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Giovedi, 28 marzo 2024 - San Castore di Tarso ( Letture di oggi)

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE
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Temi del sermone

 – Vangelo della V domenica dopo Pentecoste: “Mentre la folla faceva ressa intorno a Gesù”; vangelo che si divide in quattro parti.

– Anzitutto sermone sui prelati e i predicatori della chiesa, e quale dev’essere la loro condotta: “Il re Salomone scolpì sulle porte del tempio”.

– Parte I: Sermone sull’incarnazione e sulla passione di Cristo, sul comportamento del giusto, sui tre alberi che erano nel paradiso terrestre, sulla natura del cedro e dell’issopo, e il loro significato: “Salomone parlò di piante...”.

– Sermone sulle due prostitute e i loro figli, e quale sia il loro significato: “Vennero due prostitute”.

– Sermone sulla barca di Pietro e quale sia il significato della sua attrezzatura: “Siate tutti concordi”.

– Parte II: Sermone allegorico e morale sulla flotta di Salomone, e quale sia il significato allegorico e morale dell’oro, dell’argento, dei denti di elefante, delle scimmie e dei pavoni: “ La flotta di Salomone”.

– Natura degli elefanti e dei pavoni: il loro significato.

– Sermone contro i prelati e i sacerdoti della chiesa: “Lo pregò di scostarsi un poco da terra”.

– Sermone allegorico sulla santa chiesa: “Il re Salomone si costruì un trono”.

– Sermone morale sull’anima fedele: “Il re Salomone si costruì un trono”. Si parla anche della natura degli elefanti, del loro significato morale; dei quattro elemen­ti: fuoco, aria, acqua e terra, e il loro significato.

– Sermone sulla beata Vergine Maria: “Il re Salomone si costruì un trono”, e sui sette gradini del trono.

  • Sermone contro i sacerdoti: “Ascoltate, sacerdoti!...”.

  • Parte III: Sermone sul disprezzo delle cose temporali, che sono un nulla: “Ho guardato la terra”.

– Sermone sul dovere che abbiamo di non attribuire nulla a noi stessi ma tutto a Dio, per poter prendere una grande quantità di pesci: “Elia salì sul monte Carmelo”.

– Parte IV: Sermone sulle due mammelle di Cristo, l’incarnazione e la passione: “Sul suo seno sarete portati”.

– Sermone sui quattro mali che sono sulla terra e il loro significato: “Santificate il Signore Gesù Cristo nei vostri cuori”.

 

esordio - sermone sui prelati e i predicatori della chiesa

 

1. In quel tempo: “La turba faceva ressa intorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio, ed egli stava presso il lago di Genesaret” (Lc 5,1).

Nel terzo libro dei Re si racconta che Salomone, sulle porte della “cella” (la parte più segreta del tempio), che erano di legno di ulivo, “scolpì figure di cherubini, palme e bassorilievi molto rilevati, e li rivestì d’oro; e rivestì d’oro anche i cherubini e le palme” (3Re 6,32). Le porte, dette in latino ostia, perché impediscono il passaggio ai nemici (lat. hostes), sono figura dei predica­tori, i quali devono opporsi ai nemici come un muro a difesa del santuario del Signore (cf. Ez 13,5), cioè della chiesa mili­tante. E queste porte devono essere di legno di olivo, nel quale ci sono due qualità che simboleggiano la costanza e la misericordia; la costanza è simboleggiata dalla compat­tezza e dalla durata del­l’oli­vo, e la misericordia dal suo nome greco, élaios, che assomiglia a éleos, termine che significa pietà, misericordia. Nei predicatori e nei prelati della chiesa, per opera dei quali viene aperto l’ingresso al Regno, ci devono essere queste due virtù; infatti il nostro Salomone, Gesù Cristo, che annuncia la pace ai vicini e ai lontani (cf. Ef 2,17), ha scolpito in essi dei cherubini, che simboleggiano la pienezza della scienza, delle palme e dei lavori d’intaglio (bassorilievi). Nei cherubini è indicata la vita angelica e la scienza perfetta; nelle palme la vittoria sul triplice nemico (demonio, mondo e carne); nei bassorilievi, o lavori d’intaglio, l’esempio delle opere buone.

Ma prima dobbiamo considerare che, per comando del Signore, Mosè fece due cherubini d’oro, lavorati a martel­lo, come è detto nell’Esodo (cf. Es 25,18). Invece Salomone li fece di legno di ulivo, come è detto nel terzo libro dei Re (3Re 6,32). Di questo fatto possiamo trovare tre ragioni. La prima, per indicare che fino a quando i figli d’Israele furono sotto Mosè nel deserto, furono colpiti da molti castighi, perché lo meritavano; mentre nella Terra Promessa, sotto Salomone, furono in pace e in sicurezza. Salomone stesso infatti, nel terzo libro dei Re, dice: Ora il Signore, mio Dio, mi ha dato pace tutto intorno, e non ho né avversari né particolari difficoltà (cf. 3Re 5,4). La seconda, perché il predicatore, mentre è occupato nell’esercizio della predicazione, come battuto dai colpi delle tribolazioni, si estende nella larghezza della carità e nella lunghezza della comprensione; invece mentre, lasciata la folla nella valle, ritorna al monte della contemplazione, s’immerge in Dio nella quiete della mente e nella tranquillità della coscienza. La terza, perché il giusto, nel deserto di questo corpo, è colpito da molte sventure, ma nella celeste Gerusalemme, come i cherubini della gloria, contemplerà faccia a faccia, immortale l’Immortale.

Nei cherubini, dunque, è indicata la vita angelica e la scienza perfetta, due qualità che il predicatore deve avere per vivere santamente e predicare con franchezza, cioè senza risparmiare nessuno né per timore né per amore, né per deferenza né per vergogna. Nella palma è indicata la vittoria sul mondo, sulla carne e sul diavolo: la palma infatti è l’ornamento della mano vittoriosa. Gli intagli in legno ben rilevati (bassorilievi) simboleggiano i sicuri esempi delle opere buone che si devono scolpire negli occhi di tutti così profondamente da non poter mai essere giudicati in modo errato o sfavorevole.

E considera ancora che questi tre lavori devono essere ricoperti d’oro: i cherubini della scienza devono essere ricoperti con l’oro dell’umiltà, altrimenti la scienza gonfia (cf. 1Cor 8,1); la palma della vittoria con l’oro della misericor­dia divina, perché la vittoria venga attribuita non a te stesso ma al Signore, il quale dice: “Abbiate fiducia”, perché “io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33); i bassorilievi delle opere con l’oro della carità fraterna, per cercare non la propria gloria ma quella degli altri.

Se nelle porte del luogo della preghiera saranno scolpite queste tre figure, per ammirare sì grande meraviglia di scultura si precipiteranno le folle al suo ingresso, bramose di ascoltare la parola del Signore. Infatti è detto nel vangelo di oggi: “Le folle facevano ressa intorno a Gesù…”, ecc.

 

2. Considera che in questo vangelo sono quattro i momenti degni di nota. Primo, la sosta di Gesù Cristo al lago di Genesaret, dove stanno le due barche, quando dice: “Gesù stava presso il lago di Genesaret e vide due barche ormeggiate alla sponda”. Secondo, Gesù stesso che sale sulla barca di Simone: “Gesù salì sulla barca che era di Simone”. Terzo, la cattura della grande quantità di pesci: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte”, ecc. Quarto, lo stupore di Pietro e dei suoi compagni, e l’abbandono di tutto ciò che avevano: “Al veder questo, Simone Pietro”, ecc.

Osserva anche che in questa domenica e nella seguente metteremo a confronto, se Dio ce lo concederà, alcuni racconti del terzo libro dei Re con le varie parti di questo vangelo.

Nell’introito della messa di oggi si canta: “Ascolta, Signore, la mia voce” (Sal 26,7). Si legge poi l’epistola del beato Pietro: “Siate tutti concordi” (1Pt 3,8). Noi la divideremo in quattro parti e la metteremo a confronto con le quattro parti del vangelo. Prima parte: “Siate tutti concordi”. Seconda parte: “Chi vuol amare la vita”. Terza parte: “E chi vi potrà fare del male?”. Quarta parte: “Adorate il Signore, Cristo”.

