Scrutatio

Venerdi, 26 aprile 2024 - San Marcellino ( Letture di oggi)

PARTE SECONDA (5)

Beata Elisabetta Canori Mora

PARTE SECONDA (5)
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41 – CHIARA COGNIZIONE DI DIO


41.1. Un particolarissimo riposo


Il dì 25 dicembre 1816 fino al dì 9 marzo 1817 poco e niente posso dire, per aver trascurato lo scrivere; ma per non mancare all’obbedienza né all’interno sentimento che mi dà Dio, il quale mi obbliga a manifestare quanto per pura sua bontà e misericordia opera nel mio spirito, per mezzo della sua divina grazia, dunque alla maggior gloria di Dio e del mio Dio, mi accingo a manifestare, alla meglio che so e posso, gli effetti mirabili dell’infinito suo amore verso di me, povera e miserabile sua creatura.

Dopo il distinto favore del dì 25 dicembre 1816, come si è già detto negli altri fogli, il Signore mi compartì un particolarissimo riposo. Questo era tanto intimo e profondo che non mi permetteva di applicare la mente in nessuna cosa sensibile, ma sopraffatta l’anima da perfetto riposo si rendeva affatto incapace di agire. Sicché le orazioni, dal dì 25 dicembre 1816 fino al dì 9 marzo 1817 fu un perfetto e continuo riposo, che era prodotto da una particolare presenza di Dio, unita ad una intelligenza di spirito intima, che mi dava chiara cognizione di Dio presente a me, sicché non dovevo faticare per trovarlo, bastava che l’anima potesse alquanto riconcentrarsi in se stessa, che immediatamente trovava il suo amorosissimo Dio, che la tratteneva con lui a parlare in una maniera tutta nuova, senza strepito di parole, ma con dolce silenzio mi faceva intendere le divine sue perfezioni; ma in una maniera ammaestrava la povera anima mia in quelle, che io non so spiegare.

Era tanta l’effusione della grazia, che mi aveva tolto ogni idea sensibile, tanto forte erano chiamate le potenze dell’anima all’attenzione di quanto seguiva nell’intimo dell’anima mia. Ero sollevata sopra me stessa, ora contemplando l’infinita bontà di Dio, ora profondata nel proprio nulla mi umiliavo profondamente e amaramente piangevo le mie colpe, e tutto questo si faceva da me con pace e tranquillità di spirito.

41.2. L’ira del demonio per il mio digiuno


In questi tre mesi di gennaio, febbraio e marzo, come dissi di sopra, più volte si degnò il Signore Dio di favorirmi con distinti favori, ma per avere trascurato lo scrivere, come già dissi, non posso manifestarlo; solo mi ricordo che il primo di marzo del 1817, dopo che Dio si degnò favorirmi con particolare favore, mi manifestò essere sua volontà che intraprendessi il digiuno quaresimale fin dal primo giorno di carnevale, cibandomi di una sola cioccolata ogni ventiquattr’ore e un poco di pane, secondo il mio bisogno. Sicché dal dì 4 febbraio 1817 fino al sabato santo, che fu il dì 6 aprile 1817, e con la grazia di Dio, il venerdì me la passavo con la sola Comunione.

Molto dispiacque al demonio il vedermi praticare il suddetto esercizio, che armata mano fece di tutto per farmi deviare da questa mortificazione. Si servì costui delle più forti tentazioni.

In questo tempo dovetti sostenere il suddetto digiuno a fronte di una fame canina, che mi sarei attaccata a mangiare il ferro infuocato, tanta era la fame che mi cruciava.

Il venerdì rintuzzava la tentazione in maniera che, col ricorso continuo che facevo a Dio, potei sostenere la cruda battaglia con riportare la compiuta vittoria. In mezzo a tante suggestioni del nemico, quello che mi mostrava con sicurezza essere questa la volontà di Dio era il non provare alcun nocumento alla mia delicata complessione, dove che per il tempo passato avevo bisogno di cibarmi tre volte il giorno, dopo il comando di Dio mi bastava mangiare ogni ventiquattr’ore.

41.3. Un piccolo saggio dell’agonia di Gesù


Il mercoledì santo, che fu il dì 3 aprile 1817, fui sopraffatta da male gravissimo, cagionatomi da un piccolo saggio che il Signore si degnò farmi sperimentare di quelle pene che provò nell’Orto, nella penosa sua agonia, cagionata dalla vista di tutta la serie della sua passione e morte. Questo piccolo saggio mi ridusse in agonia mortale, e mi rese cagionevole il corpo per molti giorni. In questa occasione ebbi ordine dal Signore di sospendere il rigore del digiuno e cibarmi di latticini, dalla Pasqua di risurrezione fino al giorno della sua Ascensione, cibandomi una volta sola al giorno. Il venerdì, invece di passarmela con la sola Comunione, prendevo la cioccolata, astenendomi dal bere. Questo metodo di vitto di latticini, come dissi di sopra, si intraprese il dì 6 aprile 1817 fino al dì 16 maggio, giorno appresso l’Ascensione del Signore, si riprese il solito digiuno, ma invece della cioccolata mi cibavo di pane in zuppa all’acqua con un poco di aceto ed olio, una sola volta al giorno; in questa guisa passai 16 maggio, giugno, luglio, agosto, settembre e tutto ottobre. In questi sei mesi poche sono state le giornate che mi presi di ricreazione, col sospendere il suddetto digiuno, neppure le tre feste di Pentecoste fu sospeso il suddetto digiuno, per motivo della novena della Santissima Trinità.

41.4. Maggior rigore col corpo


Il mese di ottobre 1817 volle Dio che con maggior rigore mortificassi il mio corpo con il digiuno, per compensare le mie e le altrui mancanze, che in questo mese di divertimento si commettono. Sicché, oltre il solito digiuno, come si è detto di sopra, di una sola cioccolata ogni ventiquattr’ore, la domenica e il giovedì me la passavo con la sola Comunione. Molti furono i favori che in questi sei mesi di digiuno il Signore mi compartì, per la sua infinita bontà e misericordia, non solo a mio vantaggio, ma a vantaggio del mio prossimo, particolarmente dei miei benefattori. Molte grazie dispensò loro, come ancora si degnò il Signore, per mezzo delle povere mie preghiere, liberare molte anime dal purgatorio.

41.5. Le anime benedette del Purgatorio


Il dì 4 novembre 1817, festa di san Carlo Borromeo, si trovava il mio spirito, per mezzo della grazia di Dio, in un intimo riposo; stava godendo quanto mai di bene possa godersi da creatura viatrice, tanto era perfetta l’intima unione che godeva del suo Dio la povera anima mia peccatrice, quando in mezzo a questa perfetta quiete, sento molte voci lamentevoli, che a me facevano ricorso. Conobbi essere queste le anime benedette del Purgatorio. Mi rivolgo verso il mio Dio, tutta compassione verso queste anime sante, e lo pregai di accordarmi in grazia di portarmi a quell’orrido carcere, per poterle liberare.

Il mio Dio mi accordò la grazia, mediante i meriti di Gesù e di Maria ed i santi Re magi, ed i meriti di san Carlo Borromeo, i quali mi condussero con loro in quel tenebroso carcere.

Nell’aprirsi quel tenebroso carcere, io volli morire, nel vedere gli atroci tormenti, che quelle benedette anime pativano. Erano tali e tanto gravosi gli atroci tormenti che pativano quelle anime sante, che non mi è possibile manifestarlo. Sentivo di loro tanta compassione che per liberarle mi sarei data a patire i più gravi tormenti. Dimostrai con lacrime di compassione i miei desideri al mio amorosissimo Gesù, che tutto amore si degnava di guardarmi. Lo pregai incessantemente ed ottenni dalla sua infinita liberalità la grazia di liberare molte di quelle benedette anime del Purgatorio.

Qual consolazione fu per me il vedere in un baleno libere affatto da quegli spietati tormenti una moltitudine di anime sante, che piene di gaudio se ne andarono al Cielo a godere Dio per tutta l’interminabile eternità, qual consolazione provò il mio cuore non posso esprimerlo, quante lacrime di tenerezza e di consolazione versarono i miei occhi, rimanendo nel mio cuore un contento di Paradiso, quando vidi le suddette anime di splendida luce a sollevarsi al Cielo. Così disparve la visione.

Il dì primo novembre 1817…

41.6. L’abito religioso di terziaria trinitaria


Digressione: Riporto un fatto seguitomi il giorno di san Michele arcangelo il dì 29 settembre 1817. Fui favorita dal Signore con grazia molto particolare. Il gran principe san Michele mi condusse al trono di Dio e mi presentò all’Altissimo, supplicandolo per me, acciò mi degnasse della sua divina grazia. Alla preghiera del gran principe san Michele, l’eterno Dio tutto piacevole a me rivolto ricolmò la povera anima mia di grazia soprannaturale, e in quell’istante divenne tanto bella che divenne oggetto della compiacenza di Dio, e qual padre amoroso mi strinse al suo seno, e qual sposo amante mi degnò dei suoi castissimi abbracciamenti, facendomi provare gli effetti più mirabili della sua divina grazia. In un momento le potenze dell’anima mia furono sollevate sopra se stesse e, illuminate dalla fede, penetrai l’immensità di Dio, dove Dio mi diede particolare cognizione di sé e dell’infinito suo essere; mi promise di abbreviare il tempo delle sue misericordie, mi fece intendere che per mezzo di una forza imponente sarei arrivata ad ottenere l’abito religioso di terziaria della Santissima Trinità più presto di quel tempo che era determinato, dispensandomi da quelle ardue prove che da principio mi erano state determinate, per arrivare ad ottenere l’abito religioso di terziaria dell’Ordine della Santissima Trinità.

Qual bene ricevette il mio spirito in questa comunicazione non so manifestarlo, mentre per parte dell’infinita potenza di Dio fui introdotta negli amplissimi spazi della divinità, e intimamente unita a Dio, che più non mi distinguevo, ma tutta ero immersa, tutta ero penetrata da Dio in guisa che ero una stessa con lui, io più non mi distinguevo, ero penetrata dall’infinito suo amore, che mi faceva ardere di carità. Qual dolcezza di spirito, qual consolazione, qual gaudio sperimentò il mio cuore non mi è possibile manifestarlo. La sopraddetta comunicazione mi tenne per giorni sopra sopita, rapita in Dio, senza poter applicare sensibilmente le potenze dell’anima, ma come stolida affatto incapace di ogni idea sensibile.

Il dì 24 ottobre 1817, giorno della festa di Gesù Nazareno, ricevetti dal Signore in questo giorno un favore molto grande, ma per avere trascurato lo scrivere non posso manifestarlo, avendo di questo favore perduto l’idea.

In questi fogli si riportano diversi favori ricevuti dal Signore in vari tempi, che per dimenticanza ho tralasciato di scrivere negli altri fogli.

41.7. Tre gradi di maggior perfezione


Il dì 20 giugno 1817 fu sollevato il mio spirito per mezzo di veemente rapimento. Fui intimamente unita a Dio, dopo aver goduto un bene inenarrabile, mi fece intendere il Signore che mi fossi preparata, che il giorno di san Giovanni Battista voleva di nuovo favorirmi con la sua santa grazia, e compartirmi tre gradi di maggior perfezione.

Si andò dunque preparando il mio spirito mediante la suddetta grazia, con la pratica della santa virtù, con le orazioni e digiuno, che fin dal 25 maggio 1817 si era di nuovo intrapreso, di cibarmi di una sola cioccolata ogni ventiquattr’ore, come a suo luogo già dissi, per mezzo del suddetto favore mi compartì Dio una particolare cognizione di me stessa, e una profonda umiltà, sicché i tre giorni precedenti la festa del mio gran protettore san Giovanni Battista altro non feci che piangere i miei gravi peccati, chiedendone umilmente perdono al Signore, riconoscendomi per la creatura più scellerata, nonostante questa cognizione che mi faceva piangere notte e giorno, sentivo nel mio cuore una viva speranza che mi consolava, e una carità tanto perfetta che mi sollevava a Dio, in maniera che dalla veemente contrizione passai ad un veemente amore, che mi rendeva dolce e soave il pianto e la grave afflizione, di maniera che il mio spirito restava sopito dalla dolcezza e dalla soavità del Signore, che mi degnava dei suoi abbracciamenti.

Quanto ero in questa situazione godevo un profondo riposo, senza più cercare né desiderare alcuna notizia di Dio, né alcuna cognizione, ma contenta se ne stava la povera anima mia in questo profondo riposo, avendo una certa sicurezza di riposare in Dio, suo Signore.

Il dì 24, festa del glorioso san Giovanni Battista del 1817, si destò ad un tratto il mio spirito, e radunate le sue forze, per mezzo della grazia di Dio, furono sollevate le potenze dell’anima mia. Alla penetrazione più intima, molto sublimi furono le cognizioni che mi compartì Dio, dell’infinito suo essere. A queste cognizioni l’anima passò a fare atti di amore di Dio, confondendosi nel proprio suo nulla. Piena di gratitudine, piangeva amaramente le sue colpe, ne chiedeva umilmente perdono al suo Signore, offrendosi di patire ogni qualunque pena; per così compensare in qualche maniera l’amore tradito. Si degnò il Signore di gradire la mia offerta, e intimamente a lui mi unì, facendomi sperimentare gli effetti mirabili della sua divina grazia, concedendomi, per sua infinita bontà, quanto mi aveva promesso, cioè tre gradi di maggior perfezione, come già dissi di sopra. Di questa grazia immediatamente ne provai i buoni effetti, mentre in quell’istante si accrebbe in me la carità verso Dio e verso il prossimo, una profonda umiltà e un desiderio ardentissimo di piacere al mio Signore, a costo di ogni gravissimo patimento. Questi buoni desideri sono in me ancora permanenti, e spero che, per mezzo della grazia di Dio, saranno perseveranti fino alla mia morte.

41.8. La mia anima come splendida fanciulla


Il dì 27 giugno 1817 la mattina dopo la consueta orazione subito levata, mi ero data a sistemare gli affari della casa, quando ad un tratto fui sopraffatta dalla grazia del Signore, che mi rapì lo spirito e alienata dai sensi, mi resi affatto incapace di agire, priva di ogni sensazione, caddi in deliquio mortale, pallido e freddo se ne restò per molte ore il mio corpo.

In questo tempo il mio spirito si trovò in un luogo immenso, che io non so descrivere, in questo luogo mi fu dato a vedere l’anima mia. La vedevo dunque sotto la sembianza di bellissima donzella, semplice, pura, leggiadra, piacevole, avvenente, dotata di scienza celeste. Questa se ne stava seduta in un’isola deserta, lungi dai rumori del mondo, ebbria di santo amore, vicina al vasto oceano se ne stava. Questo oceano vastissimo denotava l’infinito amore di Dio, la vaghissima donzella si mostrava perduta amante del vasto oceano, e l’oceano si dimostrava tutto per lei propenso. A questa cognizione la donzella, ebbria di santo amore, scioglieva la voce al canto, suonando un celeste strumento nel vasto oceano la sua voce faceva risuonare.

