Scrutatio

Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

PARTE SECONDA (4)

Beata Elisabetta Canori Mora

PARTE SECONDA (4)
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31 – NEL TABERNACOLO DEL SOMMO RE


31.1. Il dono della scienza


Il dì 3 novembre 1815 nella santa Comunione ricevetti grazia molto particolare. Volle Dio adornare la povera anima mia, di un prezioso suo dono, per così farmi degna del suo amore. Mi ricolmò di celestiali benedizioni, si degnò unirmi a lui intimamente. Il mio spirito restò estatico, a tanto eccesso di amore; mi fece gustare una dolcezza di spirito tanto particolare, che tutta si disfaceva in lacrime soavissime la povera anima, confessando la sua miseria, lodava e benediceva il suo Signore.

Per mezzo di interna illustrazione conobbi che quello che mi aveva donato Dio era il dono della scienza, a questa cognizione la povera anima, con santa umiltà, rivolta al suo amorosissimo Dio: «Mio Dio», gli disse, «lasciate che io rinunzi a questo dono. Donatelo a quelle anime che vi amano davvero. A me basta la vera contrizione, io non desidero sapere i fatti altrui, solo cerco conoscere me stessa, e conoscere voi, mio sommo amore!».

Il pietoso Dio mi fece intendere che non dovevo rinunziare al dono, mentre questo era molto utile e profittevole per l’anima mia; mi fece intendere ancora che questo mi avrebbe con molta chiarezza dimostrato la vera perfezione e quello che devo fare per arrivarvi.

A questa cognizione restò persuaso il mio spirito, e accettò il dono, al solo fine di piacere all’amato suo donatore. Molto gradì l’eterno Dio la purità della mia intenzione, che intimamente mi unì a lui, promettendomi di favorirmi con particolari grazie. Dopo il suddetto favore, sperimentai nel mio cuore un nuovo ardentissimo desiderio di perfezionare il mio spirito, a costo di ogni qualunque travaglio e pena; questo buon desiderio è permanente ancora.

31.2. Il mio spirito fu trasformato in uno spirito purissimo


Il dì 4 novembre 1815 nella santa Comunione si umiliava il mio spirito profondamente, e porgeva incessanti preghiere all’Altissimo, acciò si fosse degnato di concedermi tutte quelle grazie che mi sono necessarie per arrivare ad un’alta perfezione; con calde lacrime ed infocati sospiri, ardentemente così pregai: «Mio Dio, mio sommo amore, a me non basta! dammi più amore, così imperfetta non voglio più stare, alla perfezione voglio arrivare. Avanti, avanti, avanti io voglio andare all’apice della perfezione voglio arrivare, è proprio impaziente il mio povero cuore. Amato mio bene, non indugiare, avanti conducimi, e fa’ che l’ardente fiamma del celestiale tuo amore mi bruci, mi infiammi della tua carità. O Spirito divino, di amore ripieno, infiamma il mio cuore e fallo morire! Oh, morte beata, che vita beata mi dona Gesù: io più non vivo, ma vive in me Dio, che vita mi dà!».

A questo mio trasporto amoroso, a questa mia esclamazione amorosa, fui trasportata in spirito, dirò meglio fu sollevato il mio intelletto a penetrare cose così particolari del santo amore di Dio, che non mi è possibile spiegare. Sollevato che si fu l’intelletto fino ai confini del proprio suo essere, per parte della grazia, per pochi momenti il mio spirito fu trasformato in uno spirito purissimo, pieno di agilità.

Mio Dio, qual confusione è per me il dover manifestare le vostre grazie; vorrei tacere, ma mi conviene per obbedienza manifestare le vostre copiose misericordie. Mio Dio, illuminatemi, perché possa con termini meno disdicevoli manifestare il vostro purissimo amore. Ma che cosa mai dirò, se non ho termini sufficienti per spiegare cose così meravigliose, che non vidi mai. Mio Dio, illuminatemi voi! E voi, serafini del cielo, purificate la mia lingua, purificate il mio cuore, perché veracemente possa manifestare l’eccelso favore, senza oscurare la gloria del mio Signore.

31.3. Nel tabernacolo del sommo Re


Fui dunque condotta in una città bellissima, dov’era collocato il venerabilissimo tabernacolo dell’eterno Dio. Che magnificenze, che ricchezze, che pompa, che gala, non è veramente spiegabile! Era questa rispettabilissima città abitata dagli Angeli e non dagli uomini. Erano questi nobilissimi spiriti tutti intenti a custodire l’augusto tabernacolo del sommo Re del cielo e della terra. Fui dal divino Spirito introdotta in questa città, in una maniera tanto particolare, ma io non lo so dire; prima di introdurmi in questa città, il divino Spirito mi degnò di tre preziosi doni, perché i custodi di quest’alma città mi dessero libero ingresso.

Il celestiale amore pose nel mio cuore i tre preziosi doni, a guisa di acuti dardi li trapassò nel cuore. Oh come in quel momento colpito fu il mio cuore dal suo divino amore! Da dolce svenimento fu sopraffatto il cuore, e piena di celestiale amore l’anima mia restò. Di tanta bellezza erano i tre preziosi doni, che non si possono uguagliare né all’oro finissimo, né alle preziose gemme. Cosa così sorprendente non si vide giammai. Il divino Spirito mi mostrò ai suoi servi qual trionfo del suo celestiale amore.

Quei beati spiriti restarono attoniti, estatici; miravano i tre preziosi doni, e pieni di meraviglia lodavano al sommo Dio l’alta bontà. Libero mi diedero il passo, e pieni di sommissione mi vollero accompagnare al tabernacolo augusto del sovrano re.

Mio Dio, dove m’inoltro? cosa mai dirò? quale ardire è il mio: paragonar cose che non hanno paragone? Mio Dio, dunque tacerò? Santa obbedienza come potrò soddisfarti? di quali parole mi servirò? se sono tanto ignorante e rozza, ma a magnificenza tanto straordinaria mi pare che ogni eloquente dottore non sia sufficiente per manifestare con giusti termini gli eccessi dell’eterno suo amore. Ma per non mancare all’obbedienza, rozzamente scriverò almeno quanto posso ridire; il resto lo lascio alla dotta esperienza di vostra paternità reverendissima.

Fui dunque con grandissima pompa accompagnata dai felici abitatori di questa città all’augusto tabernacolo del sommo Re. Erano tutti in gran festa per il mio arrivo. Molti si compiacquero di accompagnarmi, molti altri adornavano la strada che dovevo passare, altri spargevano la strada di vaghissimi fiori, altri cantavano inni di gloria, altri mi procedevano avanti, per recarne agli altri la felice nuova.

Con languido paragone mi spiegherò, ma mi protesto però che è molto dissimile da quello che nel mio spirito fu operato dalla grazia dell’altissimo Dio. La povera anima mia fu corteggiata molto più di quello che si corteggia una nobile donzella che sia innalzata al nobilissimo matrimonio di un re potente, e che il potente sovrano attendesse ansioso l’arrivo della sua diletta sposa; e tutti i cortigiani si fanno un pregio di poterla servire e condurla al sovrano loro re. Con maggior pompa fu ricevuta la povera anima mia da quegli abitatori, che a mio parere erano sovrani spiriti, cortigiani del sommo re, custodi della sopraddetta città.

Mi spiego meglio: questa da me chiamata città, non già aveva in sé né case né palazzi, né altre cose, che nel mondo sensibile formano la bellezza, la vaghezza delle città. Tutto diverso era questo fabbricato, un edificio tanto bello e magnifico che non ha pari. Questo era eretto al solo fine di custodire il magnificentissimo tabernacolo. Fui dunque condotta al luogo dov’era il reale tabernacolo. Tutti in bell’ordine erano disposti gli abitatori di questo luogo; ma tutti attoniti se ne stavano, osservando cosa fosse per fare di me l’eterno amore. Quando si vide ad un tratto aprire l’augusta porta del tabernacolo, e facilmente mi si accordò l’ingresso.

31.4. Un’umiltà perfetta


Oh, allora sì, che pieni di rispetto esclamarono altamente con voci concordi inni di lode e di ringraziamento all’eterno onnipotente loro sovrano. Aperta che si fu la porta, tre bellissimi personaggi mi si fecero incontro, e annunziandomi le celestiali brame dell’amante loro re, pieni di gaudio mi condussero dentro il venerabile tabernacolo.

I suddetti personaggi erano i miei santi patriarchi Felice e Giovanni de Matha e il mio gran padre, sant’Ignazio. Devo dire una cosa molto considerabile, ed è che questo vastissimo tabernacolo non aveva la porta corrispondente alla sua vastità, ma aveva una porta molto stretta, molto angusta. I santi patriarchi m’insegnarono quello che dovevo fare per passare l’angusta porta. Così presero a dire: «Umìliati, abbàssati, annientati, se vuoi passare».

Conobbi che in queste parole venivano compresi i gradi di una umiltà perfetta. A questa cognizione rivolsi, piena di sommissione le mie suppliche al buon Dio, acciò si degnasse donarmi la santa umiltà; desiderai di possedere questa virtù. In quell’istante l’amoroso Signore mi fece sperimentare gli effetti più vivi di una umiltà la più perfetta che mai dir si possa. La porta era veramente angusta, in maniera che dovetti umiliarmi molto per poter passare. «Abbàssati, umìliati», ripetevano quegli incliti personaggi, di alta sfera e di scienza ripieni. Alle loro parole mi degnò Dio di un grado di umiltà tanto profonda, che potei passare l’angusta porta.

Oh che magnificenza! oh, che grandezza! oh, che vastità! Cose veramente incomprensibili, degne solo veramente di Dio.

Entrai nel magnifico tabernacolo, scortata dai soli tre santi patriarchi, i quali, a nome dell’onnipotente Dio, m’introdussero in luogo eminente di questo tabernacolo. Era tale e tanta la luce che vi risiedeva, che al momento l’anima mia restò assorbita da questa immensa luce. La forte attrazione, con amorosa forza, trasse dal mio cuore i tre preziosi doni, che a guisa di dardi fitti nel mio cuore aveva, prima di entrare nella santa città, come si è detto di sopra, li trasse dal mio cuore, e li calcò fortemente sopra se stesso, e come li avesse inviscerati, tanto l’internò in se stesso. Dopo nuovamente li trasse dal suo seno, e in segno di particolare amore, tornò di bel nuovo ad immergerli nel mio cuore.

Oh, chi mai potrà ridire i mirabili effetti che sperimentò il mio spirito! Mi manca veramente la lena di proseguire. Sperimentai gli effetti mirabili di una unione perfetta. Non posso dir di più. Sarà molto più facile a vostra paternità il comprenderlo di quello che sia a me il ridirlo.

32 – I «PECCATI» DEI SANTI


32.1. Libera le anime dei suoi parenti


Il giorno 6 novembre 1815 nella santa Comunione era il mio spirito in sommo raccoglimento, quando mi si presentò l’anima del mio padre naturale defunto, che ormai sono nove anni che piamente morì qual visse.

Vedevo la sua anima bella tutta ammantata di luce, con me si rallegrò per l’alto favore compartitomi dall’eterno Dio. La povera anima mia si umiliò, profondamente, e mostrando a lui la mia sconoscenza verso l’infinito amore di Dio, con abbondanti lacrime deploravo le mie colpe.

Il mio padre, a questa mia confessione, non si rattristò, ma mi pregò di raccomandare caldamente all’eterno Dio tutti i suoi e miei parenti defunti.

La povera anima mia prontamente obbedì, porgendo all’Altissimo, con tutto il fervore, le mie povere suppliche, per suffragare le suddette anime.

Offrii nel sacrificio della santa Messa gli infiniti meriti di Gesù Cristo. La mia povera preghiera, avvalorata dai meriti del buon Gesù, fu molto efficace. Tutte ad un tratto furono liberate da quel tenebroso carcere: erano queste nel numero 15.

All’Introito della Messa la povera anima mia fece la preghiera; al Sanctus si ottenne la grazia; all’Elevazione furono liberate.

L’anima del mio padre con il suo Angelo custode al Sanctus recò loro la felice nova; all’Elevazione i rispettivi Angeli custodi delle suddette anime scesero con somma allegria in quel carcere, e trattele fuori da quell’oscuro luogo, al momento apparvero ammantate di splendidissima luce, si sollevarono al Cielo, dopo aver profondamente adorato il divin sacramento esposto, fatto un profondo inchino davanti all’altare, ringraziarono la povera anima mia, con gesto di gratitudine, se ne andarono felicemente agli eterni riposi.

32.2. La mia troppa delicatezza


Il dì 7 novembre 1815, nella santa Comunione, la povera Giovanna Felice: per una mancanza commessa ero tutta intenta a piangere i miei peccati, la mia troppa delicatezza, la notte avendo sofferto molto freddo, nello svegliarmi mi trattenni per mezz’ora in riposo, per vedere di scaldarmi i piedi, lasciandomi vincere dalla mia debolezza. Invece, come sono obbligata, di disprezzare il mio corpo, trovai di averlo accarezzato. Mi avvidi di questa mancanza, quando mi misi in orazione.

Oh, quanta umiliazione apportò al mio spirito la suddetta mancanza! Piangevo amaramente la mia ingratitudine; confondendomi in me stessa chiedevo umilmente perdono al mio Signore. In questa profonda umiliazione andai a ricevere la santa Comunione. Tutto ad un tratto fu sopraffatto il mio spirito da interna quiete, e in questo tempo mi trovai nell’anzidetto tabernacolo. L’anima mia si sbigottì, dubitando di ardire troppo.

Nel tempo che ero in questo timore, mi apparvero i santi patriarchi, unitamente al mio gran padre sant’Ignazio. Così presero a parlare: «Rallègrati, o figlia, non paventare. E non conosci evidentemente che la grazia dell’Altissimo ti circonda da ogni lato? Inòltrati, inòltrati senza temere». E additandomi una scala altissima, che poneva il suo fine alla sommità del cielo, mi fecero intendere che alla sommità di quella dovevo ascendere. Mi manifestarono il cortese invito del sovrano loro re.

A questo invito la povera anima mia inorridì. «Mio Dio!», esclamò piena di confusione, «e come potrà mai una vostra creatura tanto ingrata ardire d’inoltrarsi tanto? come ardirà di ascendere a tanta altezza?».

Umiliandomi profondamente non osavo salire la scala, ma, tenendo fisso lo sguardo sopra me stessa, confessavo la mia indegnità. Molto mi affliggevo, trovandomi manchevole per la mancanza suddetta.

Piangendo dirottamente dicevo: «Mio Dio, voi amate la penitenza, e io sono la stessa mollezza. Oh, quanto sono dissimile da voi! Oh, quanto mi confondo, Gesù mio!».

Il pietoso Signore, nel vedermi così annientata, mi prese a consolare, mi fece intendere che la sua grazia mi rendeva degna del suo amore. A questa cognizione, la povera anima mia si abbandonò tutta in Dio, e sperando nei suoi meriti infiniti, si lasciò guidare dall’eterno suo amore.

A questo mio abbandono, lo Spirito del Signore s’impadronì di tutta me, rapidamente m’investì e mi condusse per l’eminente scala. In questa scala sono significati tre gradi di altissima perfezione, per dove l’anima ascende ad un grado molto particolare di unione, per quanto ne può essere capace come viatrice; arriva a penetrare i cieli, e qual colomba di amore arriva a collocare il suo nido nel cuore amoroso del suo Signore.

Salì dunque con somma agilità molti gradini della suddetta scala, sperimentando nel mio cuore una totale innovazione di spirito. Fu comunicata al mio intelletto una particolare penetrazione. Oh come conoscevo bene il mio Dio, oh come conoscevo me stessa! In Dio mi rallegravo, in me stessa mi confondevo, umiliandomi profondamente, amavo ardentemente il mio amoroso Signore; ma, senza avvedermi, il mio spirito si va inoltrando leggiadramente per la suddetta scala.

Mio Dio! e dove mai sono arrivata? e come mai ho penetrato questo altissimo luogo? Mio Dio, che ardire è il mio! io più non conosco me stessa! che luce, che splendore è questo mai che mi circonda? Dove mai sono io? Oh portento glorioso di carità! la sapienza eterna mi contiene in se stessa. Eccomi arrivata alla prima mansione! Oh bella scala, dove mi conducesti?

Per ordine del divino spirito qui si fermò la povera anima mia. Anima mia, dove tu sei? quale ardire è il tuo? Come penetrasti luogo sì eccelso? contenuta sono dall’eterna sapienza. O santo amore, dove mi conducesti? Ma, o Dio, viene meno il mio spirito per l’esuberanza dell’affetto. Qual carità possiede mai il mio cuore! Mio Dio, dove sono? Questo è un paradiso! che dolcezza, che gaudio, che purità d’intenzione, che amore essenziale, che unione! Mio Dio, ecco che si trasforma tutto tutto in voi il mio spirito e l’anima mia è penetrata dal vostro amore! La suddetta unione mi ridusse affatto priva di ogni sensazione; sperimentai nel cuore dolcissimo riposo, ma come non bastasse, tornò con nuovo favore a mostrarmi la sua carità.

Ecco l’eterno Dio che si spiccò dall’alto, per mezzo di bella luce tornò ad investirmi della celestiale unione, volle lasciarmi un pegno, bella croce scolpita nel cuore mi lasciò.