 

I. le due barche ferme al lago di Genesaret

 

3. “Un giorno Gesù, mentre ritto in piedi stava presso il lago di Genesaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla riva: i pescatori era scesi e pulivano le reti” (Lc 5,1-2). Concorda con questo ciò che troviamo nel terzo libro dei Re, dove si racconta che “Salomone dissertò sulle piante, dal cedro che è sul Libano fino all’issopo che sbuca dal muro; e trattò dei quadrupedi, degli uccelli, dei rettili e dei pesci. Veniva gente da tutte le nazioni per ascoltare la sapienza di Salomone; e venivano messaggeri da tutti i re della terra, presso i quali si era diffusa la fama della sua sapienza” (3Re 4,33-34).

L’issopo, piccola pianta, attaccata al sasso, simboleg­gia l’umiltà di Cristo, il quale dissertò dal cedro del Libano fino all’issopo, perché dalle altezze della gloria celeste discese fino all’umiliazione della carne. In altro senso: Nel cedro è raffigurata la superbia dei malvagi; infatti è detto: “La voce del Signore schianterà i cedri” (Sal 28,5). Cristo dunque discute dal cedro fino all’issopo, perché giudica i cuori dei superbi e degli umili. E discusse anche sulle piante, mentre era appeso sull’albero della croce. E in quel momento piegò il cedro, cioè l’arroganza del mondo, fino all’abbassamento dell’issopo, cioè fino alla stoltezza della croce. “Infatti la parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, mentre per quelli che si salvano è potenza di Dio” (1Cor 1,18).

Senso morale. “Salomone disputò sulle piante...”. Osserva che nel paradiso terrestre c’erano tre alberi: l’albero dal quale mangiava Adamo, l’albero della vita e l’albero della scienza del bene e del male. In questi tre alberi sono raffigurate tre facoltà: la memoria, la volontà e la ragione (intelletto). Il frutto della memoria è il godimento, il frutto della volontà è l’opera buona, il frutto della ragione è la distinzione tra il bene e il male.

Disputare vuol dire ricercare con la mente i vari criteri della ragione per poter giun­gere alla verità sostanziale. Perciò il giusto disputa su questi tre alberi, cioè ricerca con la ragione e la mente varie cose: se ha riposto nel tesoro della memoria i beni del Signore, che sono l’umiltà e la povertà della sua incarnazione, la dolcezza della sua predicazione, e la passione di Cristo, che fu obbediente fino alla croce; e se questi beni li ha custoditi con diligenza. Ricerca poi se con la volontà ama Dio e il prossimo, e se con la sua ragione sa distinguere il bene dal male. Questa è la disputa del giusto, e anche lui disputa dal cedro che sta sul Libano fino all’issopo che sbuca dalla parete.

Considera che il cedro è un albero alto; il suo legno ha un profumo gradevole ed è incorruttibile, e non è mai intaccato dal tarlo. Con il suo profumo mette in fuga i serpenti e messo nel fuoco si restringe. Il cedro simboleggia la vita del giusto: è alta per la sublimità della sua santa condotta; profumata dall’esempio del suo buon nome, incorruttibile per la fermezza del suo santo proposito, inattaccabile dal tarlo della concupiscen­za che dà morte; mette in fuga i demoni con la compunzione della mente e reprimendo con la mortificazione gli stimoli della carne; si restringe, cioè rinuncia alla propria volontà, nel fuoco dell’obbedienza. E questo cedro è sul Libano, che s’interpreta “candore”, perché la vita del giusto si svolge nel candore della purezza interiore ed esteriore. Il giusto quindi disputa dal cedro fino all’issopo che sbuca dalla parete. Nel­l’is­sopo è simboleggiata l’umiltà; e nella parete, che deve il suo nome a “parità”, in quanto è tutta livellata nella sua superficie, è indicata l’unione dei santi. Quindi il giusto disputa dal cedro della sua vita, considera cioè con la mente se la sua vita è arrivata all’umiltà e all’unione con i santi.

 

4. Continuiamo parlando di Cristo: “E parlò dei quadrupedi, degli uccelli, dei rettili e dei pesci”. Nei quadrupedi sono raffigurati i golosi e i lussuriosi, negli uccel­li i superbi, nei rettili gli avari, nei pesci i curiosi. Cristo parlò dei quadrupedi quando disse: “State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissi­pazioni, ubriachezze e affanni della vita” (Lc 21,34). Parlò degli uccelli quando disse: “Gli uccelli del cielo hanno i loro nidi; invece il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Parlò dei rettili quando disse: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano” (Mt 6,19), ecc. Infine parlò dei pesci quando disse: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra”, cioè tutto il mondo, “per fare anche un solo proselito” – i proseliti sono i pagani accolti nella sinagoga – “e ottenutolo, lo rendete figlio della geenna il doppio di voi” (Mt 23,15). Quando infatti scopre i vostri vizi, ridiventa pagano, e per la sua prevaricazione si rende meritevole di un castigo ancora più grande. “E veniva gente da tutte le nazioni per ascoltare la sapienza di Salomone”. È la stessa cosa che dice il vangelo di oggi: “Gesù stava ritto in piedi presso il lago di Genesaret, e una gran folla faceva ressa intorno a lui, per ascoltare la parola di Dio”.

Genesaret deve il suo nome alla caratteristica di questo lago che dalle sue onde increspate sembra mandar fuori una brezza: in lat. generans auram, che genera brezza. In questo passo il vangelo chiama il lago stagno, che è un lago la cui acqua non scorre, ma sta ferma; ed è figura del secolo presente, nel quale ci sono dei ribollimenti che producono le bolle, l’aria della lode del mondo, che presto svanisce. Infatti il salmo dice: “La loro memoria svanì con il suono” (Sal 9,7), cioè con il plauso e con il favore del mondo. E come le acque sono costrette nello stagno perché non scorrano, così nel mondo la libertà dei peccatori viene limitata affinché non godano dei loro piaceri quanto vorrebbero. Leggiamo infatti in Luca che il figlio prodigo bramava riempirsi il ventre delle carrube dei porci, ma nessuno gliene dava (cf. Lc 15,16). Nelle carrube dei porci possiamo individuare i vari piaceri dei peccati, con i quali gli spiriti maligni si ingrassano come i porci; piaceri che talvolta non vengono concessi a chi li brama. Spesso infatti l’uomo pecca più di quanto il diavolo non gli suggerisca; e l’uomo spesso previene il diavolo, quando dal diavolo non è prevenuto. Per questo dice Ezechiele: “Ti darò in mano alle figlie dei filistei, le quali si vergognano vedendo la tua condotta sfrontata” (Ez 16,27). Vergogna quanto mai sorprendente, che il diavolo debba arrossire di un peccato dell’uomo, peccato che egli non gli ha suggerito, quando l’uomo stesso, disgraziato, di quel suo peccato non arrossisce!

 

5. “Stava dunque Gesù vicino allo stagno”, cioè in questo mondo, per predicare la parola di Dio agli amatori di questo mondo. Stava presso lo stagno colui che in questo mondo disprezzò e insegnò a disprezzare la gloria di questo mondo, la quale è come uno stagno che ingoia. E su questo abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che Elia “incontrò Eliseo, figlio di Safat, che arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il proprio mantello. Quegli abbandonò subito i buoi e corse dietro a Elia, dicendo: Vado a baciare mio padre e mia madre e poi ti seguo. Elia gli rispose: Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te. Quando tornò, Eliseo prese un paio di buoi, li uccise e con il legno dell’aratro fece cuocere la carne dei buoi e la distribuì alla gente e tutti ne mangiarono” (3Re 19,19-21).

Senso morale. Il nostro Redentore, disceso dal cielo, per divino decreto si acquistò un popolo che ancora bramava avidamente le cose terrene, operò in esso la salvezza quan­do lo convertì alla fede. Infatti Elia s’interpreta “Signo­re Dio", Safat “decreto”, ed Eliseo “salvezza del mio Dio”. Su Eliseo il profeta gettò il suo mantello, quando il Signore rivestì il popolo della fede cattolica. Dice l’Apostolo: “Voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27).

“Abbandonati i buoi, andò dietro a Elia”. Infatti il coro degli eletti, avendo sentito che se uno non rinuncia a tutto quello che possiede, non può essere mio discepolo (cf. Lc 14,33), smise immediatamente di correre dietro alle ricchezze terrene e a farsi schiavo delle brame mondane, e in questo modo annunciò anche agli altri la parola di vita. Baciare il padre e la madre significa esattamente voler convertire con la parola tutti quelli che è possibile, sia dei giudei che dei pagani.