Oh quali affetti intanto crescevano nel mio cuore, che dettati mi venivano dal celestiale amore! Mostravo al mio diletto l’ardente fiamma che mi incendiava il petto, che tutto mi consuma il cuore, il grande amore non poteva più contenere, con interrotti accenti mostravo al mio diletto l’affetto del mio cuore: «Oh dolce amore consumami, non aver di me pietà, annientami, annichiliamo, così resterà soddisfatto in qualche parte il povero mio amore». Così dicendo tornò Dio a favorirmi, unendomi a sé, in una maniera molto mirabile, fu tanto grande l’impressione che mi restò nel cuore di questa santa unione, che per cinque giorni perdetti ogni idea sensibile, quel poco che operavo si faceva da me per abito, senza comprendere le proprie operazioni.

42 – CROCIFISSA DA GESÙ STESSO


Il dì 17 luglio 1817, dopo la santa Comunione, fui sopraffatta da interno riposo, dove mi parve vedere l’amabilissimo mio Gesù, che tutto amore si degnava mirarmi. Mi additò una croce e mi fece intendere che l’infinito amor suo a quella croce voleva crocifiggermi. A questa cognizione la povera anima mia sollecitamente aprì le braccia, e incessantemente pregava il santo amore di Dio, acciò la crocifiggesse come più gli piaceva. Deliberata la mia volontà da forza superiore, fui collocata sopra quella croce suddetta, mi pareva che Gesù Cristo medesimo mi inchiodasse le mani e i piedi. Era tanta la dolcezza e la soavità che il mio spirito esultava in quel patibolo, invece di affliggermi e conturbarmi, lodava e benediceva il mio Signore.

Per mano degli Angeli così crocifissa penetrai gli ampli spazi dell’immensità di Dio, i santi Angeli sollevarono la croce e mi condussero negli amplissimi spazi della divina immensità. Di questo luogo non ne parlo, perché non ho termini di poterlo paragonare a cosa alcuna di questa terra. Solo dirò che dalla croce passai sopra un bellissimo trono. Mi vedevo vestita di ricchissime vesti e adorna di preziosissime gioie. In questo ricco adornamento veniva significato essere l’anima ricoperta dei meriti infiniti di Gesù, per mezzo dei quali l’eterno divin Padre mi rendeva oggetto della sua compiacenza e intimamente a se mi univa e mi faceva divenire una stessa cosa con lui.

In quel momento perdetti ogni idea non solo sensibile, ma ancora intellettuale. Fui sopraffatta da un bene che non so esprimere. Dopo breve tempo tornai in me stessa, e vedendomi tanto favorita da Dio, senza alcun merito, si profondò lo spirito nel proprio suo nulla, riconoscendosi meritevole di mille inferni per tanti peccati commessi. Piangendo dirottamente con abbondanti lacrime, chiedevo misericordia e perdono all’amabilissimo mio Signore, e piena di gratitudine e di amore, lodavo e benedicevo l’infinito suo amore, tanto parziale verso di me, miserabilissima peccatrice.

Si tratteneva nel proprio suo nulla e facendo degli atti interni di fede, speranza e carità, restava la povera anima mia rapita, nel ricordarsi il distinto favore che Dio si era degnato compartirgli si umiliava profondamente.

42.1. Vittima per la Chiesa insieme a Gesù


In questo tempo tornò a sopirsi lo spirito, e sopraffatto da interno riposo ebbi particolari cognizioni dei presenti bisogni della santa Chiesa. Vidi la cattiva condotta di quelli che governano, l’ingiustizia, l’oppressione dei poveri, il gran tradimento che si fa al santo Evangelo, che invece di sostenere le sante sue massime, questi sono contro di queste, qual lupi rapaci che altro non cercano nel loro operare che la distruzione dell’ovile di Gesù Cristo, che qual amante pastore è tutto intento alla custodia delle amate sue pecorelle.

Oh qual castigo terribile tiene preparato la divina giustizia per questi ingrati! A questa cognizione fui sopraffatta da molti affetti di compassione, di zelo, desiderosa per sostenere la nostra santa religione di dare il sangue e la vita, di sommo timore per il terribile castigo, ero fuori di me stessa per lo spavento, quando ad un tratto mi si fece vedere Gesù Cristo, tutto piacevole ed amoroso, che cercava di placare lo sdegno dell’eterno suo Padre, ed invitava la povera anima mia ad offrirsi insieme con lui all’eterno suo Padre qual vittima di riconciliazione. Immediatamente mi offrii a patire qualunque pena per vantaggio della santa Chiesa, e per adempiere la volontà di Dio, per sostenere il Sommo Pontefice e tutto il cristianesimo, per sostenere tutta la religione cristiana.

L’eterno divin Padre per mezzo di Gesù Cristo accettò la mia offerta e mi ricevette qual vittima volontaria, e pieno di gradimento mi strinse al paterno suo divin seno, facendomi provare un gaudio di paradiso.

Il dì 30 luglio fu sollevato il mio povero spirito dalla grazia del Signore, e illuminato fu il mio intelletto da particolare illustrazione. Fu il mio spirito introdotto per mezzo di tre angeli in un luogo quanto mai bello. Custode di questo luogo era san Giovanni evangelista. Introdotta che fui in questo luogo, crebbe in me la propria cognizione, e, profondata nel proprio mio nulla, mi riconoscevo per la più vile creatura della terra.

Nel vedermi in questo luogo di preminenza, mi confondevo altamente, e sopraffatta da santo timore, cercavo a tutto mio costo di fuggire da questo luogo, per rispetto e riverenza riconoscendomi affatto indegna. Ma il santo Evangelista mi faceva intendere che avessi allontanato il soverchio timore, e che ammirar dovevo l’infinito amore che Dio mi porta.

A questa esortazione del santo Evangelista, il mio spirito si riempì di santo amor di Dio, e con somma rassegnazione si compiacque restare in questo luogo, al momento mi vidi vestita…

42.2. Ricevetti una grandissima ingratitudine


Il dì primo agosto 1818 permise il Signore che il mio spirito patisse un’afflizione tanto grande che non ho termini di poterlo spiegare. Questa afflizione mi penetrò nell’intimo del cuore in maniera tale che credevo di impazzire. Non mi potevo persuadere che nel mondo si trovasse tanto inganno, tanta ingratitudine. La pena mi rese cagionevole il corpo, che credetti veramente di morire. Questa gravissima afflizione mi fu cagionata da una grandissima ingratitudine, che ricevetti da una persona da me molto beneficata, e siccome in questo torto che questa persona mi fece veniva offeso anche Dio, questa era la maggiore mia pena, al riflesso di quanto avevo faticato, perché quest’anima andasse a Dio; e dopo tante fatiche, stenti, afflizioni, lacrime e orazioni, vedere quest’anima per un capriccio essere sul momento di rovinarsi per sempre, con offesa di Dio e con sommo discapito della propria anima sua.

Questo fatto amareggiò tanto il mio povero spirito che per molti giorni mi pascevo di lacrime e di sospiri, piangendo l’offesa di Dio, e tante mie fatiche rese inutili. A tutto questo brutto apparato non si perse di animo la povera anima mia, ma corsi a Dio con lacrime, orazioni e penitenze, e il Signore si degnò di illuminare la suddetta persona e richiamarla ai propri doveri. Questo per me fu di sommo contento e di somma consolazione.

La mia maggiore consolazione fu per avere avuto da Dio una particolare cognizione come quest’anima non lo aveva gravemente offeso, ma il demonio era stato quello che in questo fatto aveva molto operato per l’invidia, per la collera che ha contro di me. Questo nemico vorrebbe vedermi annientata, e cerca e sempre ha cercato la mia distruzione in tutti i luoghi, in tutti i tempi. Molte sono state le insidie e le frodi, che ha usato contro di me, ma Dio, per sua bontà, mi ha sempre e poi sempre resa vittoriosa di questo e degli altri nemici miei, tanto visibili che invisibili.

42.3. Annoverata tra le vergini


Fu molto ben compensata al Signore la suddetta mia afflizione, mentre il dì 15 agosto 1818, giorno dell’Assunzione di Maria santissima, fui favorita dal Signore di un celeste favore, e fu di annoverarmi nel numero delle particolari serve di Maria santissima, sua benedetta Madre, Fui annoverata nel numero di quelle felicissime anime con particolare distintivo, benché a me non mi convenga per nessun titolo. Per obbedire vostra paternità, e con somma mia confusione, manifesterò la maniera che tenne Dio per farmi intendere il suddetto favore.

Ero in orazione quando si sopì il mio spirito, e per mezzo di una illustrazione intellettuale, il Signore gli dette una particolare cognizione di quanto esso si degnava operare nella povera anima mia. Mi parve dunque in quel momento di essere sollevata fino all’altezza dei cieli, dove, per mezzo di molte schiere angeliche, fui introdotta negli amplissimi spazi dell’immensità di Dio. In questo luogo mi si diede a vedere la gloria di Maria santissima, come Madre e come Vergine purissima, per soli questi due titoli era tanto grande la gloria di questa Vergine e Madre, che io non posso non solo ridirlo, ma non potei neppure comprenderlo, tanto era grande la sua gloria, la sua magnificenza che io credetti di perdere la vita, per essere cosa tanto sublime che né l’anima né il corpo la poteva contenere.

Vidi dunque questa divina sovrana in un trono immenso, circondato da immensa luce, era corteggiata da molti principi del paradiso, una moltitudine di schiere angeliche adornavano il glorioso suo trono, molte felici donzelle erano vicino al suo trono, queste erano di tre classi: le più immediate al suo trono erano cinte nel capo di prezioso diadema, le seconde tenevano un prezioso stemma al collo, che le pendeva sopra il petto, le terze tenevano nella mano destra un mazzo di fiori bellissimo; tutte dimostravano sommo contento, godendo di quei gloriosi splendori, che scintillavano dal volto verginale di quella sovrana regina del cielo e della terra.

A tanta magnificenza qual mi restassi, io non so ridirlo, ma sopraffatta da santo timore mi confondevo in me stessa e mi umiliavo profondamente, e rapita da tanta magnificenza non capivo più in me stessa, solo sentivo un’ardente carità, che mi liquefaceva il cuore e mi faceva spargere lacrime di santi affetti; di propria cognizione avevo ripieno il cuore, questa cognizione mi faceva bramare di allontanarmi da questo santo luogo, per il rispetto che si doveva a tanta magnificenza.

Ecco che in quel momento che mi volevo allontanare la Vergine santissima, per mezzo di san Michele arcangelo, mi comandò di approssimarmi all’augusto suo trono, e si degnò di propria sua mano adornare il mio capo del prezioso diadema, e così annoverarmi nel numero di quelle felicissime donzelle, che erano vicine al suo trono, come già dissi di sopra. Con molto applauso di tutte quelle sacre vergini, fui nel numero di loro compresa. La Vergine santissima si degnò presentarmi all’eterno Dio, il quale si degnò, per la sua infinita bontà, unirmi a sé intimamente.

Oh qual bene provò il mio spirito non so ridirlo! di santi affetti restò ripieno il mio cuore, molte grazie mi compartì il Signore per me e per i miei benefattori, e per i poveri peccatori, fratelli miei, e per la santa madre Chiesa, e per le benedette anime del purgatorio, alle quali sono rivolte le mie gran paure, e le povere mie preghiere sono sempre avanti al trono di Dio per loro suffragio.

42.4. Un digiuno che mi costava molta pena


Dal 25 agosto 1818 tutto il mese di settembre 1818 il mio spirito la passò in somma quiete e gran raccoglimento. In questo tempo fui favorita dal Signore più volte, ma per aver trascurato lo scrivere non posso manifestarlo, perché non mi ricordo.

Il primo di ottobre 1818 per mortificare con maggiore rigore il mio corpo, benché fin dal 5 giugno 1818, come già dissi nei passati fogli, per ordine di Dio intrapresi il solito digiuno di un poco di pane con acqua, aceto e olio. Questo cibo usavo prenderlo ogni ventiquattr’ore, senza prendere nella giornata neppure una stilla d’acqua, né una mollica di pane. Questa sorta di digiuno mi costava molta pena, perché la fame e la sete molto mi molestava; ma per amore di Gesù Cristo mi compiacevo che il mio corpo patisse. Univo la mia fame e la mia sete a quella fame e sete che patì nostro amoroso Gesù in questa vita mortale. Il demonio invidioso non lasciava di assalirmi, e a tutto suo costo provava di rendermi impossibile il proseguire il suddetto digiuno, che con la licenza del mio padre spirituale avevo intrapreso fin dall’anno 1815, il mese di ottobre, le domeniche e i giovedì me li passavo con la sola Comunione. Questa astinenza si praticava da me per così compensare i disordini che si commettevano in questo mese, particolarmente nel giovedì e nella domenica, per mezzo di tanti divertimenti illeciti.

La novena di Gesù Nazareno un giorno sì e l’altro no, me la passavo con la sola Comunione, non prendendo alcun cibo per lo spazio di quarant’otto ore, e nel giorno che mangiavo non usavo che la cioccolata con un poco di burro, per così correggere il fuoco degli aromi della cioccolata, e alle volte ancora per obbedienza del mio padre spirituale ci mescolavo un poco di latte.

In questa guisa dal dì 24 ottobre 1818 fino all’8 dicembre si sono fatte da me tre novene, con la grazia del Signore, senza alcun danno della mia salute e senza pregiudizio degli affari domestici della famiglia, trovandomi sempre in forza di poter agire come se avessi mangiato pollastri e piccioni. Cosa invero tutta di Dio, perché la mia complessione molto delicata non avrebbe potuto reggere a questa sorta di digiuno, unitamente ad altre penitenze penali che praticavo quotidianamente.

42.5. Mi pareva di penetrare i cieli


Il dì 2 ottobre giorno dei santi Angeli custodi, il mio spirito nelle orazioni fu sollevato dal Signore ad un’altissima contemplazione, dove Dio per sua bontà mi fece intendere quanto ama la povera anima peccatrice. Mi pareva in questo tempo di penetrare i cieli, e trasportato il mio spirito dalla fede viva e dalla carità ardente era introdotto negli amabilissimi amplissimi spazi dell’infinita immensità di Dio, dove vedevo cose inarrabili, che non so manifestare, e provai nel mio cuore un contento, una dolcezza, un gaudio incomprensibile, l’umiltà, la propria cognizione mi aumentava in me stessa e in questa guisa si perdeva la povera anima tutta in Dio.

