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Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

DOMENICA II DOPO NATALE

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA II DOPO NATALE
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Temi del sermone

 

– Vangelo della seconda domenica dopo Natale: “Quando Gesù ebbe dodici anni”; vangelo che divideremo in tre parti.

– Anzitutto sermone ai penitenti per la Quaresima: “Applicate i vostri cuori a riflettere sulle vostre vie”.

– Parte I: Le dodici virtù e i genitori del giusto, cioè la speranza e il timore: “Quando Gesù ebbe dodici anni”.

– Sermone ai contemplativi: “Le porte di Gerusalemme”.

– Il triplice stato dei penitenti: “Tre volte all’anno”; e la loro triplice offerta: “Vi scongiuro”.

– Parte II: Sermone sulla compassione verso il prossimo: “Si vedevano tra quegli esseri”.

– Il triduo dei penitenti: “Il viaggio di tre giorni”.

– Parte III: Sermone sull’umiltà e sull’obbedienza: “Il mio diletto scese nel suo giardino”; e “Fiorirà il mandor­lo”; e ancora: “Ed era ad essi sottomesso”.

 

esordio - sermone ai penitenti per la quaresima

 

1. “Quando Gesù ebbe dodici anni” (Lc 2,42). Dice il Signore per bocca del profeta Aggeo: “Mettete i vostri cuori sulle vostre vie; salite il monte, portate la legna ed edificate la casa” (Ag 1,7-8). In queste tre parole: mettete, salite, e edificate, sono indicate la contrizione, la confessione e la soddisfazione (cioè l’opera di riparazione): e chi le ha potrà edificare la casa al nome del Signore. Le vie sono le nostre opere. Dice infatti Geremia: “Osserva le tue vie nella valle, e saprai ciò che hai fatto” (Ger 2,23).

Vedi il sermone della III domenica di Quaresi­ma, prima parte: “Gesù aveva scacciato un demonio, che era muto”.

“Mettere il cuore sulle vie” significa pensare con la contrizione del cuore a quello che si è fatto. Dice infatti il salmo: “Ho ripensato alle mie vie e ho rivolto i miei passi verso il tuoi comandamenti” (Sal 118,59). Ma poiché sono pochi, o non c’è nessuno che faccia questo, il Signore si lamenta: “Ho fatto attenzione e ho ascoltato: nessuno dice ciò che è bene; non c’è nessuno che faccia penitenza del suo peccato, dicendo: Che cosa ho fatto? Tutti sono ritornati alla loro corsa, come il cavallo che va impetuosamente alla battaglia” (Ger 8,6). Davide, giacché aveva posto il suo cuore, cioè aveva riflettuto, sulle sue vie, rivolse i suoi passi, cioè i suoi affetti, verso le testimonianze del Signore, cioè verso le atroci sofferenze della sua passione. Invece costoro, che non pensano a quello che fanno e neppure fanno penitenza, continuano la loro corsa dietro alle cose di questo mondo. Colui che non conosce la sua vita interiore, si rivolge alle cose esteriori ed estranee. È estraneo tutto ciò che tu non potrai portare con te al momento della morte. Quindi metti il tuo cuore sulle cose tue e non su quelle estranee, perché dov’è il cuore è anche l’occhio, dov’è l’occhio è anche la conoscenza, e dov’è la conoscenza c’è il perdono.

Mettete dunque i vostri cuori sulle vostre vie, e così potrete salire al monte, nel quale è raffigurata la confes­sione, che è “il monte di Dio, il monte fecondo” (Sal 67,16). Della cui fecondità è detto anche: “Sarà come ingrassata e rinvigorita la mia anima” (Sal 62,6). “Hai cosparso il mio capo di olio”, cioè la mia mente della luce della confessione, “e quanto è prezioso il mio calice” (Sal 22,5), cioè la bevanda delle lacrime. “O come è bella la generazione casta, con la gloria (lat. clàritas, chiarezza)” (Sap 4,1). La confessione, essendo prodotta dalla contrizione, può essere chiamata “generazione”, e la sua bellezza consiste appunto nella castità e nella chiarezza. Nella castità, perché i peccati devono essere per così dire denudati davanti ad un unico sacerdote, e non divisi tra molti; nella chiarezza, perché il penitente dev’essere come inondato di lacrime, dalle quali la sua coscienza viene resa limpida e chiara.

“Portate la legna”. Con questo è indicata la soddisfazione, cioè l’opera di riparazione: dal monte della confessione il penitente porta la legna della soddisfazione. E pensa che come nel legno della croce di Cristo ci fu la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità (cf. Ef 3,18), così in questo legno, che è la croce della penitenza, ci dev’essere la lunghezza della perseveranza finale, la larghezza della carità, l’altezza della speranza e la profondità del timore.