“Prese un paio di buoi”, ecc. Con questo intendiamo il corpo e lo spirito: dobbiamo cuocere le loro carni, vale a dire le concupiscenze della carne, con il legno dell’aratro, cioè con la contrizione del cuore, e distribuirle al popolo perché mangi: così riedifichiamo con l’esempio della vera penitenza coloro che abbiamo scandalizzato con la nostra vita dissoluta.

 

6. “Gesù vide due barche ormeggiate alla riva del lago”. Considera che queste due barche raffigurano Gerusalemme e Babilonia, il Paradiso e l’Egitto, Abele e Caino, Giacobbe ed Esaù, in una parola la schiera dei veri penitenti e la massa vergognosa dei mondani. Tutti gli uomini infatti appar­tengono all’uno o all’altro di questi due gruppi.

Tutto ciò trova un valido riscontro nelle due prostitute delle quali nel terzo libro dei Re si racconta che “due prostitute si presentarono al re Salomone”. Ben a ragione, si presentano due prostitute a Salomone, il quale in seguito si lasciò da loro corrompere. “Una di esse raccon­tò: Ascoltami, signore! Io e questa donna abitavamo nella stessa casa; io ho partorito nella camera vicino a lei. Tre giorni dopo che avevo partorito io, partorì anche lei. Eravamo insieme, e nessun altro, all’infuori di noi due, c’era nella casa insieme con noi. Durante la notte morì il figlio di questa donna, perché ella, mentre era addormentata, l’aveva schiacciato. Alzatasi allora nel silenzio della notte, prese il bambino dal mio fianco – io, tua schiava, dormivo profondamente – e se lo mise in seno; pose poi al mio seno il figlio suo che era morto. Quando al mattino mi alzai per dare il latte al mio figlio, me lo vidi morto. Ma poi, guardandolo più attentamente alla luce del giorno, mi accorsi che quello non era il mio bambino, quello che io avevo generato. L’altra donna intervenne: “Non è come dici tu; è il figlio tuo che è morto: il mio è quello vivo. Ma la prima ripeteva il contrario: Sei falsa, il mio figlio è vivo, quello morto è il tuo! E continuavano così a litigare davanti al re. Allora il re disse: Portatemi una spada! E dopo che gli ebbero portata la spada: Tagliate in due il bambino vivo – ordinò –, e datene metà a ciascuna delle due donne. Allora la madre del bambino vivo, poiché le sue viscere si erano sconvolte per suo figlio, si rivolse al re: Ti scongiuro, signore, da’ pure a lei il bambino vivo e non ucciderlo. Al contrario, l’altra donna diceva: Giusto, non sia né mio né tuo; sia diviso in due! Il re sentenziò: Date alla prima il bambino vivo, e non venga ucciso. Essa infatti è sua madre!” (3Re 3,16-27).

Le prostitute sono dette anche meretrici, dal lat. mereo, guadagnare, perché guadagnano lo stipendio della libidine. Queste due prostitute simboleggiano due generi di vita, la vita dei veri penitenti e quella dei carnali. Fa’ però attenzione a una cosa: abbiamo detto che la vita dei veri penitenti è simboleggiata da una prostituta, non in quanto prostituta – infatti il vero penitente ha già fatto ritorno al suo sposo –, ma per il fatto che era prostituta quando aderiva al diavolo. Leggiamo infatti qualcosa di simile anche nel vangelo di Matteo: “Gesù si trovava nella casa di Simone, il lebbroso” (Mt 26,6), non perché fosse lebbroso allora, ma perché lo era stato. Le due “vite” sono raffigurate da quelle due verghe delle quali parla il profeta Zaccaria: “E mi presi due verghe: una la chiamai ornamento, l’altra funicella(Zc 11,7). Osserva che la vita dei penitenti viene chiamata verga e ornamento; verga, perché sottoposta al rigore della disciplina; ornamento perché purificata con le lacrime da ogni lebbra di peccato. Invece la vita dei carnali viene detta funicella, perché essi sono legati con le funi dei loro peccati.

Quanti danni poi procurino Caino ad Abele, Esaù a Giacobbe e i carnali ai penitenti lo dimostra il racconto riportato sopra: “Io e questa donna abitavamo nella stessa casa”, ecc. Ecco le due barche ferme nello stagno. Lo stagno e la casa sono figura del mondo, nel quale queste due donne vivono. Partoriscono i penitenti, e partoriscono anche i carna­li. Ma nel terzo giorno i penitenti, nell’amarezza del cuore, partoriscono opere di luce, l’erede della vita eterna; e del loro parto è detto: “La donna, quando parto­risce, è nella tristezza” (Gv 16,21). Anche i carnali, nel piacere della carne, partoriscono, ma opere di tenebre, figli della geenna; e di essi dice Salomone: “Si rallegrano quando compiono il male e gioiscono delle loro opere perverse” (Pro 2,14). E questo nel terzo giorno: dall’adul­terina suggestione del diavolo, prima concepiscono con il consenso della mente, poi hanno come una gestazione nel proposito della volontà perversa; e quindi partoriscono il peccato con il compimento dell’opera cattiva.

“E stavamo insieme e, oltre a noi due, non c’era nessuno con noi”. Nel mondo, buoni e cattivi si trovano insieme. Dice infatti Giobbe: “Fui fratello dei dragoni e compagno degli struzzi” (Gb 30,29). Nell’aia c’è il grano insieme con la paglia; nel torchio c’è il vino insieme con le vinacce, e nel frantoio c’è l’olio insieme alla morchia.

“Il figlio di questa donna morì”. Le opere dei carnali muoiono, quando vengono come soffocate dal peccato che segue. Nella notte della cattiva intenzione, della cecità della mente, viene ucciso il figlio di questa donna: Nel sonno lo schiacciò. “Quelli che dormono, infatti, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, sono ubriachi di notte” (1Ts 5,7).

“E alzatasi nel silenzio della notte”, ecc. Il testo latino dice: intempestae noctis silentio. Intempestivo significa inopportuno, quando nulla si può fare e tutto è tranquillo; invece ciò che è tempestivo è opportuno. Altro senso: nox intempesta, notte alta e oscura, o anche mezza notte.

Il beato Gregorio commenta questo passo parlando dei dottori carnali, dei maestri mondani: essi, mentre omettono di fare quello che dicono, uccidono i loro uditori con il sonno del corpo, li trascurano e li tiranneggiano, mentre fingono di nutrirli con il latte delle parole. Perciò, vivendo in modo riprovevole e non potendo avere discepoli di vita esemplare, si sforzano di attirare a sé i discepoli degli altri, di modo che, dando l’im­pres­sione di avere dei buoni seguaci, giustificano presso l’opinione degli uomini il male che fanno e mascherano con la vita dei sudditi la loro criminale negligenza.

Quindi la donna che aveva ucciso il proprio figlio, si prese quello non suo. Ma la spada di Salomone scoprì la madre vera, perché nell’ultimo giudizio, l’ira del giudice esaminerà, ossia dimostrerà quali e di chi siano i frutti, cioè le opere destinate a vivere o a perire. Da notare che dapprima viene ordinato che il figlio vivo venga tagliato in due, e che venga reso alla vera madre soltanto dopo, perché in questo mondo è ammissibile che la vita di un discepolo sia per così dire divisa, in quanto si permette che uno si guadagni con essa il merito presso Dio, e un altro la lode dagli uomini.

Ma la madre falsa non aveva alcuna preoccupazione che venisse ucciso il bambino che non aveva generato, perché i maestri presuntuosi e incuranti della carità, se non riescono a conquistarsi una fama di totale ammirazione dai discepoli degli altri, attentano spietatamente alla loro vita. Accesi di invidia non vogliono che vivano per gli altri, quelli che vedono di non poter possedere. E quindi: “Non sia né mio né di altri”. Non tollerano che vivano per gli altri nella verità, coloro che non vedono proni davanti a sé per la propria gloria temporale. Invece la madre vera fa di tutto perché il suo figlio stia almeno presso gli estranei e viva, perché i veri maestri permettono che altre scuole traggano fama dai loro discepoli, purché naturalmente non perdano l’onestà della vita. Sono gli stessi sentimenti di pietà, dai quali viene riconosciuta la vera madre, poiché si riconosce il vero insegnamento soltanto alla prova della carità.