43 – SI PORTANO IN TRIONFO I VIZI CAPITALI


43.1. Lo sdegno di Dio


Il dì 15 novembre 1818 fu il mio povero spirito nelle orazioni favorito dal Signore con particolare grazia. Fui sopraffatta da interno riposo, la povera anima mia godeva nel riposo la dolce presenza del suo diletto Signore, che, per mezzo di intellettuali illustrazioni, mi dava particolari cognizioni riguardanti i suoi giustissimi giudizi.

Se ne stava la povera anima mia tutta profondata in se stessa, e, piena di santo timore, andava piena di ammirazione penetrando i divini giudizi di Dio, imperscrutabili. Ero tutta penetrata da profondo rispetto e da interna venerazione; era sopraffatto il mio cuore da santo timore, e, piena di riverenza, adoravo profondamente gli eterni divini giudizi di Dio, che per pura sua bontà mi faceva comprendere con somma chiarezza.

L’anima, a questa cognizione, si compiaceva nel suo amorosissimo Dio, trovando i suoi divini giudizi tutti santi, tutti retti, tutti giusti.

Oh come l’anima si liquefaceva di compiacenza, di gaudio, di amore, nella cognizione delle perfezioni dell’unico suo diletto; ma quando mi deliziavo in questo sommo bene, che io non so e non posso esprimere, fui sopraffatta da nuova illustrazione, e tutto ad un tratto mi fu mostrato il mondo; questo lo vedevo tutto in rivolta, senza ordine, senza giustizia, i sette vizi capitali si portavano in trionfo, e per tutto vedevo che regnava l’ingiustizia, la frode, il libertinaggio e ogni sorta di iniquità.

Il popolo mal costumato, senza fede, senza carità, ma tutti immersi nelle crapule e nelle perverse massime della moderna filosofia.

Mio Dio! qual pena provava il povero mio spirito nel vedere che tutti quei popoli avevano la fisionomia più da bestie che uomini.

Oh che orrore il mio spirito ne aveva di tutti questi uomini così sformati per il vizio!

Io mi vedevo in una grande altura, come separata da questo luogo tanto miserabile, e per mezzo di una luce, che rifletteva in quel cupo basso del mondo, vedevo tutte le sopraddette iniquità e per mezzo della grazia infusami, conoscevo di questi miseri la loro profonda malizia.

Oh quanto si affliggeva il mio povero cuore, quante lacrime versavo nel vedere tante iniquità!

Ma ecco che in un momento il mondo cambiava scena. Ecco lo sdegno di Dio, che ad un tratto circondava tutto il mondo, facendo provare a quei mal costumati popoli il rigore della sua giustissima e rettissima giustizia.

Il povero mio spirito, nel vedere lo sdegno di Dio sopra quei miseri, pieno di terrore e di spavento gemeva, e con abbondanti lacrime deplorava la loro misera sorte, e, riconcentrata tutta in me stessa, mi umiliavo profondamente, e incessantemente lodavo e benedicevo l’infinita bontà di Dio in avermi sottratta da sì tremenda rovina, riconoscendomi per i miei peccati meritevole di ogni castigo.

Ma di nuovo tornai a riabbassare lo sguardo nel mondo, e vedo i grandi travagli che da ogni lato lo circondavano. Tutte le cose sensibili che appaiono sopra la terra le vedevo senza ordine, senza armonia, ma tutto era in rivolta, tutto era confuso. L’ordine della natura era tutto sconvolto. Il solo mirare la terra dimostrava lo sdegno di Dio. In un momento tutto il mondo era in una grandissima desolazione.

Oh quante grida, quante lacrime e quanti sospiri da flebili voci si sentivano risuonare in quel teatro di mestizia. Vedevo poi in mezzo a tanta iniqua gente, un demonio tanto brutto che scorreva il mondo con tanta superbia e alterigia. Costui teneva gli uomini in una penosa schiavitù, con orgoglioso impero voleva che tutti gli uomini fossero a lui soggetti, rinunziando la fede di Gesù Cristo, con l’inosservanza dei suoi santi comandamenti, dandosi in preda al libertinaggio e alle perverse massime del mondo, adottando la vana e falsa filosofia dei nostri moderni e falsi cristiani.

Oh, miseria grande, veramente da deplorarsi con infinite lacrime!

Vedere che dietro a queste false massime correvano pazzamente ogni sorta di persone, di ogni ceto, di ogni età, non solo secolari, ma ancora ecclesiastici di ogni dignità, tanto secolare che regolare.

In questo stato così deplorevole il mio povero spirito amaramente piangeva, e tutto si conturbava nel vedere tanto oltraggiato un Dio che è la stessa bontà, che merita di essere amato, vederlo tradito e oltraggiato, era tanto grande la pena mia che credevo veramente di morire in quel momento di un colpo mortale, tanto era grande l’afflizione del mio povero spirito, nel vedere tanto offeso il mio amorosissimo Dio.

Oh cosa non avrei fatto, cosa non avrei patito per compensare le gravi ingiurie che questi finti cristiani facevano all’eterno Dio. In questo stato di cose, la povera anima mia si offrì a patire ogni qualunque pena, ogni qualunque travaglio, ogni qualunque strapazzo diabolico. Unii questa povera mia offerta all’eterno divin Padre, unendo il mio sacrificio a quello del suo santissimo Figliolo, e lo pregai che, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, si degnasse ricevere il povero mio sacrificio, promettendo di darmi ad esercitare con più rigore ed asprezza la penitenza, il digiuno, l’orazione, le vigilie, come, con la grazia di Dio, puntualmente eseguii, con il permesso del mio lodato padre spirituale.

43.2. Dio mi diede il permesso di legare il demonio


L’eterno Dio si degnò, per sua infinita bontà, di accettare la povera mia offerta. Mi diedi dunque a mortificare il mio corpo con rigoroso digiuno, non prendendo cibo che ogni quarantotto ore, e questo era un poco di pane con olio e aceto, oppure una chicchera di cioccolata. In questa guisa passai il mese di novembre e dicembre, come già dissi di sopra, del 1818.

Mi pareva dunque che, attesa la mia povera offerta, che unito avevo agli infiniti meriti di Gesù Cristo, l’eterno Dio mi dava il permesso, mediante la sua onnipotenza, di legare di propria mano quel demonio pervertitore di tante anime, che aveva sedotto con la sua profonda malizia, facendogli adottare le perverse massime del mondo libertino, macchiandoli, contaminandoli con la falsa filosofia. Sì, aiutata dal braccio onnipotente di Dio, mi pareva di propria mano di ricondurlo nel cupo abisso dell’inferno. Nella grande impresa di rincatenare il suddetto mostro del cupo abisso dell’inferno, erano in mio aiuto due padri trinitari, questi mi davano di mano e mi aiutavano a rilegare questo terribile demonio, questo spietato mostro, e ricondurlo con somma fatica nel cupo abisso dell’inferno.

Fatta la suddetta operazione, per mezzo dell’onnipotenza di Dio, che mi dava tanta forza e autorità di tutto operare per la maggior gloria sua, mentre i miei pensieri, le mie operazioni, le mie fatiche, le mie premure non ad altro fine erano dirette che alla maggior gloria dell’immenso, dell’eterno, dell’incomprensibile mio Dio, sommo mio bene, che mi protesto di amare infinitamente, con tutto il mio povero cuore, e per l’amore che gli porto sono pronta ogni momento a dare il sangue e la vita in mano dei più spietati tormenti, e se milioni di vite avessi, tutte tutte le sacrificherei per la sua gloria.

Fatta dunque la suddetta operazione, mi parve che tutto il mondo respirasse in pace, e per mezzo di uomini dotti e santi si ristabilisse il giusto ordine sopra la terra, con somma gloria di Dio, ed onore della nostra santa Chiesa cattolica. Mi pareva che cessassero i peccati e si faceva vera penitenza dappertutto, mi pareva che regnasse la pace, la giustizia, la fede di Gesù Cristo trionfava dappertutto e rendeva gli uomini seguaci del santo Evangelo.

43.3. Le mie mortificazioni


Il mese di ottobre del 1818...

Il mio letto era un piccolo strapuntino sopra la terra, il mio sonno era molto leggero e scarso, e per essere tanto assidua nelle orazioni, il mio riposo si poteva chiamare un sopimento di spirito mentre che si riposavano le mie membra, il mio spirito lo trovavo sempre alla presenza di Dio. Mi pareva il più delle volte di riposare nelle braccia del mio Dio. Più volte nel prendere sonno, mi vedevo tutta circondata da uno splendore e la mia mente veniva sollevata da pensieri santi, che mi dimostravano l’infinito amor di Dio.

In questa guisa passai ottobre, novembre e dicembre. Il mio corpo era alquanto afflitto, non tanto per la suddetta penitenza, quanto per il freddo eccessivo della stagione. Usando una simile astinenza, il freddo mi era molto più sensibile; passavano le intere settimane che di giorno e di notte ero tanto gelata che parevo un marmo effettivo. Non usavo il gran beneficio del fuoco, mi contentavo di patire per amore di Gesù Cristo; e alla considerazione dei suoi patimenti, prendevo ogni giorno più lena di patire per amor suo ogni qualunque patimento.

Fin dal 1804 che presi a mortificare il mio corpo, una delle mortificazioni che intrapresi, con somma mia pena e gran patimento, fu l’astenermi nell’inverno di riscaldarmi con fuoco. Questa penitenza fu per me molto dolorosa per avere il temperamento molto delicato, ma con la grazia di Dio ho potuto sostenere questa mortificazione per quindici anni, mentre adesso che scrivo siamo del 1819, mese di luglio, primo giorno del suddetto mese. Scrivo in Albano trovandomi in questo paese per prendere un poco d’aria, per potermi rimettere in salute da una lunga infermità, che in appresso ne darò ragguaglio.

Molto gradì il Signore per sua bontà e misericordia la mia intrapresa penitenza, che si degnava nelle orazioni di favorirmi con i suoi distinti favori. Con molta frequenza sollevava il mio povero spirito, e si degnava manifestargli cose molto grandi, riguardanti il suo infinito amore. Varie volte mi ha mostrato la sua divina giustizia, sdegnata contro di noi, poveri peccatori, e il tremendo castigo che voleva mandare sulla terra, per i gravi peccati che si commettono. Io dallo spavento mi pareva di morire, e incessantemente mi raccomandavo e, offrendo i meriti infiniti di Gesù Cristo all’eterno divin Padre, mi pareva di ottenere la grazia di dilazionare il tempo, per non vedere tante anime piombare all’inferno.

Io, benché la più miserabile di tutti le creature che abitano la terra, per essere la più indegna peccatrice, come è ben noto a vostra paternità reverendissima, mi offrii di patire ogni travaglio per la gloria di Dio e per il vantaggio del mio prossimo, sentendo nel mio cuore un’ardente fiamma di carità, che tutta tutta mi consumava di santo amore, unendomi ai meriti infiniti di Gesù Cristo, mi offrivo qual vittima di riconciliazione.

44 – SANGUINOSA BATTAGLIA CONTRO NEMICI SPIETATI


44.1. Il mio cuore pronto a patire ogni sorta di pene


Nella notte del santo Natale del 1818 dopo aver goduto, per mezzo di particolare unione, i tratti più amorosi dell’infinita carità di Dio, che sotto l’immagine di vago bambinello, unito alla santissima Madre e al suo padre putativo san Giuseppe, mi apparve. A questa vista ammirabile di questi tre personaggi la povera anima mia si riempì di santi affetti. Il rispetto la stima, la venerazione, l’amore, il timore, l’umiltà mi profondavano nel mio proprio nulla, e non ardivo rimirare il bel sole di giustizia, che in braccio alla divina Madre, volgeva verso di me i suoi sguardi amorosi, e facendomi coraggio di approssimarmi a lui, ma la povera anima si disfaceva in lacrime di dolore, per avere offeso un Dio tanto buono.

Oh quanto mai mi dispiaceva di averlo offeso! con quante lacrime detestavo i miei peccati, non so spiegarlo! Ma unito al dolore sentivo un amore tanto grande, che mi faceva piangere di gratitudine e di tenerezza, vedendomi tanto amata e tanto beneficata, mi riconoscevo immeritevole di ogni bene, ma intanto sentivo un desiderio grande di amare il mio caro Gesù, che mi offrivo a lui senza intervallo, senza riserva. Desiderosa di patire ogni qualunque gran male per amor suo.

Il santo Bambino si compiacque della mia povera offerta, che mi degnò dei suoi purissimi abbracciamenti. Oh qual contento, oh qual dolcezza provò il mio cuore, non è spiegabile. Il mio spirito fu sopraffatto da una soavità tanto grande, che perdetti ogni idea non solo sensibile, ma ancora intellettuale. Dopo aver goduto questo gran bene, il Signore, per mezzo di intelligenza, mi fece intendere che mi fossi preparata a sostenere una forte battaglia con i miei spietati nemici. Mi fece intendere che la sua santa grazia avrebbe prevenuto il mio patire, e lui sarebbe stato sempre con me, e mi avrebbe assistito con la sua infinita potenza, con la sua infinita sapienza, con la sua infinita bontà.

A questa amorosa esibizione, la povera anima mia tutta a Dio si consacrò, e piena di gratitudine, adorò i suoi divini decreti, si unì alla sua divina volontà, si preparò il povero cuore a patire ogni sorta di pene, per piacere al mio caro Gesù, e protestandomi non solo in quel momento, ma ogni giorno di tener preparato il mio cuore a patire quanto a lui piacesse, pregandolo del suo divino aiuto.

44.2. Per riparare la divina giustizia


Non andò molto a lungo ad avverarsi quanto mi aveva detto il divino fanciulletto; mentre al dì 24 gennaio 1819 fui nell’orazione sollevata a penetrare la divina immensità di Dio, dove il medesimo Dio mi diede cognizioni molto alte dell’infinito suo essere. Mi fece intendere molte cose riguardanti la sua divina giustizia, mi fece intendere essere arrivata l’ora che io dovevo molto patire, per la gloria sua, per vantaggio della santa Chiesa cattolica, per sostenere il Sommo Pontefice e la santa Chiesa, e per vantaggio dei poveri peccatori. Mi diede a conoscere grandi cose che io non so ridire, la povera anima mia restò estatica a tante e sì elevate cognizioni, che il mio corpo perdette ogni sensazione, fui sopraffatta da un riposo tutto spirituale, che mi alienò dai sensi.

