sostenere con fortezza di spirito e veracità di cuore, e con perseveranza finale, grazie al mio divino aiuto sicuramente riporterai la compiuta vittoria, e potrai godere di quella immortale corona che ti ho preparata per tutta l’interminabile eternità. Godrai il premio delle tue fatiche e di quella fedeltà che mi giurasti. Io sono il tuo premio, io sarò il tuo gaudio eterno e l’eterna tua felicità».

Le cognizioni di questo bene eterno davano alla povera anima mia coraggio ben grande ed un desiderio veemente di darsi in braccio ai più gravosi patimenti, conoscendo chiaramente che non può compararsi ogni sorta di patimento a confronto di premio così grande. In questa guisa chiedevo al mio Dio di patire per adempire in tutto e per tutto la sua santissima volontà, e lo pregavo incessantemente con umile preghiera a somministrarmi forza ed aiuto e perseveranza fino all’ultimo respiro della mia vita.

Furono veramente questi giorni per me amarissimi, per vedermi perseguitata dalla divina giustizia. Altro conforto non avevo che di ritirarmi nel mesto orto di Getsemani, ad imitazione del mio amabilissimo Gesù, soffrendo in unione di lui quei travagli e quelle ambasce di spirito, mestizia e desolazione afflittissime che lo fecero sudar sangue.

Questi gravissimi patimenti interni resero cagionevole ancora il mio corpo per molti giorni. L’infinita bontà di Dio, vedendomi ridotta all’ultimo conflitto che mi pareva di tratto in tratto di agonizzare, con interni aiuti mi confortava e consolava facendomi conoscere che il mio spirito non era oggetto di sdegno, ma di somma sua compiacenza. Mi faceva intendere che caro gli era il mio sacrificio, mentre dettato era dalla sua divina sapienza, che sa, per mezzo di tenui cose, riparare il furore della sua divina giustizia, grazie alla sua infinita misericordia.

59.5. Il Signore impedisce un piano contro la Chiesa


Il giorno 13 aprile 1821 per via di forte impulso del Signore e con la licenza del mio padre spirituale, nonostante le deboli mie forze, mi portai a visitare la Scala Santa mentre Dio mi diede chiaramente a conoscere che voleva questo sacrificio da me.

Questo viaggio mi pareva che dovesse essermi molto penoso, a cagione delle deboli mie forze, ma per mezzo della grazia del Signore fu felicissimo, facendo il viaggio senza il minimo incomodo e senza alcun pregiudizio di salute. Posta che mi fui in viaggio, Dio per sua bontà si degnò darmi una grande agilità, non solo al corpo ma ancora allo spirito, dandomi un raccoglimento interno tanto grande che non mi avvidi dell’incomodo del suddetto viaggio.

Il comando di Dio fu di unire questo viaggio in unione di quello che fece il suo santissimo figliolo nel salire il monte Calvario, e sopra quella benedetta Scala voleva che nuovamente mi fossi offerta qual vittima di riconciliazione, in vantaggio della Chiesa cattolica e per la conversione dei peccatori, unendo il mio sacrificio a quello di Gesù Cristo, Signor nostro. Si eseguì da me, miserabile peccatrice, esattamente il comando di Dio, e con tutta l’efficacia del mio povero cuore tornai nuovamente a sacrificarmi interamente e senza alcuna riserva al suo divino beneplacito, per adempire perfettamente alla sua santissima volontà.

L’eterno Dio, per sua infinita bontà, accettò il povero mio sacrificio, e per via di intelligenza mi diede a conoscere che mediante questo sacrificio, a lui molto accetto e gradito, per essere fatto con purità d’intenzione e semplicità di spirito, e alla sua maggior gloria mi fece intendere di avere ottenuto dalla sua infinita bontà e misericordia di impedire ai persecutori della nostra santa Chiesa cattolica, di eseguire un piano da loro già fatto contro di questa, per poterla crudelmente perseguitare e contaminare con le loro perverse massime.

59.6. Rivestita di luce divina


Visitata la Scala Santa, mi portai a visitare la chiesa di San Giovanni in Laterano, pregando per i presenti bisogni della santa romana Chiesa. Mi portai, poi in altra chiesa, dove mi fermai per buone due ore e mezza, ed ivi ascoltai la Messa cantata ad onore di Maria Santissima Addolorata, per essere il giorno di venerdì di passione. Nella detta chiesa si sopì il mio spirito, ed in questo tempo fui sollevata dallo Spirito del Signore, inoltrata a considerare l’infinita grandezza di Dio per mezzo di una chiarissima luce ed inaccessibile splendore. Ad un tratto vidi il mio spirito riempito di quella luce che mirabilmente lo aveva tutto penetrato, in guisa tale che era divenuto una stessa cosa con quella luce, e per potermi in qualche maniera spiegare dirò come quando una bianca nube viene dallo splendore del sole percossa, con i suoi raggi, viene quasi ad essere simile al sole, per avergli compartito i suoi splendidi raggi. In simil guisa fu il mio spirito rivestito di divina luce, ed in questa maniera fu avvicinato ed intimamente unito al suo Dio.