Con questa legna viene edificata la casa del Signore, nella città di Gerusalemme, della quale è detto nel vangelo di oggi: “Quando Gesù ebbe dodici anni, salirono a Gerusalemme come usavano fare per la festa di Pasqua” (Lc 2,42).



2. In questo vangelo si devono considerare tre fatti. Pri­mo, il viaggio di Gesù e dei suoi genitori a Gerusalemme: “Quando Gesù ebbe dodici anni”. Secondo, il ritrovamento di Gesù dopo tre giorni: “E avvenne che dopo tre giorni...”. Terzo, il ritorno di Gesù a Nazaret con i genitori: “E ritornò con loro...”

Nell’introito della messa di oggi si canta: “Nel trono eccelso della tua gloria...” (era una composizione liturgi­ca presa, come sembra, da Is 6,1-3).

Si legge poi l’epistola del beato Paolo ai Romani: “Vi scon­giuro, fratelli, per la misericordia di Dio” (Rm 12,1 ss.). La divideremo in tre parti e la confronteremo con le tre parti del vangelo per vederne la concordanza. La prima parte: “Vi scongiuro”; la seconda: “Non conformatevi”; la terza: “Per la grazia a me concessa, dico a ciascuno di voi”.

 

I. l’andata di Gesù e dei suoi genitori a Gerusalemme

 

3. “Quando Gesù ebbe dodici anni”. Vedremo quale sia il significato morale di queste espressioni: il fanciullo Gesù, i suoi genitori, Gerusalemme, l’usanza della festa di Pasqua.

“Il fanciullo Gesù”. Con questi due nomi viene indicata la perfezione del giusto, che dev’essere “fanciullo”, cioè puro (fanciullo, in lat. puer, purus) riguardo a se stesso, e “Gesù”, cioè salvatore, nei riguardi del prossimo. Per essere puro gli sono necessarie sei virtù: la purezza del cuore, la castità del corpo, la pazienza nelle avversità per non abbattersi, la costanza nella prosperità per non esaltarsi e, per perseverare in queste virtù, l’umiltà e la povertà. Per essere “salvatore” gli sono necessarie le sei opere di misericordia, enumerate nel vangelo: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ecc. (Mt 25,35 ss). E questo è il numero di “dodici anni” del giusto, che desidera salire a Gerusalemme con Gesù, del quale appunto è detto: Quando Gesù ebbe dodici anni.

“I suoi genitori”. Giuseppe e Maria. Giuseppe si interpreta “aumento”; Maria “mare amaro”, non perché si sia amaramente lamentata della sofferenza, ma perché ebbe in sorte il nome dell’amarezza quasi per un presentimento della passione del Figlio. Giuseppe e Maria sono figura della speranza e del timore, che sono come i genitori del giusto. La speranza è l’attesa dei beni futuri, che genera un sentimento di umiltà e una pronta disponibilità di servizio. Ecco Giuseppe, umile e diligente servitore [del figlio di Dio]. La speranza è detta in latino spes, quasi pes, piede, passo di avanzamento: ecco l’aumento, l’accrescimento. Al contrario si dice disperazione, quando non c’è nessuna possibilità di andare avanti, poiché quando uno ama il peccato non spera certo nella gloria futura. E perché la speranza non degeneri in presunzione, dev’essere unita al timore, che è principio della saggezza (cf. Sal 110,10; Eccli 1,16), al cui possesso nessuno può giungere se prima non ha assaporato l’amarezza del timore. Per questo è detto nel­l’Esodo che i figli d’Israele, prima di arrivare alla dolcezza della manna, trovarono l’amarezza dell’ac­qua di Mara (cf. Es 15,23). Bevendo una medicina amara si arriva alla gioia della guarigione.

Con questi genitori il giusto deve salire a Gerusalem­me, nella quale è raffigurata la perfezione della vita, la tranquillità della coscienza, la soavità della contemplazione. Dice Tobia: “Le porte di Gerusalemme saranno costruite di zaffiro e di smeraldo, e tutta la cinta delle sue mura di pietre preziose. Tutte le sue piazze saranno lastricate di pietre pure e candide, e per tutte le sue vie si canterà Alleluia” (Tb 13,21-22). Nello zaffiro che è di colore celeste, e nello smeraldo che è di colore verde è simboleggiata la perfezione della vita, che consiste nel disprezzo delle cose terrene e nel desiderio di quelle celesti. Nelle pietre preziose, pure e candide, è simboleggiata la tranquillità della coscienza. Nell’Alleluia è indicata la soavità della contemplazione.

Nel sermone della domenica XV dopo Pentecoste., parte terza, troverai trattata più a fondo questa citazione, nell’esposizione della storia di Tobia.

 

4. “Secondo l’usanza della festa di Pasqua” (Lc 2,42). Mosè aveva comandato ai figli d’Israele: “Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che egli avrà scelto: nella festa degli azzimi”, cioè la pasqua, “nella festa delle settimane e nella festa delle capanne. Nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote, ma ognuno offrirà ciò che ha, in misura della benedizione che il Signore Dio suo gli ha dato” (Dt 16,16-17).