Poté ricevere “tutto intero” (integro) il figlio solo colei che tutto intero, per così dire, l’aveva ceduto. Parimenti, i superiori fedeli al loro compito, per il fatto che non solo non invidiano agli altri la gloria che loro viene dai buoni discepoli, ma ne auspicano anche utilità e vantaggio, riavranno i figli vivi e integri, quando nell’ultimo giudizio conseguiranno dalla loro vita il premio perfetto.

Esposto tutto questo sulle due barche e sulle loro analogie, procediamo ai temi seguenti.

 

7. “I pescatori erano scesi e ripulivano le reti”. Consi­dera che da entrambe le barche, quella dei penitenti e quella dei carnali, scendono i pescatori. I penitenti infatti scendono da ciò che sono per grazia a ciò che sono per natura; scendono cioè dalla dignità della vita più perfetta alla considerazione della propria fragilità. I carnali pure discendono dal sussiego della loro superbia alla cenere della penitenza. “E ripulivano (lavavano) le reti”. Commenta la Glossa: “Ripiega le reti ripulite colui che, sospendendo l’impegno della predicazione, si sforza di mettere in pratica ciò che ha insegnato agli altri.

Infatti nell’introito della messa di oggi, il penitente prega dicendo: “Ascolta, Signore la mia voce, con la quale grido a te. Sii tu il mio aiuto; non abbandonarmi, non rigettarmi, Dio della mia salvezza” (Sal 26,7­9). Osserva che la barca di Pietro, cioè la vita dei penitenti, giustamente ritornata allo sposo, implora tre cose: essere esaudita, non essere abbandonata, non essere rigettata. Essere esaudita al momento della preghiera, non essere abbandonata alla persecuzione dei nemici, non essere rigettata a motivo della passata perversità.

Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi, nella quale il beato Pietro parla ai figli della barca che gli è stata affidata: “Siate tutti concordi, compassionevoli a vicenda, animati da affetto fraterno, misericordiosi, modesti, umili; non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione”(1Pt 3,8-9). Pietro, quale saggio armatore, con il suo mirabile magistero attrezzò la barca affidatagli, destinata ad essere sbattuta tra i flutti del mare in tempesta ed esposta ai venti e ai pericoli; l’attrezzò di albero e vele, di timone e àncora, e di remi da entrambi i lati, perché potesse giungere incolume al porto della tranquillità. Dice infatti “tutti concordi”: ecco l’albero al centro della barca, cioè la concordia della fede e del cuore nella chiesa: “Erano tutti un cuor solo e un’anima sola” (At 4,32). “Compassionevoli a vicenda”: ecco la vela. Infatti, come la vela trascina la barca, così il reciproco compa­timento ti trascina a partecipare alle necessità del tuo prossimo. Dice infatti l’Apostolo: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1Cor 12,26).

“Animati da affetto fraterno”: ecco il timone. Come infatti il timone tiene la barca nella giusta direzione e non le permette di deviare, ed esso costituisce lo strumento essenziale per condurre in porto la barca, così l’amore fraterno guida la comunità dei fedeli affinché non devii, e la conduce al porto della sicurezza: perché dov’è carità e amore, lì c’è anche la comunità dei santi. “Misericordiosi”: ecco l’àncora. Àncora suona quasi come (lat.) anca, cioè curva. Infatti come l’àncora con la sua curvatura prende, e mentre prende è presa, e quando è presa trattiene la barca, così la misericordia, quando dal profondo del cuore cattura il prossimo, dal prossimo è catturata, e mentre trattiene viene anche trattenuta, mentre lega viene legata. E da questo legame la barca, cioè l’anima, non viene più scossa dalla sicurezza della sua pace né dalle onde della tentazione né dai venti delle suggestioni diaboliche. “Modesti e umili”: ecco i remi di destra; “non rendete male per male, ma, al contrario, rispondete benedicendo”: ecco i remi di sinistra.

Se la nostra barca sarà così allestita e attrezzata con questi otto strumenti, potrà certamente giungere, sulla rotta giusta, alla benedizione dell’eterna eredità, al porto dell’eterna tranquillità.

Tutto questo si degni di concederci colui che è benedetto e glorioso nei secoli eterni. Amen.

 

II. Cristo sale sulla barca di Simone

 

8. “Gesù salì su una barca, quella che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra, e seduto ammaestrava la folla dalla barca. Quando finì di parlare, disse a Simone: Prendi il largo e calate le vostre reti per la pesca” (Lc 5,3-4).

Troviamo su questo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che “la flotta del re Salomone solcava il mare verso Tarsis, portando da lì oro, argento, denti di elefante, scimmie e pavoni” (3Re 10,22).

La flotta di Salomone e la barca di Pietro raffigurano la stessa cosa. La barca è chiamata in lat. navis, in quanto richiede il navus, l’esperto, cioè uno che sa manovrarla, uno che sa governarla tra i pericoli e i frangenti del mare. Di qui la sentenza dei Proverbi: “L’esperto starà al timone”(Pro 1,5). La barca è figura della chiesa di Gesù Cristo, affidata alla cura di Pietro; essa ha bisogno non di un incapace, ma di un esperto; non di un pirata, ma di una guida che sia in grado preservarla dai pericoli. Questa è la flotta di Salomone la quale, attraverso il mare di questo mondo, salpa per Tarsis, nome che s’interpreta “ricerca del godimento”; salpa cioè verso coloro che cercano i piaceri del mondo, per godere mentre sono quaggiù. Nell’oro è simboleggiata la sapienza umana, nell’argento il linguaggio filosofico, nei denti degli elefanti sono raffigurati i dottori coraggiosi, che masticano il cibo della parola per i piccoli; nelle scimmie coloro che imitano le azioni umane ma poi vivono come le bestie: vengono alla fede dal paganesimo e fingono di vivere secondo la fede, ma poi la rinnegano con le opere; nei pavoni, la cui carne, se viene seccata, diventa incorruttibile – almeno così dicono – e che sono coperti di penne meravigliose, sono raffigurati i perfetti, purificati dal fuoco delle tribolazioni e quindi adorni di grande varietà di virtù.

Tutto questo viene portato, per mezzo della predicazione della chiesa, da Tarsis, cioè dagli insidiosi flutti del mondo, al nostro Salomone, cioè a Gesù Cristo.

 

9. Senso morale. La flotta di Salomone è la mente del penitente, la quale attraverso il mare, vale a dire nell’amarezza della contrizione, si reca a Tarsis, va cioè alla ricerca dei peccati commessi e delle circostanze del peccato; si domanda da dove viene, dove si trova, dove è diretto; considera quanto sia misera e fragile questa carne e quanto sia falsa e caduca la prosperità del mondo. Infatti Giuseppe disse ai suoi fratelli: “Voi siete degli esploratori (delle spie): siete venuti per scoprire i punti deboli del paese” (Gn 42,9); i penitenti cioè medita­no ogni giorno, nell’amarezza della loro anima, sulla fragilità e la debolezza della loro carne. Essi sono gli esploratori di Giosuè, ai quali egli disse: “Andate e osservate bene tutto il territorio e la città di Gerico” (Gs 2,1).

Gerico s’interpreta “luna” e raffigura l’ingannevole prosperità del mondo: i giusti, quando la esplorano per disprezzarla, non vi trovano se non amarezza e dolore. Perciò dalla loro esplorazione portano con sé oro, argento, denti di elefante (avorio), scimmie e pavoni. L’oro rappresenta la purificazione della coscienza; l’ar­gento la proclamazione della lode; i denti degli elefanti (cioè l’avorio) raffigurano l’accusa e la riprovazione di se stessi; le scimmie la considerazione della propria inde­gnità; i pavoni l’abiezione della gloria passata.