Quanto bene, quante grazie le compartì l’amante Signore, quanto lume le donò di propria cognizione affinché l’anima si umiliasse fino al profondo del suo nulla. Qual chiara intelligenza si degnò donarmi per innalzare il povero mio intelletto a penetrare la sua infinita grandezza. Quanto mai restò appagato il mio cuore, come rapito. Veramente mi si rende impossibile il poterlo spiegare. Dopo aver goduto di questo gran bene, fu il mio spirito condotto, per mezzo di santi Angeli, in un luogo dove vedevo una grandissima sala. Nel mezzo di questa vedevo una tavola con tre libri. La tavola era tutta adornata di emblemi o siano tutti strumenti alludenti alla setta dei convitati, i quali vedevo tutti in circolo alla tavola, scompostamente seduti. Erano questi uomini di bruttissimo aspetto e sopra la loro fronte si leggevano tutti i sette vizi capitali, le false massime e la loro audacia nel sostenerle e le macchine che ordivano per perseguitare la santa Chiesa cattolica.

59.7. Brucia quei tre libri!


Ognuno di questi aveva al suo fianco uno spirito maligno con il viso di moro e con il corpo tutto peloso a guisa di orso. Io tutto vedevo, senza essere da loro osservata. Dopo molti battimenti di mani, con molta allegria aprirono i libri anzidetti. Io non lessi cosa contenevano, ma indicato mi fu da quei messaggeri celesti che con me stavano celati in un angolo di quella gran sala, che il mio spirito con loro aveva penetrato per via di agilità, senza essere da questi osservati.

Quando questi uomini facinorosi stavano svolgendo i grandi libri, il mio spirito ebbe dal Signore un ordine di farmi avanti e liberamente avessi preso i tre libri e li avessi dati alle fiamme di un fuoco, che io vedevo ardere in un angolo di quella sala. Mi fu ancora manifestato che i tre libri contenevano cose che disonoravano Dio. A questa notizia sentivo un santo zelo di risarcire l’onore di Dio a costo della mia propria vita e a costo di ogni mio gravissimo patimento. Conobbi che questi tre libri erano maliziosamente scritti, ed erano contro i divini misteri della nostra santa fede, questo era il primo. Il secondo contro il Credo, il terzo contro il santo Evangelo. Sentivo internamente dirmi: «Se mi ami difendi il mio onore, prendi quei libri e dalli alle fiamme».

Spronato il mio spirito, senza aver alcun riguardo, vado con prontezza alla tavola, prendo i libri e incontinente li do alle fiamme; ma siccome al mio spirito Dio per sua bontà gli aveva compartito tanta chiarezza e agilità, non era che un’ombra candida ammantata di luce. Appena mi avvicinai a loro tutti restarono stupiti e pieni di smarrimento, ed immantinente quei maligni spiriti partirono dal loro fianco. Questi uomini restarono molto confusi, dandosi dei pugni in testa come in atto di disperazione, anche loro partirono. Allora quei messaggeri celesti sbaragliarono la tavola con tutti gli emblemi che vi erano sopra. Poi tornai a vedere quegli infelici sventurati, che quei maligni spiriti, che erano prima al loro fianco come custodi e suggeritori del loro cattivo operare. Erano divenuti in quell’istante barbari ministri della giustizia e del furore di Dio, ognuno dei quali era crudelmente incatenato dal suo maligno spirito con catena di ferro e grossa collana al collo. Erano barbaramente strascinati via.

A questa scena così funesta il mio spirito non lasciava di pregare per questi infelici l’altissimo Dio, affinché si fosse degnato accordargli la sua misericordia; ma la mia preghiera non fu esaudita che per soli due giovanetti che, pieni di lacrime, a me rivolti mi chiedevano aiuto.

Io mi annientai in me stessa per conoscermi insufficiente, ciò nonostante mi rivolsi al mio Dio facendogli una fervida preghiera, offrendo gli infiniti meriti di Gesù Cristo all’eterno divin Padre. Invocai ancora il potente aiuto di Maria santissima ed ottenni, per l’infinita bontà di Dio, la grazia che i due giovanetti fossero lasciati liberi e scatenati da quei maligni spiriti e tornati fossero a calcare la strada della loro eterna salute.

Io restai, lodando e benedicendo la divina giustizia e la divina misericordia, profondata nel proprio mio nulla.

60 – FELICI LE ANIME CHE SEGUIRANNO I TUOI ESEMPI


60.1. Riceve la comunione dall’apostolo Pietro


Il giorno 20 aprile 1821, venerdì Santo, dopo aver sofferto molti patimenti interni ed esterni, in memoria della passione e morte di Gesù Cristo, il benedetto Signore si degnò darmi un vivo desiderio di riceverlo spiritualmente nella divina Eucaristia.

Dopo aver fatto molti atti di fede, speranza e carità, sentivo un vivo desiderio e un’ardente brama di ricevere il pane di vita eterna.