32.3. L’aiuto dei Santi Trinitari


Dopo che il Signore si degnò, nell’unione del giorno 7 novembre 1815, compartirmi il prezioso dono della scienza, da me stoltamente rifiutato, come si è già detto al suo luogo, fin da quel giorno il mio spirito desidera ardentemente di imitare il Crocifisso suo bene, desidera vincere e superare la sua propria debolezza, desidera patire quanto mai dir si possa; vuole lo spirito ridurre il corpo in schiavitù, ma questo geme e si conturba; lo spirito vorrebbe negargli il necessario sostentamento, vorrebbe perfino con ferri taglienti di propria mano scarnificare le proprie ossa, per amore di quel Dio che volontariamente si fece per nostro amore scarnificare le sue carni immacolate.

Il mio povero spirito, nel vedersi affatto impotente di eseguire le sue brame, piange, si affligge, sospira, si raccomanda all’intercessione dei santi, con particolare affetto, il giorno che ricorreva, la festa del gran patriarca san Felice di Valois, il dì 20, mi raccomandai caldamente al beato Simone, al beato Michele, al venerabile padre Giovanni Battista della Vergine, acciò si fossero degnati, questi santi trinitari, di intercedere per me presso il glorioso san Felice, loro fondatore, per ottenermi la bramata grazia, il totale disprezzo di me stessa.

Per facilitare il conseguimento della grazia, con l’approvazione del mio direttore, rinnovai i voti, i propositi, con una rinuncia particolare e generale a tutto quello che possa soddisfare lo spirito, protestandomi di non voler cercare altro che il puro amore essenziale. Si fece dunque tutto questo da me, per mezzo di particolare grazia, compartitami dall’infinita bontà di Dio. Dalla generosa rinuncia ne riportai favore molto distinto. Mi apparvero i sopra accennati santi trinitari e mi condussero al trono del gran patriarca san Felice di Valois.

Per questo favore la povera anima mia era ripiena di confusione, un santo timore non mi permetteva di potermi avvicinare al lucido trono del gran patriarca, benché scortata fossi dai degni figli di sì gran padre. Il beato Simone mi fece coraggio, e datomi a tenere il lembo della sua cappa, mi condusse al rispettabile suo trono, gli mostrò i miei buoni desideri. Il santo patriarca mi degnò di calcare la sua gloriosa mano sopra il mio capo. Ai piedi del suo trono feci la rinnovazione dei voti e la rinuncia di sopra accennata. I miei voti, propositi e rinuncia apparvero nelle mani del santo patriarca come preziose gioie. Le pose in ricco bacile, si degnò accompagnarmi, unitamente ai tre amati suoi figli, all’augusto trono dell’altissimo Dio. Il santo patriarca presentò per me al trono di Dio la mia povera offerta; il pietoso Dio, per sua bontà, mostrò il suo gradimento, unendomi a sé intimamente, mi fece provare gli effetti mirabili della sua carità.

32.4. Il patrocino di san Giovanni Battista della Concezione


Il dì 11 novembre 1815 il mio spirito proseguiva nella medesima maniera: piangeva, sospirava, pregava, si affliggeva, per vedersi ingrata al santo e puro amore di Dio. Questa è per me una croce tanto sensibile che mi sta impressa nel cuore, e notte e giorno mi tiene in continuo martirio; questa croce mi pare che sia quella che nella passata unione si degnò il mio amorosissimo Dio di imprimermi nel cuore. Da quel giorno la mia cattiva corrispondenza si formò oggetto di gravissima ma pacifica afflizione; non sa più rallegrarsi il mio cuore, solo desidera imitare il Crocifisso suo bene, ma nel vedersi tanto dissimile da lui, piange, geme, sospira, prega incessantemente l’amato suo bene, acciò si degni donarmi la corrispondenza, l’amore.

Piena di fiducia, mi rivolsi alla valevole intercessione dei tre santi trinitari suddetti, con calde lacrime e veementi desideri invocai il loro valevole patrocinio. I pietosi santi mi apparvero tutti e tre, piacevolmente, e mi consolarono, facendomi sperare, a suo tempo, il conseguimento della bramata grazia.

Il beato Simone mi dette a tenere il lembo della sua cappa, il beato Michele si degnò di darmi a tenere il suo scapolare nelle mani, il venerabile padre, per darmi coraggio e per avvalorare il mio povero spirito, con trasporto di carità paterna, mi chiamò col dolce nome di figlia.

Oh, qual consolazione provò il mio cuore, quando così intesi chiamarmi: «Mia figlia, non temere! appòggiati sopra la mia spalla destra».

Alle sue parole il mio spirito, preso da santo timore, dubitò di qualche inganno, ma il santo padre conobbe il mio pensiero, e così soggiunse: «Non dubitare di inganno. Appòggiati liberamente, con santa libertà di figlia; e io ti prometto di sostenerti con carità paterna».

A queste sue parole l’anima mia fu sopraffatta da santa fiducia; assicurata dallo Spirito del Signore, appoggiai con sommo rispetto la testa sopra la sua venerabile spalla, in atto umile, obbediente e modesto, mostrando verso di lui la soggezione e l’amore filiale. Il venerabile padre mostrò verso l’anima mia gli affetti più vivi della sua paterna carità.

In quel felice momento godei un bene molto particolare nello spirito; ma particolarmente sperimentai un totale abbandono di spirito nella sua paterna carità. Io non so ridire, molto grande fu la consolazione di spirito che mi recò il distinto favore.

Il dì 22 novembre 1815, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice: mi apparve nuovamente il venerabile padre, mi confortò con parole molto amorevoli e mi fece di bel nuovo appoggiare sopra la sua veneranda spalla; mi assicurò del valevole suo patrocinio. L’amorosissimo Dio, per mostrarmi la sua compiacenza, nel vedermi sostenuta da questo suo fedelissimo servo, dall’alto dei cieli mandò un raggio del suo splendore a formare una strada dritta, perché la povera anima mia potesse liberamente e facilmente sollevarsi al cielo per godere le divine misericordie.

Allora mi disse il venerabile padre: «Va’, figlia, non indugiare»; e, datami la paterna benedizione, l’anima mia, per mezzo di quel raggio di luce, si sollevò al cielo. Dio mi degnò di un grado molto alto di unione, da questa unione ne riportai un favore ben grande: mi promise il Signore di farmi godere in cielo il merito della clausura; e questo, mi fece intendere, che era in premio di quel volontario ritiro che esercito per suo amore.

32.5. Restò come liquefatto il mio spirito


Il dì 25, nella santa Comunione, era veramente martirizzato il mio cuore dal gran desiderio di imitare l’amoroso Gesù. Considerando quanto mai sono dissimile da lui, piangevo amaramente la mia miseria; mi raccomandai caldamente alla divina madre, Maria santissima.

Andava ogni ora più crescendo il desiderio di vincere e superare la mia debolissima, miserabilissima natura; lo spirito si armò senza pietà contro il corpo, il corpo si contristava, e la povera anima mia pativa pene di morte, perché voleva superare la sua propria debolezza, e non poteva.

In questa gravissima pena mi raccomandai al mio gran padre sant’Ignazio, ricordevole delle sue parole, così presi a dire: «O santo glorioso, adesso conosco cosa mi volevate dire, quando mi diceste che per arrivare alla perfezione mi mancava ancora di vincere la carne e il sangue. Avete ragione, questo è veramente il maggior ostacolo della perfezione! Mi raccomando a voi, o gran santo: ottenetemi questa grazia!».

Dopo la suddetta preghiera, fu al mio spirito comunicato un bene soprannaturale, per mezzo del quale sperimentai un riposo molto particolare; perdetti ogni idea sensibile. In mezzo a questo perfetto riposo, mi parve di vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, unita alla sua divinità, che con raggio di luce, che tramandava dalla sua mano destra, percosse il mio povero cuore e fece da questo scaturire dolcissimo liquore. E, accostate le sue purissime labbra al mio povero cuore, si degnò gustare il prezioso liquore.

E chi mai potrà ridire i mirabili effetti che provò il mio cuore? Restò come tutto liquefatto il mio spirito al prodigioso contatto del suo divin Salvatore; tutta tutta l’anima mia fu liquefatta dal puro e santo suo amore: mio Dio, quanto è mai grande il vostro amore, e chi mai potrà comprenderlo? o come ardisco io mai manifestarlo? E non sono io la creatura più vile che abiti la terra? donde dunque tanto ardire? O santa obbedienza, quanta pena mi fai soffrire!

33 – IL LATTE DELLA DIVINA MADRE


33.1. Le gravi afflizioni della Chiesa


Il dì 2 dicembre 1815 ebbi notizia che il Sommo Pontefice, Papa Pio VII, cesserà di vivere in tempo che sarà in Roma l’imperatore d’Austria. Allora incominceranno le gravissime afflizioni nella Chiesa di Dio, i religiosi e le religiose saranno espulsi con violenza dai loro monasteri. Questo lo permetterà Dio per trovarsi sdegnato per i tanti abusi introdotti nelle comunità, per le tante trasgressioni di regole. Tutto il popolo era in gravissima afflizione; ma l’afflizione si faceva maggiore, per l’elezione del nuovo Pontefice, che si faceva dall’imperatore.

Oh che travagli! oh che pene! oh che tribolazioni! Ma non per questo la Chiesa cattolica era senza capo, altra elezione legittima aveva già fatto lo Spirito Santo, ma il legittimo Papa era nascosto. Mi pareva che il cristianesimo si trovasse nella maggiore oppressione.

Alla rappresentanza di questa immaginaria afflizione, venne meno il mio spirito, fui sopraffatta dalla pena nel vedere tanta crudeltà, perdetti ogni uso di riflessione e di sensazione.

Raccomandiamoci caldamente al Signore, perché molto possiamo mitigare il suo giustissimo sdegno, con le preghiere, con le buone opere e con la pratica delle sante virtù.

Dio è sdegnato assai, assai; ma Gesù Cristo non fa altro che perorare per la nostra causa. Dunque uniamoci tutti a lui, e speriamo di ottenere la grazia che non abbia tanto a patire il povero cristianesimo, ma che si degni farci tutti buoni con la sua divina grazia.

33.2. Con la divina Madre nel coro dei Padri Trinitari


Il dì 8 dicembre 1815, nell’orazione subito levata, dopo essermi trattenuta due ore circa in profonda umiliazione, per conoscermi meritevole di mille inferni, per la mia scelleratezza, per la mia iniquità, piena di affannose lacrime deploravo le mie colpe, e, rivolta ai meriti di Gesù e di Maria, chiedevo perdono dei miei falli.

Ero tanto profondata nel mio nulla, che non mi ritrovavo; quando ad un tratto fui sopraffatta da perfetta quiete; dalla quiete lo spirito passò ad un riposo dolcissimo. In questo tempo mi parve di essere trasportata nel coro dei Padri Trinitari; trovai quei buoni religiosi in orazione, stava il mio spirito in qualche timore, perché non mi pareva conveniente trattenermi qui, ma fui dal mio Angelo custode obbligata a rimanere, per vedere quanto era per seguire.

Obbedì umilmente il mio spirito, in un angolo del coro dei religiosi trinitari si trattenne il mio spirito, quando improvvisamente vedo aprire una finestra del coro, volgo lo sguardo e vedo come aprirsi il cielo, e dalla sommità di esso vedo scendere molti Padri Trinitari, che per mezzo della suddetta finestra si introducevano nel loro coro. Vennero questi ad occupare i loro posti, oggi già vuoti; occupati che furono da questi i posti, vedo dall’alto dei cieli scendere altri Padri Trinitari, e con loro i santi patriarchi che, pieni di gaudio, conducevano la divina madre, Maria santissima, corteggiata da immenso stuolo di Angeli.

L’eccelsa regina si fece vedere in mezzo al coro, piena di amore e di affetto verso i tre religiosi viventi; non sto qui a dire quale onore, quale omaggio le rendessero tutti quei santi religiosi, che erano scesi dal cielo, né il cortese ricevimento che le fecero i santi fondatori, compiacendosi di renderla padrona del loro santo Istituto. Le tributarono onore e gloria, qual celeste loro sovrana, tutti dunque le facevano applauso.

I santi patriarchi si degnarono di presentare i tre religiosi viventi a questa sovrana signora; e lei, tutta amore, tutta carità verso i tre suddetti religiosi, li chiamò a sé; e, fattili a sé avvicinare, prese nelle mani un bellissimo vaso, lo accostò con somma modestia al suo petto verginale, ne trasse il prezioso suo latte; distesa poi la sua mano destra; ne dette a gustare ai tre religiosi suddetti, che, prostrati ai suoi piedi, se ne stavano tutti contenti. Nel somministrare loro la preziosa bevanda, diceva la divina Madre: «Prendete, miei cari figli, questa vi libererà dalla venefica infezione».

Il mio spirito, nel vedere che quei buoni religiosi erano stati favoriti dalla divina Madre con tanta cortesia, anche io, animata da filiale speranza, desideravo ricevere grazia dall’eccelsa regina; a questo oggetto mi raccomandavo caldamente ai santi patriarchi, ma questi mi fecero intendere che quello non era né tempo né luogo.

A questa notizia il mio spirito si umiliò profondamente; in questo tempo mi parve di vedere che quei religiosi, che erano scesi dal cielo, si mettessero in ordine di processione, e con torce accese nelle loro mani, condussero l’eccelsa regina nella loro chiesa.

Allora i santi patriarchi mi dissero che questo era il tempo che potevo dalla divina Madre ottenere quanto bramavo. I santi gloriosi si degnarono di presentare al suo trono le mie suppliche, stava la divina Madre all’altare maggiore, scortata da moltitudine di Angeli, assisa se ne stava in ricco seggio, circondata da splendidissima luce.

La povera anima mia, annientata nel suo nulla, trema qual foglia, che da impetuoso vento viene dibattuta; non osavo accostarmi, benché la divina Madre amorevolmente mi guardasse, e i santi patriarchi mi facessero coraggio; piangevo dirottamente, ricordandomi la mia infedeltà: «E come», dissi, «io potrò accostarmi alla divina Vergine, se mi trovo colpevole? Ah Madre santissima», esclamai, «lasciatemi partire! Troppo disonore faccio al vostro puro cuore!».

Piangendo dirottamente ero sul punto di partire, ma la pietosa Madre non mi permise di partire: «Figlia», mi disse, «non paventare; quello che perdesti per colpa, riacquistasti per grazia; vieni a me liberamente».

Alle parole amorose ed insieme autorevoli di questa Vergine e Madre, la povera anima mia fu sopraffatta da viva speranza; invece di partire, mi prostrai ai suoi santissimi piedi, ma in lontano, senza avvicinarmi.

La divina Madre, vedendo il mio timore, ordinò ai santi patriarchi che a lei mi conducessero. La povera anima mia non si oppose; ma, avvalorata da viva fiducia, mi presentai a lei umilmente e rispettosamente. Sentivo tanto amore verso di lei, che mi cagionava nello spirito un gaudio, una letizia che mi faceva esultare, porgevo dunque a lei i miei più cordiali ringraziamenti, e fra le altre espressioni che le faceva il mio povero cuore, una era questa: «Madre», le diceva, «Madre pietosa, Madre amorosa; tutti i giorni miei, cara Madre, a voi li devo».

A questa espressione l’anima mia aveva cognizione particolare di tutte le grazie che questa divina Madre mi ha compartite in tutto il tempo della mia vita passata; l’anima mia a questa cognizione si accendeva di santo amore verso di lei, e dall’amore e dal gaudio non potevo più contenere me stessa: disciolta e liquefatta la povera anima si era alla sua presenza.

La divina Madre si compiacque di vedermi così amante di lei: «Figlia», mi disse, «prendi questo mio latte, questo ti renderà forte nei travagli, costante nei pericoli, sicura nella morte».

Lei stessa, con le sue santissime mani, per mezzo di ricchissimo vaso, mi fece gustare una dolcezza di paradiso. Dopo aver goduto un bene inarrabile, desiderai di far comune a tutti grazia così particolare, particolarmente quelle persone che mi usano della carità. La supplicai, dunque, di concedermi la grazia; la divina Madre, tutta amore, a me rivolta, mi disse: «Prendi nelle tue mani il vaso, ma avverti che nessun cuore immondo a questo si appressi».

«Ah, Madre», io le dissi, piena di santo timore, «ritenete pure il vaso nelle vostre santissime mani, perché io non ho tanta cognizione di conoscere quali siano i cuori immondi di cui mi parlate. Ritenete, dunque, nelle vostre santissime mani il vaso, che io vi pregherò perché vi degniate di farne gustare a quelle anime che le professo tante obbligazioni».

Pregai dunque per diverse persone, che credo bene di non nominare, e anche queste ebbero la bella sorte di gustare il prezioso suo latte; ma non a tutti quelli che raccomandai potei ottenere la suddetta grazia.

La divina Madre non acconsentì che tutti gustassero di quel prezioso liquore, ma ciò nonostante si degnò di benedirli tutti, compartendo loro una particolare ispirazione, secondo il loro bisogno, per ravvedersi dei loro errori; poi si degnò di alzare la sua mano destra per benedire tutti, e disparve, lasciando nel mio cuore un paradiso di contento, che mi tenne tutto il resto della giornata, e buona parte della notte, assorta in Dio.