In questo tempo mi apparve Gesù Cristo, e mi invitò a sostenere la fiera battaglia, mi tornò ad assicurare del suo divino aiuto, mi diede chiarissima cognizione di quanto avevo da patire per glorificare l’eterno suo divin Padre, e così placare la sua divina, inesorabile giustizia, che era sdegnata con tutto il mondo. Mi diede ad un tratto a vedere tutti i tormenti che mi erano preparati dal nemico infernale, mi diede a vedere come per sua permissione dovevo patire tutti quei gravi tormenti, senza alcun conforto.

A questa vista, sì terribile e dolorosa, si atterrì il mio povero spirito, e, pieno di spavento, restò sopraffatto dal terrore di tanti e sì terribili supplizi. Piena di spavento e di timore, pregavo il mio buon Gesù: «Mio Gesù, sposo mio, unico conforto dell’anima mia, aiutami per carità! vieni in soccorso della tua povera serva, non è possibile che io sostenga sì fiera battaglia, soccorrimi per pietà! aiutami, per carità!».

Ecco che già mi vedevo circondata da ogni sorta di patimenti, mi vedevo in mezzo ad una voragine di supplizi, di angustie, di desolazioni, di affanni, quando di nuovo mi apparve il mio Gesù, circondato di splendidissima luce, che al momento rischiarò le folte tenebre in cui mi trovavo.

«Ah Gesù, sposo diletto dell’anima mia, oh quanto mai mi consola il vostro glorioso splendore! Oh qual contento mi reca il vostro dolcissimo sembiante, puro, innocente e modesto! Oh qual gaudio di paradiso inondò il mio cuore! Le vostre gloriose cicatrici tramandano un odore soavissimo, che ricrea a povera anima, che poco prima era da tante pene oppressa. Felice mia pena! che tanto bene adesso mi fai godere. Mio Dio, mio sommo amore, quanto bene mi fai godere!».

Nella umanità santissima di Gesù Cristo ravviso l’intima unione che passa tra le tre divine persone. Oh quanto bene conosco un solo Dio in tre divine persone! Ma questa cognizione oltrepassa il povero mio intelletto, vien meno la mia intelligenza, e, piena di ammirazione, sento rapirmi lo spirito a sì alto profondo mistero. Piena di rispetto e riverenza, mi profondo nel mio nulla, e con la fronte per terra, mi unisco con tutto il paradiso, dicendo: Sancus Deus, sanctus fortis, sanctus immortalis, miserere nobis.

Dopo di avermi dato a godere bene così straordinario, più non mi ricordavo il patire che poco avanti avevo sofferto, ma tutta in gaudio era liquefatta la povera anima, di santo amore avevo ripieno il cuore.

«Figlia», mi sento dire, «figlia diletta mia, mira le grandi offese che riceve la mia immensità! Se mi ami, offriti a riparare la mia divina giustizia, levami il flagello dalla mia onnipotente mano, che pieno di furore sono sul momento di scaricare sopra questo mondo ingrato.

Figlia, io sono la tua ricompensa. Offrirti a patire volontariamente per la mia gloria, e per adempiere la mia volontà. Figlia cara mi sei, e tu puoi placare lo sdegno mio. Eccomi, io sono in tuo aiuto, io sono con te, coraggio, mia cara, coraggio; e se io sono con te, chi sarà contro di te? Chi ti potrà nuocere? chi ti potrà sovrastare? Quanto onore, quanta gloria mi darai col tuo patire! Affatìcati di potermi piacere, fidati nel mio potente aiuto, da’ principio alla forte battaglia».

44.3. Fedele a Gesù e obbediente alla Chiesa


A queste parole divine, la povera anima mia da debole che era, come già dissi, fortificata fu dalla grazia del Signore. Affidata alle sue divine parole, divenni forte qual leone, e piena di coraggio nel nome di Dio diedi principio alla sanguinosa battaglia il giorno 25 gennaio 1819 di lunedì, giorno della conversione di san Paolo, mi apparvero molti demoni in varie forme; ognuno di quelli teneva presso di sé un tormento infernale da farmi soffrire: «Se tu non acconsenti alle nostre voglie», mi dicevano, «sperimenterai sopra il tuo corpo tutti questi spietati tormenti, se tu non acconsenti alle nostre voglie».

Costoro volevano per primo farmi negare la fede di Gesù Cristo, e poi farmi fare ogni sorta di iniquità, per sovvertirmi misero in pratica tutta la loro malizia, ma buon per me che il pietosissimo mio Dio mantenne la parola che mi aveva dato per sua bontà, con tanta fedeltà e amore mi aiutò, che non termini di spiegare gli aiuti speciali che mi compartì in questa sanguinosa battaglia, posso dire che tutto l’inferno si era congiurato contro di me; quei maligni spiriti, che erano stati incaricati di strapazzarmi, di farmi provare molti supplizi infernali, avevano giurato al loro capo che avrebbero fatto ogni sforzo, avrebbero adoprato tutta la loro malizia per sovvertirmi. Ecco dunque che spettatori erano di questa grande battaglia tutti i santi del cielo, e tutti i demoni dell’inferno.

Oh, come potrò qui ridire i diversi effetti del mio povero cuore! di timore, vedendomi apparecchiati tanti supplizi, dubitando a tanto patire di arrendermi alle loro voglie, col negare la fede di Gesù Cristo, ma qual fiducia sentivo nel vedermi aiutata dal medesimo Dio, che con una fortezza invincibile avvalorava la mia fede; non più timida, ma forte qual leone, io insultavo quei maligni spiriti, e, mostrando loro la forza invincibile di quel Dio che mi proteggeva, arditamente li insultavo, e con deliberata volontà dicevo loro che mi avessero tormentata quanto volevano, che io, sperando sempre nei meriti infiniti di Gesù Cristo, credevo con ogni sicurezza di riportare la compiuta vittoria. A questa mia deliberazione di volontà, mi si fecero addosso, questi maligni spiriti, a tormentarmi tanto fieramente in vari modi, ed intanto che così barbaramente mi tormentavano, mi dicevano che se avessi negato la fede avrebbero subito cessato di tormentarmi, mi avrebbero reso beata sulla terra, dandomi ricchezze, onori grandissimi.

Da tutte queste esibizioni rispondevo arditamente: «Non voglio altro che essere fedele a quel Dio che mi ha creato e redento con il suo prezioso sangue. Voglio confessare la fede di Gesù Cristo fino all’ultimo respiro della mia vita, e voglio essere obbediente alla santa Chiesa cattolica apostolica romana».

A queste proteste, quelle furie d’inferno mi si avventavano addosso, e mi facevano provare tormenti tanto atroci, che io non posso spiegarli. Con ferri acutissimi mi tormentavano la bocca, in maniera che pativo pena tanto grande che non posso spiegarla, mi tenevano con violenza aperti gli occhi, e poi dall’alto mi versavano a gocce certo bitume bollente. Qual martirio fosse questo non è possibile poterlo spiegare, e quando mi davano questi spietati tormenti, mi dicevano: «Stolta che sei a farti tanto tormentare! Nega, nega la fede, che cesseremo subito di tormentarti e godrai ogni bene. Poche parole bastano per dichiararti, non altro devi dire: «io voglio essere anticristiana», questo basta per liberarti da tanto patire».

A queste loro parole io rispondevo, in mezzo a tanti martiri e spasimi: «Non acconsento e non acconsentirò giammai alle vostre suggestioni. Mi protesto che voglio essere fedele al mio buon Dio fino all’ultimo momento della mia vita. Cavate pure dall’inferno quanti supplizi volete, tutto sopporterò per amore di quel Dio che mi creò».

A queste proteste con più rabbia pigliavano a martirizzare il mio corpo e con tanto furore che, se tutto dovessi dire, mi mancherebbero i termini di poterlo spiegare. Ero al momento ricoperta di fuoco tanto crudele che mi pareva di morire ogni momento di spasimo, e in mezzo a questo crudele martirio, assistita dalla grazia di Dio, confessavo la fede di Gesù Cristo.

Sentivo nel patire una forza soprannaturale, che mi faceva disprezzare tutte le sorte di tormenti, solo sentivo un sommo impegno di sostenere la fede di Gesù Cristo, sentivo nel mio spirito una fiamma di carità che mi univa al santo amor di Dio, che mi dava forza di superare ogni sorta di patimenti infernali, e ogni giorno mi rendeva più forte e stabile nei santi proponimenti, che con l’aiuto di Dio andavo facendo. Mi fermo per un poco di parlare dei gravi tormenti che mi fecero provare quei crudeli spiriti maligni, che a tutto loro costo tentarono di sovvertirmi. Passo a dare il ragguaglio del mio corpo e quanto si vedeva sensibilmente.

44.4. Sopraffatta da uno svenimento mortale


Fui dunque il dì 25 gennaio 1819, giorno della conversione di san Paolo, fui sopraffatta da uno svenimento mortale, che mi privò di ogni idea sensibile, e questo fu nella medesima mattina che io mi offrii al Signore di patire per i motivi accennati: per sostenere la santa Chiesa e riparare in qualche maniera il castigo di Dio. Questo svenimento mortale mi privò di ogni sensazione, in maniera che, mi raccontano, il mio corpo, che giaceva per terra, fu preso da quattro persone, e posto sopra un letto, senza potermi spogliare. Mi dicono che questo fu alle ore 15 e mezza circa italiane, alle ore otto e mezza di Francia circa, il mio corpo dicono che non facesse nessun risentimento, ma che stette in profondo sonno fino alle ore due della notte.

In questo tempo fecero molte prove per svegliarmi, ma tutto invano. Circa le ore tre italiane mi destai da questo profondo sonno e, parlando con sentimento, richiesi con somma premura di parlare con il mio confessore; ma da quelle persone che mi assistevano non furono curati i miei desideri e la mia grande premura che facevo, perché mi avessero chiamato il mio confessore, al quale volevo comunicare tutto l’accaduto, per avere da lui, per mezzo dell’obbedienza la maniera di regolarmi in sì grave battaglia, sì pericoloso cimento. Mi venne negato di poter parlare con il mio confessore, dicendo che l’ora era tarda per incomodare un religioso, che vi sarebbe stato tempo la mattina. Questa negativa mi fu molto sensibile, perché io conoscevo che la mattina non sarei più in stato di parlare con il suddetto. Rinnovai le mie istanze, ma non furono attese, allora feci un atto di rassegnazione in Dio, e invocando il suo divino aiuto. Allora seppi che dovevo patire senza alcun conforto umano, ma che tutto l’aiuto mi sarebbe somministrato da Dio.

A questa cognizione adorai i divini decreti, e mi rassegnai pienamente alla sua santissima volontà, mi abbandonai nelle sue santissime braccia, acciò facesse di me quello che più gli piaceva. Difatti la mattina non fui più in stato di parlare né di capire cosa alcuna sensibile. Tanto crebbe a dismisura il male nel mio corpo, che fui sopraffatta da convulsioni tanto terribili, che in sei persone non mi potevano tenere. Tutto questo male era cagionato dai tormenti che soffrivo da quei maligni spiriti, parte per il gran dolore che soffrivo nei membri del corpo, parte per la vista orribile di quei maligni mostri, mi si erano confuse tanto le idee, che non riconoscevo più nessuno, neppure il mio proprio confessore, che, dalla pena di vedermi in uno stato così afflittivo, si ammalò.

In questo mio gravissimo male io non curavo il patire sensibile, che per mezzo di tanti supplizi soffrivo da quei demoni infernali; ma la mia grandissima cura era di tenere sempre fissa la mia mente in Dio, per il grande timore che avevo di acconsentire alle loro suggestioni.

Con incessanti preghiere invocavo il divino aiuto, che sperimentai sempre efficace; più mi fortificavo nella santa fede e più quei barbari demoni mi tormentavano con nuovi supplizi. Nove giorni e nove notti il mio corpo fu sempre dibattuto e malmenato da questi maligni spiriti: mi dicono che il mio corpo faceva tanta forza, che non si poteva più tenere per il gran moto convulsivo che faceva. Mi dovettero legare, perché non mi potevano più reggere.

Molti furono i rimedi che mi fecero, ma il mio corpo non era capace di rimedi umani, per altre cause ero ridotta in quello stato. Molti furono i giudizi di quelli che mi vedevano tanto patire, particolarmente dei miei parenti e amici, molti credevano che non potessi sopravvivere a tanto strapazzo, a tanto patimento; segnatamente il medico disse che più di tre giorni un corpo umano non poteva reggere, ma che mi si dovevano infiammare i polmoni per il grande strapazzo di quelle fiere convulsioni.

44.5. Non è un male naturale


I miei parenti mi presero a curare con tutto l’impegno, figurandosi un male naturale, sicché anche loro a fin di bene martirizzavano il mio corpo, per poterlo richiamare nei giusti sensi, si servivano di senapismi ai piedi, di due vescicanti alle polpe delle gambe, di una sanguigna al braccio e una alle tempie, e queste due sanguigne furono molto copiose, particolarmente quella delle tempie, ma tutto invano, perché erano molto più gravosi i tormenti che soffrivo da quei barbari mostri, che il mio corpo si rendeva affatto insensibile a tutti questi rimedi. Proseguendo nella medesima maniera a smaniare, a dibattermi con moto tanto irregolare e terribile, e nonostante vedendomi sopravvivere il medico disse: «Questo non è male naturale, non è al certo possibile che un corpo umano regga a tanto strazio, mentre tengo per certo, per l’esperienza che tengo, che un male così violento non si può sostenere da un corpo umano, ma deve sicuramente cagionargli la morte, e non può andare più a lungo che tre o quattro giorni, questa donna non può sopravvivere che per puro miracolo».

Vedendo il medico che ogni giorno più si faceva maggiore il mio male, essendo uomo di molta pietà, mi prese ad interrogare e qualche cosa conobbe; benché io non fossi presente a me stessa, ero molto accorta di non dimostrare quanto seguiva in me, ma l’accorto medico si portò dal mio confessore, che era malato, e gli disse: «Questa sua penitente si conosce che lo spirito è tutto assorto in Dio, ma il suo corpo soffre pene infernali, perché si conosce benissimo che il suo corpo è malmenato dai demoni, e non è male naturale».

A questa notizia del medico, il mio buon padre spirituale, nonostante si trovasse cagionevole, molte furono le orazioni che fece e fece fare per aiutarmi a sopportare e vincere la suddetta sanguinosa battaglia, ne fece il mio confessore inteso perfino il Santo Padre, acciò con le sue valevoli preghiere e autorevole comando mi avesse liberato dalle mani dei demoni, che tanto strapazzavano il mio afflitto corpo.

45 – ESTASI, VISIONI E TORMENTI


45.1. Pio VII la libera dalle suggestioni diaboliche


Il Santo Padre, per sua bontà e a riguardo del mio padre spirituale, che ne fa molta stima, pregò per me, e fece un comando con la sua potestà pontificia a quei maligni spiriti, che strapazzavano il mio corpo, avessero terminato di strapazzarmi. Fece sapere il Santo Padre al mio confessore che il giorno della Purificazione di Maria santissima, il 2 febbraio, sarei restata libera, e così seguì.