Il Signore si degnò esaudire i poveri miei desideri, che per mezzo della sua santa grazia erano ardentissimi, e disfacendomi in lacrime con umile sentimento gli mostrai l’ardente mio desiderio. Si degnò il mio amorosissimo Signore di inviarmi il glorioso principe degli apostoli san Pietro, corteggiato da molte schiere angeliche, e mi fu somministrato dal suddetto santo apostolo il santissimo sacramento dell’Eucaristia.

Quali affetti di santa umiltà, di gratitudine, d’amore, di rispetto e di venerazione provò il povero mio cuore non è possibile poterlo manifestare. Fui sopraffatta da lacrime abbondantissime e da una dolcezza di spirito soprannaturale, godevo nell’intimo del mio cuore un gaudio di paradiso. Il santo Apostolo, a me rivolto, così mi parlò: «Rallegrati, o figlia diletta di Dio, e ringrazia l’infinito suo amore, gli eccelsi favori che l’alta sua bontà ti comparte. Mostragli in tutte le tue operazioni la tua fedeltà, fatti coraggio di patire per amore suo. Compiaciti nella sua volontà divina, prosegui con energia a sostenere l’impegno intrapreso, di sostenere la Chiesa di Dio a costo di ogni fatica e pena, anche con il proprio tuo sangue», soggiungeva il santo Apostolo: «Io ti prometto di proteggerti e di aiutarti in tutte le tue intraprese».

Alle parole di questo benedetto santo, la povera anima mia si annientò in se stessa, per vedersi tanto beneficata da un Dio di infinita maestà, e di bontà infinita, riconoscendosi affatto indegna ed immeritevole di tante grazie. Proruppi in accenti umili e amorosi verso il mio amorosissimo Dio, lodando e benedicendo il suo santo nome e nuovamente mi offrivo qual vittima d’amore per adempire la sua santissima volontà, fino all’ultimo respiro della mia vita.

60.2. Mi introdusse nel suo amorosissimo cuore


Il giorno 21 aprile 1821, sabato santo, nella santa Comunione si degnò il mio Dio, per confortare il mio povero spirito, introdurmi nel suo amorosissimo cuore. Mi parve veramente di entrare in un vasto oceano di delizia e di contenti, e sopraffatta da luce inaccessibile fui condotta dallo Spirito del Signore in un ameno e delizioso giardino, il quale denotava la sua eccelsa bontà ed amore incomprensibile.

Il giorno della santa Pasqua, 22 aprile 1821, fu il povero mio spirito favorito da particolare favore. Il Signore si degnò di farmi godere una perfetta, intima unione, restando nell’anima i mirabili effetti della sua santa grazia.

60.3. Conoscevo di essere tutta immersa in Dio


Il giorno 25 aprile 1821, si raccolse il mio spirito nelle orazioni, e mi parve di trovarmi nuovamente in quell’amenissimo giardino anzidetto, dove mi parve di vedere la gran Madre di Dio con il suo santissimo figliolo.

Al solo vedere questi divini personaggi, credetti di perdere la vita, per il profondo ed umile rispetto e grande venerazione che sentivo nel mio cuore, che prostrata al suolo con la fronte per terra, annientata in me stessa, piena di lacrime, ricolma di santi affetti, mi mancavano gli accenti di proferir parola; ma la pietosa Madre, conoscendo il mio grande timore, mi fece coraggio e si degnò approssimarsi verso di me, e conducendomi con lei in una parte superiore e molto più amena di quel medesimo giardino, dove la povera anima mia ricevette grazie e favori molto particolari dall’umanità santissima di Gesù Cristo, che quivi era assiso, vicino ad una bellissima e chiarissima fonte, il chiarissimo splendore che tramandava dall’ombra del suo santissimo corpo, rendeva piacevole questo ameno soggiorno, che rapì il mio spirito in guisa tale che io non ero più in me stessa, ma tutta assorta in Dio.

Estatica restai senza avvedermi qual grazia mi comunicasse Dio, perché fui sopraffatta da amoroso deliquio; ma conoscevo di essere tutta immersa in Dio, e godevo nell’anima un immenso gaudio di paradiso. Sentivo nell’intimo del cuore dolce voce, che mi parlava così: «Inoltrati viepiù, o diletta mia figlia, non ti arrestare alla chiarezza del mio splendore. Sono un Dio grande ed incomprensibile è vero, ma sono amante delle mie creature. Il santo timore ti arresta, ma l’eccesso dell’amor mio a me ti avvicina. Vieni, vieni senza timore, mentre, per via di trasformazione, io mi compiaccio di intimamente unirti alla mia immensità, così diverrai una stessa con me, partecipando del mio infinito essere».

Qual nube candida, percossa dai benefici influssi del sole di giustizia, ad un tratto mi vidi tutta raggiante di luce e medesimata mi vidi, in un istante, in quella grandissima luce inaccessibile. Quale stupore e qual meraviglia recasse al mio spirito, qual profonda umiltà, qual gaudio di paradiso, qual scienza si degnò Dio di infondere nell’anima, affinché potesse contemplare le sue divine perfezioni.