33.3. La nostra cara Madre, la santa Chiesa


Il dì 10 dicembre 1815, nella santa Comunione, ero tutta afflitta, per essere stata, nell’orazione subito levata, molto distratta e senza raccoglimento. Riconoscevo la poca diligenza che avevo usato nel cacciare le distrazioni; chiedevo dunque perdono al Signore, mi umiliavo, mi confondevo, piangevo amaramente le mie colpe; quando fui sopraffatta in un momento da interna quiete.

In questo tempo mi si diede a vedere la nostra madre, la santa Chiesa, sotto la forma di donna veneranda: la vedevo esteriormente tutta adorna, tutta bella; questa la vedevo supplichevole all’augusto trono di Dio, che qual Madre pietosa pregava per noi, poveri suoi figli; ma particolarmente pregava per il clero regolare e secolare.

Mio Dio, con mio sommo timore proseguirò, sebbene sono molti giorni che mi seguì questo fatto, adesso che scrivo, e ancora sento balzarmi il cuore nel petto per l’orrore, per lo spavento, ma per non mancare all’obbedienza proseguo.

Supplichevole, dunque, pregava incessantemente per noi. Macché! Dio, sdegnato alle sue preghiere, con tono di voce sonora così le diceva, la sua voce non è sensibile, ma il sentimento era tutto spirituale; per mezzo di intelligenza intellettuale, mi dava a conoscere quanto sono per raccontare.

La santa Chiesa pregava, e Dio sdegnava le sue preghiere; e, armato di giustizia, così diceva: «Prendi parte nella mia giustizia, e giudica la tua causa!».

A queste tremende parole, la veneranda matrona impallidì, e, presa parte nella giustizia di Dio, di propria mano si spogliava dei suoi adornamenti.

Vidi poi venire tre angeli esecutori della divina giustizia, che davano di mano a spogliare la veneranda matrona. Si ridusse la forte donna in stato umile e negletto, priva di forze, tutta spogliata, e quasi era sul punto di cadere. Allora dall’eterna sapienza le fu somministrato un forte bastone per reggere la sua debolezza. La divina potenza coprì il capo di lei con ricco cappello, l’inclita donna aveva perduto ogni splendore, se ne giaceva nelle tenebre, tutta mesta e dolente per l’abbandono dei suoi amati figli.

Il divino Spirito la circondò con la sua immensa luce. Rivestita che fu l’inclita matrona di questa luce, tramandò il suo splendore in quattro diverse parti, dove questa divina luce faceva cose mirabili.

Gli abitatori di questi luoghi erano come addormentati, all’apparire di questa divina luce si destavano; e, lasciati i loro errori, di volo si portavano ad onorare l’inclita donna, la nostra cara madre, la santa Chiesa. Tutti si compiacevano di militare sotto gli auspici di questa eccelsa donna, tutti confessavano Gesù Cristo Signore nostro.

Al momento compariva la nostra madre, la santa Chiesa, tutta adorna e gloriosa più di prima. Gli ordini religiosi davano a lei il grande onore, formavano come un magnifico tempio per sostenerla con tutte le loro forze. Sei erano le colonne che la sostenevano, queste erano sei corpi di religione, questi sei ordini erano quelli che rendevano gloriosa la nostra madre, la santa Chiesa; sollevata a questa onorificenza, tutti venivano ad onorarla, adottando le massime del nostro santo Evangelo.

33.4. La mia misera natura


Dal dì 12 fino al 20 dicembre 1815 il mio spirito ha goduto particolar raccoglimento, ma il gran desiderio di vincere e superare la mia misera natura mi teneva, e tuttora mi tiene, in qualche afflizione.

Lo spirito desidera di essere crudo carnefice del corpo, di propria mano vorrebbe farne spietata carneficina; nonostante questo buon desiderio, la parte inferiore, la mia debolezza, me ne contrasta l’esecuzione.

La povera anima mia, nel vedersi così misera, geme, si raccomanda al suo Signore, acciò faccia possibile per grazia quello che per natura mi si rende impossibile.

Si umilia lo spirito, si annienta, riconosce il suo nulla, si raccomanda, piange, sospira per ottenere dal suo pietosissimo Dio la sospirata grazia di vincere e superare il mio amor proprio, di superare me stessa, negando al corpo non solo ogni sorta di soddisfazione, ma con affliggerlo, aggravarlo sotto i più spietati tormenti, ridurlo in una penosissima schiavitù.

33.5. Il sacro abito trinitario


Il dì 21 dicembre 1815, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice racconta di sé. Ero tutta intenta a chiedere la vittoria su me stessa, e tra lacrime e sospiri speravo di ottenere dal mio Signore la grazia per i suoi meriti infiniti, tra le lacrime e i sospiri fui sopraffatta da leggero sonno. In questo tempo mi parve di vedere la città di Roma in stato di gravissime afflizioni e travagli, tutti erano afflitti e spaventati, erano pieni di mestizia e di timore: vedevo il popolo ammutinato, vedevo una gran rovina.

Nel vedere tutto questo ammutinamento di popolo così afflitto e spaventato, vedevo rovinare le case, i palazzi; vedevo una chiesa incendiata, che era sul punto di rovinare. Tutti i circostanti erano spaventati, nessuno aveva animo di penetrare il rovinoso tempio per l’imminente pericolo che sovrastava.

Un’anima a me cognita, mossa da spirito superiore, cercò di inoltrarsi nel rovinoso tempio; ma prima di esporsi al grave pericolo, prese licenza dal suo padre spirituale, che si trovò presente. Ottenuto dal suddetto il permesso, piena di santo ardire, per liberare il santissimo Sacramento, si gettò in mezzo alle ardenti fiamme; i circostanti restarono altamente meravigliati, credendo sicuramente che l’imprudente zelo le dovesse costare la vita; ma, come piacque a Dio, la suddetta anima, con la sacra pisside nelle mani, comparve illesa in mezzo al grande incendio.

Allora il popolo alzò le grida: «Miracolo, miracolo dell’onnipotente Dio!». Tutti sopraffatti da viva fede e da vera devozione piangevano di tenerezza e di contrizione, confessando vera quella fede che prima disprezzavano; pieni di umiltà si percuotevano il petto, andava ogni momento più a farsi grande il concorso del popolo, e viepiù cresceva la devozione. Intanto la suddetta anima consegnò la sacra pisside ad un certo religioso a me cognito, subito si fece portare gli abiti sacri e, vestitosi, sollecitamente prese il santissimo Sacramento. Al momento il devoto popolo si mise in ordine di processione, e al momento si provvide di torce per accompagnare magnificamente il santissimo Sacramento.

Il citato religioso condusse alla sua chiesa la sacra pisside, e la espose alla pubblica venerazione; da più di cento lumi fu adornato il sacro altare, mentre tutti si facevano un pregio di regalare cera e tutto quello che faceva bisogno per la magnifica esposizione. Mi pareva che Dio si degnasse di fare molti miracoli e grandissime conversioni; grande era il concorso del popolo che di notte e di giorno a gran folla alla chiesa si portava. E, per appagare la devozione, per quindici giorni e quindici notti restò esposta alla pubblica venerazione la suddetta sacra pisside.

Il sommo Pontefice di quei tempi, saputo questo fatto, volle portarsi in persona alla suddetta chiesa, e volle del suddetto fatto esser pienamente informato. Il sommo Pontefice volle parlar con il confessore della citata anima. Il Santo Padre, dopo essere stato del tutto informato, volle conoscere la suddetta anima, si portò dunque la suddetta dal Papa, il quale le disse che liberamente avesse domandato quello che voleva, mentre il suo cuore era disposto a compiacerla. Allora la suddetta, prostrata ai piedi del Vicario di Gesù Cristo, gli domandò in grazia di fondare un ordine di trinitarie scalze, e le fu accordato, e in quel momento stesso il Sommo Pontefice le destinò un monastero, e le promise di essere lui il protettore di questo ordine. Richiese di ascriversi all’ordine trinitario con vestire il santo abitino, dovette dunque a questo oggetto portarsi un Padre Trinitario al sacro palazzo per fargli nella cappella papale la sacra funzione di ascrivere il Sommo Pontefice all’Ordine Trinitario.

Molti vescovi, cardinali, prelati e signori vollero ascriversi a questo sacro Ordine, con prendere il santo abitino. Il sommo Pontefice conferì un vescovato al citato Padre Trinitario. Intanto la detta anima, in compagnia di molte altre compagne, entrarono nel monastero a loro assegnato dal Sommo Pontefice e subito le fece provvedere di quanto faceva loro bisogno, dimostrando tutto l’impegno di proteggerle e sostenere questo sacro istituto.

Molte anime di santa vita abbracciavano questo sacro istituto, e molte persone di nobile condizione si tenevano per molto fortunate di poter vestire il sacro abito trinitario.

Mi protesto di non voler in nessun modo sostenere quanto ho raccontato, ma solo manifestare a vostra paternità reverendissima come passai il tempo in quel suddetto sonno.

34 – UN DARDO MI TRAFISSE IL CUORE


34.1. Otto ore di orazioni


Il dì 24, notte del santo Natale, mi trattenni otto ore continue in orazioni, due ore prima della santa Comunione, cioè dalle ore sei fino alle ore otto italiane, le passai in sommo raccoglimento e in un gaudio, in una letizia intima, che rendeva al mio cuore pace, tranquillità, amore. Nel tempo che stavo così sopita, il mio amoroso Signore mi si fece vedere sotto la forma di vago bambino con crudo dardo in mano, mirandomi con sommo amore mi colpì il cuore.

Oh, come in un momento si accese di santo amore il povero mio cuore! Quando mi credevo di possedere l’amante, mi trovo affatto priva dell’unico mio bene. Pieno di affanno il cuore, con lacrime e sospiri, mi misi ad ogni intorno a ricercare il mio bene. Dicevo, piena di santo affetto: «Mio Dio, dove ne andasti? Mio Dio, chi mi ferì? Oh, crudo, oh dolce strale, tu mi feristi il cuore, dolor sopra dolore tu mi fai soffrir. Amico mio carissimo, diletto del mio cuore, dolcissimo Gesù, perché ferirmi dunque se poi fuggir vuoi tu? Oh pena crudelissima, perché non mi fai morire?».

Così si andava querelando la povera anima mia con il suo Signore. Oh quante pene mi costò la sua sottrazione. In un momento priva restò la povera anima mia del suo Dio; pena crudelissima che rassomigliar si può al purgatorio, o, per dir meglio, ad un inferno, quanto mai mi fece piangere il mio Signore in quella santa notte del suo Natale. Cinque ore mi tenne in pene gravissime, perché credevo che mi avesse abbandonata; finalmente dalla gran pena mi mancò lo spirito e restai vittima del dolore.

In mezzo al grave dolore si sopì lo spirito, e mi parve di trovarmi in una aperta campagna, dove vidi un monte altissimo, alla sommità di questo vidi l’amato mio Gesù, tutto circondato di luce, sotto l’immagine di leggiadro bambinello; m’invitava a salire quel ripidissimo monte; era con lui Maria santissima, con il castissimo suo sposo Giuseppe, ma non già abietti, come un giorno si degnarono di abitare in questo mondo per nostro amore, ma li vedevo belli, gloriosi, circondati da immensa luce. La bellezza, la vaghezza di quel caro Bambinello non è possibile descriversi; pieno di amore a me rivolto m’invitava a salire quel ripidissimo monte, ma la povera anima mia, confessando la sua debolezza, si conosceva affatto incapace di salire tanto alto.

Mi misi a piangere dirottamente, e tra lacrime e sospiri pregavo incessantemente, perché si fosse degnato darmi tanta grazia di ascendere fino alla sommità di quel monte, per così potermi avvicinare a lui.

Alle replicate preghiere si degnò compiacermi, da forza superiore fu sopraffatto il mio spirito, e con sommo coraggio potei camminare in mezzo a molti disastri e salire l’alto monte.

Il povero mio spirito rapidamente si slanciò verso l’amato suo bene, che amorosamente con le braccia aperte si degnò ricevermi, e dolcemente mi strinse al suo cuore.

Oh qual contento provò il mio spirito! Tutto tutto si disfaceva di amore in lacrime di dolcezza e di gaudio inenarrabile.

34.2. L’altissimo monte della perfezione


Il dì 27 dicembre 1815, il Signore mi fece intraprendere un viaggio molto disastroso e afflittivo; mi mostrò una strada ripida, che poneva il suo fine alla sommità di un altissimo monte, questo era quello stesso che mi mostrò la notte del santo Natale.

Nuovamente mi apparve il mio Signore, sotto la forma di leggiadro bambino, e, facendomi coraggio, m’invitava fino alla sommità di quell’altissimo monte, che è quanto dire ad un’alta perfezione vuol sollevare Dio la povera anima mia. Guai a me, se non corrispondo all’infinito suo amore: l’inferno mi aspetta! Mio Dio, degnatevi di usarmi misericordia! La povera anima mia nel vedere i disastri della strada dell’erto monte, le balze, i torrenti, le spelonche dei selvatici animali, i frondosi alberi, che quasi del tutto ricoprivano il chiaro della luce, e quasi in una tenebra mi pareva di camminare, voragini di fuoco vedevo di tanto in tanto, che tramandavano oscure fiamme.

A questa tetra immaginazione lo spirito paventò, e pieno di timore, bilanciando le proprie forze, gli si rendeva impossibile intraprendere un viaggio così faticoso e afflittivo, pieno di smarrimento era il mio cuore, quando l’amante Signore mi si diede a vedere, e con dolci parole prese a confortarmi il cuore: «Figlia», mi disse, «che temi? che paventi? Io ti aiuterò; vittoriosa sarai dei tuoi nemici. La mia grazia ti renderà forte e invincibile. Fatti coraggio, confida in me, non dubitare fino alla sommità del monte ti aspetto, dove voglio far pompa delle mie misericordie».

A queste amorose parole la povera anima mia, fu avvalorata da viva fede, mi misi a camminare a fronte di tutti i disastri che mi si frapponevano, fidata solo nelle parole del mio Signore Gesù Cristo, il quale mi mostrò tre luoghi dove dovevo fermarmi per ricevere nuova forza per camminare.

34.3. Il perfetto amore mi trasformava in Dio


Il dì 29 dicembre 1815 nella santa Comunione, tornai nuovamente a vedermi per la suddetta strada, che mi affaticavo, con la grazia di Dio, a camminare, quando ad un tratto da forza superiore fui trasportata sopra di un bellissimo monte: quanto conteneva di bene questo misterioso monte non si può descrivere. Basti dire che in questo mi veniva significato il paterno seno di Dio. Trasportata che fui in questo benedetto monte, per via di attrazione il mio spirito fu internato nel monte; mi pareva che il monte aprisse il suo seno e dolcemente e soavemente mi ricevesse in sé, e così restò intimamente trasformata la povera anima mia in Dio; si andava ogni momento più inoltrandosi nell’infinita immensità di Dio.

E chi mai potrà ridire i mirabili effetti che sperimentò il povero mio cuore? Non è possibile veramente poterlo manifestare. Fu intimamente chiamata l’anima da Dio, e con somma occultezza ammaestrata, per mezzo di cognizioni molto particolari, riguardanti Dio medesimo.

Per mezzo di queste cognizioni l’anima si sollevò ad un amore sublime, incomprensibile, non so dir di più. So bene però che perdetti ogni uso di ragione e di sensazione. Dopo ben tre ore, seguitomi il suddetto fatto, potei, con la grazia di Dio, portarmi alla mia casa, dove tornò a sopirsi lo spirito, e così tornai a perdere l’uso dei sensi; sicché dalle ore 17 fino alle ore 20 proseguì il mio spirito a stare sopito in Dio, dalle ore 20 alle ore 22 tornò lo spirito nell’uso dei sensi, dalle ore 22 fino alle ore 6 della notte tornò Dio a rapire lo spirito, perdetti ogni idea sensibile, tornai a perdere l’uso dei sensi, in questo tempo Dio mi fece godere un paradiso di contenti; la pace, il gaudio, la dolcezza, la soavità, l’amore rendevano sopraffatto il mio cuore, e il perfetto amore tutta tutta mi trasformava in Dio mio Signore, così che mi pareva di vivere della medesima sua vita. Per partecipazione godei un bene tanto grande e straordinario, che non so manifestare, mi diede Dio a godere un saggio di quel bene che si degnerà donarmi alla fine della mia vita. Questo fu il sentimento che ebbe il mio spirito. A questa cognizione l’anima si umiliò profondamente, e, confessando il suo nulla, rendeva grazie al suo liberalissimo benefattore, compiacendosi negli eccessi dell’infinita sua misericordia, godeva il mio spirito in Dio un gaudio così particolare, che non so descrivere. Mi trattenni, come già dissi di sopra, dalle ore 22 fino alle ore sei della notte, quattro ore circa mi riposai, ma questo riposo fu più soprannaturale che naturale; mentre nel coricarmi mi parve che lo spirito più speditamente se ne andasse a Dio.

Dopo quattro ore di riposo mi misi in orazione, e stetti tre ore in orazioni in ginocchioni immobile, senza il minimo appoggio, senza provare la minima pena, proseguendo lo spirito a stare tutto assorto in Dio. Molto grande fu il lume di propria cognizione che Dio si degnò compartirmi, da quali bassi sentimenti fui sopraffatta, oh come si profondava nel suo nulla! confessandosi per la più indegna peccatrice che abbia mai abitato la terra.