Considera che in queste tre solennità sono raffigurati i tre stati della vita spirituale: quello degli incipienti, quello dei proficienti e quello dei perfetti.

Nella solennità degli azzimi è raffigurato lo stato degli incipienti, i quali devono celebrare la pasqua “con azzimi di sincerità e verità” (1Cor 5,8), e mangiare l’agnello con erbe amare di campo (cf. Es 12,8), cioè nell’amarezza dei loro peccati.

Su questo argomento vedi anche il sermone della Risurrezione, prima parte.

Nella solennità delle settimane, nella quale venivano offerti al Signore i due pani nuovi delle primizie (cf. Lv 23,16), è raffigurato lo stato dei proficienti, il cui uomo interio­re si rinnova di giorno in giorno (cf. 2Cor 4,16): essi offrono al Signore i due pani nuovi, vale a dire la purezza dell’anima e del corpo.

Nella solennità delle capanne, detta anche, in greco, scenopegìa, cioè allestimento delle tende, è raffigurato lo stato dei perfetti i quali, come dice Isaia, dimoreranno nelle tende della confidenza (cf. Is 32,18). “Le loro tende – dice Balaam – sono belle come valli boscose”: in esse sono indicate la povertà e l’umiltà che offrono un riparo di ombra contro gli ardori delle cose temporali; le tende sono belle “come giardini irrigati lungo i fiumi” (Nm 24,5-6), nei quali è simboleggiata l’infusione della grazia, che spegne la sete della concupiscenza carnale.

Questa dunque è l’usanza del giorno di festa, secondo la quale ogni giusto è tenuto e deve salire a Gerusalemme, dove, per non comparire davanti al Signore a mani vuote, deve offrire l’agnello dell’innocenza, per quanto riguarda il prossimo, i due pani nuovi della duplice purezza del corpo e dello spirito per quanto riguarda se stesso, e, come è detto nel Levitico, prendere i frutti dell’albero più bello e rami di palma, ecc. (cf. Lv 23,40).

Vedi anche l’ultima parte del sermone della domenica delle Palme.

 

5. Questa prima parte del vangelo concorda con la prima parte dell’epistola: “Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Il giusto che voglia salire a Gerusalemme con i genitori, secondo l’uso di questa festa, deve assolutamente osservare le tre norme delle quali parla l’Apostolo, altrimenti comparirà a mani vuote davanti al Signore, il quale dice: “Qualunque cosa offrirai in sacrificio, la condirai con sale, e dal tuo sacrificio non toglierai il sale dell’alleanza del tuo Dio. In ogni offerta – cioè in ogni opera buona – offrirai anche il sale del discernimento” (Lv 2,13).

“Vi scongiuro, dunque, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Fa’ attenzione a queste tre parole: vivente, santo, gradito a Dio. Gli incipienti devono offrire il loro corpo come sacrificio vivente, i proficienti come sacrificio santo, i perfetti come sacrificio graditoa Dio. E a queste tre qualità si riferisce anche il Levitico quando parla di tre specie di offerte. La prima consisteva nell’offerta di bestiame, la seconda nell’offerta di volatili, la terza nell’offerta di fior di farina impastata con l’olio; e quest’ultima in tre forme di cottura: al forno, al tegame e alla graticola.

La prima, il sacrificio vivente, è l’offerta degli incipienti; infatti sta scritto: “Tolta la pelle alla vittima, ne farà a pezzi le membra; preparata prima la catasta della legna, porranno il fuoco sull’altare; vi disporranno sopra i pezzi tagliati: la testa, tutto ciò che è unito al fegato; laverà con acqua gli intestini e le zampe; quindi il sacerdote brucerà il tutto sull’altare come olocausto di soave profumo per il Signore” (Lv 1,6-9).

L’altare simboleggia il cuore, il fuoco l’amore divino, la catasta della legna il cumulo delle sofferenze di Cristo; il togliere la pelle raffigura la rivelazione del peccato; le membra tagliate a pezzi simboleggiano la precisazione delle circostanze del peccato nella confessio­ne; la testa raffigura l’origine del peccato; il fegato l’ostinato attaccamento ad esso; gli intestini i pensieri immondi; le zampe sono i passi [verso il male] e l’acqua l’effusione delle lacrime.

Ecco dunque che il peccatore che si converte, iniziando il suo cammino di penitenza, deve prima fare, sull’altare del suo cuore, come una catasta delle sofferenze di Cristo, pensare cioè ai flagel­li, alle percosse, agli sputi, alla croce, ai chiodi, alla lancia, e quindi scoprire nella confessione i peccati e specificare con precisione le loro circostanze, quale sia stata l’origine del peccato e quanta la compiacenza e l’attaccamento ad esso. Poi deve purificare con l’acqua delle lacrime l’impurità dei pensieri e delle opere.