Queste divine cognizioni destarono nell’anima una semplicità, una purità proprio angelica, una pazienza ed una mansuetudine tanto perfette, che io non so neppure spiegarlo. Un aborrimento poi tanto grande a tutte le cose del mondo, un desiderio grandissimo di piacere solo al mio amorosissimo Dio, a costo di ogni mio grave patimento, non solo, ma una brama di patire per amor suo ogni sorta di avvilimento e travaglio.

Oh come si faceva sentire la viva fiamma della santa carità nel povero mio cuore. Oh come ne prendeva il possesso. Oh come si impadroniva di tutta l’anima mia, di tutte le mie potenze, di tutti i miei affetti, in una parola di tutta me stessa, in certa maniera che non so spiegare; ma come io non fossi più padrona di me, ma solo lo Spirito del Signore arbitro fosse in tutto e per tutto, senza più potermi né negare né oppormi all’amabilissima volontà del mio Dio. Questa cognizione mi era di sommo contento e di grande consolazione.

60.4. A un tratto vedo l’amato Pastore


Il giorno 12 maggio 1821, stando in orazioni fui sopraffatta da interno raccoglimento e da una quiete di spirito molto particolare.

In questo tempo mi parve di trovarmi in una amena campagna, dove vedevo un prato deliziosissimo di verdeggianti erbe e tutto smaltato di bellissimi fiori.

Vedevo nel suddetto prato molte anime sotto il simbolo di pecorelle, le quali erano tutte intente a pascolare quelle preziose erbe. Non mancavano queste di invitarmi, e replicando più volte i loro inviti, affinché andassi con loro a gustare e a godere l’amenità di questo smaltato prato; ma la povera anima mia, che sotto l’immagine di pecorella la vedevo, questa ricusando con dolcezza i loro inviti, se ne andava verso il bosco, e salendo un erto monte, sterile affatto di ogni pascolo, solo ripieno di triboli e spine, non altro cercando che l’amato pastore, ricusando ogni altro sollazzo, per trattenersi con lui da appresso, e per non gustare altro cibo che quello del pane di vita eterna, che somministrato gli è stato per ben altre volte dal divino pastore. Solinga dunque me ne stavo nel deserto, sfogando gli amorosi affetti del mio povero cuore. Mi protestavo veracemente di non volere altro che stare al fianco del mio caro ed amato pastore. Rinunciavo a questo oggetto ogni consolazione, ogni soddisfazione, ogni sorta di onori e di piaceri, benché leciti e santi, solo cercando di soddisfare l’oggetto amato, protestandomi di essere questo l’unico scopo dei miei desideri, di stare a lui vicino per divenire una stessa con lui e per potere copiare in me le sue divine virtù; per essere, per mezzo della sua divina grazia, un perfetto modello del tutto simile al mio amato pastore.

Gli dimostravo l’affetto più grande, più vivo che ardeva nel mio cuore. In questa guisa ero tutta intenta a rintracciare le sue pedate.

Ecco ad un tratto vedo l’amato pastore che seduto se ne stava sopra un greppo.

A questa vista quanti fossero i santi affetti che assaltarono il mio cuore non è possibile il poterlo esprimere.

Il divino pastore amorosamente mi invitò a riposare con lui ed a gustare di quel pane che famelica mi dimostravo di volere. Andava dunque anelante la pecorella al suo pastore, e piena di gaudio e di contento si protestava di tenere per bene impiegate le fatiche che le costava di averlo ritrovato. Con molte sante espressioni, e più con gli affetti del cuore, che somministrati mi venivano dalla carità, ebbra di santo amore accettava l’invito dell’amato pastore.

Oh carità grande dell’amorosissimo Dio! Riposar mi faceva nel suo castissimo seno, e mi dava a mangiare di un pane bianchissimo che teneva nelle sue santissime mani. Era tanta la gioia ed il contento che godevo nell’anima, che dubitavo di perdere questo gran bene che avevo ritrovato per pura misericordia di Dio. Riconoscendomi affatto indegna di favore sì segnalato, pregavo il divino pastore che permesso non avesse di mai e poi mai potermi allontanare da lui, nonché diffidassi del suo amore infinito; ma, bilanciando la mia grande viltà e miseria, dubitavo di allontanarmi dall’amor suo.

Con sentimento il più verace e con l’affetto il più vivo d’amore, gli dicevo: «Mio caro ed amato pastore, vi prego di togliere alla vostra pecorella quella libertà che gli donaste, e renderla impossibilitata affatto di potersi da voi allontanare. Rinuncio alla mia libertà, alla mia volontà, per compiacere la vostra amabilissima e per me sempre gratissima volontà». E, sopraffatta da un profluvio di lacrime, dicevo: «Chi mi assicurerà di stare sempre con te, tu solo puoi rendermi sicura con un solo atto della tua volontà». Ma chi lo crederebbe che l’amore suo passasse tanto oltre? Per vedere contenta e sicura la povera anima mia, il buon pastore pose la sua mano destra sopra il mio dorso, e con accenti amorosi così mi parlò: «Vivi sicura, da me non ti allontanerai mentre la libertà di partir da me tu più non hai».

Assicurata di poter fare con il mio amabilissimo Signore la permanenza, dolce sonno mi rapì, ed in braccio al mio amato pastore dolcemente e soavemente riposai e nel sonno desideravo di non svegliarmi mai più.