34.4. Libera un’anima dalle mani del demonio


Il dì 3 gennaio 1816, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice racconta di sé. Fu il mio spirito sollevato da particolare orazione, mi parve di trovarmi circondata di luce che dall’alto dei cieli scendeva; in mezzo a questa luce vedevo i santi Re Magi, corteggiati da immenso stuolo di angeli. Questi santi Re, pieni di carità, a me rivolti, mi fecero intendere quanto grande era stata la grazia che Dio si era degnato compartirmi, mediante la loro valevole intercessione, mi dettero parte di avermi ottenuto da Dio una grazia molto grande.

La grazia era di aver liberato un’anima dalle mani del demonio, che aveva avuto già da Dio la potestà di dare a questo misero cruda morte. Questa era un’anima da me molto raccomandata nelle povere mie orazioni, acciò Dio si degnasse salvarla; ne impegnavo la protezione dei santi Re Magi, e della nostra madre, Maria santissima.

A questa notizia la povera anima mia, piena di gratitudine verso Dio e verso questi santi Re, porgeva umili ringraziamenti, e, versando dagli occhi un profluvio di lacrime di tenerezza, tutto tutto si disfaceva il mio cuore di amore, in lacrime, offrendo tutta me stessa al divino beneplacito del mio Dio. Ardentemente desiderai morire per amore e per la gratitudine. La suddetta grazia fu compartita all’anima suddetta il primo gennaio 1816, giorno del santissimo Nome di Gesù, liberandolo da un grave pericolo che le sovrastava: la morte.

34.5. I santi Re Magi mi condussero da Gesù e Maria


Il dì 3 del mese suddetto, i santi Re magi si degnarono recarmene la notizia, come si è detto di sopra. A questa notizia la povera anima mia, piena di affetto, rivolta a loro li supplicai che mi avessero condotto al mio Signore, per poterlo ringraziare; si degnarono questi gloriosi santi di condurmi sopra un’altura, dove mi parve di vedere la divina Madre con il divino suo pargoletto, tutto ammantato di luce. Io non osavo inoltrarmi in questo luogo, che pareva un paradiso, ma i santi Re mi fecero coraggio, e loro medesimi si degnarono condurmi davanti a Gesù e a Maria.

Il mio povero spirito si prostrò davanti a loro profondamente, e dopo aver confessato la mia ingratitudine, e riconosciuto il mio nulla, offrii tutto il mio cuore al mio caro Signore, il quale non sdegnò la mia povera offerta, ma fece sopra di questo tre impressioni. In queste tre impressioni venivano significate le tre virtù teologali. L’accrescimento di queste virtù apportò al mio spirito un bene tanto particolare, che non ho termini di spiegare.

34.6. Dio mi si diede a vedere


Il dì 10 gennaio 1816, nella santa Comunione, mi degnò Dio di un grado maggiore di orazione; questo mi fece intendere che mi disponeva a ricevere nuove grazie da lui. Intanto mi dava particolare cognizione dell’infinito amore che mi porta. Qual gaudio, qual contento, quale umiliazione apportò questa cognizione al mio cuore non ho termini di spiegarlo.

Si riempì il mio spirito di santa confidenza; l’amore, la gratitudine, il desiderio di corrispondere all’eccessivo suo amore sollevò lo spirito ad un’alta contemplazione, e penetrando intimamente le perfezioni di Dio, l’anima mia si riempì di gaudio, tanto si era internato in Dio lo spirito, che il corpo parevami l’avesse del tutto lasciato.

I buoni effetti che questa grazia mi fece sperimentare sono incomprensibili; mentre io che ne provai i buoni effetti non ne comprendevo la vastità. Il mio cuore amava Dio in modo molto particolare, ma io non lo so spiegare; solo dirò che se per amarlo mi avesse mostrato l’inferno, là mi sarei slanciata, tenendomi per fortunata patire quelle pene per avere il piacere di poterlo amare.

Il dì 13 gennaio 1816 nell’orazione subito levata, che durò tre ore e un quarto, i primi tre quarti non potei in nessun modo fermare la immaginativa. Tutte leggere idee mi si presentavano alla mente, per ben tre volte mi misi alla presenza di Dio, mai potei fissare la mente; finalmente vedendomi tanto miserabile, mi rivolsi al mio Dio, piangendo e sospirando acciò degnato si fosse di insegnarmi ad orare. A questa preghiera si mostrò pietoso Dio verso di me. Fui al momento sopraffatta da nuovo spirito, e intimamente riconcentrate le potenze, l’anima fu chiamata a somma attenzione. Si unirono le potenze e si soggettarono al suddetto spirito dominatore, che le aveva sopraffatte; in sommo silenzio se ne stava il mio spirito, questo silenzio fu interrotto da interna sonora voce, che con impero così mi parlò: «Donde ne venisti? chi sei? dove vai?».

A queste brevi domande riempirono in un momento il mio intelletto di molta magnificenza riguardo a Dio, e di annientamento riguardo a me stessa, reputandomi per la creatura più vile che abita la terra. Al momento da arido e oscuro che era il mio intelletto, divenne così perspicace, che per mezzo della grazia di Dio feci un’orazione molto particolare. Nel tempo che l’anima con somma agilità andava penetrando il suo principio e il suo fine, il suo nulla, sento di nuovo parlarmi: «Mira, o figlia, dove ti vuol condurre l’infinito amor mio».

Ciò detto, fu condotto il mio spirito in una vastissima città; ma la bellezza, la vaghezza, l’amenità non si può esprimere con ogni qualunque bellezza creata. Basti dire che Dio medesimo in questa città mi si rappresentava. Dove volgevo lo sguardo trovavo il mio Dio, ma il mio spirito era al sommo intimorito, parte per la sonora voce che mi aveva parlato, parte per vedermi in un luogo che mai avevo veduto. Stavo tutta tutta riconcentrata per il timore, quando da Dio nei fui assicurata: «Non temere di inganno, io sono il tuo Dio», mi disse, «vieni con me, che mi conoscerai».

A queste parole fui condotta da mano invisibile in luogo eminente, dove Dio mi si diede a vedere in una maniera che io non so descrivere. So bene che il mio spirito fu assorbito dal suo splendore, i buoni effetti che provò il mio cuore non so ridire; mi pareva di godere un paradiso di contenti, tanta era la dolcezza e il gaudio, l’amore che Dio si degnò comunicarmi.

35 – QUAL CONFUSIONE MANIFESTARE LE VOSTRE MISERICORDIE!


35.1. Perduta nell’Essere divino


Il dì 14 gennaio 1816, nella santa Comunione, tornò Dio, per sua infinita bontà, a favorire la povera anima mia con una comunicazione molto particolare, ma poco e niente so manifestare per essere cose del tutto intellettuali, appartenenti alla cognizione, servendosi Dio di certe particolari interne intelligenze, per così dimostrarmi l’infinito amore che mi porta; ma io non so in nessun modo spiegare, per essere grazie molto particolari, che il mio scarso talento non può neppure del tutto comprendere. Nel tempo stesso che ricevette da Dio la suddetta comunicazione più penetrava l’intelletto, e più conosceva che le restava da penetrare. Nella penetrazione fu l’anima inabissata nell’immensità di Dio, e così mi perdetti nell’essere suo divino. Questa comunicazione mi tenne molte ore alienata dai sensi, e per due giorni assorta in Dio, in una maniera molto particolare, servendomi dell’uso dei sensi per abito, senza conoscere cosa mi facevo.

Passati i due giorni, quando il mio spirito tornò nei sensi, Dio gli compartì un lume molto particolare di propria cognizione, come in appresso dirò.

Il dì 17 il mio spirito fu sopraffatto da particolare cognizione di se stesso. Oh come si umiliava lo spirito! La contrizione, il dolore eccessivo di aver offeso Dio mi faceva veramente agonizzare. Per tre giorni continui mi dette Dio questo lume di propria cognizione, che dal dolore mi pareva si stemperasse nel petto il cuore.

35.2. Mi fece vedere la mia preziosa morte


Il dì 18 gennaio 1816 nell’orazione subito levata mi trattenevo in questi bassi sentimenti, conoscendomi meritevole di mille inferni. Quando fui sopraffatta da interna quiete, il mio spirito si mise in stato di moribonda, e fra il timore e la speranza si andava preparando al gran rendimento di conto, che doveva fare a Dio.

M’immaginavo di vederlo contro di me tutto sdegnato, qual giudice severo, pieno di affanno avevo il cuore, e tra lacrime e sospiri mi raccomandavo alla Madre della misericordia, confidando nei meriti del buon Gesù; ma ciò nonostante non lasciavo di paventare, parendomi di vedere di già spalancato l’inferno per ricevermi. Che terrore! che spavento! che pena provò il mio cuore non so spiegarlo. Nel tempo che ero immersa in questa gravissima pena, il pietoso Dio sollevò il mio spirito, e si degnò darmi a vedere la mia preziosa morte.

Mio Dio! qual confusione è per me il manifestare le vostre misericordie sia pur tutto vostro l’onore e la gloria, mentre confesso con tutta la sincerità del mio cuore, avanti a voi, Crocifisso mio bene, di non meritare altro che l’inferno, per la mia empietà e scelleratezza.

Proseguo dunque, a gloria di Dio. Mi pareva spirare nelle braccia di Gesù e di Maria, godendo nel mio cuore un paradiso di contento.

35.3. Un esilio penosissimo


Il dì 20 gennaio 1816 così la povera Giovanna Felice: dal 20 gennaio fino al primo di febbraio 1816, Dio mi fece provare una pena di spirito quanto mai grande ed afflittiva, ma io non so spiegare. Era questa pena come un esilio penosissimo; mi vedevo allontanata da Dio, era l’anima sopraffatta dalla propria cognizione, e annientata e avvilita, umiliata fino al profondo abisso del proprio nulla, odiosa mi rendevo a me stessa per la mia cattiveria; mi pareva che la terra mi si aprisse sotto i piedi per ingoiarmi, dubitavo ogni momento che l’aria mi negasse il poter respirare, mi pareva che i demoni mi precipitassero ogni momento nell’inferno.

Che pena! che afflizione! che desolazione! che aridità di spirito! Ma la pena si faceva maggiore per la particolare intelligenza che Dio si degnava darle delle sue divine perfezioni.

A queste cognizioni l’anima sentiva un amore grandissimo verso Dio, che mi necessitava ad amarlo, ma la propria cognizione non mi permetteva che lo spirito liberamente potesse slanciarsi verso l’amorosissimo Dio; perché se ne riconosceva indegna. Avrebbe voluto per mezzo di ogni qualunque pena purificarsi, per così potersi a lui avvicinare; questa pena mi ridusse quasi ad agonizzare, il dolore di avere offeso Dio lacerava il mio cuore, e tramandar mi fece dagli occhi un profluvio di lacrime. Ogni giorno si faceva maggiore la pena mia, andava crescendo a dismisura, proseguendo in questo penoso stato dal giorno 20 gennaio 1816 fino al primo di febbraio, come si è detto di sopra, così si andava purificando la povera anima mia, macerandosi nel pianto e nell’afflizione, contenta di patire per amore, mentre non avrei cambiato il mio patire con tutto il bene del mondo.

35.4. Una grazia che chiedevo da molti anni


Il dì 2 febbraio 1816, nell’assistere alla Messa cantata, il Signore mi fece provare una dolcezza di spirito quanto mai grande; mi apparve la divina Madre, e mi degnò darmi per un sol momento il suo divin figliolo, questo momento bastò per farmi provare un paradiso di contento. Il divino Signore si degnò concedermi una grazia, che sono molti anni che la chiedevo, sempre me la faceva sperare, mai però mi aveva dato sicurezza; ma questa volta ne impegnò la sua parola; mi promise di salvare un’anima da me molto raccomandata, per lo spazio di molti anni. Di qual consolazione mi fu l’ottenere la grazia suddetta non posso esprimerlo, si degnò manifestarmi ancora il perché si degnava farmi la grazia, per intercessione della sua divina Madre, e per il rispetto che il suddetto porta alla pudicizia della sua consorte, contentandosi di vivere a sé, senza molestarla, a fronte dello stimolo proprio, per non turbare la suddetta sua consorte, che tutta si è data alla vita devota. Questo atto virtuoso di questo giovane è tanto gradito a Dio, che nonostante che il suddetto viva con una certa libertà di coscienza, ciò nonostante il Signore mi ha promesso di salvarlo, ne ha impegnata la sua parola, come si è detto di sopra.

35.5. La Madre collocò il suo Figliolo nel mio cuore


Il dì 3 febbraio 1816, così Giovanna Felice nella santa Comunione: mi apparve la divina Madre con il suo santissimo Figliolo in braccio, tutta premura cercava di nasconderlo nel mio cuore; ma la povera anima mia restò altamente ammirata, e piena di confusione mi rivolsi a lei versando dagli occhi abbondanti lacrime: «Ah, Madre mia», le dissi, «che più non mi conoscete? Dove volete nascondere il vostro divin Figliolo? Io sono quella ingratissima peccatrice che l’ho tanto gravemente offeso! Cara Madre, nascondetelo nel cuore di quelle anime che lo amano davvero, e non vedete che io non altro faccio che offenderlo e disgustarlo?».

E intanto, conoscendo viepiù il mio demerito, si umiliava ogni momento più il povero mio cuore; intanto con gli occhi pieni di lacrime, miro Gesù, miro Maria, e vedo il divin fanciulletto tutto ferito, che grondava vivo sangue. Raccapricciai a tal vista, la divina Madre, piangendo con flebil voce, mi disse: «Figlia, vedi come è ferito. Nascondilo nel tuo cuore».

A vista così compassionevole deposi il timore, e aperto e spalancato tra lacrime e vivi affetti di amore e di vera compassione: «Sì, Madre mia», soggiunsi, «ecco aperto e spalancato il cuore. Conducetelo pure, e fate di me quel che vi piace».

Ciò detto, la divina Madre collocò il ferito fanciulletto nel mio cuore, e preso nelle mani un ricco vaso di prezioso balsamo ripieno, la divina Madre andava con somma attenzione astergendo le ferite del divin Fanciullo. Con questa mirabile astersione si andavano risanando le ferite, io ero tutta intenta a guardare, piena di meraviglia e di stupore, senza però la giusta cognizione di quanto vedevo; ma la divina Madre si degnò significarmi che il suo pianto significava lo sdegno del divin Padre contro quelli che avevano così ferito il suo santissimo Figliolo. E lei come Madre di misericordia, che si compiace di esser Madre dei peccatori, deplorava la perdita di tante anime. Quel balsamo prezioso con cui astergeva le ferite dell’amato suo Figlio, erano le opere virtuose di tante anime buone a lei care.

A questa dichiarazione la povera anima mia fu penetrata da vivo sentimento di devozione e di amore, tutta tutta mi offrii alla maggior gloria di Dio, ma altamente restavo meravigliata come questa divina Madre si fosse degnata compartirmi grazia sì grande, senza alcun merito, ma solo piena di miserie e peccati, mentre vi sono tante anime di santa vita che potevano in quel caso rendere onore e gloria al Sommo Dio.

Avrei ben volentieri rinunziato a quel favore, perché restasse in altre anime glorificato il mio Signore, ma la divina Madre si degnò rendermi la ragione. Mi fece intendere che queste sono grazie gratuite, che Dio le comparte a chi più gli piace, e che due erano i motivi che si degnava favorire la povera anima: per la retta intenzione che ha di piacere in tutto solamente al suo Signore, e per il basso sentimento che ha sempre di sé, umiliandosi continuamente e profondamente dinanzi al suo Dio.

A questa notizia restai ammirata dell’infinita bontà del mio Signore, e, pieno di santo affetto, il povero mio cuore tutto bruciava di carità.

35.6. Che pena vedere tante anime miseramente perdute!


Il dì 4 febbraio 1816, nella santa Comunione, mi parve di vedere la divina Madre mi facesse nuove premure, perché avessi custodito nel mio cuore il suo divin Figliolo, per così nasconderlo dal furore degli empi, e agli sguardi dello sdegnato suo Padre, la di cui giustizia è inesorabile contro di noi, miseri peccatori; se non fosse tanto propensa questa divina Madre verso di noi, guai a noi, guai a noi!

Le lacrime da lei versate, come già dissi, erano versate per la pena di vedere tante anime miseramente perdute. «Va’», mi diceva tutta premura la divina Madre, «va’, impedisci alla divina giustizia il punirle. Offri il prezioso Sangue del Figlio, offri la mia materna esistenza, offri i miei dolori, offri i miei disagi, offri il mio amore. Sono salve quelle anime che io proteggo».

Alle parole di questa vergine Madre, la povera anima mia si ricoprì tutta di confusione e di timore; ciò nonostante obbedì il mio spirito, e annientato in se stesso, profondato nel sentimento più umile del basso concetto di se stesso, pieno di rispetto, assistito dalla particolar grazia di Dio, m’inoltro, e penetro l’immensità di Dio; ma quando fui in un certo punto, mi fu impedito il potermi inoltrare, e così non mi fu permesso sapere se Dio si era degnato di esaudire le preghiere, le premure che aveva la divina Madre delle suddette anime.