Quando tutte queste cose saranno eseguite e poste sopra il cumulo delle sofferenze di Gesù Cristo, egli stesso, che è il sommo sacerdote, vi pone il fuoco del suo amore che divorerà tutti i peccati: allora il penitente stesso diverrà olocausto, cioè totalmente bruciato, nulla rispar­miando di sé, ma mettendosi completamente al servizio del Signore, per essere ovunque il buon profumo di Cristo (cf. 2Cor 2,15). In questo modo offrirà se stesso come vittima vivente: vittima perché morto al peccato, vivente perché vivo solo per la santità; dice infatti l’apostolo: “Io vivo, ma non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).



6. La seconda, il sacrificio santo, è l’offerta dei profi­cienti. “Se l’offerta al Signore è un olocausto di vola­tili, il sacerdote offrirà all’altare tortore o colombe. Torcendone il capo sul collo provocherà una rottura e dalla ferita farà scorrere il loro sangue sullo zoccolo dell’altare. Invece la vescichetta del collo (il gozzo) e le piume le getterà vicino all’altare, dalla parte d’oriente, nel luogo dove di solito si versano le ceneri. Ne spezzerà le ali, senza segarle o tagliarle con il ferro, e le brucerà sopra l’altare sul fuoco di legna. Questo è l’olocausto e l’offerta di soavissimo profumo al Signore” (Lv 1,14-17).

Si fa l’olocausto e l’offerta con i volatili, quando il giusto, coperto per così dire delle penne delle virtù – raffigurato nella tortora e nella colomba per la castità, la semplicità e il lamento della penitenza – progredisce di virtù in virtù. Egli piega la testa sul collo e la bocca sulla spalle, quando pratica con le opere ciò che proclama con le parole. Questa flessione, o torsione, provoca la rottura, che simboleggia la devozione della mente, dalla quale fluisce il sangue delle lacrime, che sono appunto, come dice Agostino, il sangue dell’anima.

“Farà scorrere il sangue sullo zoccolo dell’altare”, vale a dire nell’animo dell’a­scol­tatore. L’armonioso accordo, nel predicatore, tra ciò che insegna e ciò che fa, suscita la devozione che penetra nel cuore di chi ascolta. Dice appunto l’Ecclesiastico: Non distruggere questo armonioso accordo (cf. Eccli 32,5).

Nella vescichetta del collo (il gozzo) è raffigurata la vampa dell’avarizia, e nelle piume la vacuità della superbia: vizi che il giusto getta lontano da sé, “dalla parte d’oriente, nel posto delle ceneri”, quando considera da quale stato di felicità e di gloria è caduto per causa dell’avarizia e della superbia dei progenitori, ai quali fu detto: “Sei cenere, e in cenere ritornerai” (Gn 3,19).

Il giusto “spezza le ali” quando, meditando sull’umiliazione del Signore nella sua passione, “deprezza il valore delle sue virtù”. Dice Ezechiele: Quando rintronava la voce nel firmamento, i quattro esseri viventi abbassavano le loro ali (cf. Ez 1,25). Il firmamento è Cristo, sul quale risuonò la voce: “Colpirò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse” (Mt 26,31). Quando questi esseri viventi, cioè i santi, sentono tale voce, sminuiscono il valore dei loro meriti, e non confidano in se stessi ma nella passione del Pastore “colpito”, trafitto. Il giusto che ogni giorno progredisce migliorando se stesso, spezza con l’umiltà le ali delle sue virtù, però non se ne allontana nel tempo delle difficoltà con il ferro dell’impazienza: in questo modo consuma se stesso come vittima santa sopra l’altare, imitando la passione del Signore, nel fuoco di legna della santa devozione, vale a dire con gli esempi dei santi padri; e così fa di se stesso un olocausto e un’offerta di soavissimo profumo al Signore.

 

7. La terza, “Il sacrificio gradito a Dio”. L’uomo perfet­to fa la terza offerta, che, come è detto nel Levitico, consisteva in fior di farina, impastata con l’olio (cf. Lv 2,5). Il fior di farina è una farina raffinatissima e bianchissima ed è figura della vita dell’uomo perfetto, nella quale non c’è la crusca delle vanità del mondo, ma risplende della bianchezza della castità ed è impregnata dell’olio della pietà. E questa vita perfetta viene per così dire bruciata nel forno della povertà, nel tegame delle necessità del prossimo e delle sue infermità, nella graticola della passione del Signore. In verità, questa vittima è gradita a Dio!

E queste tre offerte, con le loro modalità, costituiscono “il culto spirituale” (rationabile obsequium), sincero, distinto, integro e santo.