Non sto qui a raccontare i buoni e santi effetti che nel mio povero spirito cagionò questo favore, per non essere tanto molesta a vostra paternità reverendissima con tanto tedio, mentre a me manca la maniera di spiegarmi, per la mia ignoranza e a vostra reverenza non manca intelligenza per conoscere gli effetti mirabili della grazia.

Dal 12 maggio fino al giorno 30 detto 1821, il mio spirito, assistito dalla grazia divina, ha sempre procurato di mantenere le buone e sante impressioni che aveva ricevuto negli anzidetti favori e grazie che il Signore, per sua infinita bontà, si è degnato compartirmi con l’esercizio delle sante virtù e con il raccoglimento interiore e con la retta intenzione di piacere solo al mio Dio, in tutte le cose, non curando cosa alcuna della terra, e se permesso mi fosse vorrei dire neppure del cielo, ma solo il mio impegno era ed è essere perduta amante dell’eterno suo amore, in questo solo si diffonde il povero mio spirito di compiacere la sua santissima volontà, senza cercare il mio proprio interesse, ma la sola sua gloria.

60.5. Una croce piantata sopra un altissimo monte


Il giorno 21 aprile 1821, giorno della Risurrezione del Signore, stando in orazioni, tutto ad un tratto mi parve di trovarmi con lo spirito in un delizioso ed ameno giardino. Era il mio spirito tutto raccolto in Dio, contemplando la bellezza e l’amenità dei preziosi fiori di quell’amenissimo soggiorno, che tutto spirava odore di santa soavità. Tutto quello che vedevo mi rammentava l’amor grande che mi porta il mio Dio. Queste cognizioni mi umiliavano profondamente e mi facevano riconoscere per la creatura più vile della terra.

Restavo stupefatta, considerando l’infinita bontà di Dio, nel vedermi tanto beneficata dopo averlo tanto offeso ed oltraggiato, riconoscendomi affatto immeritevole di ogni bene, prorompevo in lacrime di eccessivo dolore, ricordandomi di averlo offeso, mi umiliavo fino al profondo del proprio mio nulla. Lodavo e benedicevo l’infinita misericordia del mio amorosissimo Dio, e sopraffatta da veemente amore lo pregavo incessantemente a prendere sopra di me qualunque soddisfazione, purché degnato si fosse di perdonarmi tutti i miei peccati, e mi avesse permesso di poterlo incessantemente amare.

Questo santo desiderio si accrebbe nel mio spirito in guisa tale che mi faceva languire d’amore. Dopo di essermi trattenuta per qualche tempo in questo amoroso languore, che mi alienò dai sensi, mi parve di trovarmi con lo spirito sopra un altissimo monte, dove vedevo una croce ben grande, già piantata e stabilita sopra del suddetto monte.

A questa vista la povera anima mia si riempì di timore, perché conosceva che quella croce a me apparteneva. Ciò nonostante, genuflessa avanti a questa croce, adoravo le divine disposizioni di Dio e lo pregavo di darmi la grazia di adempire la sua santissima volontà.

Fatta la preghiera, mi parve di vedere l’amabilissimo mio Gesù con la sua santissima Madre, i quali, pieni di piacevolezza e amore, a me si avvicinarono, facendomi coraggio a patire per amore e per onore dell’eterno divin Padre.

Gesù Cristo mi fece intendere che di nuovo mi fossi offerta, qual vittima d’amore, a patire in unione dei suoi patimenti. Si degnò l’amorosissimo Signore di confortarmi e consolarmi con le più dolci ed amabili sue parole: «Figlia», mi disse, «confida pure negli eccessi incomprensibili della mia infinita misericordia. Fatti coraggio di patire per amor mio. Io sarò sempre con te, per aiutarti e per renderti vittoriosa di te stessa. Io ti lascio la mia cara Madre per tuo conforto. Figlia, il mio amore è quello che ti crocifiggerà sopra questa croce. Io sarò il sacerdote e tu la vittima. L’amor mio ti pone in questa situazione, affinché tutti conoscano ed ammirino l’eccesso incomprensibile della mia carità verso di te, da me praticata, e perché molte anime imparino ad amarmi con semplicità di spirito, con purità di mente, con retta intenzione di solo a me piacere, e che l’amor mio le guidi all’adempimento perfetto della mia volontà. Felici saranno quelle anime che seguiranno i tuoi esempi, e in spirito e verità si daranno alla tua sequela, e non altro cercheranno che l’amor mio, il mio onore, la mia gloria. Oh come da queste anime mi farò trovare prodigo delle mie grazie e dei miei favori!».

Con queste, ed altre simili espressioni di carità, andava il benedetto Signore confortando la povera anima mia, e con interne illustrazioni le dava a conoscere la nobiltà di questo patire. Mi dava a conoscere ancora quanto grato gli fosse il povero mio sacrificio, per mezzo del quale si sarebbe degnato di far grazie a tutti quelli che con fiducia per mio mezzo alla sua infinita misericordia ricorressero.