Sicché dal 25 gennaio fino al 2 febbraio, che sono nove giorni, il mio corpo fu tanto malmenato, battuto con tante sorte di tormenti, che non mi è possibile ridire, ma in quell’altra vita si vedrà, a gloria del medesimo Dio, qual grazia abbia mai dato alla povera anima mia, per sostenere una simile battaglia, e qual fortezza abbia dato al mio spirito per sostenere le diaboliche loro suggestioni, qual grazia ha dato al mio corpo per sostenere tanti e sì replicati supplizi.

Non posso fare a meno di bagnare questa carta di lacrime di tenerezza, per vedermi tanto beneficata da Dio, mentre io devo confessare che, per la mia ingratitudine merito di essere abbandonata da Dio ogni momento.

La mia vittoria si deve attribuire alla grazia grande che mi ha somministrato Dio, di questo grande favore, che mi ha comunicato il mio Dio, di darmi grazia così grande di vincere e superare questa grande battaglia infernale, sono restata tanto obbligata al Signore, che non passa giorno che non lo ringrazi con tutto l’affetto del mio povero spirito, umiliandomi profondamente, mi riconosco indegna di questo sì grande favore, io sento un vivo e ardente desiderio di corrispondere all’infinito suo amore, tanti sono stati gli aiuti, le grazie e i favori che il Signore mi compartì dopo questi nove giorni di patimenti, che non ho termini di spiegarlo. Per altri nove giorni fui sopraffatta da un sonno tanto forte, che per nove giorni continui mi dicono che dormii con tanto abbandono e prostrazione di forze che, per quanto facessero, non trovavano maniere di risvegliarmi.

In questo tempo il mio spirito godeva le più elevate estasi. Io mi trovavo continuamente in santa compagnia, o di sante vergini, ora di santi apostoli, ora di santi Angeli. Fui visitata dalla gran Madre di Dio, unitamente al suo santissimo sposo san Giuseppe. Questi santissimi personaggi mi consolarono, mi confortarono, e, per particolare favore mi diede la divina Madre a tenere il suo santissimo figliolo nelle povere mie braccia.

Oh, qual giubilo non provò il mio spirito! oh qual dolcezza! quante lacrime versai, nel vedermi tanto favorita, quale amore non mi dimostrò il divino Bambinello, quanti mai furono i miei ringraziamenti, nel vedermi tanto favorita, senza alcun mio merito. Tutto il mio corpo era ancora tanto malconcio per i replicati tormenti che avevo sofferto, che mi pareva di avere tutte le ossa infrante; mi pareva ogni momento di morire.

All’apparire di questa divina Signora tutto disparve il mio male, mentre la divina Signora era corteggiata da molte sante vergini e martiri ed altre sante matrone, che attorno a lei facevano corona. E perché risalti sempre più la gloria del mio amorosissimo Dio, e perché la povera anima mia resti sempre più umiliata e confusa, per i propri peccati e mostruose mie ingratitudini, lascio per un momento di manifestare i favori ricevuti e prendo di nuovo a manifestare i tormenti che soffrii.

45.2. La forza per sostenere una terribile battaglia


Il mio corpo, in particolare, fu tanto grande il tormento che soffrì negli occhi, cagionatomi da quel bitume e piombo bollente, che dall’alto mi versavano quei crudeli demoni, acciò per mezzo di questo spasimo avessi negato la fede di Gesù Cristo, che dal gran dolore divenni cieca. La bocca me la tormentavano con un ferro tagliente, che tutto il palato era lacero e nella bocca mi pendevano tutti pezzi di carne, in maniera che non la potevo aprire per niente.

Il dolore era veramente eccessivo, mi raccontano che, per lo spazio di cinque giorni, non volli mai aprire la bocca, perché non potevo. Con violenza mi davano qualche gelato e qualche ristoro con somma mia pena. Il collo me lo avevano tanto tormentato con altri martiri, che mi pareva alle volte che la testa mi si troncasse dal busto. Il viso me lo tormentavano con due pietre infuocate; mi arroventavano le guance, calcandomi con somma forza le suddette pietre infuocate.

Tutto il mio corpo era tormentato da fuoco infernale, e tutti questi supplizi, per l’infinita misericordia di Dio, non poterono vincere la fortezza che per pura bontà il mio Dio mi aveva comunicato. Forte ed intrepido se ne stava il mio spirito in mezzo a sì spietati patimenti, confessando sempre il nome di Gesù Cristo, protestavo di essere fino all’ultimo respiro della mia vita fedele seguace di Gesù Cristo crocifisso, protestandomi che, a costo di qualunque supplizio avesse potuto inventare l’inferno contro di me, sempre e poi sempre volevo confessare e professare la fede e legge di Gesù Cristo, ed essere sua vera seguace.

A queste continue e frequenti proteste si accresceva a dismisura la loro rabbia, e con diabolici tormenti viepiù contro di me incrudelivano, strapazzando il mio corpo con crudeli tormenti. Ero veramente ridotta in uno stato tanto deplorabile, che facevo compassione a tutti quelli che mi vedevano; mentre, benché io non accusassi a nessuno tutto quello che pativo, e da chi lo pativo, nonostante mi dicono che il mio corpo era tutto deformato, e benché si conosceva che molto pativo, mi dicono che si conosceva che pativo assai più di quello che appariva.

In mezzo a tutti questi gravissimi patimenti, che io non ho termini di spiegare, ma solo in quell’altra vita si vedrà, a gloria del medesimo Dio, qual forza abbia mai comunicato al povero mio spirito, per sostenere una sì forte e terribile battaglia contro l’inferno tutto, mentre tutti quei diabolici spiriti tutti tutti congiuravano contro di me, la loro rabbia era di vedermi tanto favorita da Dio onnipotente, che, ad onta dei loro tormenti, con costanza invitta sostenevo tutti i loro tormenti, e confessavo con santo ardire la fede del mio amantissimo Gesù, mostrando loro l’amore grande che verso questo buon Dio io racchiudevo nel mio seno, e mi protestavo con tutta la sincerità del mio cuore, che a costo di ogni gravissimo patimento volevo essere a lui fedele; ma la maggior mia pena era che io, in mezzo a tanti patimenti non solo sensibili, strapazzando il mio corpo, come già ho detto, ma il maggior mio patimento era nel resistere alle forti suggestioni di questi maligni spiriti, che, non potendomi vincere con tanti tormenti, volevano sovvertirmi con grandi promesse, offrendomi tutti gli onori, tutte le ricchezze che si possono godere sopra la terra.

Mi esortavano ad avere compassione di me stessa, dicevano che tanto strazio mi avrebbe cagionato la morte; con queste ed altre suggestioni infastidivano il mio spirito, perché cedessi alle loro voglie; ma il mio spirito, confortato dalla grazia di Dio, era assai più forte di un robusto leone, a fronte dei più deboli animali, mi ridevo di tutti i loro tormenti e di tutte le loro diaboliche suggestioni, rispondevo con santo ardire: «Come mi potete dare quello che non avete? E come volete che io creda al padre delle bugie e dell’infedeltà? Rinunzio a Satana e a tutte le sue diaboliche suggestioni e a tutte le sue promesse. Rinunzio al mondo e alla carne e a tutte le loro promesse e falsi piaceri. Protesto di mortificare il mio corpo con digiuni, veglie, vigilie e penitenze, con la debita licenza del mio confessore.

A queste mie forti proteste, unitamente ad una sincera e sicura speranza in Dio, che con tutta fede e carità chiamavo in mio aiuto l’infinita potenza del divin Padre, la sapienza del divin Figlio, la virtù del divin Spirito, li invocavo con tanto fervore e fiducia, che quei crudeli maligni spiriti fremevano dalla rabbia, si contorcevano e tremavano di spavento, e fuggivano pieni di confusione.

45.3. L’Eucaristia per mano angelica


Allora il mio pietosissimo Dio prendeva a confortarmi con farmi sperimentare i suoi distinti favori, chiamandomi con il dolce nome di sua figlia diletta, mi faceva penetrare la sua divina immensità, mi degnava dei castissimi suoi amplessi, dei più teneri abbracciamenti, sì che il mio patire si convertiva in un gaudio di paradiso.

Oh, qual contento provava il mio cuore! non è possibile poterlo spiegare, quali e quanto erano sublimi le intelligenze di spirito, che si degnava comunicarmi il divino Spirito, non sono veramente spiegabili, quale scienza mi veniva comunicata, a quale cognizione era elevata la mia mente dall’onnipotente ed eterno Dio, che la povera anima mia restava fuori di se stessa, tutta rapita in Dio, restava tanto innamorata dell’infinito suo essere, che per il grande affetto si struggeva il mio cuore in lacrime di amore, e per l’intima comunicazione restavo, per vari giorni, alienata dai sensi, in maniera che non sentivo, non vedevo, non parlavo, e il mio corpo era del tutto abbandonato come un corpo morto.

Tra i tanti favori che in questo tempo ricevetti dal mio amorosissimo Dio, fu di farmi partecipe del sacramento dell’Eucaristia per mano angelica. Tutti i giorni ricevevo il pane degli angeli, il divinissimo sacramento dell’altare, il mio Gesù sacramentato, in mezzo a tanti atroci patimenti, non solo sensibili, ma ancora spirituali dell’anima, soffrendo nel corpo, non meno erano afflitte le potenze della povera anima mia. Questa soggiacque ad una gravissima desolazione di spirito, nella immaginativa le si rappresentavano fatti tanto afflittivi, che il mio povero cuore gemeva e tutto si conturbava.

Quello che in questo tempo io ho sofferto di patimento nello spirito non mi è possibile manifestarlo, solo nel giorno del giudizio comparirà, alla maggior gloria dell’onnipotente Dio, perché mentre io, che della sua divina grazia ne sperimentai i buoni effetti, confesso, con tutta verità e con la bocca sulla polvere, che senza una grazia particolarissima di Dio non era mai e poi mai possibile ad una creatura tanto vile come sono io, che mi potesse riuscire di sostenere una sì spietata battaglia, in mezzo a sì forti patimenti dubitavo di arrendermi alle voglie dei miei spietati nemici.

Dubitavo di negare la fede di Gesù Cristo, mentre tutta la loro malizia, tutta la loro barbarie era rivolta contro di me, a questo fine, perché io negassi la fede di Gesù Cristo, sicché il mio povero cuore esclamava in mezzo alla desolazione, unitamente al mio caro Gesù nell’Orto: «Dio mio, se è possibile, trasferisci da me questo calice», ma il conforto che mi dava il mio Salvatore era che di nuovo mi fossi offerta a maggiori patimenti, per sostenere la santa Chiesa e tutto il cristianesimo.

«Ah, Gesù mio, non mi abbandonare in mezzo a sì spietata battaglia! Mi manca la lena di resistere, vien meno la mia misera umanità a tanto patire! Mio Dio amabilissimo, aiutatemi, non permettete che la vostra povera serva perisca in mezzo a tanti terribili patimenti di anima e di corpo! Aiuto vi chiedo, amorosissimo mio Dio, per resistere e per combattere con fedeltà fino alla fine. E nel vostro santo nome, con la vostra santa grazia possa trionfare di tutti i miei nemici. Mio Dio, io mi conosco indegna di questo aiuto, ma ve lo chiedo per la gloria vostra. Io mi sono offerta a patire spontaneamente, è vero, ma voi, Gesù mio, mi avete detto che mi offrissi insieme con i vostri meriti al vostro eterno divin Padre. Mi diceste che mi offrissi qual vittima di riconciliazione, per riparare il suo giustissimo furore, la sua inesorabile giustizia, giustamente sdegnata con gli uomini».

45.4. Dio riempiva di luce la povera anima mia


A questa preghiera, a questa mia esclamazione, il pietosissimo mio Dio si degnava di confortarmi con i suoi celesti favori, e tra le tante grazie, una di quelle che mi recava maggior conforto era che ad un tratto vedevo un bello splendore che tutta di luce riempiva la povera anima.

A questa vista si riempiva di gaudio il mio cuore, fissavo l’occhio della mente, e vedevo nel mezzo del bello splendore la sacrosanta particola. A questa vista mi balzava il cuore nel seno per il contento, e piena di santi affetti di umiltà, di riverenza, di adorazione, di desiderio ardente, bramavo di ricevere questo divino sacramento; ma prima che mi apparisse questa divina luce, io con ardente desiderio invitavo il mio amorosissimo Dio a venire a visitare la povera anima mia in questo divino sacramento, con tanta ansietà ed amore ardente invitavo il mio Dio a prendere possesso dell’anima mia, che tutta mi disfacevo in lacrime di amore e di gratitudine, riconoscendomi indegna di questo favore.

Offrivo i meriti infiniti di Gesù Cristo, con questi ed altri affetti ferventissimi invitando il mio Gesù, che sotto le specie sacramentali si degnasse venirmi a visitare: «Venite», dicevo, «venite, sacramentato mio Gesù, a visitare la povera anima mia peccatrice! Io vi credo realmente presente nel santissimo sacramento dell’altare, e per questa gran verità sono pronta a dare il sangue e la vita in mezzo ai più spietati tormenti. Venite, Gesù mio, a visitare la povera anima mia che ardentemente vi desidera».

Con queste e simili altre espressioni invitavo il mio Gesù sacramentato. A questi santi desideri, che mi venivano comunicati dalla grazia del Signore, quei mostri infernali, pieni di rabbia e di furore, prendevano a strapazzare il mio corpo con tanta rabbia, facendomi provare tormenti tanto fieri e crudeli, che mi pareva ogni momento di perdere la vita sotto sì spietati tormenti. Mi tormentavano le guance con due pietre infuocate, arroventate da un fuoco che io non ho termini di poterlo spiegare; queste me le calcavano con tanta rabbia sopra il viso che io credevo ogni volta di restare estinta, per il gran dolore, per il grande spasimo.

Tutto questo lo soffrivo da questi maligni spiriti, perché non volevano che io desiderassi ricevere il santissimo sacramento dell’eucaristia. Tanta era la loro rabbia, tanto era grande il loro sdegno che mi facevano provare i supplizi più crudeli; ma, per mezzo della grazia di Dio, invece di arrendermi a tanti e sì spietati tormenti, il mio povero spirito sempre diveniva gagliardo, e piena di coraggio, in mezzo agli stessi tormenti, confessavo la fede di Gesù Cristo, e desideravo ardentemente riceverlo nel santissimo sacramento dell’altare. Alle mie costanti proteste, agli ardenti miei desideri, quei barbari mostri viepiù incrudelivano contro di me. Quando ad un tratto quei maligni spiriti, pieni di confusione, lasciavano di tormentarmi, e si davano alla fuga, perché dal braccio onnipotente erano vergognosamente fugati e mandati alla malora dalla voce onnipotente di Dio, che dolce si faceva sentire dalla povera anima mia.