Fratelli carissimi, preghiamo Gesù Cristo che, come è salito a Gerusalemme con i suoi genitori, faccia salire anche noi, con la pratica delle dodici virtù su descritte, unite alla speranza e al timore, alla Gerusalemme morale (spirituale), dove potergli offrire, nelle tre solennità, l’ostia vivente, santa e a lui gradita. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nella celeste Gerusalemme. Amen. Alleluia.

 

 

II. il ritrovamento di Gesù dopo tre giorni

 

8. “E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava” (Lc 2,46). Vedremo il significato dei tre giorni, del tempio, di Gesù che siede, dei dottori, e del fatto che li ascoltava e li interrogava. I tre giorni raffigurano la consapevolezza della propria iniquità, il dovere della partecipazione alle necessità dei fratelli, la considerazione e l’ammirazione della miseri­cordia di Dio.

Sul primo giorno, leggiamo nel libro del profeta Michea: “Se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce” (Mic 7,8). Sul secondo giorno dice Ezechiele: “Una visione si muoveva qua e là in mezzo agli esseri viventi: uno splendore di fuoco e dal fuoco si sprigionavano bagliori” (Ez 1,13). Lo splendore di fuoco simboleggia la compartecipazione della carità, che riscalda e illumina, e dalla quale esce il bagliore di opere meravigliose. Questa visione, che fa realmente vedere, deve andare qua e là in mezzo agli esseri viventi, cioè tra i cristiani. E giustamente è detto (in lat.) discurrens, cioè che corre per vari luoghi. Alla vera compartecipazione non basta provvedere alle necessità del corpo, ma pensa anche a quelle dell’anima, e viceversa. Se qualcuno soffre nel corpo, anch’essa soffre, e se qualcuno riceve scandalo nell’anima, anch’essa ne freme (cf. 2Cor 11,29). E per il terzo giorno troviamo nell’Ecclesiaste: “Dolce è la luce, e piace agli occhi” della mente “vedere il sole” (Eccle 11,7), cioè meditare sullo splendore della misericordia divina. Chi avrà fatto questo “triduo” potrà veramente ritrovare Gesù nel tempio.

Il tempio, nome che suona quasi come “ampio tetto”, è figura della mente del giusto, che è tetto, perché tegit, copre con la compassione le necessità del prossimo, ed è ampio per la conoscenza che ha di se stesso e di Dio. In questo tempio, dopo il triduo suddetto, si ritrova Gesù. E che cosa fa lì Gesù? Fa tre cose: siede in mezzo ai dottori, ascolta e interroga.

Nella mente del giusto ci sono i dottori, cioè le facoltà della ragione che insegnano da che cosa si deve guardarsi e che cosa si deve fare: in mezzo ad esse siede Gesù che apporta alla ragione la pace, con la pace la tranquillità, e con la tranquillità le serene e sagge decisioni: “Governa con bontà eccellente ogni cosa” (Sap 8,1). E questo è anche ciò che dice Giobbe: “Anche quando sedevo quasi fossi un re, attorniato dall’esercito, ero sempre un consolatore degli afflitti” (Gb 29,25).

Ecco la consolazione: ascoltare e interrogare. Quando la mente si trova nella quiete e nel silenzio, allora Gesù ascolta i sentimenti del cuore che parlano al suo orecchio, e poi interroga con l’assillo della benevola correzione. Dice ancora Giobbe: “Lo visiti di buon mattino”, ecco l’ascolto, “e subito lo metti alla prova” (Gb 7,18): ecco l’inter­ro­gazione. E questa è la consolazione degli afflit­ti, cioè dei giusti, i quali gemono, in questa valle di lacrime, per mancanza della sorgente dall’alto (cf. Gs 15,18-19), e pregano affinché il buon Gesù li ascolti e li interroghi, li visiti e li metta alla prova. “Questa sia la mia consolazione”, continua Giobbe, “che egli, affliggendomi con il dolore, non voglia risparmiarmi” (Gb 6,10).

 

9. Altra esposizione. I tre giorni, il triduo, raffigura la penitenza, che consiste in tre atti: nella contrizione, nella confessione e nella soddisfazione (cioè nell’opera penitenziale). Di questo triduo, dice Mosè: Faremo un viag­gio di tre giorni verso il deserto e sacrificheremo al Signore, nostro Dio (cf. Es 3,18). Dopo tre giorni Giuseppe e Maria, cioè i penitenti, i poveri nello spirito e gli umili troveranno Gesù nel tempio della celeste Gerusalemme. E questo è anche ciò che racconta la Genesi, che dopo tre giorni il capo dei coppieri fu ripristinato nel suo grado e nel suo ufficio (cf. Gn 40,20-21).