60.6. Per la Chiesa e la conversione dei peccatori


Così di nuovo prese a parlare il benedetto Signore: «Ti pongo sopra questo alto monte, affinché tutti possano vederti ed ammirarti. Figlia, abbi in memoria i bisogni della mia Chiesa. La conversione dei peccatori sia lo scopo di tutte le tue operazioni».

Dette le suddette parole, disparve il Signore, e la sua divina Madre io più non vidi, e il mio povero spirito restò in quel solitario monte sotto quella croce, pieno di consolazione celeste, aspettando, con somma rassegnazione e pazienza ed ansietà, il momento di essere dall’amore di Dio crocifissa, come mi era stato promesso.

Questo martirio doloroso ed amoroso insieme, per quanto è a mia notizia, mi pare, se non erro, di averlo sofferto un anno dopo all’incirca. Mentre il giorno 28 marzo 1822, giovedì di Passione, fino al 7 di aprile, in questi dieci giorni sostenne il mio spirito certe afflizioni e mentali dolori che ben possono chiamarsi una vera e dolorosa crocifissione, come riporto nei fogli scritti nel medesimo anno 1821. Nel mese di marzo, giorno 28, tanto di questo ne posso dare riscontro, mentre adesso che lo copio dal mio straccio foglio giornale è il mese di maggio 1822, avendo per un anno intero trascurato di copiare, il suddetto fatto, né lo volevo copiare, ma lo volevo bruciare. Ma il mio Direttore mi ha obbligato di metterlo in pulito in questi fogli, sotto pena di non accostarmi a fare la santa Comunione per molti giorni, se non avessi obbedito di scrivere il suddetto fatto arretrato per mia negligenza.

61 – L’ECCESSO DELL’AMORE DI GESÙ


61.1. Per la gloria di Dio e il bene del prossimo


Proseguo a copiare dal mio straccio foglio altri fatti accadutimi nello spirito, che pure avevo trascurato di mettere in pulito.

Il giorno 2 giugno 1821 ebbi molto di che soffrire per lo spazio di circa trenta giorni, mentre Dio mi si diede a vedere nuovamente molto sdegnato per le grandi ingratitudini degli uomini. Mi diede a conoscere le forti risoluzioni che avrebbe preso la sua divina giustizia, per punire tante ingratitudini e scelleraggini. Qual pena recò alla povera anima mia questa cognizione non posso esprimerlo, primo per vedere Dio offeso, secondo per vedere tanto danno del mio prossimo.

Piangevo, mi affliggevo, e il povero mio spirito era sopraffatto da una profonda mestizia, che non potevo contenere. Non lasciavo di raccomandarmi caldamente al Signore, e di nuovo offrirmi a patire per la sua gloria e per il bene del mio prossimo. Nonostante però l’offerta che avevo fatto di tutto cuore di patire per il bene del mio prossimo, non lasciavo di sentire una nausea di restare in questo mondo, per non trattenermi in mezzo a tanta iniquità e a tante gravi offese che si fanno a Dio, che quasi senza il voto del cuore, il mio spirito era portato alla necessità di pregare il Signore di levarmi con la morte da questa valle di miserie, per così liberarmi da tanti pericoli di offenderlo.

Non lasciava Dio, per sua bontà, di consolarmi, facendomi intendere che se gli uomini avessero maliziosamente imperversato col disprezzare le sue misericordie, mi avrebbe levato da questo mondo d’iniquità e che si sarebbe degnato, mediante i suoi meriti, premiare le mie povere fatiche e i poveri miei sacrifici, fatti per amor suo, con premio eterno; ma tutto questo non era per me il compimento delle mie consolazioni; perché, sopraffatta dalla carità verso il mio prossimo, molto più avrei gradito di patire quanto mai dire si possa, e che Dio si compiacesse nella sua santissima volontà di mandarmi all’inferno. Molto volentieri ci andrei, unita sempre al suo divino amore, patirei quegli atroci tormenti per non vedere tante anime perdute e per non vedere Dio tanto offeso. Queste sono le mie continue preghiere, se poi piaccia al mio Dio di lasciarmi in vita, ovvero voglia mandarmi la morte in breve tempo, il mio spirito è tranquillo e si compiace nella sua santissima volontà.

61.2. Prima e dopo la comunione


Il giorno 4 luglio 1821, nella santa Comunione, ero tutta annientata in me stessa nel considerare l’infinita bontà del mio Dio, che fra pochi momenti dovevo ricevere nel santissimo sacramento dell’Eucaristia. Volevo e non volevo accostarmi a riceverlo: volevo accostarmi per il grande desiderio ed amore che sentivo verso il mio Dio sacramentato, non volevo accostarmi perché mi riconoscevo affatto indegna. Piangevo amaramente le mie grandi ingratitudini: «Ah Gesù mio», dicevo, «l’amore, il trasporto che sento verso di voi, sacramentato mio bene, mi obbliga, mi necessita di ricevervi in questo sacramento d’amore, anzi vorrei ricevervi ogni ora, ogni momento. Ah, sì, Gesù mio, vorrei ricevervi più volte che non respiro, ma la mia indegnità, la mia cattiva corrispondenza mi obbliga di allontanarmi da voi. Mio Dio, che farò se mi allontano da voi per riverenza? Ah, non mi regge il cuore di partire da questo sacro altare. Perdonate per carità il mio ardire. Voi non sdegnate i peccatori pentiti. Eccomi dunque ai vostri santissimi piedi, come una pentita Maddalena con le mie lacrime li laverò, ma io non ho i capelli per asciugarli. Prenderò il povero mio cuore e come in guisa di un pannolino asciugherò i vostri piedi santissimi, così il povero mio cuore resterà asperso del vostro preziosissimo sangue, che scaturisce dalle gloriose cicatrici che avete voluto conservare nel vostro santissimo corpo glorioso. Sì, Gesù mio, in quel prezioso balsamo astergerò il mio cuore».