Dell’oro e dell’argento Giobbe dice (trad. lett.): “L’argento ha gli inizi delle sue vene” (l’argento proviene dai filoni, dalle vene argentifere), e l’oro ha il luogo dove viene fuso e raffinato” (Gb 28,1). Il principio delle vene nell’uomo è il cuore. Quindi dal cuore dell’uomo deve uscire l’argento, cioè la proclamazione della lode di Dio. Ma dice Geremia: “Tu, o Signore, sei vicino alla loro bocca, ma lontano dalle loro reni” (Ger 12,2). Il cuore dei carnali sta nelle reni, cioè nella lussuria, e la lode di Dio è soltanto sulle loro labbra. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me” (Mt 15,8). Il principio delle vene, dal quale deve scorrere l’argento, è lontano da Dio. In che modo allora l’argento della confessione risuonerà dolcemente all’orecchio dell’Onnipotente, il quale dice: Figlio, dammi il tuo cuore (cf. Pro 23,26), e Dio guarda il cuore? (cf. Sal 7,10).

“E l’oro ha il luogo dove viene fuso e raffinato”. I sentimenti della nostra coscienza vengono purificati nel crogiolo di un severo esame di sé. Questo è il luogo dove l’oro deve venir fuso e purificato, non la lingua degli uomini, perché l’oro fuso nella loro lingua viene distrutto. Sventurato colui che crede più alla lingua degli altri che a alla sua coscienza: molti hanno paura dell’opinione pubblica, pochi della propria coscien­za. Che gran cosa, invece, essere degni di lode e non venir lodati da nessuno!

 

10. Dei denti dell’accusa e del rimprovero dice Giobbe: “Con i miei denti strazio le mie carni” (Gb 13,14). Si strazia le carni con i denti colui che, con una giusta condanna, mette sotto accusa la sua carnalità. E osserva che giustamente i penitenti sono raffigurati negli elefanti, i quali hanno una natura mite. Infatti se si imbattono in un uomo sperduto nel deserto, lo guidano fino alla strada che conosce; o se vengono a trovarsi davanti a un fitto gregge di pecore, si fanno la strada muovendo con calma e pazienza la proboscide. Il più vecchio guida il gruppo, e quello che lo segue in ordine di età incalza gli altri. Quando devono attraversare un fiume, mandano avanti i più piccoli, perché i più grossi, passando per primi, non facciano sprofondare il fondale, provocando così dei gorghi pericolosi.

Allo stesso modo, i giusti hanno il dono della clemenza: riconducono gli erranti sulla retta via; alle pecore, cioè ai semplici, insegnano con bontà e pazienza la strada per la quale procedere con sicurezza; guidano gli altri con la parola e con gli esempi; attraversando il fiume di questa vita diretti verso la patria, mandano avanti i più piccoli, partecipano cioè con comprensione alle difficoltà dei principianti, che non sono ancora giunti al vigore della santità: se i più deboli dovessero procedere sull’austera via dei perfetti, si stancherebbero e si ritirerebbero dal cammino intrapreso.

Parimenti nelle scimmie è indicata la considerazione delle indegnità e delle nefandezze compiute, giacché le scimmie sono senza la coda, con la quale coprire le proprie vergogne. Così i veri penitenti non cercano motivi per scusare o per mascherare i propri peccati, ma manifestano apertamente e con semplicità le nefandezze compiute, vergognandosi non dello sguardo degli uomini, ma solo di quello di Dio.

Infine, nei pavoni è indicato il disprezzo, il rifiuto della gloria temporale. C’è da osservare che il pavone perde le penne quando gli alberi incominciano a perdere le foglie. Dopo, gli rispuntano le piume quando gli alberi ricominciano a mettere le foglie.

Il primo albero fu Cristo, piantato nel giardino delle delizie, vale a dire nel grembo della beata Vergine. Le foglie di quest’albero sono le sue parole: quando il predicatore le sparge con la predicazione e il peccatore le accoglie, quest’ultimo perde le penne, cioè abbandona e disprezza le ricchezze. Poi, nella risurrezione finale, quando tutti gli alberi, cioè tutti i santi, ricominceranno a sbocciare e verdeggiare, allora colui che ha rifiutato le penne delle cose temporali, riceverà le piume dell’immortalità. E come nelle penne del pavone sta la sua bellezza, e nelle zampe la sua bruttezza, in modo che guardandogli le zampe, la sua bellezza ne viene per così dire sminuita, così i penitenti rigettano la gloria di questo mondo, ripensando alla propria abiezione e alla propria corruzio­ne. E i penitenti recano tali merci, finché sono costanti nel controllo quotidiano di se stessi e delle proprie cose.

 

11. “Gesù salì in una delle due barche, quella di Simone, e lo pregò di scostarsi un po’ da terra”. Il Signore prega il prelato della sua chiesa, perché la allontani un po’ dalla terra, allontani, cioè, un poco dall’amore delle cose terrene coloro che sono stati affida­ti alle sue cure. Ma se lui stesso è attaccato alla terra, se è gobbo e piegato verso terra, come potrà staccare dalla terra gli altri?

Quando Mosè, come racconta l’Esodo, si avviò con moglie e figli verso l’Egitto per andare a liberare il popolo d’Israele, un angelo voleva ucciderlo; solo quando rimandò indietro moglie e figli, l’angelo lo lasciò proseguire (cf. Es 4,24-26). Così i prelati e i sacerdoti del nostro tempo, raffigurati appunto in Mosè, hanno realmente moglie e figli, serpenti che gridano dietro ai sacerdoti: Guai, guai! Di essi dice Isaia: “I nati degli asini mangeranno una mistura di migma” (Is 30,24). Migma è un termine ebraico (in realtà è greco) che significa appunto un miscuglio di paglia tritata con frumento. Le sostanze del sacerdote risulta­no dalla mescolanza di due cose: dalla paglia del commercio terreno e dal frumento delle offerte della chiesa. Questo miscuglio lo mangiano i nati degli asini, cioè i figli dei sacerdoti. Costoro, con moglie e figli, pretendono di liberare il popolo di Dio dalla schiavitù del demonio. Ma li affronterà il Signore e li ucciderà, se non si separeranno dalla moglie e dai figli. E dopo questa separa­zione, il Signore dirà: Allontana un po’ la barca da terra.

 

12. “E sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca”. E anche su questo abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re: “Il re Salomone costruì un grande trono di avorio e lo rivestì di oro lucente. Il trono aveva sei gradini; la sua sommità, nel lato posteriore era rotonda; il sedile aveva due bracci laterali, ai cui fianchi si ergevano due leoni; e altri dodici leoni più piccoli erano disposti da una parte e dall’altra sui sei gradini. Non fu mai realizzata opera simile in alcun altro regno” (3Re 10,18-20).

Questo passo della Scrittura può essere commentato in tre maniere: applicandolo cioè alla chiesa, all’anima e alla beata Vergine Maria.

La chiesa. Nel trono di Salomone si può veder raffigurata la chiesa, nella quale il nostro re di pace pronuncia, regnando, i suoi giudizi. Giustamente ci viene ricordato che è fatto di avorio, perché l’elefante, dal quale proviene l’avorio, spicca tra gli altri quadrupedi per il suo sentimento: si unisce alla sua femmina con misura, e mai si unisce ad altre. E questo si applica agli astinenti, che in castità osservano i precetti di Cristo. L’ha rivestita d’oro, poiché per mezzo dei miracoli ha fatto risplendere in essa il fulgore della sua gloria. Dio portò a termine lo splendore del creato in sei giorni, e questo numero nella sua perfezione sta ad indica­re la perfezione delle opere compiute. Il settimo giorno Dio si riposò. E poiché il mondo enumera sei periodi nei quali è possibile operare, chiunque aspira alla patria celeste deve affrettarsi a raggiungerla con le opere buone.

La rotondità della parte posteriore del trono raffigura la pace eterna, della quale i santi godranno dopo questa vita: chi fatica quaggiù nel modo giusto, riceverà la giusta mercede e godrà della pace perenne. I bracci posti a fianco del trono come per sorreggerlo simboleggiano il soccorso della grazia divina che fa avanzare la chiesa verso il regno celeste. E sono due, perché questo viene proclamato in tutti e due i Testamenti: infatti nulla di buono può essere fatto se non con l’aiuto divino. Nei due leoni sono raffigurati i “padri”, i patriarchi dei due Testamenti, i quali con la fortezza dell’animo impararono a comandare a se stessi e agli altri. I leoni erano posti presso le impugnature dei bracci, presso le mani, perché i santi patriarchi attribuivano a Dio, e non a se stessi, tutto quello che facevano: “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria” (Sal 113B,1). Infine, nei dodici leoni più piccoli sono raffigurati i predicatori, che seguono l’insegnamento aposto­lico. Essi sono disposti da una parte e dall’altra dei sei gradini del trono, perché si sforzano di difendere da ogni parte e rafforzare il cammino delle opere buone con l’insegnamento e con l’esempio.