“Seduto in mezzo ai dottori”. Dice Giovanni nell’Apoca­lisse: “Ebbi una visione: c’era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Attorno al trono c’erano ventiquat­tro seggi, e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliar­di” – nei quali possiamo riconoscere i dodici patriarchi e i dodici apostoli –, “avvolti in candide vesti e con corone d’oro sul capo” (Ap 4,1-2.4). Sono quasi le stesse parole che si cantano nell’introito della messa di oggi: “Su di un trono eccelso vidi seduto un personaggio: la moltitudine degli angeli lo adorava cantando tutti insieme, e il suo dominio dura in eterno” (vedi il n. 2). E l’Apocalisse continua: “I ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a colui che sedeva sul trono e adorava­no colui che vive nei secoli dei secoli” (Ap 4,10). Così sia! E cantavano un cantico nuovo, dicendo: “Tu sei degno, Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11).

“Li ascoltava e li interrogava”. Il Signore ascolta i beati spiriti quando, per mezzo del loro ministero, accoglie benignamente l’offerta della nostra devozione. “Dalla mano dell’angelo salì il fumo degli aromi insieme con le preghiere dei santi” (Ap 8,4). E Raffaele dice a Tobia: “Io presentai la tua preghiera al Signore” (Tb 12,12). E l’Apostolo: “Sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza” (Eb 1,14). “Li interroga” dunque, quando ad essi rivela i segreti della sua volontà.

 

10. Con questa seconda parte del vangelo, concorda anche la seconda parte dell’epistola: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo”(Rm 12,2).

Dice il Signore per bocca di Isaia: “Ecco, io ho creato il fabbro che soffia sul fuoco di pruni, e fa un vaso come sua opera” (Is 54,16). Il fabbro è il diavolo, creato da Dio nella sua sostanza. Il diavolo, con il soffio della cattiva suggestione, soffia sui pruni nel fuoco, cioè su tutto ciò che stimola al vizio. Questo mondo è come la fornace di Babilonia, della quale è detto in Daniele: “La fornace era accesa al massimo” (Dn 3,22).

Vedi il sermone della domenica XXII dopo Pentecoste, parte II, dove si racconta la storia di Daniele.

Questa fornace (del mondo) viene accesa dal soffio del diavolo in modo tale da far fondere il ferro, cioè i superbi, il piombo, cioè gli avari, e lo stagno, cioè i lussuriosi; e allora il diavolo produce, con queste tre categorie di peccatori, un vaso e lo presenta come opera sua, esige cioè che eseguisca la sua volontà. Uno infatti entra nella forma della superbia, un altro nella forma dell’avarizia, e un terzo in quella della lussuria. Questi sono i vasi dell’ira e dell’ignominia, che saranno gettati nello sterco dell’eterna dannazione. Voi dunque che con Maria e Giuseppe cercate e desiderate trovare, “non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente e i vostri sentimenti” (Rm 12,2). È ciò che dice anche Isaia: “Ci saranno cinque città nella terra d’Egitto” (Is 19,18).

Vedi il sermone della III domenica di Quaresima, parte III, “Quando un forte, bene armato”.

“Per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, [a lui] gradito e perfetto” (Rm 12,2). Ecco il triduo, ecco i tre giorni dopo i quali si ritrova Gesù nel tempio. Ciò che buono è la contrizione del cuore, ciò che è gradito è la confessione, ciò che è perfetto è la soddisfazione, ossia l’opera di penitenza. Per il primo, dice il salmo: “Nella tua buona volontà, agisci benignamente verso Sion, o Signore” (Sal 50,20); e la Sapienza: “Quanto è buono il tuo spirito, Signore, in tutte le cose!” (Sap 12,1). Per il secondo, leggiamo in Daniele: “Tale sia il nostro sacrificio davanti a te”, cioè la confessione, “affinché ti sia gradito” (Dn 3,40). E la Genesi: “Il Signore guardò ad Abele e gradì i suoi doni” (Gn 4,4). Per il terzo, dice il salmo: “Guida i miei passi, Signore, sui tuoi sentieri” (Sal 16,5): nei sentieri del Signore è indicata l’austerità della vita, e l’asprezza delle opere di penitenza.

Preghiamo perciò il Signore nostro Gesù Cristo, perché ci conceda di compiere questo triduo, per poter essere degni di ritrovarlo nel tempio del cielo, assiso tra gli angeli: lui che è benedetto nei secoli eterni. Amen.

 

III. il ritorno di Gesù a Nazaret insieme con i genitori

 

11. “Gesù discese con loro e andò a Nazaret, e stava loro sottomesso” (Lc 2,51). Fa’ at­tenzione a queste tre parole: discese, Nazaret, e sottomesso. Discenda e sieda nella polvere la figlia di Babilonia (cf. Is 47,1), perché anche il Figlio di Dio è disceso.