Dal dì 4 febbraio 1816 fino al 7 del suddetto mese, il mio spirito ha goduto un particolare raccoglimento, unitamente ad un basso sentimento di me stessa. Ho consumato questi giorni in piangere i miei peccati e nel chiedere perdono al Signore.

35.7. Mi apparve il gran patriarca san Giovanni de Matha


Il dì 8 febbraio 1816, giorno della festa del glorioso patriarca san Giovanni de Matha, nell’assistere alla Messa cantata, dopo di aver goduto un bene intimo nell’anima che non so manifestare, mi apparve il gran patriarca, si degnò questo sovrano personaggio di farmi avvicinare a lui, mi coprì con la gloriosa sua cappa, unitamente al mio padre spirituale, il quale vedevo prostrato ai suoi piedi, pieno di umiltà e di rispetto. Qual consolazione provò il mio spirito per il suddetto favore, qual raccoglimento, qual pace, qual dolcezza di spirito mi comunicò, quanto grande fu il desiderio che nacque in me di piacere a Dio, a costo di ogni grave patimento, non ho termini di spiegarlo. Molte anime vedevo in ginocchioni ai suoi piedi, tutte piene di filiale rispetto e di venerazione. Il venerabile padre tutte benedì, e disparve, lasciando nel mio cuore una particolare consolazione di spirito.

35.8. Gravissima persecuzione diabolica


Dal giorno 10 febbraio 1816 fino al giorno 13 del suddetto mese, il mio spirito ha sofferto una gravissima persecuzione diabolica, mossami dal nemico tentatore, per il metodo intrapreso fino dalla vigilia del santo Natale.

Ho intrapreso il metodo di mangiare ogni ventiquattro ore, usando dei soli cibi di magro e di latticini; per grazia di Dio sono tre anni che mi astengo dai cibi di grasso. Molto ho sofferto per astenermi da questi cibi, per essere molto conformi alla debole mia complessione; ma con la grazia di Dio, e con molta violenza, tanto ho superato, senza pregiudizio della salute, perché in questi tre anni sono stata sempre bene; ma quello che più mi molesta è che il metodo intrapreso di digiuno non solo mi viene contrariato dalla debole mia complessione, ma dal demonio, che non mi lascia un momento in pace, come dirò in appresso negli altri fogli.

Proseguo a manifestare la grave molestia che mi reca il maligno tentatore; non mi lascia neppure un momento in pace, mi gira continuamente attorno, presentandomi delle buone vivande, particolarmente quando sono in orazione, allora inventa tutte le malizie per frastornarmi. Mi comparisce sotto la forma di bel giovanetto, e compassionando il mio stato, mi offre delle buone vivande, me le presenta perché io ne gusti, persuadendomi a lasciare il metodo intrapreso.

Quanta pena soffre il mio povero spirito, perché dubita di dare ascolto alla suggestione del nemico tentatore! Piango, mi affliggo, mi raccomando caldamente al Signore, perché mi dia grazia di vincere e di superare, perché mi pare ogni momento di restare vinta; mi pare di non aver forza di superare la tentazione. Sono poi molestata da fame canina, che mi divora, e da sete ardente, che mi consuma; e intanto il maligno tentatore non fa altro che girarmi intorno, con delle buone vivande e con del buon vino, invitandomi a mangiare e a bere, allettandomi con forti persuasive di dare qualche conforto al mio patire, cerca ad ogni suo costo di darmi a credere che non c’è cosa più felice che il mangiare dei cibi squisiti e di bere del buon vino.

Al forte urto di questa tentazione, il povero mio spirito si trova in uno stato molto penoso e afflittivo; ma questa afflizione non toglie la pace al mio cuore, ma con santa rassegnazione soffre la molestia del nemico insidiatore, confidando nei meriti di Gesù e di Maria, i quali invoco con lacrime e sospiri, perché si degnino aiutarmi in questo penoso conflitto. Molto di frequente mi protesto che sono pronta a morire mille volte, piuttosto che dispiacere al mio Dio con la minima imperfezione volontaria; ma nonostante dubito di essere vinta dall’astuto insidiatore. Non lascia Dio di confortarmi in questa gravissima pena, facendomi sperimentare gli effetti mirabili della sua grazia.

Dal giorno 16 febbraio 1816 fino al dì 7 marzo, il mio spirito se l’è passata ora combattendo col nemico, ora con la mia misera umanità, che ancora non posso vincere né superare, ma con grave pena il povero spirito deve soggiacere alla debolezza umana. Mio Dio! quando mai sarà che potrà lo spirito signoreggiare sopra se stesso, conculcando con sommo disprezzo la propria carne, le proprie inclinazioni? Caro Gesù mio, per i vostri meriti infiniti, fatemi possibile per grazia quello che per natura mi si rende impossibile.

36 – PERDUTA NELLA DIVINA IMMENSITÀ


Il dì 8 marzo 1816, nella santa Comunione il Signore, mi fece sperimentare i particolari effetti della sua grazia, ma da qualche tempo a questa parte si degna Dio comunicarsi alla povera anima mia in una maniera che non mi è possibile più manifestare i particolari favori che si degna compartirmi, perché questi non sono per vie immaginarie, ma per vie di interne cognizioni, intime, profonde. Queste mi pare che siano molto più sublimi delle immaginarie, e molto più efficaci al povero mio spirito, ma per il mio scarso talento molto difficili di poterle manifestare.

Penetra l’intelletto e si profonda nell’immensità di Dio, la volontà ama ardentemente, e nell’amore dolcemente si riposa, e placidamente tutta in Dio si abbandona. L’anima perde ogni idea sensibile, e si perde affatto nella divina immensità, di maniera che non comprendo quello che si degna Dio operare nell’anima mia; mentre in quei preziosi momenti godo un bene che non so spiegare, mi pare propriamente di perpetuarmi in Dio.

Oh che consolazione, oh che dolcezza, oh che gaudio prova il mio cuore, più non ricordo di essere viatrice, mi pare di abitare nell’altezza dei cieli, tanto chiaramente si degna Dio comunicarsi alla povera anima mia, che mi pare di godere un paradiso di contenti; ma non ho termini sufficienti di manifestare i particolari favori che in quei preziosi momenti mi comparte, mentre neppure posso del tutto comprenderli.

36.1. I nuovi Cardinali


Riporto un fatto accaduto ad un’anima a me cognita, dice dunque la suddetta che in certo tempo nel farsi dal Sommo Pontefice la promozione di nuovi cardinali, la suddetta anima pregò il Signore, acciò avesse dato a questi novelli cardinali grazia di sostenere la santa Chiesa cattolica; si rallegrava con il suo Dio, e pregava a volerli benedire. Dice che, fatta la suddetta preghiera si addormentò, e le parve in sogno di trovarsi in un luogo dove vide i suddetti porporati, che ritenevano la somiglianza di bestie, a seconda dei propri vizi predominanti; a questa vista dice che inorridì, e nel sogno si rivolse verso Dio piangendo.

Allora dice che intese una interna voce che si lamentò del cattivo procedere non solo di questi, ma di tutti quelli che amministrano, e dimostrandole il disonore e il gravissimo torto che questi fanno alla sua divina giustizia, si protestava Dio di punirli severamente. Dopo il suddetto sogno, dice che il suo spirito restò in una gravissima afflizione, che altro verso non fece per molti giorni che piangere e sospirare, per aver veduto tanto disonorato Dio, e per la compassione che le fecero i suddetti, sebbene dice che in quel momento riconcentrò il suo spirito in se stessa, e disse fra sé: «Oh se Dio mi desse a vedere la povera anima mia ricoperta delle proprie miserie, molto più brutto di questi mi comparirebbe!».

Così si credette di essere molto più deforme dei suddetti, che aveva veduto, e piangendo i propri peccati restò con buona opinione dei suddetti porporati.

36.2. La presenza di Dio


Dal giorno 8 fino al giorno 17 marzo 1816 il mio spirito se l’è passato in sommo raccoglimento. Tre volte in questi giorni si è degnato Dio favorirmi in modo speciale, ma non so spiegare in nessun modo la maniera con cui Dio si degna comunicarsi alla povera anima mia, perché è molto diverso da quello che mi si degnava comunicarsi prima; ma per non mancare all’obbedienza qualche cosa dirò.

Il giorno 14 marzo 1816, circa le ore 4 italiane della notte, stavo scrivendo questi fogli, era tutto raccolto il mio spirito, quando fui sopraffatta da profondo sonno, che mi convenne di lasciar di scrivere. Credetti veramente sonno naturale, ma nell’abbandonarmi che feci, intesi una innovazione di spirito, che mi trasformò. Questo, per quanto potei capire, mi parve che non durasse più di un quarto d’ora. Mi desto, e mi trovo presente Dio, in una maniera che non so spiegare. La povera anima mia nel trovarsi tanto vicina al suo Dio, si struggeva di amore in lacrime, parte per ricordarmi i gravissimi torti fatti a questo buon Dio, parte per tenerezza e per gratitudine di vedermi tanto beneficata, con tanto demerito.

Nel tempo che l’anima stava tutta sprofondata nel suo nulla, e piangeva con abbondanti lacrime i suoi peccati; Dio, mosso da compiacenza, si mostrava tutto amore, tutto benevolenza, verso la povera anima mia. Alla cognizione dell’infinito amore di Dio, mi cagionò dolce deliquio di amore, e, tutta nell’immenso seno del suo Dio si abbandonò la povera anima mia; in questo tempo perdetti ogni intendimento, per essermi tanto internata nell’immensità di Dio. In questa situazione l’anima non si avvede quanto Dio opera in lei, ma per parte di intima cognizione conosce di aver ricevuto grazie da Dio. Non so dir di più, non so spiegarmi meglio.

36.3. L’anima arrivò a lottare con il suo Dio


Dopo aver goduto di quella presenza di Dio, come già dissi, la sera del dì 14 marzo 1816, che riempì il mio cuore di gaudio e di dolcezza, il dì 15 del suddetto mese, nella santa Comunione, si riempì il mio cuore di gravissima mestizia. La tristezza e l’affannosa pena mi faceva piangere e sospirare; andava ogni momento più a farsi grande la mia pena, sicché in poche ore l’anima arrivò al colmo del patire. Sentivo lacerarmi il cuore dall’amarezza e dall’afflizione; lo spirito era circondato da gravissime pene, era immerso nelle pene più afflittive di spirito che possono mai ridirsi. In questo patire però non si allontanava l’anima dal suo Dio, ma con sommo ardore tra quelle pene avidamente lo cercava; Dio, invece di farsi trovare in aspetto piacevole, mi si dava a vedere in aspetto terribile e spaventoso, quasi sul momento di precipitarmi senza pietà; ma l’anima invece di fuggire questo Dio terribile, viepiù gli si avvicinava; più Dio si mostrava terribile, in atto di scaricare sopra di questa i più spietati flagelli, e più l’anima gli si faceva sotto, compiacendosi di restare annientata per compiacerlo. Con santo ardire andava replicando: «Annientami, annichilami, sempre tua sarò».

Ed intanto le si faceva più sotto senza timore, ma sopraffatta dalla compiacenza di dar gusto al suo amato bene, disprezzava ogni qualunque gravissimo male, ogni qualunque gravissima pena e quasi sfidando la sua divina giustizia a castigarmi con i più spietati flagelli.

Intanto l’anima, affidata alla sua divina grazia, pregava acciò mi volesse dare invitta costanza, per disprezzare ogni pena e travaglio per amor suo. A nostro modo di intendere l’anima arrivò a lottare con il suo buon Dio. Dio le mostrava la sua severità, e l’anima gli mostrava la sua fedeltà, la sua costanza, mediante il suo divino aiuto.

Che grazie siano queste, mi pare che non si possano esprimere da qualunque dotto oratore. Dunque cosa dirò io, che sono tanto miserabile e tanto vile? Mentre l’anima per mezzo della grazia viene tanto a sollevarsi sopra se stessa, e operando con sublimità di affetto, per mezzo della volontà veniva ad esercitare una costanza eroica, una fortezza invitta, una fiducia filiale, mentre l’anima tutta si appoggiava agli infiniti meriti del suo buon Gesù.

Dal giorno 15 marzo fino al giorno 21 del suddetto mese 1816, il mio spirito è stato in questa suddetta situazione, ora patendo pene gravissime, ora sopraffatta dall’amore, cercavo di patire di più.

36.4. Mi fece riposare tra le sue braccia


Il dì 22 marzo 1816, nella santa Comunione, il mio Dio, non più in aspetto terribile, come per il passato, ma in aspetto piacevole e benigno, mi manifestò. E come potrò mai ridire gli affetti scambievoli di Dio e dell’anima, che vicendevolmente andavano facendo tra loro? Mi fece riposare tra le sue braccia, mi strinse al suo seno purissimo, quante belle promesse mi fece! Mi promise che il giorno che la Chiesa celebra la festa della sua Risurrezione avrebbe favorita la povera anima mia con grazia molto particolare e distinta. Vorrei occultare la grazia, ma dubito di mancare all’obbedienza, a gloria di Dio la manifesterò. Mi promise di donarmi una fiducia straordinaria, soprannaturale: «Questa», mi disse, «ti sarà molto giovevole non solo a te, ma a tutti quelli che usano verso di te della carità. Abbandònati nella mia divina provvidenza. Non dubitare, vedrai quello che saprò fare per beneficarti!».

A sentimenti così particolari di carità, la povera anima mia si profondava nel suo nulla e si umiliava profondamente, e, ammirando l’infinita bontà di Dio, si struggeva di amore in lacrime.

36.5. Nel patire lodavo e benedicevo il Signore


Dal giorno 22 marzo 1816 fino al giorno 3 di aprile 1816 il mio spirito ha sofferto pene molto gravose, temporali e spirituali; ma per grazia di Dio, l’anima è stata sempre rassegnata nel divino beneplacito, nel patire lodava e benediceva il suo Signore. Benché molto sensibile mi fosse il suddetto patire, ciò nonostante l’anima si rassegnava tutta in Dio; rassegnata che si era nel divino beneplacito, sperimentai nell’intimo dell’anima un profondo raccoglimento.

Nel tempo che stavo così raccolta, mi si manifestò Dio sotto i più spietati patimenti e mi fece intendere che, se bramavo possederlo, dovevo con generosa costanza affrontare quei patimenti che mi si presentavano.

A questa cognizione non paventò lo spirito, ma con eroica fortezza, compartitami dalla grazia di Dio, affrontavo virilmente il patire, disprezzando quanto mi si frapponeva per andare liberamente a Dio. Con santo ardire calcavo, infrangevo con fortezza invitta il patire, e mi slanciavo liberamente nell’amoroso seno del mio Dio, che, pieno di compiacenza, godeva in se stesso nel vedermi, per amor suo, disprezzare tutte quelle gravissime pene.

Si degnò di rendermi partecipe del suo gaudio, del suo contento. Oh, come esultava il mio povero spirito in Dio, suo Signore! Oh, che dolcezza sperimentò il mio cuore! Non mi è possibile poterlo ridire.

36.6. Chi ascolta te, ascolta me


Il dì 6 aprile 1816 nella santa Comunione mi apparve il Signore sotto la forma di nobile giovanetto. Lo vedevo accompagnato da molte schiere angeliche, che tutto amore e tutta carità veniva con sommo giubilo a stabilire nell’anima mia l’augusto suo trono. Pieno di santo affetto, diceva: «Figlia, diletta figlia, chi ascolta te ascolta me; mentre in te risiede il mio Spirito. Quelli che avranno fiducia saranno dalle tue parole consolati».

A queste espressioni l’anima restò profondamente umiliata, e volgendosi al suo Dio, con molte lacrime di tenerezza: «Mio Dio», diceva, «che più non mi conoscete che sono la creatura più miserabile che abita la terra? E come potete trovare in me la vostra compiacenza, se sono tanto miserabile e peccatrice? Ah, Gesù mio, partitevi da me, ne sono troppo indegna; andate a formare il vostro trono in quelle anime che vi sono fedeli».

I veraci miei sentimenti non rimossero punto il divino Signore dalle sue amorose idee, ma anzi molto più stabilmente si fermò nel mio cuore, e, manifestando con maggiore energia i divini suoi affetti, arrivò a chiamare questa misera anima «arbitra del suo Cuore, oggetto delle sue compiacenze».

L’anima, nel vedersi così sopraffatta dall’amore di Dio, si abbandonò tutta negli eccessi della sua infinita misericordia, traendo dal cuore una fiamma vivissima di carità, riamava quanto più poteva l’amorosissimo suo Dio, con quella stessa fiamma di carità che si degnò comunicarmi per mezzo dell’intima sua unione.

Sopraffatta l’anima dal divino incendio, s’inabissò in Dio, suo Signore; mi parve di restare come incenerita, come annientata in me stessa, mi trovavo tutta tutta trasformata in Dio; perdetti ogni idea sensibile, restò il mio corpo alienato dai sensi.

Dal dì 6 aprile 1816 fino al dì 10 del suddetto mese, il mio spirito, per il fatto suddetto, restò come estatico. L’interno raccoglimento mi toglieva ogni idea sensibile, quando, per adempiere agli affari domestici, procuravo con molta fatica di scuotermi, adempito che avevo l’obbligo del mio stato, tornava Dio, per mezzo di un tocco interno, a richiamare lo spirito intimamente, in maniera che restavo inabile a proseguire ad agire sensibilmente.