45.5. L’anima mia si trasformava tutta in Dio


Ai primi accenti di questa sovrana voce, il mio spirito donava la pace e la calma, e da un torrente di gaudio celeste era in un momento immerso il mio povero spirito. Oh potenza del mio Dio, e come in un momento cambi le scene più funeste in un gaudio di paradiso! Ecco in un momento il grave patire si cambiava in un immenso godere. Ero divenuta cieca per i tanti supplizi che avevo sofferto negli occhi; la mia bocca era tutta lacerata; il viso era un infrantume, per i replicati tormenti, tutto il mio corpo poteva dirsi un sacco d’ossa spolpate, tanti erano stati gli strapazzi, i diversi tormenti infernali che avevo sofferto, che non avevo più un osso sano, ero tanto precipitata e malconcia, che non è possibile poterlo descrivere.

45.6. Restai del tutto sanata


Per mezzo di un celeste favore restai del tutto sanata. Mi apparve la beatissima Vergine Maria, con uno stuolo di sante vergini e martiri. La santa Vergine mi si avvicinò al letto, dove io giacevo, semiviva per i gravi strapazzi che ho accennato di sopra, e chiamandomi questa divina Madre col dolce nome di figlia, mi benedì e poi comandò ad una santa vergine che era presso di lei, che mi avesse toccato gli occhi. Questa santa vergine, facendo una profonda riverenza avanti alla santissima Vergine, mi toccò gli occhi e mi ridiede la vista. La gran Madre di Dio così mi parlò: «Questa è la mia diletta Tecla, che ti ha restituito la vista. Abbi gran stima di questa, che ha saputo tanto bene imitare le mie virtù».

Con queste e simili parole la santissima Vergine mi dava a conoscere questa gran santa, che io non conoscevo, né mai in vita mia avevo mai conosciuto. Oh quanto mai mi rallegravo nel vedermi, senza alcun mio merito, tanto favorita da tante sante vergini e martiri, ma il mio maggior contento era di vedermi favorita dalla presenza della gran Madre di Dio, che, tutta amore, con la sua divina presenza mi consolava, e comandava a tutte quelle sacre vergini che si rallegrassero con me per la vittoria riportata. Poi comandò a santa Silvia di toccare il mio corpo, così malconcio e rovinato per tanti strapazzi sofferti da quei maligni spiriti infernali. E di fatti questa benedetta santa, fatto un profondo inchino alla beatissima Vergine, toccò il mio corpo e mi sanò del tutto.

Quanto grandi fossero i miei ringraziamenti, non mi è possibile poterlo manifestare, trovandomi in un momento sanata del tutto. I grandi ringraziamenti che feci alla beatissima Vergine. Offrivo a lei tutti i meriti di quelle gloriose vergini e martiri, che attorno a lei facevano corona. Quante lacrime di tenerezza, di gratitudine i miei occhi versarono! E annientata in me stessa, mi riconoscevo indegna di sì alto favore. La Vergine santissima in atto di gradimento, mi benedì, promettendomi la sua speciale assistenza in tutto il tempo della mia vita, e particolarmente nel punto della mia morte.

Dal giorno 2 di febbraio, festa della Purificazione di Maria santissima, che ricevetti il suddetto distinto favore, con la istantanea guarigione, come ancora terminarono quei diabolici spiriti di tormentarmi, sicché terminarono tutti i miei patimenti; e passai a godere un gaudio di paradiso.

46 – LA VISITA DI UN DIO AMANTE


46.1. Visitata dall’umanità di Cristo


Dal giorno 2 fino all’8 del suddetto mese di febbraio 1919, giorno che ricorreva la festa di san Giovanni de Matha, gran patriarca e fondatore dell’Ordine trinitario.

Dal giorno 2 fino al giorno 8 il mio spirito fu favorito dal Signore con meravigliosa estasi, che tenne per tutti questi giorni il mio spirito assorto in Dio e alienato affatto dai sensi, senza più capire cosa alcuna sensibile, ma come un corpo morto ero affatto incapace di ogni operazione.

Mi dicono che ero divenuta come una stupida, e i miei parenti, dubitando che non potessi sopravvivere, mi davano dei ristori di tempo in tempo a loro discrezione, perché mi dicono che io non ero capace di niente.

Quanti furono i favori, le grazie che il Signore si degnò in questo tempo comunicare alla povera anima mia, non è di mente umana poterlo immaginare. Io mi protesto che per quanto mai dicessi, niente direi di quanto godé il povero mio spirito in queste comunicazioni celesti. Più di una volta fui visitata dall’umanità santissima di Gesù Cristo. Qual gaudio recò, qual gioia, qual dolcezza di spirito, qual contento di paradiso recò al povero mio spirito la visita di un Dio amante di me, sua miserabile e povera creatura, quale umiliazione profondissima mi recava la sua amabilissima presenza, qual dolcezza di spirito nell’udire la sua dolcissima voce, qual gioia di paradiso mi recavano gli amabili suoi accenti, il povero mio cuore tutto si rallegrava per il contento, che mi fece dimenticare in quel dolce momento quanto avevo patito e sofferto.

46.2. Il Bambino Gesù tra le mie braccia


Più volte in questo tempo fui visitata dalla gran Madre di Dio, unitamente al suo sposo san Giuseppe, con il diletto figlioletto Gesù, che teneva nelle sue santissime braccia. Mi è di somma confusione il dirlo, ma pure lo dirò, alla maggior gloria di Dio, la beatissima Vergine si degnò darmi a tenere in braccio il suo santissimo Figliolo Gesù: «Prendi», mi disse la santissima Vergine, «prendi nelle tue braccia il frutto benedetto del mio ventre. Amalo, che è ben degno di essere amato».

A queste parole della beata Vergine il mio cuore restò incendiato di santo amor di Dio. Quali affetti di profonda umiliazione recò al mio spirito favore così grande, che, annientata nel proprio mio nulla, lodavo, benedicevo l’infinito amore di Dio, che mi degnava di favore sì grande, ringraziavo infinitamente la Vergine santissima, e, godendo un paradiso di contento, mi perdevo in mezzo a tanto immenso splendore, lodava la povera anima e incessantemente amava il suo amorosissimo Dio, che con tanta parzialità si degnava favorire la povera anima mia peccatrice.

Mi fermo qui, e non passo più avanti, perché il proseguire mi si rende impossibile, poter manifestare il tutto senza oscurare la gloria immensa del mio Dio, che bramo in tutti i momenti della mia vita glorificare a costo di ogni mia afflizione e pena. Mi conosco affatto insufficiente di manifestare i favori sì segnalati, che mi compartì Dio, dopo la suddetta sanguinosa battaglia. Non solo in quei suddetti giorni della mia infermità, ma proseguì per molto tempo a favorirmi per mezzo delle più distinte sue grazie, come in appresso dirò.

46.3. Pio VII permette di celebrare la messa nella mia cappella


Si era un poco ristabilito dalla grave malattia il mio padre spirituale, subito, per sua bontà, mi favorì di una sua visita, che fu da me sommamente gradita. Il lodato padre mi ottenne dal Santo Padre la licenza di celebrare nella mia cappella la santa Messa, con la licenza di potermi comunicare, e questo seguì il primo sabato di carnevale, il 13 febbraio 1819. Il Santo Padre, Padre Pio VII, mi concesse la grazia per sette Messe, da potersi celebrare nella mia cappella e fare tutte e sette le volte la santa Comunione, come di fatti si fece due volte la settimana. Con quale rispetto e riverenza, con quale affetto e amore ricevetti questo divino sacramento non è veramente spiegabile. Tutta la notte precedente la passavo con atti ferventi di amore e con ardente desiderio di ricevere il mio bene sacramento, con molte lacrime di dolore di averlo offeso, e con i più vivi atti di fede, di speranza, di carità. Molte grazie, molti favori ricevevo dal mio amorosissimo Signore nella santa Comunione. Ero tutta contenta, e ringraziavo infinitamente il Signore per la vittoria riportata contro i miei spietati, diabolici nemici.

Il giorno delle Ceneri, 24 febbraio 1819, nella mia cappella si celebrò la santa Messa, e io feci la santa Comunione. Ero fuori di modo contenta per vedermi tanto favorita e tanto beneficata dal mio Dio, che mi struggevo in lacrime di gratitudine e di tenerezza, confondendomi in me stessa non sapevo comprendere come Dio fosse tanto liberale verso di me, e mi compartisse tante sue misericordie.

A questa cognizione, mi umiliavo profondamente, riconoscendomi affatto indegna di simili favori. Fatta la santa Comunione, ricevetti ancora le sacre ceneri, essendo il primo giorno di Quaresima, ma siccome le consolazioni spirituali non sono mai disgiunte dalle tribolazioni, permise il Signore che una mia cara amica e sorella in Gesù Cristo mi desse un grandissimo disgusto. Questo mi servì da gran pena, motivo per cui mi venne la febbre con un dolore convulsivo allo stomaco, tanto cattivo che mi faceva spasimare giorno e notte.

46.4. Guarita per mezzo di san Francesco Saverio


Questo male durò vari giorni, ma per mezzo di san Francesco Saverio restai libera, facendo ricorso al santo, esposi la sua santa reliquia, le feci ardere quattro candele, e invocai con tutto il cuore il valevole suo patrocinio. Fui liberata da questo male per grazia di questo santo glorioso, mio particolare avvocato. Per mezzo della stessa amica, permise Dio che molto io patissi, mentre il suo disgusto ha portato a me ed alla mia famiglia delle funeste conseguenze, sì spirituali che temporali. Questo mi costò molte lacrime e molti sospiri, ma con le lacrime e i sospiri accompagnavo fervorose preghiere notte e giorno, altro non facevo che ricorrere a Dio, perché mi avesse dato tanta prudenza per potermi regolare in questa sì ardua tribolazione.

Il Signore, per sua infinita bontà, si degnò esaudirmi, sicché mi riuscì di portarmi con somma prudenza, procurai che tutte le cose si aggiustassero e niente seguisse di sinistro, né di inconveniente.

46.5. Nuovo permesso di celebrare nella mia cappella


Era già scorsa la seconda domenica di Quaresima, quando erano terminate le facoltà di celebrare le sette Messe nella mia cappella, e ancora non ero abile a sortire di casa, per la grandissima debolezza che mi aveva cagionato il surriferito male di stomaco. Si tornò a pregare il Santo Padre che volesse concedermi la grazia di farmi celebrare per altre sei volte la santa Messa e per ancora fare tutte e sette le volte la santa Comunione.

Il Santo Padre, per sua bontà, mi accordò la licenza; questa licenza mi servì di somma consolazione, benché soffrivo molti incomodi di salute e mi vedevo così debole che più o meno dovevo guardare il letto, ciò nonostante ero così rassegnata alla divina volontà, che sarei stata contenta di passare tutta la mia vita così infermiccia, tanto era grande il contento di vedere che per amor mio si degnava Dio, per sua infinita bontà, scendere dal cielo in terra e venire a visitare la povera anima mia, per mezzo della santa Comunione. Ero veramente il più delle volte fuori di me stessa, al grande riflesso che Dio si degnava, per mezzo delle parole della consacrazione, scendere dal cielo e venire nella mia cappella, per essere da me ricevuto nella santissima Eucaristia.

Questo pensiero mi teneva tutta occupata la mente, che me la passavo notte e giorno in continue orazioni, e, piena di ammirazione per questo gran favore che mi compartiva il mio amorosissimo Dio, mi dedicavo tutta al suo divino beneplacito, quante lacrime versavo di amore, di gratitudine, di dolore per averlo offeso; mi offrivo di patire ogni qualunque pena, in soddisfazione dei miei gravi peccati, e per soddisfare, per compiacere la bella volontà di Dio.

Tanto era grande il desiderio di ricevere Gesù Cristo, che non era terminata la terza settimana di Quaresima che mi ero goduta le sei licenze delle sei Messe. Mi raccomandai caldamente al Signore che, se gli piaceva di tenermi così infermiccia senza poter sortire, io ero contenta, ma lo pregai incessantemente che non mi privasse del contento grande che era di riceverlo frequentemente nella santa Comunione. Ma era finita ogni mia speranza, mentre mi mancava il coraggio di supplicare nuovamente il Papa ad accordarmi altre licenze di celebrare nella mia cappella delle altre Messe, perché mi pareva di abusare troppo della bontà del Santo Padre.

Ero dunque molto afflitta per questo, conoscendo benissimo che molto tempo ci sarebbe voluto prima di potere sortire da casa, ma quello che pareva a me tanto difficile, non fu difficile all’amoroso mio Dio. La vigilia di san Giuseppe fu una persona a visitarmi, alla quale raccontai la mia grande afflizione, questa persona mi rispose che mi fossi raccomandata al Signore, come già facevo, che sperava ottenermi dal Santo Padre la grazia di farmi celebrare qualche altra Messa nella mia cappella; sicché questa persona ne fece subito parlare al Papa, e il Santo Padre mi accordò la licenza che, durante i miei incomodi, si potessero celebrare nella mia cappella tre Messe la settimana.

Questa grazia mi fu concessa dal Santo Padre la vigilia di san Giuseppe, il giorno 18 marzo 1819. Quanto grande fosse il mio contento per questa grazia non mi è possibile poterlo manifestare. Quanto grandi furono i miei ringraziamenti, che tutti i giorni porgevo all’Altissimo, per aver ricevuto la suddetta grazia!

46.6. Grandi strapazzi dei maligni spiriti


Dal 19 marzo fino all’11 di giugno del suddetto anno 1819 fui impossibilitata di potere sortire di casa, atteso il surriferito male che mi aveva tanto debilitato e tanto privato di forze, che non potevo camminare, tanto era stato lo strazio interno ed esterno, cagionatomi dai grandissimi strapazzi di quei maligni spiriti, che mi avevano tanto battuta e flagellata e martirizzata in tutti i sentimenti del corpo, che il sopravvivere che io faccio si deve ripetere a un puro miracolo dell’infinita onnipotenza di Dio, mentre tutte le mie ossa erano infrante dalle grandi percosse e battiture, avevo perduto la vista, ero divenuta cieca per i grandissimi tormenti che quei crudeli ministri di Satana mi davano a patire negli occhi, questo era piombo bollente unito con pece ed altro bitume infernale, e, versandolo di tratto in tratto nei miei occhi, mi facevano provare un tormento così grande, un dolore tanto eccessivo che non posso paragonarlo a nessun dolore. Dal grandissimo dolore mi pareva che mi si staccasse l’anima dal corpo.