O ostinata superbia, che ti affanni per salire al di sopra delle nubi, per innalzare il tuo trono più in alto delle stelle del cielo, e sedere sul monte dell’assemblea, discendi, te ne scongiuro, perché anche Gesù è disceso (cf. Is 14,13-14). E tu, Cafarnao, innalzata fino al cielo, discendi con Gesù, prima di venir sprofondata nell’inferno (cf. Mt 11,23), perché egli solo è il paradiso: “Ciò che da te proviene è paradiso” (Ct 4,13). O meretrice, “che siedi sulla bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi” (Ap 17,3), discendi con Gesù.

Arrossisca, si vergogni l’insensata superbia, si squarci la gonfia arroganza, perché anche la Sapienza di Dio è disce­sa. Il misero essere umano va strisciando e con le mani e con i piedi si arrampica e fa ogni sforzo per salire sul piedistallo del suo onore, o piuttosto della sua vergogna, mentre il buon Gesù, al rimprovero della sua Madre amorosa che gli dice: “Figlio, perché ci hai fatto questo?” (Lc 2,48), rinviò ai trent’anni l’ope­ra che aveva incominciato a dodici, e discese dal tempio, dove sedeva in mezzo ai dottori.

 

12. “E andò a Nazaret”. Dice la stessa cosa anche la sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio diletto discese nel suo giardino, all’aiuola degli aromi”(Ct 6,1), cioè abbracciò l’umiltà, che è la madre delle altre virtù.

Ci eravamo proposti di fermarci su questo passaggio solo brevemente, ma il fascino di Nazaret non ci permette di proseguire. La bellezza del luogo, la grazia del fiore, la soavità del profumo ci trat­tengono: facciamo una piccola sosta, mentre siamo avviati a celebrare le nozze in Cana di Galilea.

Nazaret, località modesta: il suo nome s’interpreta “fiore” e sta ad indicare l’umiltà, virtù che giustamente è chiamata fiore. Nel fiore si trovano tre qualità: la bellezza del colore, la soavità del profumo e la speranza del frutto.

Nella vera umiltà c’è la bellezza dell’onestà. Dice infatti l’Ecclesiastico: “I miei fiori danno frutti di onore e di onestà (Eccli 24,23). C’è la soavità, il gusto della buona reputazione. Come il fiore quando emana il suo profumo non si guasta, così il vero umile, anche se viene lodato per il profumo della sua santa vita, non va in superbia. Il vero umile, dice Bernardo, desidera essere disprezzato e non dichiarato umile. Anche Salomone dice: “Fiorirà il mandorlo, si ingrasserà la locusta e sarà disperso il cappero” (Eccle 12,5). Il mandorlo che fiorisce prima delle altre piante, è figura dell’umile, che dice con Davide: “Danzerò, (lett. giocherò) davanti al Signore e mi abbasserò ancor più di quanto ho fatto oggi, e mi farò umile, spregevole ai miei occhi” (2Re 6,22). E di questo “gioco” dice la Sapienza del Padre: “Mi deliziavo tutti i giorni, giocando davanti a lui, giocando sul globo terrestre, trovando le mie delizie tra i figli degli uomini” (Pro 8,30-31).

Il Figlio, il buon Gesù, davanti al Padre giocava quando veniva tradito dal discepolo, quando legato alla colonna veniva flagellato, quando veniva schernito da Erode, quando veniva coronato di spine, quando veniva colpito con schiaffi e pugni e lordato di sputi, quando il suo volto veniva velato, quando veniva percosso con la canna, quando gli veniva strappata la barba. Giocava anche quando, portando la sua croce, uscì verso il luogo chiamato Golgota, calvario (Gv 19,17), dove venne crocifisso dai soldati, deriso dai prìncipi dei sacerdoti, abbeverato di fiele e di aceto e il suo fianco fu trapassato dalla lancia. Ecco in che modo la Sapienza di Dio giocò e si rese spregevole sopra il globo terrestre. Ecco quali delizie trovò tra i figli degli uomini! A questo gioco si unisce, per quanto gli è possibile, colui che è veramente umile, colui che quanto più si rende spregevole ai propri occhi, tanto più diventa sublime davanti a quelli di Dio.

“Fiorirà, dunque, il mandorlo e si ingrasserà la locu­sta”. Quando nell’animo fiorisce l’umiltà e l’onestà nelle opere, allora si ingrasserà la locusta, cioè l’anima stessa dell’umile, spiccando il salto verso la contemplazione. Non s’ingrasserà, come l’ipo­crita, con l’inebriante effluvio dell’autoesaltazione, ma gusterà il tenue e delicato profumo del fiore della vera umiltà. L’umile si nutrirà con il proprio fiore e non con la bocca degli altri: e allora sarà disperso il cappero, cioè la superbia e la vanagloria.