 

13. L’anima. “Il re Salomone si costruì un trono”. Da notare che per intraprendere un’opera sono necessarie due cose: intelligenza e impegno; con l’intelligenza si progetta, con l’impegno si realizza. Gesù Cristo, che è sapienza e potenza di Dio (cf. 1Cor 1,24), si costruì un trono sul quale riposare.

Il trono è l’anima del giusto, che Gesù Cristo con la sua sapienza ha creato, quando non esisteva; con la sua potenza l’ha ri-creata, cioè redenta, quando era andata in rovina. Si costruì dunque un trono nel quale riposare, perché l’anima del giusto è la sede della sapienza (cf. Sap 7,27), e per bocca di Isaia disse: Su chi volgerò lo sguardo, se non sull’umile, sul pacifico e su chi teme le mie parole? (cf. Is 66,2); e Salomone: “Il re che siede in trono dìssipa ogni male con il suo sguardo” (Pro 20,8). Così Gesù Cristo, re dei re, siede in trono, cioè riposa nell’anima: distrugge ogni male della carne, del mondo e del diavolo con il suo sguardo, cioè con lo sguardo della sua grazia.

“Costruì un grande trono d’avorio”, ecc. Vediamo quale sia il significato dell’avo­rio, dell’oro lucente, dei sei gradini, della sommità arrotondata, della parte posteriore, dei due bracci e del sedile, dei due leoni e dei dodici leoni più piccoli.

Avorio, in lat. ebur, viene da barrus (parola indiana), elefante. C’è da osservare che tra gli elefanti e i draghi c’è un’eterna lotta, e vengono tesi gli agguati con questo stratagemma. I draghi, questi grossi serpenti, si nascondo­no vicino ai sentieri solitamente battuti dagli elefanti; lasciano passare i primi e assalgono gli ultimi affinché i primi non possano correre in aiuto. Dapprima li allacciano ai piedi perché, legate le zampe, impediscono loro di camminare. Allora gli elefanti si appoggiano ad alberi o a massi per uccidere i draghi schiacciandoli con il loro peso immane.

Il motivo principale di questa lotta sta nel fatto che gli elefanti hanno il sangue piuttosto freddo, e quindi i draghi li assaltano con grandissima avidità quando il clima è torrido. E per questo motivo li assaltano soltanto quando gli elefanti sono appesantiti dall’aver bevuto a sazietà: le loro vene sono allora molto turgide e quindi, dopo averli atterrati, possono succhiare a sazietà. E si attac­cano soprattutto agli occhi, che sono i più vulnerabili, oppure anche all’interno delle orecchie.

Gli elefanti sono figura dei giusti e i draghi dei demoni, tra i quali ci sarà eterna guerra. I demoni tendono agguati ai piedi dei giusti, cioè ai loro sentimenti, e i giusti proprio con i sentimenti uccidono i draghi, e così questi vengono uccisi proprio là dove volevano inoculare il veleno. La focosa lussuria dei demoni tende a distruggere la casti­tà dei santi; i demoni li assalgono specialmente se li vedono abbandonarsi ai piaceri della gola, la quale riesce a dar fuoco anche ai rigori della castità. E attaccano soprattutto gli occhi, perché sanno che gli occhi sono i primi strali della lussuria. Oppure: attaccano prima gli occhi, cioè la ragione e l’intelletto che sono gli occhi dell’anima, per estirparli, e tentano di chiudere gli orecchi, perché non possano sentire la parola di Dio. Giustamente quindi è detto: “Costruì un grande trono di avorio”: di avorio, in riferimento alla castità; grande, in riferimento alla sublimità della contemplazione.

“Lo rivestì di oro splendente”. La veste dell’anima è la fede, che è d’oro se è illuminata dalla luce della carità. Di questa veste leggiamo nel libro della Sapienza: “Nella veste talare di Aronne c’era (disegnato) tutto l’orbe terracqueo” (Sap 18,24). Nella veste della fede, che opera per mezzo della carità, ci devono essere i quattro elementi, di cui tutto il mondo è formato: il fuoco della carità, l’aria della contemplazione, l’acqua della compunzione e la terra dell’umiltà.

“E il trono aveva sei gradini”, che sono il ripudio del peccato, l’accusa del peccato stesso, il perdono dell’offe­sa ricevuta, la partecipazione alle sofferenze del prossi­mo, il disprezzo di sé e del mondo, il conseguimento della perseveranza finale.

“La sommità del trono, sul lato posteriore, era roton­da”. La sommità del trono simboleggia il desiderio, di cui l’anima arde, di vedere Dio; l’anima sarà rotonda (cioè perfetta) nel lato posteriore, vale a dire alla fine della vita, perché passerà dalla speranza alla visione. Dice il salmo: “L’estremità del dorso della colomba splende di rilessi d’oro” (Sal 67,14). L’estremità del dorso della colomba, cioè dell’anima, è l’eter­na beatitudine: splenderà di riflessi d’oro, splenderà cioè nella contemplazione della maestà divina.

“E aveva due bracci, uno per parte, come per sostenere il sedile”, cioè lo sgabello che era d’oro. Il sedile è il simbolo dell’obbedienza, sorretta come da due braccia che sono la memoria della passione del Signore, e il ricordo della propria cattiveria. Alla fine di questi bracci stanno due leoni, vale a dire la speranza e il timore. La speranza sta presso il braccio della passione del Signore, sul cui esempio volentieri obbedisce, e per mezzo del quale spera di conseguire ciò in cui crede. E presso il braccio del ricordo della propria cattiveria sta il leone del timore, il quale, se manca l’obbedienza, minaccia il pericolo della morte eterna.

“E da una parte e dall’altra dei sei gradini erano disposti sei piccoli leoni”. Essi raffigurano quelle dodici virtù che l’apostolo Paolo enumera nella sua lettera ai Galati: “Il frutto dello Spirito è la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la longanimità, la bontà, la benignità, la mansuetudine, la fede, la modestia, la castità e la continenza” (Gal 5, 22-23). Lo spirito del giusto, che è come il primo dei sei piccoli leoni, coltiva in se stesso queste dodici virtù.

 

14. La beata Vergine Maria. “Il re Salomone si costruì un trono”, ecc. La beata Maria è chiamata “il vero trono di Salomone”. Infatti dice l’Ecclesiastico di lei: “Io abito nei cieli altissimi e il mio trono è in una colonna di nubi” (Eccli 24,7). Come dicesse: Io che abito nei cieli altissi­mi, presso il Padre, ho scelto il mio trono in una madre poverella. Osserva che la beata Vergine, trono del Figlio di Dio, è chiamata “colonna di nubi”: colonna, perché sorregge la nostra fragilità; di nubi, perché immune dal peccato. E questo trono fu di avorio, perché la beata Maria fu candida per l’innocenza, e fredda perché esente dal fuoco della concupiscenza.

In Maria ci furono i sei gradini, come è scritto nel vangelo di Luca: L’angelo Gabriele fu mandato... ad una vergine, ecc. (cf. Lc 1,26-38).

Il primo gradino fu la verecondia (il pudore): “A queste parole ella rimase turbata”. Di qui il detto: All’adole­scente viene raccomandata la verecondia, al giovane la gio­vialità, all’anziano la prudenza.

Il secondo gradino fu la prudenza: sul momento non disse né sì né no, ma incominciò a riflettere: “Si domandava che senso avesse un tale saluto”.

Il terzo gradino fu la modestia; infatti domandò all’angelo: “Come è possibile questa cosa?”

Il quarto gradino fu la costanza nel suo santo proposito: “Io non conosco uomo”.

Il quinto gradino fu l’umiltà: “Ecco, sono la serva del Signore”.

Il sesto gradino fu l’obbedienza: “Avvenga di me quello che hai detto”.

E questo trono fu rivestito dell’oro della povertà. O aurea povertà della Vergine gloriosa, che hai avvolto in misere fasce il Figlio di Dio e l’hai adagiato in una mangiatoia! E giustamente è detto che Salomone rivestì d’oro il trono: infatti la povertà riveste l’anima di virtù, invece la ricchezza la spoglia.