Non meno di questo erano dolorose e crudeli le due pietre infuocate che mi comprimevano sopra le guance, con tanta crudeltà, quando desideravo ricevere il santissimo sacramento dell’altare, la santa Comunione. Questi spiriti infernali tanto si adiravano contro di me, che mi davano a patire tanti tormenti, perché non volevano che io mi comunicassi spiritualmente.

Prima di farmi patire questi tormenti, mi mostravano gli strumenti crudeli con cui mi volevano tormentare, e procuravano di persuadermi, perché avessi rinunziato la fede di Gesù Cristo. Mi persuadevano di rinunziare, di bestemmiare questo divinissimo sacramento, minacciandomi tutte le sorte di tormenti; ma la povera anima mia, senza acconsentire alle loro voglie, confortata dalla grazia del Signore, con santo ardire rispondeva: «Voglio essere fedele al mio Dio fino all’ultimo respiro della mia vita. Rinunzio a Satana e a tutte le sue insidie, rinunzio al mondo, al demonio e alla carne, e mi professo avanti al cielo e alla terra di essere vera seguace di Gesù crocifisso, di osservare la sua santa legge con fedeltà, fino all’ultimo respiro della mia vita. Mi protesto ancora di adempire perfettamente la sua santissima volontà, e mi compiaccio di patire ogni qualunque gravissima pena per adempire, per compiacere l’amabilissima volontà del mio amorosissimo Dio».

A questa mia protesta, questi maligni spiriti incrudelivano contro di me con tanta rabbia, che facevano prova, a forza di patimenti, di farmi rinunziare la fede di Gesù Cristo. Quando ero così tormentata e soffrivo dolori tanto eccessivi, mi dicevano quei maligni spiriti: «Arrenditi, arrenditi, stolta che sei, alle nostre voglie. Abbi compassione di te stessa. Vedi che noi ti faremo finire la vita per mezzo di tormenti. Arrenditi pure una volta, che noi finiremo di tormentarti».

46.7. Con l’Eucaristia riportai la vittoria


Mio Dio, quanto vi devo ringraziare! La vittoria non io, ma voi, mio Dio, la riportaste per me, vostra fu la grazia, vostro fu il trionfo, vostra sarà la gloria per tutta l’interminabile eternità. A voi, mio Dio, si deve la vittoria da me riportata contro i miei spietati nemici, posso dire mediante il vostro divino aiuto e la vostra santa grazia di aver trionfato e di aver confuso l’inferno tutto, mentre l’infernale malizia restò vinta dalla fortezza che voi, mio amorosissimo Dio, vi degnaste comunicare alla povera anima mia, per sostenere la fiera e cruda battaglia che mi aveva mosso l’inferno tutto. Ma voi, pietosissimo mio sommo amore, per darmi coraggio nella pugna, perché io restassi vincitora dei miei spietati nemici, mi facevate vedere come la vostra infinita potenza mi sosteneva e difendeva e mi dava tanta fortezza per sostenere i diabolici tormenti, confessando nel mezzo di essi la fede di Gesù mio crocifisso e insultando quei barbari a più tormentarmi, mi fidavo nel braccio onnipotente che mi sosteneva.

A questa fortezza così eroica, che mi comunicava il mio Dio, mancava a quei barbari la loro crudeltà, e pieni di rabbia e di confusione si mettevano in fuga.

Il mio Dio, per ristorarmi, mi dava a godere tanto bene, facendomi godere i suoi divini splendori, mi dava a vedere la sacrosanta ostia circondata da luminosi splendori, e per mano di Angeli ricevevo la sacra particola.

Quali effetti producesse in me questo pane di vita eterna non è veramente possibile poterlo spiegare. Mi ristorava, mi confortava, mi fortificava, mi sanava, mi faceva dimenticare quanto avevo patito nel sostenere la cruda battaglia, mi dava vigore per soffrire quanto bisognava per adempire la volontà dell’eterno divin Padre, e per soddisfare alla sua divina giustizia, mentre volontariamente mi ero offerta a patire per sostenere la santa Chiesa cattolica e tutti i poveri peccatori.

Ogni giorno ricevevo questo pane celeste, questo pane di vita eterna, quando Gesù Cristo m’invitò ad offrirmi al suo divin Padre, per placare il suo giustissimo sdegno, unitamente ai suoi infiniti meriti, mi diede chiara cognizione di quanto avevo da patire, e come avevo da patire e da chi avevo da patire; mi fece conoscere ancora che il mio patire aveva da essere puro e nudo patire, senza alcun conforto, ma abbandonata da tutti non avrei neppure l’aiuto del mio confessore. A vista di questo quadro sì lacrimevole e mesto, la povera anima mia inorridì, e piena di affanno e di timore caddi in un mortale deliquio.

47 – L’EUCARISTIA È IL CENTRO DELLA MIA VITA


47.1. Un gaudio di paradiso


Dal 18 marzo 1819 fino al 21 giugno del medesimo anno godei di questo bene di celebrare la santa Messa in casa, nella mia cappella, tre volte la settimana, facendo la santa Comunione tutte e tre le volte, mi comunicavo con tanto fervore di spirito e con tanta devozione che tutto il giorno me la passavo in cappella in orazione. I giorni precedenti alla santa Comunione mi trattenevo in cappella per prepararmi a ricevere questo divino sacramento. I giorni che ricevevo questo divino sacramento mi trattenevo in cappella per il rendimento di grazie; sicché tutta la settimana la passavo in lunga ed assidua orazione.

Molte furono le grazie che in questo tempo mi compartì il Signore, per sua infinita bontà; ma per aver trascurato lo scrivere, molte ne passeranno sotto silenzio, non avendo di queste alcuna memoria scritta nel mio stracciafoglio, ossia giornale.

In questi quattro mesi di marzo, aprile, maggio e giugno, che si celebrò la Messa nella mia cappella, come si è detto di sopra, molti furono i favori che mi compartì il mio Dio, con l’accordarmi, per mezzo dei miei poveri suffragi, di liberare molte anime dal purgatorio. Tre volte la settimana si celebrava la santa Messa, e tutte e tre le volte mi comunicavo.

Nella santa Comunione ero favorita dal Signore in speciali maniere: ora mi si dava a vedere Gesù Cristo sotto la forma di amoroso pastorello, che tutto amore accarezzava la povera anima mia, che sotto la forma di pecorella la vedevo vicino al suo amato pastore, tutta pura, tutta bella, nel seno amoroso del suo celeste pastore, la vedevo riposare e accarezzandola la stringeva tra le sue santissime braccia, stampando sopra la fronte della sua amata pecorella molti baci, la faceva nel suo castissimo seno riposare. Frattanto che il mio spirito in questa guisa era favorito dall’infinita bontà di Dio, era sollevata la mia mente da pensieri sovrumani, nell’ampiezza dei cieli apprendevo le divine scienze, le alte cognizioni di Dio e della sua infinita immensità.

A quella estasi prodigiosa ascendeva la povera anima mia, quali e quante intelligenze di spirito le venivano comunicate dal divino Spirito! Oh quante lacrime versavano i miei occhi di amore, di tenerezza, di gratitudine, riconoscendomi indegna di questi celesti favori, mi umiliavo profondamente e ringraziavo incessantemente l’infinita bontà del mio Dio, godendo nel mio cuore un gaudio di paradiso.

Tanto erano grandi le cognizioni che Dio mi dava nella santa Comunione, della sua infinita potenza, sapienza e bontà, che passavo l’intere settimane in un certo sopimento di spirito, che mi rendeva affatto il corpo privo di forze, di maniera che dovevo per molti giorni guardare il letto, e, a seconda delle frequenti comunicazioni, soffrivo ancora dei mortali deliqui.

Tanto forte mi si comunicava Dio all’anima, che il corpo restava incadaverito e per vari giorni privo di forze, godendo nell’intimo un bene straordinario, che mi faceva desiderare la mortificazione e la penitenza. Appena mi reggevano le forze, che incessantemente pregavo il mio padre spirituale a darmi la licenza di usare le penitenze che ero solita usare prima di questa malattia; ma la carità di questo mio padre spirituale non mi contentava, ma mi negava la licenza di poter usare ogni sorta di penitenze.

Io mi raccomandavo al Signore e gli dicevo: «Mio Dio, se è vostra ispirazione questo desiderio che io sento in me di mortificare il mio corpo, per vostra gloria e in sconto dei miei gravi peccati, voi, mio amoroso Signore, date lume al mio direttore, perché mi accordi la licenza; ma se non è vostra volontà, allontanate da me questo desiderio».

Ma il desiderio si faceva maggiore, perché ogni giorno più il mio spirito era illuminato per mezzo della grazia e degli speciali favori, che il mio Dio si degnava comunicarmi, per mezzo dei quali riconoscevo l’infinita bontà di Dio e la grande mia ingratitudine. Giusto mi pareva di far penitenza dei miei peccati, per così dare una qualche soddisfazione all’amore tradito, a un Dio offeso.

47.2. Ancora penitenze


Sicché tanto pregai, finché mi venne dal mio direttore accordato per la novena della santissima Trinità, che fu il dì 18 maggio 1819, ripresi ad esercitarmi nella penitenza, dormendo, come per il tempo passato, in terra col solo strapuntino, dormendo vestita, mangiando ogni ventiquattr’ore cibi di magro, non usando cibi di carne di sorta alcuna; ma in vari tempi faccio uso di latticini, la disciplina quotidiana, la catenella dalla mattina alla sera, cinque e sei ore di orazione al giorno, ma il più delle volte passo tutta la giornata in orazione.

Questo è il metodo che ho sempre tenuto, e che sono tornata a riprendere dopo la suddetta infermità. Tutto questo che ho detto, e che dirò, non ad altro fine lo dico che per obbedire a vostra paternità reverendissima, che mi comanda di dargli un rendimento di conto di tutte le mie operazioni, tanto esterne che interne, e di quanto passa nel mio spirito, nel tempo dell’orazione o in altro tempo, sicché mi protesto di scrivere per obbedienza, per rendere onore e gloria al mio buon Dio, che nelle orazioni più volte mi ha comandato di scrivere.

47.3. La presenza di Dio è la mia delizia


Molti furono i favori che Dio si degnò di compartirmi, dopo la suddetta infermità, che furono i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno, che per speciale grazia accordatami dal Santo Padre, papa Pio VII, attesi i miei incomodi di salute, di poter celebrare nella mia cappella tre volte la settimana la santa Messa.

Questo fu l’anno 1819. In questo tempo che non potevo sortire di casa, me la passavo quasi tutti i giorni in solitudine, mi trattenevo dalla mattina alla sera in cappella in orazione. L’assidua orazione non mi tediava, ma mi ricreava l’anima e il corpo. Continua era la presenza di Dio, e tanto speciale la cognizione e la chiara vista che sempre godevo del mio Dio, che mi teneva occupata la mente e il cuore, godendo nel mio spirito un paradiso di contento.

Nella santa Comunione, che facevo tre volte la settimana nella mia cappella, perché non potevo sortire di casa per i miei incomodi di salute, ero favorita dal Signore con distinti favori, ratificandomi le promesse già fatte nel tempo passato, che sarei vittoriosa dei miei nemici: mondo, demonio e carne, e che la sua santa grazia mi avrebbe assistita fino all’ultimo respiro della mia vita, promettendomi il mio Dio, per sua infinita bontà, il suo divino aiuto in tutti i momenti della mia vita, come in effetti ne ho provato e tuttora ne provo i buoni effetti della sua santa grazia: una quiete di spirito, un raccoglimento interno, che mi tiene assidua alla presenza di Dio, dove trovo tutta la mia delizia.

47.4. Il mio paradiso in terra: la solitudine


Questo lume interno della presenza di Dio, mi fa bramare la solitudine, mi fa fuggire ogni sorta di conversazione, benché innocenti, benché sante. La solitudine per me è il mio paradiso in terra, dove trovo ogni delizia, ogni bene. Sì, trovo nella solitudine non solo ogni bene, ma trovo l’autore di ogni bene, trovo il mio Dio, che si trattiene con me all’amichevole, trattandomi con santa confidenza, come si tratta un’amica, come si tratta una sorella, come un padre amante tratta l’amata sua figlia, come un amante sposo ama l’amata sua sposa; in questi termini si degna Dio trattare la povera anima mia nella santa orazione e in altri tempi, che mi occupo negli affari domestici della mia propria casa, varie volte mi è accaduto che, in mezzo alle faccende, il mio Dio mi ha rapito lo spirito e il mio corpo se n’è restato come uno stupido, senza poter più agire, ma tutto attratto si vedeva il mio corpo, perdendo ogni sensazione, restavo per qualche tempo alienata dai sensi, priva affatto di ogni idea sensibile.

Ma in questo tempo, che il mio corpo era così alienato dai sensi, cosa mai godeva la povera anima mia di bene spirituale non è veramente spiegabile. Io godevo un paradiso di contenti, per essere in queste occasioni tanto favorita dal mio amorosissimo Dio, ora facendomi penetrare i cieli, dandomi cognizioni molto alte della sua immensità, ora facendomi gustare un bene spirituale tanto grande che assorbiva tutto il mio spirito e inondava il mio cuore di dolcezza di paradiso, che mi faceva gridare: «Basta, non più, mio Dio, io non vi posso più contenere! Basta, mio Dio, non più reggo a tanta dolcezza, a tanta soavità vien meno il povero mio spirito, tanto bene non lo posso più contenere. Mio Dio, voi siete un bene incomprensibile, siete un bene inarrabile, siete un bene sopra ogni bene! In voi solo, mio Dio, trovo ogni mio contento, ogni mia soddisfazione, ogni mia fatica! In voi solo confido, in voi solo spero, mio Dio, mio amore, mio tesoro, mio sommo bene, mio tutto, quando sarà che vi possederò per tutta l’interminabile eternità?».

Con questi e simili altre esclamazioni sfogavo gli affetti del povero mio cuore, ferito dal dardo della divina carità, che mi faceva ardere giorno e notte di santo amore. Questo incendio di carità mi faceva struggere e consumare, ora piangendo amaramente e con dirotto pianto e con abbonanti lacrime le offese fatte al mio Dio, ora temendo di perderlo, si struggeva il mio cuore in lacrime di amore, di timore, di dolore; pensavo così: «Fino che avrò vita, sempre sarò in pericolo di perdere il mio Dio, il mio sommo bene; che vita infelice è questa mai!». «Mio Dio», tornavo a ripetere, «mio Dio, mio sommo amore, dunque ti posso perdere durante la mia vita! Mio Dio, levatemi la vita, che sono contenta di perderla mille volte in mezzo ai più spietati tormenti, per il solo timore di perdere voi, bontà infinita!».