E finalmente c’è la speranza di raccogliere i frutti dall’abbondanza della casa del Signore. Quando vedo il fiore, spero nel frutto; così quando vedo un vero umile, spero che egli sarà beato nei cieli. Ma ahimè! “Ogni ipocrita è malvagio” (Is 9,17), dice Isaia; e Michea: “Il migliore tra di essi è come un pruno, e il più retto come le spine della siepe” (Mic 7,4). Veramente oggi tutti sono ipocriti, pruni e spine. L’ipocrita, che finge di essere ciò che non è; il cespuglio di pruni, che sembra morbido nelle parole, ma punge con i fatti; le spine che feriscono i passanti per succhiarne il sangue della lode e del denaro.

Nel giardino di Nazaret non c’è il pruno né la spina, ma il giglio e la viola, e per questo Gesù “andò a Nazaret”.

 

13. “Ed era loro sottomesso”. Ogni superbia sprofondi, ogni arroganza si disperda, ogni insubordinazione si arren­da quando sente queste parole: “Era loro sottomesso”. Chi è sottomesso? Colui che con una sola parola ha creato tutto dal nulla. “Colui – dice Isaia – che ha misurato con il cavo della mano le acque, che ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo; colui che con tre dita sostiene la massa della terra, che pesa con la statera i monti e con la bilancia i colli” (Is 40,12). “Colui – dice Giobbe – che scuote la terra dal suo posto e tremano le colonne del cielo. Colui che comanda al sole ed esso non sorge e alle stelle pone il suo sigillo. Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Crea l’Orsa e Orione, le Pleiadi e i penetrali del cielo austra­le. Colui che fa cose grandi e incomprensibili, e meravi­glie che non si possono contare” (Gb 9,6-10). Colui che può far cessare l’armonia dei cieli (cf. Gb 38,37). Egli prenderà come all’amo il Leviatan e lo catturerà, legherà con una fune la sua lingua, gli forerà con un giunco le narici e la mascella con un uncino” (cf. Gb 40,19-20). Questi, così grande e così potente, è colui che “era loro sottomesso”.

“Era sottomesso a loro”. A chi? A un falegname e alla Vergine poverella. O Primo, o Ultimo, o Sovrano degli ange­li, sottomesso agli uomini! O creatore del cielo sottomesso a un falegname, il Dio dell’eterna gloria sottomesso alla Vergine poverella. Chi mai ha udito un simile fatto? E chi mai ha veduto una cosa simile? Perciò non disdegni il filosofo di obbedire e di sottomettersi a un pescatore, il sapiente a un semplice, il letterato all’analfabeta, il figlio del principe a un plebeo.

 

14. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: “Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi”, filosofi, sapienti, letterati, nobili e simili, “di non voler sapere più di quanto conviene sapere” (Rm 12,3); e altrove dice: “Non montare in superbia, ma temi!” (Rm 11,20).

Ti manca ancora molto in fatto di sapienza, se non sei sapiente nei riguardi di te stesso. Non sei sapiente, se pretendi di sapere più di quanto conviene. Sapere ciò che conviene vuol dire “discendere”, abbassarsi, andare a Nazaret, sottomettersi e obbedire incondizionatamente. Questo dev’essere tutto il tuo sapere, e questo sapere realizza in te la moderazione, la sobrietà (cf. Rm 12,3), la convenienza richiesta dall’Apostolo. Il voler sapere di più produce solo “ebbrezza”, esaltazione, nella quale ogni sapienza è insensata. Il sapere e lo scrutare più di quanto sia necessario fa “errare”, porta fuori strada l’animale separato dal branco, il novizio precipitoso, e il sapiente ancora agli inizi”, come “erra” e va qua e là chi è ubriaco e vomita.

Dice Bernardo: L’obbedienza perfetta, soprattutto nel principiante, è quella indiscussa, acritica, vale a dire un’obbedienza che non cerca di sapere che cosa o perché la tal cosa venga comandata, ma si sforza soltanto di compiere fedelmente e umilmente ciò che viene ordinato dal superio­re. Tutta la sua voglia di sapere consista nel non volere saper nulla in questo campo. Tutta la sua sapienza consista nel non averne per nulla in questa materia. E questo vuol dire “sapere nella giusta misura”. La pura semplicità, che è l’acqua di Siloe che scorre silenziosa (cf. Is 8,6), rende sobria l’anima; se il vino della sapienza dei sapienti di questo mondo verrà annacquato e diluito, il loro sapere rientrerà nella giusta misura.

E se nella religione ci sono dei sapienti, Dio li ha chiamati per mezzo dei semplici. Infatti egli ha scelto ciò che nel mondo è stolto, meschino, debole e disprezzato per riunire i sapienti, i forti e i nobili, perché nessun uomo possa gloriarsi di se stesso (cf. 1Cor 1,27-29), ma solo in colui “che discese e andò a Nazaret, ed era loro sottomesso”.

A lui sia onore e gloria per i secoli eterni. Ogni anima semplice e sottomessa risponda: Amen. Alleluia!