“E la sommità del trono era rotonda nel suo lato posteriore”. Il culmine della perfezione della beata Vergine Maria fu la carità, per la quale, nel suo lato posteriore, cioè nell’eterna beatitudine, è assisa nel posto più eccel­so, è rivestita della gloria più fulgente che non ha né principio né termine.

“E da una parte e dall’altra due bracci, quasi a sorreggere il seggio”. Il seggio, cioè lo sgabello d’oro, fu l’umiltà della Vergine Maria, sorretta come da due braccia, cioè la vita attiva e la vita contemplativa. Ella fu ad un tempo Marta e Maria. Fu Marta quando andò in Egitto e poi ritornò in Galilea; fu Maria quando serbava tutte queste parole e le meditava nel suo cuore (cf. Lc 2,19).

“E due leoni”, cioè Gabriele e Giovanni Evangelista, oppure Giuseppe e Giovanni Battista, “stavano in testa ai due bracci”: Giuseppe in riferimento alla vita attiva, Giovanni a quella contemplativa.

“E dodici leoni più piccoli”, cioè i dodici apostoli, da una parte e dall’altra in atto di ossequio e venerazione davanti a lei.

In verità, in verità, in nessun altro regno fu mai costruita un’opera simile, perché “come Maria mai ci fu donna al mondo, né mai ci sarà in futuro” (Liturgia). Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma la beata Vergine Maria le ha superate tutte (cf. Pro 31,29). E un altro autore dice di lei: “Se anche la Vergine tacerà, nessun’altra voce al mondo potrà risuonare”.

 

15. “Quando ebbe finito di parlare, Gesù disse a Simone: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca” (Lc 5,4). In latino è detto duc in altum,alla lettera: conduci dove è profondo. Altus significa sia profondo che alto, e quindi può riferirsi tanto a ciò che sta sopra come a ciò che sta sotto. Si può dire sia alto cielo, che alto mare.

A Simone, come ad ogni vescovo, viene detto: “Prendi il largo!”, e subito dopo, ai loro suffraganei, ai loro colla­boratori: “Calate le reti per la pesca”. Infatti, se la barca della chiesa non viene dal presule condotta al largo, cioè alle altezze della santità, i sacerdoti non calano le reti per la pesca, ma fanno cadere le vittime nel profondo.

Leggiamo in Osea: “Ascoltate questo, o sacerdoti, contro di voi si fa il giudizio, perché siete diventati un laccio, invece di sorvegliare, e come una rete tesa sul Tabor. E avete fatto cadere le vittime nel profondo” (Os 5,1-2).

Fa’ attenzione alle tre parole: laccio, rete e fatto cadere, perché esse indicano i tre vizi dei sacer­doti: la negligenza, l’avarizia, e la gola unita alla lussuria.

La negligenza: “Siete diventati un laccio, invece di sorvegliare”. I sacerdoti hanno il compito di sorvegliare, ma, per la loro negligenza, i sudditi che sono loro affidati cadono nel laccio del diavolo (cf. 1Tm 6,9).

L’avarizia: “E come una rete tesa sul Tabor”. Sul Tabor si trasfigurò il Signore, e il nome s’interpreta “luce che viene”, e sta a indicare l’altare sul quale avviene la trasfigurazione, cioè la transustanziazione delle specie del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, e per mezzo di questo sacramento entra la luce nelle anime dei fedeli. Su questo monte Tabor i sacerdoti, anzi per meglio dire, i mercanti, tendono la rete della loro avari­zia per ammassare denaro. Celebrano la messa per denaro, e se non fossero sicuri di ricevere i soldi, certamente non celebrerebbero la messa; e così il sacramento della salvezza lo fanno diventare strumento di cupidigia.

La gola e la lussuria: “Avete fatto cadere le vittime nel profondo”. Le vittime sono le offerte dei fedeli, che essi fanno cadere nel profondo, che vuol dire procul a fundo, cioè lontano dal fondo, vale a dire le impiegano per soddisfare la gola e la lussuria. La vittima è così chiamata perché cade percossa da un colpo (lat. victima, ictu percussa cadit). Infatti con le offerte dei fedeli, che spellano, i sacerdoti ingrassano i loro cavalli e puledri, le loro concubine e i loro figli. La Legge comandava che il mamzer, cioè il figlio di una prostitu­ta, non venisse ammesso al servizio della casa del Signore (cf. Dt 23,2). Ed ecco invece che i figli delle prostitute non solo entrano nella casa del Signore, ma perfino ne mangiano i beni.

 

16. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le sue labbra da parole d’inganno...; il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (1Pt 3,10-12). Il beato Pietro prese queste parole dal salmo di Davide (cf. Sal 33,13-15), nel quale sono poste in evidenza tre cose: la gloria eterna dei giusti, la vita dei penitenti, e il castigo di chi fa il male. La gloria eterna: “Chi vuole amare la vita”; la vita dei penitenti: “trattenga la sua lingua”; il castigo di chi fa il male: “Il volto del Signore è contro coloro che fanno il male”.

La vera penitenza consiste in queste sei pratiche: trattenere la lingua dal male: “Credo che la prima delle virtù consista nel tenere a freno la lingua; imponendo silenzio si corregge una mala lingua” (Catone). Non dire parole d’inganno. Sta scritto: “Signore, chi abiterà nella tua tenda?” Certamente “chi non ha tramato inganni con la sua lingua” (Sal 14,1.3). Evitare il male. Ma questo non basta, bisogna poi fare il bene. Cerca la pace: cerca la pace dentro, in te stesso; e se la troverai, avrai senza dubbio la pace anche con Dio e con il prossimo; e persèguila(conquistala) con la perseveranza finale.

Sopra coloro che fanno tutto questo si posano gli occhi della misericordia del Signore, e gli orecchi della sua be­nevolenza sono aperti alle loro preghiere. Il castigo degli empi: “Il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (cf. Sal 33,16­17). La parola latina vultus si può intendere come vultuositas, volto corrucciato e severo. Queste tre cose, cioè la gloria, la penitenza e il castigo, Gesù Cristo le proclamò alle turbe, dopo essere salito sulla barca, e il suo vicario non cessa di procla­marle ogni giorno a tutti i fedeli.

Fratelli carissimi, preghiamo dunque lo stesso Signore Gesù Cristo, che faccia salire anche noi, per mezzo dell’obbedienza, sulla barca di Simone, ci faccia sedere sul trono d’avorio dell’umiltà e della castità, ci faccia condurre la nostra barca in alto mare, cioè alle altezze della contemplazione, ci faccia gettare le nostre reti per la pesca, per poter giungere con la maggior quantità possibile di buone opere a lui che è Dio sommamente buono.

Ce lo conceda egli stesso, che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

III. la cattura di una grande quantità di pesci

 

17. “Simone rispose: Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola gette­rò le reti. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni che erano nell’altra barca che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano” (Lc 5,5-7).

Notte, in lat. nox, è così chiamata perché nuoce agli occhi: infatti impedisce agli occhi di vedere. Chi lavora di notte non prende niente, anzi qualche volta viene preso. Dice il salmo: “Mandi le tenebre e scende la notte, e nella notte vagano tutte le bestie della foresta” (Sal 103,20). Quando la notte, cioè l’oscurità del peccato, scende in un’anima, allora tutte le bestie, vale a dire i demoni, entrano in essa e la dilaniano. Chi lavora nella notte, cioè fatica nell’oscurità di questa vita per impadronirsi di qualcosa di transitorio, non prende niente: tutte le cose temporali infatti sono un nulla.

Dice infatti Geremia: “Guardai la terra, ed ecco era vuota, era come un nulla” (Ger 4,23). Nulla, in lat. nihilum, è compo­sto da nihil, nulla eillum, lui. Il nulla segue colui che abbraccia quaggiù la terra vuota. Nihil è termine astratto, un non essere, ed è composto da non e illum, e la parola illum si scriveva in antico ullum. Di questo nihil, niente, dice Isaia: “Tutte le genti sono davanti a me come non esistessero; sono considerate come un nulla e cosa vana” (Is 40,17). Tutte le genti, cioè quelli che vivono come i gentili (i pagani), sono davanti a Dio come non esistessero. Esistono nel mondo della natura, ma non in quello della grazia, perché esistere male equivale a non esistere; e chi è fuori della vera esistenza, può essere reputato un nulla e una cosa vana.