Il dì 11 aprile, Giovedì Santo, nella santa Comunione, mi favorì Dio con particolare grazia, ma per essere cosa intellettuale, il mio scarso talento non mi permette di poterlo manifestare. Il gaudio, la dolcezza inondarono il mio cuore, e lo facevano ardere di santo amore.

 

37 – TRE CUORI UN SOLO AMORE


37.1. Venerdì Santo 1816


Il dì 12 aprile 1816, Venerdì Santo, nell’orazione subito levata, era tutto afflitto il povero mio cuore, per vedermi in quella mattina priva della santa Comunione. Con calde lacrime e affannosi sospiri, ricorrevo al mio Dio, manifestandogli i miei desideri; l’invitavo con santo affetto a venire a visitare l’anima mia. Terminata la preghiera e mostrati i miei desideri, il Signore mi fece intendere che si sarebbe degnato di venire a visitare la povera anima mia, e altre due anime da me molto raccomandate.

Nell’assistere dunque alla Messa, unitamente alle anime suddette, si degnò Dio comunicarsi alle nostre anime in modo molto particolare. Mi si diede a vedere nella sua santissima umanità crocifisso, tutto risplendente di luce; tramandò dal venerando suo cuore tre dardi preziosi, che vennero a trapassare i nostri cuori. In quel prezioso momento di tre cuori se ne fece uno solo, mentre l’attrazione del dardo divino ci trasse il cuore dal petto e ci condusse nel prezioso cuore del nostro amorosissimo Gesù, e del nostro cuore ne formò uno solo con il suo, e così restammo con lui intimamente uniti. Per quanto è a mia notizia, le suddette anime godettero i buoni effetti di questa grazia.

Proseguo a raccontare come passai il resto del Venerdì Santo 12 aprile 1816. A mezzogiorno mi portai in una chiesa, per assistere alle tre ore della preziosa agonia del nostro Signore Gesù Cristo; dove per quattro ore continue stetti immobile in ginocchioni, senza soffrire il minimo nocumento; tanto si era internato lo spirito nella considerazione dei patimenti dell’amorosissimo Gesù, che mi ero affatto dimenticata di me stessa.

Immersa nell’afflizione dei suoi patimenti, ricordevole di averlo tanto offeso, deploravo con abbondanti lacrime le mie colpe. Al riflesso poi delle misericordie che Dio si è degnato usarmi, nonostante la mia grandissima ingratitudine, si riempiva di santi affetti il mio cuore. La gratitudine, l’amore mi faceva piangere e sospirare; si accendeva di santo amore lo spirito, e amava ardentemente il crocifisso suo bene. In questa guisa passai un buon tratto di tempo. Finalmente da particolare raccoglimento fu sopito lo spirito.

In questo tempo mi parve di essere da mano invisibile trasportata sopra un altissimo monte, sopra il quale vidi il crocifisso mio bene, che pendeva dalla croce. Quali affetti destò nel mio cuore la vista compassionevole dell’amoroso Signore, non so manifestare. Era circondato da ombra pallida di mesta luce, questa destava nel mio cuore un profondo rispetto e particolare devozione. La compassione, l’amore mi fece ardita, slanciandomi verso la croce, abbracciai strettamente la cattedra delle eterne misericordie; e tra lacrime e sospiri, offrii tutta me stessa al suo divino beneplacito, con una rinunzia particolare e generale di tutta me stessa. Per mezzo di intima cognizione, mi fece intendere che bramava fossi per amor suo crocifissa.

Appena l’anima ebbe questa cognizione, immantinente si dispose al gran sacrificio, e, sopraffatta dall’amor santo di Dio, chiedeva in grazia al crocifisso suo bene che si eseguisse in me quanto lui bramava, desiderando ardentemente di essere crocifissa per amore di quell’amoroso Signore, che miravo crocifisso per la nostra eterna salute.

Dato il mio consenso, fui per mezzo dei santi Angeli collocata sopra una croce, dai medesimi fu innalzata la croce e collocata di rimpetto al crocifisso mio bene. Salita che fu l’anima sopra la mistica croce, fu sopraffatta da dolci ma penose agonie, mentre lo spirito faceva prova di staccarsi dal corpo, per l’amore e per l’ardente desiderio che aveva di unirsi all’amato suo bene.

Nel tempo che l’anima si disfaceva di amore e in sante lacrime, l’amoroso Signore, traendo dal venerando suo cuore un amoroso strale, dolcemente colpì il mio cuore, il colpo mortale misticamente mi fece morire; prezioso momento che il mio buon Signore, per mezzo di ardente amore, al suo cuore mi unì. Per espresso comando di Dio onnipotente, il mio direttore così crocifissa sopra un monte mi trasportò, ferma e permanente sopra questo monte la croce stabilì e fissò; pieno di santo zelo, alla maggior gloria di Dio, e per l’altrui esempio a tutti fece palese quello che Dio vuole da me.

Oh, come in un baleno si riempì quel monte di nobili donzelle, di anime prescelte, che del trinitario Ordine vollero seguire l’esempio.

Il dì 13 aprile 1816, Sabato Santo, si riempì di sommo gaudio il mio spirito, per un certo particolare favore che ricevetti da Dio, che non so manifestare.

37.2. Gesù mi apparve qual trionfante guerriero


Il dì 14 aprile, giorno della Santa Pasqua, si accrebbe viepiù nel mio cuore il gaudio, e la letizia faceva esultare lo spirito; piena di santo affetto, con replicati atti di amore si slanciava lo spirito verso l’amante Gesù, e congratulandosi con lui per la gloria e per il trionfo riportato con la sua preziosissima morte; quando l’anima si fu inoltrata nella considerazione di sì vasto trionfo d’amore, e piena di ammirazione, con la grazia di Dio, ne penetrava la profondità, sopraffatta dall’amore, alla considerazione di simile eccesso, l’anima, sollevata sopra se stessa, lodava, amava, ringraziava incessantemente il suo amorosissimo Gesù.

Quando ad un tratto mi apparve il buon Gesù, qual trionfante guerriero, accompagnato da immenso stuolo di Angeli; ma la sua bellezza, la sua vaghezza non si può descrivere, un purissimo splendore scintillava dal suo volto, che teneva assorte le potenze dell’anima mia, e come incantata non avevo più che desiderare né che pensare; ma, sopraffatta dall’ammirazione, ardentemente amavo l’amabilissimo mio Signore. Salito sopra un monte si degnò benedirmi. I buoni effetti che cagionò nell’anima mia la sua benedizione non mi è possibile manifestare; restò il mio spirito estatico e come assorbito dallo splendore che tramandava da ogni intorno il venerando suo corpo, che per otto giorni ne godei i buoni effetti.

Ebbi nei suddetti otto giorni particolare ispirazione di chiedere al principe degli apostoli, san Pietro, un santo apostolo per guida, per direttore. Pregai dunque con grande istanza il gran principe degli apostoli, perché mi avesse, secondo il mio spirito, dato un santo apostolo per protettore. Non sdegnò il santo la povera mia preghiera, ma si degnò darmi per guida e protettore il glorioso san Giacomo il Maggiore, il quale mi apparve vestito da pellegrino, e mi mostrò una lunga strada, molto stretta, dritta e piana; mi fece intendere che questa mi avrebbe condotto direttamente al mio Dio, che in questa strada mi veniva significata la mortificazione. Mi esortò a darmi alla pratica di sì bella virtù.

Appena il santo ebbe ammaestrato il mio spirito intorno a questa virtù, che al momento nacque in me un gran desiderio di darmi alla pratica di questa bella virtù, come in effetti feci, con la licenza del mio padre spirituale mi diedi alla pratica di questa virtù con maggiore impegno di prima.

Dal dì 21 aprile 1816, giorno dell’ottava di Pasqua, fino al giorno della vigilia dell’Ascensione del Signore, il mio spirito ha sofferto pene gravissime di abbandono, di smarrimento, di ogni sorta di pene di spirito.

37.3. Unione del tutto particolare


Il dì 23, giorno dell’Ascensione, 23 maggio 1816, il mio spirito, illuminato da particolare luce e sollevato a contemplare gli alti misteri della nostra redenzione, a cognizione così sublime lo spirito si profondò nell’amore grande di Dio e si accese di santo e puro amore. L’amore mi fece ascendere ad una particolare unione con Dio, ma unione tanto particolare che non ho termini di poterla manifestare. Basta dire che dal giorno 23 suddetto fino al 2 giugno 1816 di questa unione ne godei i buoni effetti.

In questi dieci giorni perdetti ogni idea sensibile, e assorta tutta in Dio, se ne stava la povera anima per le frequenti comunicazioni che aveva con il suo Dio. Dovetti in questi dieci giorni privarmi affatto di conversare, perché nessuno si avvedesse di quello che passava nel mio spirito.

Si combinò in questi giorni che mi furono a trovare certi santi religiosi e, dovetti soffrire il rossore, la confusione di vedermi tutto ad un tratto incapace di ogni sensazione, per il forte tocco di Dio, che rapidamente chiamò lo spirito. Sicché, alienata dai sensi, restai con mia somma confusione alla presenza di quei santi religiosi, che mi avevano favorito di una loro visita.

Cosa mai godé il mio spirito in questi giorni non mi è possibile manifestarlo. Sopraffatta da interna quiete e da particolare raccoglimento e da particolare cognizione di se stessa, si profondava nel proprio suo nulla, e Dio la degnava di innalzarla, per mezzo di sublimi cognizioni dell’infinito suo essere. A queste cognizioni l’anima operava cose molto grandi verso il suo Dio; e Dio, compiacendosi nell’anima, la univa a sé intimamente, di maniera che, per lo spazio di dieci giorni, il mio spirito non fu capace di comprendere nessuna cosa sensibile, per le frequenti comunicazioni che aveva con Dio, molte furono le grazie che si degnò Dio compartirmi per mio e per l’altrui vantaggio, e sono: l’efficacia della preghiera per gli altrui vantaggi, beneficare tutti quelli che mi fanno del bene e salvarli, come ancora salvare tutte quelle anime che sono a me unite, per mezzo di particolare unione.

Le grazie particolari che Dio si degnò compartirmi furono tre gradi maggiori di fede, speranza e carità. Queste tre grazie mi furono compartite dalle tre divine Persone, che nell’unità e trinità si degnarono favorirmi con specialità di affetto, e introdurmi nel vastissimo oceano della loro divina immensità. Un solo Dio in tre persone divine: oh portento incomprensibile, io non ti posso né comprendere, né spiegare! Mi umilio dunque nel profondo del mio nulla, e profondamente ti adoro e ti riverisco, ti confesso per quel Dio immenso, incomprensibile che sei. Per mezzo di queste ed altre simili cognizioni, l’anima restò inabissata e tutta perduta in Dio.

37.4. Pativa il corpo, ma godeva lo spirito


Dal dì 23 maggio 1816, giorno dell’Ascensione del Signore, fino al giorno della Pentecoste, intrapresi un digiuno più rigido del quotidiano, non prendendo altro cibo che una scarsa cioccolata con poco pane ogni ventiquattro ore, dormire poche ore sopra un duro pagliaccio, fare cinque e sei ore di orazione continua, sempre in ginocchioni. Negai in questi otto giorni al mio corpo il bere, sicché non gli permisi di prendere neppure un sorso d’acqua. Pativa il corpo, ma godeva lo spirito illustrazioni di mente, contrizione dei peccati, intimo raccoglimento, amore ardente, che dolce e soave mi rendeva il patire.

Il dì 2 giugno 1816, festa della Pentecoste, in questa solennità fui favorita da Dio con particolare grazia e favore, ma non so, non posso manifestare quello che passò nel mio spirito; solo posso dire che per otto giorni continui godei quella grazia di quel distinto favore con molto profitto del mio spirito.

37.5. Pene interne gravissime


Dal dì 16 giugno 1816 fino al dì 22 giugno 1816 il mio spirito fu sopraffatto da pene interne gravissime, che lo ridussero all’ultima desolazione, ma nonostante mai lo spirito si dipartì dal suo Dio, ma con costanza invitta, somministratami dalla grazia, affrontavo il patire, e con petto forte sfidavo l’inferno tutto, compiacendomi di essere straziata dalla gravissima pena che soffrivo, per amore di quel crocifisso Signore, che si compiacque di essere straziato per amor mio.

Più si faceva grave la pena, più trovavo forte lo spirito. Tanto fu grande il patire interno ed esterno di questi giorni, che più volte mi ridusse a stare stramazzone sul suolo, eppure lo spirito, pieno di coraggio, tutto affrontava per amore del suo Signore, protestandosi con somma frequenza che se il possedere Dio mi fosse dovuto costare un inferno, non di pena, ma di contento mi sarebbe questo patire.

In questa guisa andava Dio purificando il mio spirito, per così disporlo a ricevere dall’infinito suo amore un favore molto distinto. Con la grazia di Dio, io aggiungevo all’interno patire digiuni, penitenze, lunghe orazioni, bramando di essere un puro perfetto olocausto, e qual vittima di amore, finire la vita per sostenere virilmente l’amore.

37.6. Negli spazi della divinità di Dio


Il dì 23 giugno 1816, vigilia del glorioso san Giovanni Battista, ho avuto particolare comunicazione con Dio, per mezzo della valevole protezione del lodato santo. Dopo la santa Comunione mi apparve il santo, circondato di splendidissima luce, riccamente vestito, portava un manto reale, tutto intessuto di perle e di preziosissime gioie. Questo manto denotava la sua purità, la sua umiltà, la sua carità, era di una bellezza, di una vaghezza senza pari.

Oh, come la povera anima mia, allo sfolgoreggiare di tanta luce, restò estatica, e piena di ammirazione! Tanto questo gran santo era rassomigliante all’amabilissimo mio Gesù, che al primo aspetto mi parve una divinità. O glorioso santo, non è spiegabile il tuo onore, la tua gloria. Felice è quell’anima che gode la protezione di questo gloriosissimo santo. Qual rispetto, qual venerazione sentiva il mio spirito verso di lui, tutto si profondava nel suo nulla, si umiliava davanti alla sua grandezza; ma il santo, qual maestro di umiltà, con volto affabile e piacevole, m’invitò ad approssimarmi a lui, non con parole, ma in sommo silenzio. Si fece da me intendere, per mezzo di interna cognizione. Pieno di sommissione, a lui si avvicinò il povero mio spirito, e l’umilissimo santo mi degnò darmi a sostenere la coda del suo prezioso manto, in questa guisa m’introdusse in un luogo altissimo, con questo mi veniva a significare che mi degnava della sua particolare protezione; ma quando fummo per penetrare viepiù la suddetta altura, ebbe il mio spirito bisogno di maggiore aiuto. Allora il santo stese il suo braccio destro, e si degnò reggere e sostenere il mio povero spirito, e così il glorioso santo ebbe il piacere di condurmi, senza alcun mio merito, perfino negli ampli spazi della divinità di Dio.

Introdotta che fu in quella immensità, l’anima si umiliò profondamente, e, sopraffatta da sommo timore per vedersi tanto sollevata senza alcun merito, s’inabissò in quella incomprensibile immensità, tutta si perdette in Dio, il quale si degnò mostrarle gli affetti più vivi del suo infinito amore. Per mezzo dei sentimenti più vivi e perfetti della sua parzialissima carità, la chiamò «oggetto delle alte sue compiacenze», le fece intendere come segregata l’aveva dal numero dei viventi, per averla intimamente unita a sé; mi fece intendere ancora che si compiace assai più in un’anima a lui unita di quello che si compiaccia in tutto il resto degli uomini.

A queste cognizioni la povera anima mia si disfaceva di amore in lacrime di gratitudine e di confusione, ricordevole di averlo tante volte offeso e disgustato. Dio si degnò stringerla al suo castissimo seno.

Oh, come la povera anima mia, tra i purissimi amplessi del celeste suo sposo si liquefaceva tutta di santo amore. Molto di più potrei dire, ma la mia insufficienza più non mi permette il potermi spiegare. Si contenti dunque per carità che resti con questi pochi e rozzi sentimenti soddisfatto l’obbligo di obbedienza, che mi corre di manifestare in scritto il mio spirito.

Dal dì 23 tutto il dì 24 godei un bene di spirito tanto particolare, per mezzo del mio gran protettore san Giovanni Battista, che mi tenne assorta in Dio per molti giorni, dal dì 24 giugno 1816 fino al dì 4 luglio 1816, per avere negligentato lo scrivere, non posso rendere conto di diverse cose molto particolari seguitemi in questi giorni per parte della grazia di Dio.

38 – PER TRE GIORNI RAPITA IN DIO


38.1. Il patrocinio di san Michele dei Santi


Il dì 5 luglio 1816, festa del beato Michele, nell’assistere alla Messa cantata, nella chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, fui sopraffatta da particolare raccoglimento, dove mi parve di vedere che dall’alto dei cieli scendeva una moltitudine di Angeli, che tutti festosi venivano per assistere al gran sacrificio della Messa cantata da quei buoni padri trinitari.

Questi angelici spiriti erano vestiti uniformemente, in tre diverse legioni erano divisi: la prima era vestita con veste candida, con scapole con croce rossa e turchina, la seconda legione era vestita di color turchino, la terza di colore rosso, ma erano una quantità che occupavano tutta la chiesa. Tutti erano disposti in bell’ordine.