47.5. Per la santa Chiesa e la conversione dei peccatori


Questi continui sentimenti erano accompagnati da una dirotta pioggia di lacrime, che dagli occhi miei si versavano giorno e notte. Ah, aver goduto tanto bene! ah, aver avuto molto lume di Dio per conoscere le sue infinite perfezioni; in questa occasione della mia grave infermità, cagionatami per mezzo di tanti patimenti, che volontariamente mi ero offerta di patire per amore del mio Dio e per sostenere la santa Chiesa cattolica e per la conversione dei peccatori, l’aver, in mezzo a tante pene, gustato un bene infinito, che era il mio Dio, che mi si comunicava all’anima con tanta chiarezza, con tanta dolcezza, con tanta soavità, che mi pareva veramente di godere un paradiso di contento, di gaudio, di santo amore, che tutto tutto m’incendiava il cuore di viva fiamma di carità, e in mezzo a questo divino ardore, prendevo maggior lena di sempre più patire per amore del mio Dio, che così voleva che patissi, per il bene della santa Chiesa e per la conversione dei poveri peccatori.

Mi fece il mio Dio vedere quante anime traviate voleva ricondurre nel giusto sentiero dei suoi santi comandamenti e della sua divina legge; per mio mezzo voleva fare quest’opera tanto gloriosa. A questa cognizione, a questa vista sì mirabile del braccio onnipotente di Dio, che tutto può per mezzo della sua immensità, si umiliò profondamente il povero mio spirito, e riconoscendomi affatto indegna, affatto incapace di questa opera sì santa, sì gloriosa, qual è di condurre all’amoroso seno di Dio le anime traviate, e fare di queste anime preziosi giardini per deliziare il sovrano re del cielo e della terra, si confondeva profondamente la povera anima mia e ricusava di accettare l’invito, ricusava di accettare l’impresa gloriosa; diceva: «Mio Dio, volgete il vostro sguardo verso tante vostre fedeli spose, che vi amano con tanto amore, queste sono buone per una simile impresa, io sono la creatura più vile che abita la terra, io altro non faccio che disonorare il vostro divino onore, che oscurare la vostra gloria. Allontanatevi da me, mio Dio, che sono una vile creatura, la più peccatrice, la più indegna».

Macché, a queste parole di eterna verità, il mio Dio più impegnato, più innamorato di me si dimostrava e con dolci parole così prese a parlare: «Ah, figlia», mi disse, «allontana da te il soverchio timore! Acconsenti pur di buona voglia ai miei desideri. Io ti darò la grazia, io ti darò l’aiuto, il mio braccio forte ti sosterrà. Opera pure per la mia gloria, per il mio onore. Impiegati in vantaggio dei tuoi prossimi, e vedrai cosa saprà fare il mio amore per beneficarti. Io sarò sempre con te, e se io sono con te, chi sarà contro di te? chi ti potrà nuocere? chi ti potrà sovrastare? E per renderti certa che sempre mi possederai, ecco che nel tuo cure, per mezzo del mio divino amore, faccio in te una singolare impressione di me».

A queste divine parole cosa mai di prodigioso seguisse in me, io non so manifestare. Fui sopraffatta da un bene divino che sollevò il mio spirito nell’altezza dei cieli, dove fui sopraffatta da particolare intelligenza di spirito e da sovraumane cognizioni, che mi facevano in qualche maniera conoscere il mio Dio, per quel Dio che egli è: immenso, incomprensibile, infinito. A cognizione così grande la povera anima era sopraffatta dalla meraviglia, dallo stupore. Una viva fiamma di carità m’incendiava il cuore, e intimamente mi univa al mio Dio, che mi perdevo affatto nella sua immensità.

47.6. L’abito di terziaria dei trinitari scalzi


Il dì 30 maggio 1819, festività della Pentecoste, dopo la santa Comunione, che feci nella mia cappella, si raccolse intimamente il povero mio spirito, e si tratteneva con il dolce suo bene, con il suo sovrano Signore, e senza strepito di parole, ma in sommo silenzio, se ne stava avanti al suo Dio, umiliandosi profondamente, e, riconoscendosi indegna di ogni bene, si profondava nel proprio suo nulla e adorava l’ospite suo sovrano; il divino Signore mi faceva intendere che avessi richiesto l’abito di terziaria dell’Ordine dei padri trinitari scalzi. A questa interna illustrazione io veramente mi opposi, pensando che mai mi si sarebbe accordato una tale licenza dal mio padre spirituale, sicché non mi potevo risolvere a dirgli quanto era seguito nel mio spirito il giorno della Pentecoste, che davo in un dirotto pianto al solo pensarlo; ogni giorno più sentivo nel mio cuore vivamente questa ispirazione, che mi obbligava a parlare al mio padre spirituale e fare la suddetta richiesta, ma mi pareva veramente che mi mancasse il coraggio di fare una simile domanda, riconoscendomi affatto indegna di tanto onore.

Volevo ritenere racchiuso questo sentimento nel profondo del mio cuore, e l’avevo quasi deliberato, quando da forza superiore fui obbligata a manifestarlo, sicché il giorno della Santissima Trinità, il dì 6 giugno 1819 del medesimo anno, dopo la santa Comunione, che feci nella mia cappella con molta devozione e grande raccoglimento, e con profonda umiltà e profluvio di lacrime fui nuovamente obbligata dal Signore a manifestare al mio padre spirituale, che aveva celebrato la santa Messa nella mia cappella, il suddetto sentimento, cioè chiedere il santo abito di trinitaria scalza, di essere per carità ammessa nel numero delle terziarie di detto Ordine e di vestire il santo abito, con tutte le debite licenze del Padre Generale dell’Ordine Trinitario.

Manifestai dunque questo sentimento al mio padre spirituale con dirotto pianto, che non potevo contenere, con umile e rispettosa preghiera feci la richiesta, esposi i miei desideri, manifestandogli quanto era accaduto nel mio interno. Il lodato padre, vedendomi tutta immersa nel pianto e che le mie parole erano soffocate dalle lacrime e dai sospiri, mi fece coraggio, e mi disse che mi fossi raccomandata al Signore, che avrebbe scritto al Padre Generale, e se fosse volontà di Dio, sicuramente avrei ottenuto la grazia.


48 – QUATTRO MESI AD ALBANO


Quando otterrò la suddetta grazia, sempre che piaccia al Signore, e che mi venga accordato dal mio padre spirituale e dal Padre Generale, ne riporterò al suo luogo la notizia. Intanto, per non perdere il filo dell’accaduto, dirò che una persona di molta carità e molto pia vedendomi, dopo la surriferita infermità, che poco mi ristabilivo nelle forze, ma che erano scorsi cinque mesi dopo la suddetta malattia, e io non ero mai sortita di casa, perché mi mancavano le forze, questo pio galantuomo, mio grande benefattore, mi esibì a sue spese di farmi cambiare un poco di aria, di andare in Albano.

Fu da tutti i miei parenti, amici e padre spirituale approvata e molto gradita la caritatevole esibizione, che con l’approvazione di tutti si eseguì; sicché il dì 21 giugno, festa di san Luigi Gonzaga, partii da Roma e unitamente alle mie due figlie ci portammo in Albano, alla foresteria delle monache di Gesù e Maria, e ci trattenemmo per lo spazio di mesi quattro e giorni 18: cioè dal 21 giugno 1819 fino all’8 di novembre, giorno dell’ottava di tutti i santi.

48.1. Molte guarigioni ad Albano


Come al Signore piacque tornai in Roma sana e salva, unitamente alle mie due figlie. In succinto dirò quale fosse il mio regolamento, che tenni tutto il tempo che stetti in Albano.

La mattina mi levavo circa alle ore nove italiane, mi trattenevo circa due ore in orazione, poi mi portavo alla chiesa delle suddette monache ad ascoltare la santa Messa e fare la santa Comunione. Mi trattenevo in chiesa altre buone due ore, poi tornavo alla foresteria, mi chiudevo nella mia camera e mi trattenevo a scrivere o in orazione fino al mezzogiorno. Mangiavo ogni ventiquattr’ore. Il mio cibo era di latticini e consisteva in una minestra e due uova. La novena dell’Assunzione di Maria Santissima la feci tutta di magro, come ancora la novena di Gesù Nazareno. La quotidiana disciplina, l’uso della catenella dalla mattina alla sera, non mi presi in tutto questo tempo alcun divertimento, la solitudine della mia camera era tutto il mio spasso, tutto il mio divertimento, la mortificazione, il raccoglimento era il mio contento, trovando in questo sempre la dolce e amabile compagnia del mio amorosissimo Dio, trovandosi il mio povero spirito sempre alla divina presenza del suo sovrano Signore.

Questo gran bene che godevo nella solitudine mi faceva disprezzare ogni divertimento terreno, in maniera che niente curavo, niente desideravo, fuorché la solitudine, in maniera che, dopo di essermi trattenuta per lo spazio di quattro mesi e giorni diciotto, come già dissi, posso dire di non aver veduto Albano.

Con l’aiuto del Signore, molto fu il bene che feci ai poveri infermi, per mezzo di un certo cerotto e unguento di scottato che portai presso di me, andando ad Albano. Guarii più di dodici persone che in questo tempo si scottarono di scottature veramente irrimediabili, che dovevano, per bene andargli, restare storpi, e con l’aiuto del Signore sono restati sani e liberi, mediante la prodigiosa acqua di Gesù Nazareno, che mescolavo nei suddetti rimedi. Più di sessanta persone sono guarite di cattivi tumori, cagionati dall’aria cattiva, molte, con piaghe incurabili e affatto cancherenate, sono restate guarite perfettamente.

48.2. Il restauro della chiesa di san Pietro


Non voglio trascurare di raccontare un fatto, seguitomi in questa città di Albano, per così far sempre più risaltare la gloria del medesimo Dio.

La vigilia della gloriosa Assunzione di Maria santissima al cielo, io mi trattenevo in orazione nella chiesa di san Pietro, che resta poco distante dalla foresteria delle monache, dove io abitavo. Feci in questa chiesa la novena. Il nono giorno fui sopraffatta da maggior raccoglimento, quando ad un tratto fu sopito il mio spirito da una profonda estasi che mi privò affatto dei sensi. Mi apparve in questo tempo il glorioso apostolo san Pietro, che mi comandava d’impegnarmi per il risarcimento di questa sua chiesa, che non più chiesa, ma fienile poteva chiamarsi. Mi disse ancora che avrei fatto cosa molto cara al Signore Dio di far risarcire la suddetta chiesa, e che avessi avuto a cuore la gloria di Dio e il suo culto.

Io mi rivolsi al santo apostolo con sommo rispetto e con somma umiltà: «E come volete, o santo glorioso, che io mi impegni di fare questa opera? Da chi devo andare? Io non conosco nessuno che possa fare quanto voi mi comandate». Piena di smarrimento tornavo a ripetere: «Mi si rende impossibile poter eseguire quanto mi comandate. Dispensatemi, per carità!».

E dando in un dirotto pianto, mi conoscevo affatto inabile a fare questa opera; ma il santo apostolo mi confortò e animò, assicurandomi che appena avessi accennato questo sentimento di restaurare la suddetta chiesa, subito avrei trovato persona che si sarebbe esibita di sborsare il denaro che occorreva per risarcire la suddetta chiesa. E difatti così seguì. Io dunque presi coraggio, e m’impegnai a questa grande opera, per la gloria di Dio e per onorare e obbedire il glorioso san Pietro, che me lo aveva comandato.

Questa opera fu molto applaudita ed insieme gradita da tutti gli Albanesi, mentre con loro somma pena si vedevano obbligati dalla sacra visita a sospendere, di demolire la suddetta chiesa, per non essere più decente luogo di fare le sacre funzioni, perché del tutto era diroccata e quasi rovinata. Aveva dunque la sacra visita determinato di sospenderla.

Dio si compiacque, per mio mezzo fare questo bene: che questa chiesa non fosse demolita, ma invece risarcita, come fu fatto. Una persona molto pia, sentendo i miei desideri di risarcire la suddetta chiesa, mi somministrò subito il denaro, come il santo apostolo mi aveva promesso. Mandai subito a chiamare monsignor vicario ed un canonico, gli comunicai i miei sentimenti e li pregai a darmi mano a fare quest’opera.

I suddetti, pieni di contento, esultavano nel Signore, ammirando l’infinita provvidenza di Dio, come per un mezzo tanto debole, come sono io, Dio volesse fare questa grande opera. Con tutta premura e sollecitudine furono chiamati gli artisti, e si mise mano all’opera con somma consolazione di tutti, segnatamente delle donne albanesi, per essere una chiesa di loro molta devozione e molto comoda, e per conseguenza molto frequentata, di maniera che non si poté neppure chiuderla quando si riattava; benché ci lavoravano gli artisti, in una cappella facevano le loro solite novene, concorrendo secondo il solito a folla il popolo al solo tocco della campana di detta chiesa di san Pietro. L’opera si compì il dì 6 novembre 1819, come risulta dalle ricevute dei medesimi artisti, che sono presso di me.

Per non mancare all’obbedienza, in succinto dirò diverse grazie che in questo tempo ottenni dal Signore, cioè dal giorno 8 novembre 1819 fino al 24 gennaio 1820.

49 – LICENZA DI VESTIRE L’ABITO TRINITARIO


49.1. La consolante notizia


Nei passati fogli dissi che quando fosse venuta la risposta dalla Spagna del Padre Generale dei padri trinitari scalzi, avendogli il mio padre spirituale scritto e notificato la mia volontà di vestire il santo abito trinitario di terziaria scalza dell’Ordine trinitario, per averne avuto un interno comando dal Signore, nel giorno della Pentecoste, nella mia cappella dopo la santa Comunione, il Padre Generale, sentendo i miei desideri, scrisse al mio padre spirituale che gli dava tutte le facoltà e le opportune licenze di vestirmi del santo abito. Il giorno del 5 dicembre 1819 il mio padre spirituale mi dette questa consolante nuova, che il Padre Generale mi aveva mandato la licenza di vestire il santo abito trinitario.

Non posso esprimere quale consolazione provasse il mio spirito a questa consolante nuova. Dissi al mio padre spirituale: «Facciamo orazioni, acciò il Signore si degni farci conoscere il tempo preciso, che io debba vestire questo santo abito di terziaria. Preghiamolo ancora che ci dia a conoscere la maniera come dobbiamo regolarci, perché tutto sia secondo la santissima volontà di Dio».

Dopo varie orazioni fu dal mio padre spirituale determinato di aspettare un poco di tempo, prima di vestire il suddetto santo abito trinitario. Quando questa vestizione seguirà, sarà riportato al suo luogo in questi fogli.