Con questo umile sentimento e con abbondanti lacrime mi accostai a riceverlo. Fatta la santa Comunione si concentrò il mio spirito, e in questo tempo mi si diede a vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo. Qual bellezza! Qual splendore! Qual rapimento di spirito, non so spiegarlo. La povera anima mia con grande rispetto e profondissima umiltà e molta venerazione si prostrò ai suoi santissimi piedi, con profluvio di lacrime che dai miei occhi a gran copia versavo.

«Asciuga pure i miei piedi», mi disse Gesù Cristo, «asciuga pure, mi dài piacere. Ricevo il tuo umile sentimento con mia somma compiacenza».

Ed intanto prese il mio povero cuore nelle sue santissime mani, sotto la forma di pannolino, e con grande compiacenza se lo stringeva al suo amorosissimo cuore; poi lo stringeva fra le sue santissime mani; poi lo piegava e lo volgeva ora da una parte, ora da un’altra, compiacendosi di vederlo nelle sue mani tanto pieghevole e flessibile.

Era dunque il pannolino nelle mani di Gesù Cristo divenuto così bello e così risplendente che rapiva il mio sguardo, e sopraffatta da una profonda umiltà, andavo contemplando l’infinita bontà del mio Dio, e piena di ammirazione e di stupore, andavo ripetendo: «Mio Dio, cosa mai trovate in me, che tanto vi piace? Io altro non sono che un cumulo di iniquità».

61.3. Innamorata di Dio


Questa verace mia confessione, ad altro non servì che per mia maggiore confusione. Invece di punirmi e castigarmi, come in quel momento avrei desiderato, viepiù l’amante Signore dimostrava la sua alta compiacenza verso il povero mio cuore. Tornò a mostrarmi il pannolino, tutto segnato del suo prezioso sangue, e svolgendolo e risvolgendolo ora da una parte ora dall’altra, viepiù lo stringeva nelle sue santissime mani, e con affetto al suo santissimo petto lo stringeva, dimostrandomi così il suo santo amore e la sua particolare compiacenza, se lo poneva ora sopra il suo dorso, ora sopra il suo collo, finalmente se lo pose sopra il suo adorabilissimo e divinissimo capo, come un prezioso diadema.

Mio Dio, e come mai io potrò ridire qual fosse la mia ammirazione, la grande confusione che mi sprofondò nel proprio mio nulla, e piena di lacrime, andavo ripetendo: «Oh amore, oh eccesso incomprensibile di carità! e come mai io ti potrò riamare? Mio Dio, vi offro il vostro medesimo amore».

In quel tempo che Dio si degnava trattenersi in questa santa compiacenza con la povera anima mia, le andava di tratto in tratto dicendo delle parole, le più dolci, le più espressive, ora chiamando la povera anima mia «oggetto delle sue più alte compiacenze», ora col nome di «cara sua amica», ora di «diletta sua sposa», ora di «sua bella e cara colomba» ed altre simili espressioni del santo e puro suo amore.

Oh quanto mai la povera anima mia restò umiliata, annientata in se stessa, e sprofondata nel cupo abisso del suo proprio nulla; ma in questo annientamento di se stessa, quanto mai restò innamorata di Dio e delle sue infinite perfezioni non è in vero possibile il poterlo spiegare, non mancandogli in quei preziosi momenti lume ben grande di rettitudine e di giustizia che le faceva conoscere la grandezza dell’infinito amore di Dio e la sua carità, e il mio grande demerito di ricevere le sue grazie.

61.4. Il mio cuore nelle sue mani


Il giorno 22 luglio 1821, mi seguì nella santa Comunione lo stesso fatto che mi seguì il giorno 4 luglio del medesimo anno 1821, vale a dire 18 giorni dopo.

Mi si fece vedere nuovamente Gesù Cristo che teneva il mio cuore nelle sue mani santissime, e compiacendosi di vedere il mio cuore che era tutto innamorato della sua divina bontà, lo stringeva amorosamente nelle sue santissime mani, e con trasporto d’amore, ora lo poneva nel suo santissimo cuore, stringendolo con trasporto d’affetto, ora poneva il mio cuore sopra il suo santissimo dorso, compiacendosi, quale amoroso pastore, di tenere sopra le sue santissime spalle, l’amata sua pecorella che tante fatiche le costò per possederla.