Al Gloria della Messa mi parve vedere altre schiere angeliche, che festose, giubilanti conducevano con somma gloria ed onore il beato Michele. Il beato era preceduto dai santi patriarchi dell’Ordine trinitario, e qual diletto loro figlio, l’onoravano, col dargli un posto a loro immediato. Collocato che si fu il beato Michele in quel nobilissimo seggio contiguo ai santi patriarchi, fu onorato da quei cittadini celesti suddetti, ossequiandolo con incenso e profondi inchini, lodavano e ringraziavano la santissima Trinità per i favori concessi al nostro glorioso santo.

Ossequiato che fu, con volto piacevole a me rivolto con gesti cordiali mi fece coraggio, e mi fece intendere che mi fossi approssimata a lui. A questo piacevole invito la povera anima mia, umiliata profondamente in se stessa, sopraffatta da santo timore, non osava avvicinarsi a lui, ma i santi patriarchi con autorevole paterno comando, mi obbligarono ad approssimarmi a lui. Con santa umiltà mi avvicino, e il beato, preso il lembo della sua cappa, me lo diede a tenere nelle mie mani; piena di riverenza, bacio, stringo al mio cuore il prezioso pegno.

Oh qual meraviglia! mi sento il cuore trasmutarsi da incendio di santo amore. Oh come in quel momento il povero mio spirito si unì al suo sublime spirito! In questa guisa mi condusse in luogo molto eminente, dove unitamente ai tre religiosi trinitari celebranti mi condusse alla divina Madre; l’amorosa Signora, per mezzo del suo diletto servo, piacevolmente ci accolse, e per dimostrarci il suo particolare affetto, ci degnò di darci a tenere l’estremità del suo prezioso manto.

Oh, che grande onore è mai questo! fummo noi degnati di avvicinarci all’augusto trono della sovrana imperatrice del cielo e della terra. Oh quanto sei onnipotente, o gran santo, quanto amato sei dalla divina madre, Maria! Per tuo mezzo fummo onorati. Dégnati, o gran santo, di proteggerci in vita e in morte, e saremo sicuri, per mezzo del valevole tuo patrocinio, di pervenire a quella gloria, per lodare Dio per tutta l’interminabile eternità.

Autorizzati dall’alto favore compartitoci dalla divina Madre, fummo liberamente introdotti negli ampli spazi della divinità di Dio, dove al momento perdemmo il nostro proprio essere, e come atomi comparivamo davanti al suo tremendissimo cospetto. Eccoci inabissati nel proprio nulla, ma chi lo crederebbe? Dio, per sua infinita bontà, ci traeva dal proprio nulla, per potersi in noi compiacere. Tramandò un raggio della splendidissima sua luce ad investirci, e così ci rese quanto mai belli e risplendenti, e per mezzo della sua grazia ci formò oggetto delle alte sue compiacenze.

La suddetta comunicazione apportò al mio spirito un bene molto particolare. Per ben 24 ore ne godei i buoni effetti: umiltà profonda, raccoglimento interno, pace, dolcezza, soavità di spirito tennero tutte occupate le potenze dell’anima mia, mi comunicò Dio un gran desiderio di darmi tutta alla penitenza.

38.2. Il buon sacerdote mi chiese la benedizione


Terminata la Messa cantata, con stento mi portai alla mia casa, mancandomi quasi del tutto le forze naturali; dove fui visitata da un sacerdote forestiero di santa vita, il quale mi disse che Dio gli dava un forte impulso di unirsi al mio povero spirito, e che sentiva precisa necessità di manifestarmi tutta la sua vita, il suo spirito, svelarmi la sua coscienza.

Procurai a questa umile sua richiesta di oppormi, col dimostrargli la mia insufficienza, la mia viltà, la mia miseria, immeritevole affatto di tanto onore; ma il suddetto, preso dallo Spirito del Signore, mi obbligò ad ascoltarlo, protestandosi che il fine per cui voleva manifestarmi la sua vita, altro non era che per essere raccomandato al Signore. Con profonda umiltà mi manifestò il suo spirito, la sua coscienza.

Nel sentire le misericordie che Dio aveva compartito a questo suo servo, la povera anima mia si umiliò profondamente, nel vedere con quanta fedeltà corrispondeva questo ministro del Signore. Nell’ascoltare la sua austera penitenza, la continua orazione, le particolari comunicazioni che aveva con Dio, quanto amor di Dio possedeva questo eroico spirito, cose tutte che ad altro non servirono che a confondermi ed annientarmi nel proprio mio nulla.

Terminato che ebbe il racconto, mi disse che voleva pregarmi di una gran carità, che non gliel’avessi negata, mentre la chiedeva per amor di Dio. Il mio spirito non era ancora del tutto tornato nei sensi, per la comunicazione avuta, come già dissi, sicché poco e niente ero presente a me stessa, ma tutto riconcentrato lo spirito era in se stesso, godevo un bene molto particolare, godevo una semplicità di mente, una purità d’intenzione, che non mi permettevano di prevedere quello che questo servo di Dio fosse per domandarmi. Gli dissi: «Chieda pure, che, per amor di Dio, le prometto di fare quanto è per domandarmi».

Il buon sacerdote, pieno di umiltà, mi disse che voleva da me essere benedetto, piangendo mi disse che non gli negassi questa grazia. Qual sorpresa fu per me, non so dirlo; la sua richiesta riempì il mio spirito di santo orrore, risposi piena di confusione: «E come ardirà la creatura più vile che abita la terra benedire un ministro di Dio?».

Ero risoluta di non compiacerlo; ma da interno sentimento fui obbligata a condiscenderlo, mentre Dio mi fece intendere che la richiesta di questo suo ministro era di molto suo onore e di somma sua gloria, che dovevo assolutamente compiacerlo. A questa cognizione chinai il capo ai voleri di Dio, con profonda umiltà mi posi in ginocchioni e, recitando il Magnificat, profondata nel mio proprio nulla, mi umiliai dinanzi al mio Dio, poi mi alzai in piedi, invocando l’aiuto di Dio, benedii il buon sacerdote con il piccolo scapolare trinitario che tenevo indosso.

Il Signore si compiacque di fargli sperimentare i buoni effetti della povera mia benedizione, con donargli una viva contrizione.

Quanto mi restò obbligato il suddetto non è spiegabile, in quel momento gli convenne partire dalla mia casa senza poter proferire parola, tanto era sopraffatto dalla grazia di Dio e dalle abbondanti lacrime che versava dagli occhi; ma dopo pochi giorni mi favorì, e mi raccontò quanto di bene aveva sperimentato nel suo spirito per mezzo della povera mia benedizione.

La suddetta grazia si deve attribuire al beato Michele, che, come già dissi, poco prima si era degnato di farmi ritenere nelle mie mani la sua beata cappa.

Il buon sacerdote tornò a chiedermi la benedizione, ma Dio non mi permise di contentarlo, ma solo di implorare sopra il medesimo le divine benedizioni. Il buon sacerdote si alzò in piedi, restando contento e soddisfatto, promettendomi di ricordarsi di me nelle sue orazioni.


39 – VOGLIO UNIRTI IN SACRO MATRIMONIO


39.1. In bocca al demonio


Dal giorno 14 ottobre 1816 fino al 19 suddetto, li passai in sommo raccoglimento, e nella pratica della penitenza e digiuno, come si è detto di sopra, in preparazione alla festa di Gesù Nazareno, e in suffragio delle dette anime del Purgatorio.

39.2. Come Caterina da Siena


Il dì 19 suddetto fui favorita da Dio nella santa Comunione con grazia molto particolare, ma non so manifestare con termini proporzionati cosa tanto sublime, mentre fu sollevato il mio spirito ad un grado tanto intimo di unione, che credetti di finire la vita. La dolcezza, la soavità, l’amore essenziale che godeva la povera anima mia mi necessitava a dire, ebria di santo amore: «Basta, mio amore, basta Signore; basta, non più, sostener non posso la piena del vostro infinito amore. Basta, Signore; basta, non più».

Il profondo silenzio fu interrotto da dolce voce: «Figlia diletta», sento chiamarmi, «e se a te basta, non basta al mio amore. Altra grazia ti ha preparato l’infinito mio amore: il giorno 23 con sacro matrimonio intimamente a me ti unirò. Questo favore che voglio a te compartire non è meno grande di quello che mi compiacqui di fare alla mia serva Caterina da Siena».

A queste parole qual mi restassi non so ridire, ricordevole della mia infedeltà mi confondevo, mi umiliavo profondamente, piangevo con abbondanti lacrime le mie gravi colpe. Fui sopraffatta da viva contrizione.

Intanto il Signore sollevava il mio spirito per mezzo di intima cognizione, dandomi a conoscere l’infinito suo amore quanto parziale sia verso di me, misera sua creatura. A queste cognizioni si struggeva il mio cuore in lacrime di gratitudine, di amore; piena di santo affetto, tutta tutta mi offrii al suo divino beneplacito, acciò avesse fatto di me ciò che più gli piacesse: «Domine, quid de me vis facere», ripeteva la povera anima mia, «fiat, fiat voluntas tua».

Abbandonata che fui nel divino suo bene tutto in lui riposò il mio cuore, mi fece sperimentare i mirabili effetti del suo parziale amore.

Dal giorno 19 ottobre 1816 fino a tutto il 22 il mio spirito si andò disponendo al sopraddetto favore. Dio medesimo andava disponendo l’anima in una maniera molto particolare, trattenendola in replicate cognizioni, ora di se stessa, ora dell’infinito amore che mi porta. L’anima con santa umiltà si annientava in se stessa e piangeva i propri peccati, con vivissima contrizione, che sarebbe stata capace di levarmi la vita, se Dio da questa contrizione non mi avesse sollevata alla cognizione più alta del suo infinito amore.

Allora l’anima, qual cerva ferita, cercava l’amata fonte del santo amore. Trovo il fonte dell’acqua viva e là m’immergo, sono sopraffatta dalla piena delle dolcissime acque. Allora l’anima, ebbria di santo amore, andava replicando cento e mille volte il dolce suo nome, per dare così qualche refrigerio a quella viva fiamma, che tutto tutto mi bruciava il cuore.

«Gesù», dicevo con viva espressione, «dolce Gesù, fa’ che ti ami ogni momento di più». Gesù era nella mia mente, Gesù era nel mio cuore, Gesù era in tutta me; tutti i sentimenti miei invocavano Gesù: il mio sangue, le mie ossa, le mie interiora, tutti tutti invocavano Gesù; sicché il dolce eco risuonava nell’intimo dell’anima mia. La dolce armonia mi fece dimenticare ogni altra idea, di maniera che più non conoscevo altra parola che il dolcissimo nome di Gesù, non sapevo più proferire parola che non dicessi Gesù.

In questa guisa andò disponendo l’anima mia alla particolare unione di sacro matrimonio, come già le aveva promesso. Sicché dal giorno 19 ottobre fino al dì 23 suddetto, il mio spirito fu assorto in Dio, in una maniera molto particolare. L’amore grande che mi compartì Dio in questi giorni non mi è possibile manifestare.

39.3. L’anima tutta al suo Dio si consacrò


Il dì 22 mi disposi con una buona confessione, si degnò il Signore concedermi una particolare contrizione, tutto il giorno lo passai nel piangere i miei gravissimi peccati. Dal pianto passava l’anima ad un particolare riposo e godeva di un bene sommo, quando ero così riconcentrata udivo nel profondo della quiete armoniose voci, che dolcemente m’invitavano al divino talamo del mio Signore. Le dolci loro voci rapivano il mio cuore e lo rendevano tutto tutto del mio Signore.

Tutte queste cose che seguivano nel mio spirito, mi tenevano alienata dai sensi, e questo fu per tutta la giornata, più o meno godei la soavità degli odorosi profumi, che da ogni intorno spandevano quei medesimi spiriti celesti, che soavemente cantavano le lodi del loro Signore. Si andava ogni ora più disponendo la povera anima mia a ricevere il suddetto favore con atti interni di viva fede, di ferma speranza, ardente carità. Così passai la giornata. La sera poi si aumentò tanto l’interno raccoglimento, che mi rese incapace di ogni idea sensibile.

Tutta la notte la passai in orazioni, dopo aver riposato dolcemente nelle braccia del celeste mio sposo circa tre quarti. Viva fiamma il cuor mi accende di santo amore, il mio cuore già era impaziente, per la gran brama che aveva di unirmi con sé. Quali atti di amore faceva il mio cuore al certo non posso ridire. E Dio intanto mi dimostrava l’infinito suo amore con sentimenti e dolci espressioni, mi parlava nell’intimo del cuore, in profondo silenzio e in perfetta quiete, l’anima tutta al suo Dio si consacrò.

39.4. Il Bambino di propria mano collocò l’anello nel mio dito


Il dolce mio amore, l’amabile Gesù, mi fece sapere che alle sette della notte mi voleva compartire il celeste favore, unendomi a lui intimamente con dolce nodo di santo amore. Tutto ad un tratto cinta mi vedo di celeste splendore; l’anima mia fu sopraffatta da santo timore, e piena di lacrime, diceva al Signore: «Mio Dio, non sono degna di sì alto favore». E profondata nel proprio suo nulla, tutta tutta di amore in lacrime si disfaceva; il mio cuore in santi affetti si esercitava, per così piacere al sommo suo amore. La vita, il sangue più volte offrivo di quello che respirasse il cuore.

Ebbria di amore, dicevo al Signore: «In croce per tuo amore voglio morire!». Era tanto l’amore che sentivo al patire, che non ho termini di poterlo ridire. Intanto l’amore a dismisura cresceva, che non lo potevo contenere più. Il mio Dio sommamente si compiaceva per amore suo vedermi languire. Tutto ad un tratto, vedo apparire maggiore splendore, nel mezzo del quale mi parve vedere Gesù bambino, che, dal seno della sua santissima Madre, amorosamente m’invitava ad avvicinarmi a lui, mostrandomi un prezioso anello, mi chiamava, e, con gesti i più puri e cordiali, mi significava l’infinito suo amore. Agli amorosi e replicati inviti del divin pargoletto, tutto tutto di amore si accese il cuore nel petto, profondamente mi umilio e a lui mi avvicino, non potendo più contenere il grande incendio di amore.

Il caro Bambino mi dona l’anello, e di propria mano lo collocò nel mio dito. Oh dolce momento, oh dolce contento il mio cuore provò! l’anima mia di sacro incendio viva viva bruciò, e stemperata di amore e di affetto, tutta liquefatta di amore restò. Lo sposo diletto invitò l’anima al sacro riposo, allora fui sopraffatta da celeste splendore, fino il mio corpo in alto si sollevò. In questo tempo cosa seguisse io non so ridire, la dolce impressione che fece nel mio cuore la particolare unione del mio Signore non so ridire. Una nuova vita mi parve di respirare; in quel momento un altro cuore Gesù mi donò, tutto conforme al suo divino amore. Il divin fanciulletto, aprendosi il petto, mi dava a conoscere l’infinito suo amore. Rompendo il silenzio, la dolce sua voce così mi parlò: «Amata colomba, diletta mia sposa, vieni, entra e riposa nel sacro mio cuore!».

Qual meraviglia, quale stupore, non era angusto il cuore del divin fanciulletto, ma era qual mare immenso di amore. Replicando l’amoroso invito, diceva: «Entra nel gaudio del tuo Signore», e, sommergendomi nella piena della preziosa acqua, che scaturiva dall’amoroso suo cuore, restai tutta sommersa e intimamente a lui unita.

Spettatori di questo favore furono i santi re magi, i santi patriarchi, la divina madre Maria santissima, con il suo castissimo sposo Giuseppe e molti spiriti celesti. Questi nobili personaggi furono spettatori e testimoni del distinto favore; questi nobili personaggi mostravano l’alta loro meraviglia, il loro stupore nel vedermi tanto favorita dal celeste sovrano, re del cielo e della terra.

Mi fece intendere il Signore che di questo distinto favore ne voleva particolare memoria. Non so spiegare di più, mentre si degnò Dio di avvicinarmi tanto a lui, che arrivai a godere della sua medesima esistenza, per partecipazione; a me pare che questo sia un grado di unione tanto intima, che non possa più inoltrarsi creatura viatrice più di quello... non posso spiegar di più, cosa mai godei nell’anima non è possibile manifestarlo. Molto particolari furono i buoni effetti, e permanenti: per lo spazio di quindici giorni mi tennero assorta in Dio.

40 – UNA CHIAVE PER LIBERARE LE ANIME DEL PURGATORIO


40.1. Tutto otterrai dal mio amore


Il dì 1 novembre 1816, per particolare favore, in questo giorno fu il mio spirito introdotto negli ampli spazi della divina immensità; fui favorita dal divin Padre, dal Figliolo suo unigenito e dal divino suo Spirito in una maniera molto particolare. Sollevata che ebbe Dio l’anima sopra se stessa, per mezzo di particolarissimi sentimenti, le mostrò l’infinito suo amore. La maestosa sua voce con questi amorosi accenti nell’intimo del mio cuore fece risuonare: «Figlia», mi disse, «diletta figlia, è infinito l’amore che ti porto. E se per compiacerti dovessi disfare tutto il mondo e di nuovo per amor tuo tornarlo a riformare, pur lo farei. Chiedi, dimmi cosa brami, tutto otterrai dall’infinito mio amore».

A sentimenti tanto straordinari di amore, l’anima s’inabissò nel proprio suo nulla e, piena di santa umiltà, si confondeva ed insieme ammirava l’infinita bontà del suo Signore; non ardiva parlare, ma con lacrime di tenerezza e di amore si protestava per la più indegna peccatrice che abita sopra la terra; mi conoscevo meritevole di ogni punizione, ma il mio Dio non cercava il mio demerito, solo cercava di appagare l’infinito suo amore.

Di nuovo mi fece ascoltare la sovrana sua voce: «Parla», tornò a dirmi, «parla, domanda pure liberamente quanto brami e desideri».

Conobbi, per mezzo di particolare cognizione, che compiaciuto lo avrei con chiedergli qualche grazia. A questa cognizione lascio il soverchio timore, e piena di fiducia nei meriti santissimi di Gesù, con umile preghiera chiedo di liberare dal Purgatorio le anime purganti. A questa mia richiesta, mi fu presentata una smisurata chiave: «Va’», mi sento dire, «va’», a tuo arbitrio libera tutte quelle che ti piace liberare».

Poco dopo tornai nei sensi, e mi trovai come smarrita, dicevo tra me stessa: «Cosa farò, è sogno o è vero quanto mi è accaduto nel mio spirito?».

Tornò a raccogliersi lo spirito, e mi parve di vedere i santi fondatori trinitari con san Carlo Borromeo; questi santi mi condussero in un luogo dove mi diedero a vedere il Purgatorio. Qual terrore, quale orrore, quale spavento mi cagionò simile vista, oh, che gravi pene, oh, che atroci tormenti soffrivano quelle sante anime, come si raccomandavano per essere liberate!

A vista così compassionevole, sentivo in me un gran desiderio di liberarle da quelle pene. Avrei dato la vita ai più crudi patimenti; ma per essere una povera peccatrice mi conoscevo insufficiente, nonostante la buona volontà; mi rivolsi con viva fede all’amabilissimo mio Gesù, e lo pregai con tanto ardore ed impegno che si degnò di apparire in quel tenebroso carcere, cinto di chiara luce. Allora i santi fondatori trinitari, unitamente al glorioso san Carlo, per mezzo delle loro suppliche, ottennero a molte di quelle anime di essere liberate da quel tenebroso carcere.

Molti furono i favori che in questi sei mesi di digiuno il Signore mi compartì, per la sua infinita bontà e misericordia, non solo a mio vantaggio, ma a vantaggio del mio prossimo, particolarmente dei miei benefattori. Molte grazie dispensò loro, come ancora si degnò il Signore, per mezzo delle povere mie preghiere, liberare molte anime dal Purgatorio.

Il dì 1 novembre 1816, per ordine di Dio, sospesi il suddetto digiuno, ed ebbi ordine di cibarmi di una minestra di legumi ed una pietanza di erba cotta.

40.2. Mi fece riposare sul suo Cuore


Dal dì 2 novembre 1816 fino al giorno 17 del suddetto mese il mio spirito li passò in particolare raccoglimento.

Il dì 19 novembre 1816 nell’orazione subito levata, che fu per lo spazio di buone tre ore, si raccolse il povero mio spirito e si trattenne a parlare familiarmente con il suo Dio, che per la sua infinita bontà si era dimenticato affatto dei miei falli; non altro parlava che di predilezione, di amore, chiamava la povera anima mia «diletta sua figlia, arbitra del suo cuore», capace di ottenere dal suo infinito amore quanto brama e desidera.

Io non so dire con quale maniera mi parla il Signore, mentre non si serve di parole sensibili, né di soliti accenti, ma per mezzo di particolarissime cognizioni mi dà a conoscere cose così grandi, che io non so né conoscere né spiegare; sopraffatta dall’ammirazione amo quel bene sommo, che non so né conoscere né amare, ma piena di ammirazione avanti all’incomprensibile mio bene, si umilia profondamente il povero mio cuore e si compiace che Dio sia immenso e che non possa comprendersi da umano intelletto.

A cognizioni così sublimi si accese nel cuore una viva fiamma del suo santo amore. Raccolte le forze, come di volo, nel casto suo cuore mi fece riposare. La compiacenza, l’affetto, l’amore, un’ardente fiamma di santo amore bruciò il cuore, al sacro incendio l’anima mia tutta in Dio si trasformò. In quel momento si ritrovò vicina al sole di giustizia, che per partecipazione un altro sole mi fece divenire. Per compiacenza il suo splendore mi comunicò; dopo avermi fatto quanto mai bella con il suo splendore, che non ho termini di poterlo spiegare, pieno di compiacenza, così prese a parlare: «Diletta mia figlia, gradita mia sposa, vieni, entra e riposa nel casto mio cuore. Amata colomba, deh spiega il tuo volo, il casto mio cuore tuo nido sarà; e da questo momento la mia e la tua volontà una stessa cosa sarà. È tanto l’amore che ti porto, che quanto brami e desideri ti concederò».

A queste parole l’anima mia si umiliò profondamente avanti al suo Dio, e riconcentrata tutta in se stessa, così prese a parlare: «Mio Dio, dove sono io? Sogno o son desta? Oh eccesso di amore! e donde procede l’immenso tuo amore, tanto parziale verso di me? Io, la più vile tra le figlie di Adamo, sol cerco, sol bramo compensare l’amore tradito. Angeli santi, aiutatemi voi a compensare il mio amato bene! O santi del cielo, datemi voi le vostre virtù! Mia cara madre, bella Maria, voi compensate la mia viltà». E in questi accenti tutta mi offrii al mio caro Gesù, rivolta a lui, così presi a parlare: «Cerco di ricondurre anime all’amante tuo cuore. Ecco la mia vita, ecco il mio sangue: tutto per tuo amore si verserà. Anime chiedo, caro Gesù mio, questa grazia non mi negar».

Allora il Signore mi diede a vedere un gran numero di anime che, per mio mezzo, voleva salvare. A questa vista l’anima mia profondamente si umiliò, e riflettendo all’amore tradito a confronto di tanto suo amore, da vivo dolore sentivo spezzarmi il cuore. La gratitudine, la contrizione mi fece versare un profluvio di lacrime. Per riparare in qualche maniera al disonore che il Signore ha ricevuto da me, pensai che un’altra anima si offrisse al Signore, per così compensare la mia ingiustizia.

Una fida compagna che mi ha dato il Signore, questa gli offrii, perché con voti di castità, obbedienza e povertà, potesse in qualche maniera compensare la mia infedeltà. E poi mi rivolsi ai santi patriarchi Felice e Giovanni, che si fecero presenti ai miei gemiti, al mio clamore. Rivolta a loro, così presi a parlare: «Deh voi degnatevi, miei cari padri, di ricevere quest’anima, e voi offritela all’eterno Dio, in compenso della mia iniquità».

Allora il patriarca san Felice di Valois mi mostrò un piccolo scapolare trinitario, e mi fece intendere che in quella forma doveva essere lo scapolare che dovevo porre indosso alla giovane zitella, poi il glorioso santo così prese a parlare: «Fin da questo momento la riguarderai qual figlia, altro nome a lei imporrai».

La mattina manifestai tutto al mio padre spirituale, il quale, dopo essersi raccomandato al Signore, credette di mettere in esecuzione quanto si è detto sopra. Sicché il giorno della festa del gran patriarca san Felice di Valois si diede il santo scapolare trinitario alla signora N. N. e gli si impose il nome di Maria Costanza del Cuore di Maria. Il suddetto nome fu dato dallo Spirito del Signore, mentre io dopo la santa Comunione incessantemente lo pregavo a manifestarmi qual nome dovevo imporre alla suddetta giovane. Per parte di particolare intelligenza ebbi cognizione di mettergli il suddetto nome, alludente alle riprove che quest’anima darà della sua fedeltà e costanza.

Dal giorno 19 novembre 1816 fino al dì 7 dicembre 1816, per aver trascurato lo scrivere, non posso render conto; solo dirò che, per mezzo di particolare ispirazione, ho ripreso il solito digiuno di una sola cioccolata ogni ventiquattro ore. Questo si intraprese da me il dì 25 novembre 1816, giorno di santa Caterina, fino al giorno del santo Natale, in preparazione a questo gran mistero m’invitò lo Spirito del Signore ad intraprendere questo digiuno ad imitazione di questa gloriosa santa; e, per sua infinita bontà, mi fece intendere che non meno grato gli sarebbe stato il mio digiuno di quello di questa benedetta santa.

40.3. La Chiesa ridotta all’ultima desolazione


Il dì 8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della santissima Vergine Maria, nostra tenerissima madre, nell’assistere alla Messa cantata si raccolse il mio spirito intimamente; in questo tempo Dio si degnò sollevarmi ad un grado molto particolare di unione, mi mostrò la sua divina giustizia sdegnata contro gli uomini, fui trasportata in spirito in un luogo eminente, dove mi fu mostrata l’orrida scena del tremendo castigo che Dio è per mandare sopra la terra, per i nostri enormi peccati. Io al solo rammentarlo sento riempirmi di terrore, e lo spirito è sopraffatto da profonda mestizia. Prego incessantemente il Signore a mitigare il suo sdegno, per i meriti del suo santissimo Figliolo Gesù.

Proseguo: «Mi si fece dunque vedere l’orrida scena. Mio Dio! qual terrore! Vidi da un lato la morte del nostro Sommo Pontefice. Dio, tutto piacevole, a sé lo chiamava; e lui piacevolmente ne riceveva l’invito, placidamente se ne moriva. Alla sua morte ecco la gravissima rovina della nostra santa Madre, la Chiesa; ecco Dio sdegnato contro di noi! Oh, che spavento; oh, che timore! La nostra cara madre, Maria santissima, stava a braccia aperte per riparare lo sdegno di Dio; ma Dio non ascoltava né preghiere, né sacrifici, né vittime; ma eccoci già schiavi di un barbaro, che inferocisce contro di noi e della nostra madre, la santa Chiesa.

Povere religiose, poveri religiosi! tutti fuori dei sacri chiostri, sarete espulsi non con dolcezza, ma a viva forza. Erano devastati i sacri templi, il culto di Dio era profanato. E da chi? Da quelli che per ogni ragione dovrebbero sostenerla: erano quelli che sfacciatamente si ribellavano e cercavano la totale distruzione della nostra cara Madre, la santa Chiesa, e in un momento era da questi figli ribelli ridotta all’ultima desolazione.

Ma buon per il piccolo gregge di Gesù Cristo, che fedele e costante al suo Dio, in mezzo a tanta barbarie seppe conservare pura e intatta la divina legge del santo Evangelo, ed i suoi dogmi sacrosanti. Le fervide preghiere dei buoni fedeli presto mossero il cuore di Dio a liberarci dalla fiera persecuzione.

Improvvisamente si vide uno splendore che circondò la nostra cara Madre, la santa Chiesa, e i fedeli figli suoi. E in un momento da mano onnipotente furono distrutti i fieri persecutori.

A questo gran prodigio, di nuovi figli si vide arricchita la santa Chiesa, quelli che non credevano in Dio, all’apparire il nuovo splendore, seguaci del Crocifisso divennero. Il mio spirito a tutto questo gran teatro di affanni e di contenti non so dire qual mi restassi, mentre credetti di perdere la vita affatto.

40.4. Un favore eccezionale: una particolare cognizione di Dio


Il dì 24 dicembre 1816, vigilia del santo Natale, la mattina subito levata passai tre ore e mezza in orazioni. In questo tempo mi preparai per fare una buona confessione. Il Signore si degnò compartirmi un lume molto particolare di propria cognizione, questa cognizione eccitò in me un vivo dolore di avere offeso Dio, e piangendo amaramente le mie colpe, ne domandavo di tutto di vero cuore perdono al Signore.

In mezzo a questa contrizione era molto grande il raccoglimento che mi comunicò il Signore. Da questo raccoglimento passai in una perfetta quiete, in un baleno si sollevò il mio spirito, e penetrò un luogo immenso, che io non so descrivere in nessuna maniera. In questo luogo l’anima mia dolcemente si riposò nell’immensità di Dio.

Terminata la suddetta orazione, il mio spirito restò tutto assorto in Dio; poi, secondo il solito, mi portai alla chiesa per fare la santa Comunione. Dopo la santa Comunione mi fece sapere il Signore che mi fossi preparata, che in quella santa notte mi voleva favorire con particolare grazia. La dolcezza, la soavità, il raccoglimento rese estatico il mio spirito.

In questo tempo mi apparvero due Angeli di nobile aspetto e di grado maggiore di quelli che in altre occasioni si sono degnati favorirmi della loro presenza e assistenza. Ebbi cognizione particolare, e seppi che quei sublimi spiriti, che mi avevano favorito della loro presenza in quella santa notte del santo Natale, erano del settimo coro degli Angeli. I suddetti spiriti celesti sono destinati da Dio, per particolare privilegio, di proteggere, di custodire il santo Ordine trinitario. I suddetti Angeli santi disposero il mio cuore a ricevere il celeste favore. Circa la mezzanotte fui alienata dai sensi, e in questo tempo Dio si degnò favorirmi la particolare grazia che mi aveva promesso nella santa Comunione.

Il favore fu molto particolare, motivo per cui non ho termini sufficienti per poterlo spiegare. Una moltitudine di santi Angeli furono spettatori del gran favore che mi compartì il Signore, e pieni di ammirazione lo lodavano, lo benedicevano, e con la povera anima mia si rallegravano, e qual tempio dello Spirito Santo mi ossequiavano.

Ai loro ossequi quale umiltà profonda sentiva il povero mio cuore, riconoscendomi per la più vile di tutte le creature che abitano la terra. Si profondava l’anima nel proprio suo nulla, e piena di gratitudine amava ardentemente, lodava incessantemente, ringraziava cento milioni di volte il suo Signore, e con tenerezza di cuore e con dolci lacrime tutta tutta si offriva al Signore, senza intervallo, senza riserva, ma tutta tutta mi donavo a lui.

In quella santa notte il Signore mi concesse una grazia molto grande, che io gli chiesi per due religiosi trinitari. Mi promise dunque il Signore che avrebbe dato grazia ai suddetti religiosi di perseverare nel bene operare fino alla fine della loro vita, e per conseguenza si sarebbero sicuramente salvati. La buona notizia della vita eterna dei suddetti religiosi mi apportò somma allegrezza di spirito.

Dopo aver ascoltato la Messa della mezzanotte, mattina del santo Natale, volli ascoltare ancora quella del mezzogiorno. A tale effetto, dopo sbrigati gli affari domestici della mia casa, mi portai alla chiesa con sommo raccoglimento, godendo ancora di quel bene che il mio Dio mi aveva comunicato la notte, come si è già detto di sopra.

Fu dunque il mio spirito chiamato a somma attenzione, e riconcentrato in se stesso intimamente; riconcentrato così profondamente mi si diede a vedere molto da lungi un prodigioso splendore. Fui invitata ad inoltrarmi. A questo invito mi fu comunicata particolare penetrazione di intelletto, Dio mi degnò di particolare intelligenza e mi diede particolare cognizione di se stesso e dell’infinito suo essere.

Quando l’anima mia si compiaceva infinitamente in Dio e prendeva altissima compiacenza nell’infinito suo essere, quando ero già immersa in questa infinita magnificenza, il mio Dio mi obbligò ad abbassare lo sguardo, e mirare questo mondo sensibile, e mi diede a vedere le grandissime iniquità che in questo si commettono.

Che indignazione, che iniquità! Mio Dio, datemi grazia voi per poterlo manifestare, mentre al solo pensarlo io raccapriccio, e si riempie di confusione ed orrore il mio spirito. Abbasso dunque lo sguardo e vedo Maria santissima con il suo santissimo Figliolo tra le sue braccia santissime, la vedo mesta e dolente, la sua mestizia destò nel mio cuore viva compassione e ardente amore, e mossa da cordiale affetto, domando a lei la cagione del suo dolore, offrendomi, benché indegna peccatrice, ad ogni sorta di patimenti, per così dare qualche conforto all’affannato suo cuore.

La pietosa Madre gradì la povera, ma sincera mia offerta, mentre in quel momento mi sarei data in mano ai più spietati carnefici, acciò avessero fatto di me il più crudele scempio, per così dare qualche conforto alla mia amabilissima madre Maria. La divina Madre a me rivolta, così mi dice: «Mira, o figlia, mira la grande empietà!».

A queste parole vedo che arditamente tentano i nostri apostati di strappargli arditamente e temerariamente il suo santissimo Figliolo dal suo purissimo seno, dalle sue santissime braccia. A questo grande attentato la divina Madre non più chiedeva misericordia per il mondo, ma giustizia chiedeva all’eterno divin Padre; il quale, rivestito della sua inesorabile giustizia e pieno di sdegno, si rivolse verso il mondo. In quel momento si sconvolse tutta la natura, e il mondo perdette il suo giusto ordine, e si formò sulla terra la più grande infelicità che mai possa dirsi né immaginarsi.

Cosa così lacrimevole e afflittiva che renderà il mondo all’ultima desolazione. Non posso dir di più. Preghiamo il Signore caldamente, acciò si degni mitigare verso di noi il suo giustissimo sdegno. Quale timore, quale spavento mi apportò simile vista non ho termini di poterlo spiegare.