Finalmente poneva il mio cuore sopra il suo adorabilissimo capo; con la sua onnipotenza formò del mio cuore un prezioso diadema, e di questo ne cinse il suo santissimo capo.

Qual profondo di umiltà e di annientamento recassero al povero mio spirito questi amorosi trasporti dell’infinita bontà di Dio, io non so ridirlo, né ho termini sufficienti di spiegarlo. Dal profondo del mio nulla, così prese a parlare il povero mio spirito, ma senza strepito di sensibili parole, col solo affetto del cuore diceva così: «Ah mio amorosissimo Gesù, basta, non più! Troppo si confonde il mio povero spirito. Io manco e non reggo a questo grande eccesso del vostro divino amore. Ah, Gesù mio, come voi potete compiacervi tanto di possedere il mio cuore tanto ingrato. Ah, che io non reggo all’eccesso del vostro santo amore. Basta, non più! Che voi mi vedrete morire, per il grave dolore che io sento di avere offeso la vostra infinita bontà. Il vostro grande amore rimprovera la mia grande ingratitudine. Gesù mio, soccorretemi, io manco, io muoio per il dolore di avervi offeso. Il mio cuore eccolo avanti a voi, o mio Dio, tutto disfatto in lacrime di tenerezza e di esuberante amore, perché con il vostro divino contatto reso lo avete tanto flessibile e molle, che a guisa di dolcissimo liquore inonda tutto il mio spirito, facendomi provare i salutari effetti di una vera contrizione. Io più non reggo né posso più contenere gli effetti prodigiosi della vostra santa grazia».

In questa maniera si andava struggendo e quasi a disfarsi del tutto la povera anima mia nel suo proprio nulla. Quando l’anima si era del tutto inabissata nel suo nulla, Dio, per sua bontà, la fece dolcemente riposare nel suo castissimo seno, dove trovai ogni bene, così stimabile, così amabile, così inalterabile, che con tutte le immaginabili espressioni del mondo, non si può ridire, né con qualunque bene del mondo si può al certo paragonare, un bene così grande, tutto spirituale, tutto essenziale, che rapisce l’anima e la rende, in quei felici momenti, come beata in questa terra mortale. Il mio scarso talento non ha termini di potersi altrimenti spiegare.

61.5. Sei tutta mia


Dopo aver goduto di questo grande bene, il mio spirito si riempì di santo timore, di potere un giorno perdere questo sommo bene. Mi rivolsi con umile sentimento verso il mio Dio: «Ah mio Dio, sommo mio bene, e che mai potrà assicurarmi di possedervi per sempre? Ah, che io vi posso perdere ad ogni istante! La sola dubiezza altamente mi affligge».

Piangendo dirottamente, compassionavo la bassa e vile mia condizione. Mosso di me a compassione, l’amorosissimo mio Dio intimamente così mi parlò: «Rallegrati, o mia diletta figlia che non mi perderai. Il nodo indissolubile che mi è piaciuto di stringere con l’anima tua ti rende sicura di possedermi in eterno. Il sacro matrimonio che a me ti congiunse, le divine nozze che con te celebrai, il possesso del mio talamo che a me intimamente ti unì ti rendano, questi miei distinti favori, tutta la maggior sicurezza di possedermi. Sì, mia diletta figlia, sposa mia, amica mia, tutta mia sei e non puoi non esser mia, perché intimamente a me ti unisti, tu sei una stessa cosa con me per partecipazione della divina mia grazia».

A queste espressioni così amorose, la povera anima mia, ricordevole di tutti questi divini favori, che Dio per pura sua bontà si è degnato compartirmi, come a suo luogo ho scritto questi favori ricevuti dal Signore nei passati fogli.

Ricordevole, dunque, di questi favori lo ringraziavo incessantemente ed insieme lo pregavo a degnarsi di non abbandonarmi fino all’ultimo punto della mia vita. Lo pregavo con lacrime abbondantissime, che dagli occhi miei a larga copia versavo, per la gratitudine e per l’amore che sentivo verso il mio amorosissimo Dio, lo pregavo con tutto l’affetto del cuore a coronare tutte queste sue misericordie usatemi per pura sua bontà con la santa virtù della perseveranza finale.

61.6. Libera un gran numero di anime purganti


Il giorno 2 agosto 1821, giorno dell’indulgenza plenaria, detta del perdono di Assisi, ossia della Porziuncola, mi trattenevo in orazioni, pregando per le anime del purgatorio; sentendo di queste sante anime molta compassione, feci, per mezzo della grazia del Signore, una fervente preghiera.

Si degnò Dio di condurre il mio spirito a vedere l’orrido carcere del purgatorio. Nel vedere luogo così afflittivo, dove quelle anime vengono tormentate dalla giustizia di Dio, per purificarle, a questa vista credetti di morire per la compassione e di timore insieme, alla considerazione della divina giustizia, che Dio esercita verso quelle anime, già sue predilette, per purificarle da ogni leggera imperfezione. Si degnò la misericordia di Dio, per sua bontà, di esaudire le povere mie preghiere col liberare un gran numero di quelle anime del purgatorio e condurle alla bella patria del paradiso.