Hanno vera e propria esistenza quelle cose che né possono aumentare nella loro intensità (densità), né possono diminuire per contrazione, né possono cambiare variando. L’essere ha come suo contrario soltanto il non essere (Agostino). Quindi colui che cresce nell’at­ten­zione e nella preoccupazione per le cose temporali, che diminuisce restringendosi perché gli viene a mancare la carità, e cambia variando, vale a dire è instabile nella sua mente, decade dalla vera esistenza, e quindi “è reputato quasi un nulla e come cosa vana”.

“Ma sulla tua parola getterò le reti”. Commenta la Glossa: Se gli strumenti della predicazione non vengono gettati sulla parola della superna grazia, cioè per ispira­zione interiore, invano il predicatore lancia la rete della sua voce, perché la fede dei popoli non nasce dalla sapienza di un forbito discorso, ma per opera della divina chiamata.

O stolta presunzione, o umiltà feconda! Quelli che prima non avevano preso nulla, sulla parola di Cristo catturano una grande moltitudine. Si rompono le reti per la grande quantità di pesci perché adesso, in questo mondo, insieme con gli eletti entrano tanti reprobi, che lacerano persino la chiesa con le loro eresie. Si rompono le reti, ma non si perde il pesce, perché il Signore salva i suoi anche in mezzo alle persecuzioni e agli scandali.

“Ma sulla tua parola”, non sulla mia, “getterò le reti”. Ogni volta che le ho gettate sulla mia parola, non ho preso mai niente. Ahimè, ogni volta che le ho gettate sulla mia parola, l’ho attribuito a me, non a te; ho predicato me stesso, e non te; ho predicato cose mie, non le tue. E quindi nulla ho preso; e se ho preso qualcosa, si trattava non di un pesce ma di una rana gracidante, perché mi lodasse; e anche questo era un niente!

“Ma sulla tua parola getterò le reti”. Getta le reti sulla parola di Gesù Cristo colui che nulla attribuisce a se stesso, ma tutto a lui; colui che vive secondo ciò che predica. E se così farà, prenderà veramente una grande quantità di pesci.

 

18. Su tutto questo troviamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che “Elia salì sulla cima del Carmelo e, prostrato fino a terra, piegò il viso tra le ginocchia. Disse quindi al suo servo: àlzati e guarda verso il mare. Quegli andò, guardò e disse: Non c’è nulla! Elia disse: Tornaci ancora per sette volte. La settima volta, ecco una nuvoletta, piccola come l’orma di un piede umano, saliva dal mare. E ben presto tutto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e cadde una grande pioggia” (3Re 18,42-45).

Vediamo quale significato abbiano Elia e la cima del Carmelo; che cosa significhi “prostrato” e “terra”; e che cosa voglia dire “il viso tra le ginocchia”; che cosa signi­fichino il servo, le sette volte, la nuvoletta, l’orma di un uomo, il mare, le nubi, il vento e la pioggia.

Elia è figura del predicatore, il quale deve salire sulla cima del Carmelo, nome che s’interpreta “scienza della circoncisione”, e sta a indicare la perfezione della vita santa, nella quale l’uomo impara molto bene a tagliare da se stesso tutte le cose superflue. “Prostrato”, ecco l’umiltà; “fino a terra”, ecco il ricordo della propria fragilità; “piegò il viso tra le ginoc­chia”, ecco il dolore delle passate iniquità.

“E disse al suo servo: Àlzati e guarda verso il mare”. Servo, in lat. puer, viene da purezza, e sta a indicare il corpo del predicatore: egli deve mantenerlo nella più asso­luta purezza. E questo servo deve guardare verso il mare, cioè verso i mondani contaminati dall’amarezza del peccato. E guarda verso di essi quando nella sua predicazione presenta i rimedi contro i loro vizi. E deve “guardare sette volte”, cioè presentare e spiegare i sette articoli della fede, che sono: l’incarnazione, il battesimo, la passione, la risurrezione, l’ascensione, la discesa dello Spirito Santo e il ritorno di Gesù Cristo per il giudizio finale, nel quale i peccatori, giudicati e condannati, saranno gettati nello stagno di fuoco ardente, dove sarà pianto e stridore di denti (cf. Mt 13,42; Ap 21,18).

E in questo settimo articolo, che corrisponde alla settima volta, mentre la massa dei mondani sarà in preda allo spavento per la minaccia delle pene eterne, dal mare, cioè dal loro cuore, il predicatore vedrà alzarsi una nuvoletta, cioè un po’ di compunzione, piccola come l’orma di un uomo: e in questo è simboleggiata la grazia di Gesù Cristo. E quando la grazia di Cristo viene infusa nella mente del peccatore, allora senza dubbio la nuvoletta della compunzione incomincia a salire, a poco a poco cresce e diventa una grande nuvola che oscura tutto il falso splendore delle cose temporali. Poi si alza il vento impetuoso della confessione, che strappa dalle radici tutti i vizi, e incomincia a cadere la grande pioggia della soddisfazione (le opere della penitenza), che inonda la terra e la fa germogliare. E in questo modo il predicatore prende vera­mente una grande quantità di pesci.

“E fecero cenno ai compagni che stavano nell’altra barca”, ecc. Abbiamo detto più sopra che queste due barche raffigurano le due forme di vita: dei penitenti e dei carnali (vedi n. 6). Quelli che sono nella barca di Simone, che vivono cioè nell’obbedienza e nella penitenza, e chiamano quelli che fanno una vita dedita ai piaceri carna­li perché vengano ad aiutarli (cioè cambino vita). Troviamo un caso analogo nel terzo libro dei Re, dove si racconta che Salomone mandò a dire a Chiram, re di Tiro, di prestargli aiuto per costruire il tempio del Signore (cf. 3Re 5,1-6). Così questi chiamano i carnali con la predicazione, perché vengano, perché si allontanino dalla vanità del mondo, e li aiutino, si diano cioè alle opere di penitenza. Così riempiranno entrambe le barche e costruiranno il tempio del Signore: con i primi e con i secondi si costruirà così, con pietre vive, il tempio della Gerusalemme celeste.

 

19. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: “E chi vi potrà fare del male, se sarete bravi imitatori (di chi fa il bene)? E se anche dovrete soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro e non turbatevi” (1Pt 3,13-14). Pietro così parla ai penitenti, presi dal mare del mondo con la rete della predicazione: Se sarete dei bravi imitatori di coloro che vi hanno chiamato alla penitenza, chi potrà farvi del male? Come dire: Nessuno, né uomo né diavolo! E se dovrete soffrire qualcosa per la giustizia, non per i peccati, beati voi, cioè “bene aumentati” (lat. beati, bene aucti), perché aumenterà la corona del premio. E non vi sgomentate per paura di loro, perché “chi ha paura non è perfetto nella carità” (1Gv 4,18). Fa’ atten­zione, che dice: “Non abbiate timore”. C’è un duplice timore: il timore delle cose e il timore dei corpi. Chi ama Dio disprezza entrambi questi timori. “Non vi conturbate”, per non distogliervi dalla fermezza della vostra mente. Non dice “turbate” ma “conturbate” perché, anche se il corpo qualche volta si turba esteriormente, tuttavia la mente deve restare salda e stabile interiormente.

Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Verbo di Dio Padre, per potere calare le reti sulla sua parola e non sulla nostra; per poter tirar fuori dal profondo dei vizi i peccatori e salire a lui insieme con loro. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.

 

IV. lo stupore di Pietro e dei suoi compagni, e l’abbandono di tutto ciò che possedevano

 

20. “Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontànati da me, che sono un peccatore. Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,8-11).

Pietro, riconoscendosi peccatore, temette di essere schiacciato dalla presenza di tanta maestà, e quindi disse: “Allontànati da me, che sono un peccatore”. Chi si riconobbe peccatore, si gettò ai piedi di Gesù. E in questo fatto dobbiamo considerare due momenti: il timore causato dai peccati, quando è detto “si gettò”, e la speranza nella misericordia del Redentore quando è detto “alle ginocchia di Gesù”. E in proposito il Signore, per bocca di Isaia, promette ai penitenti: “Sarete portati al seno e, seduti sulle ginocchia, sarete accarezzati” (Is 66,12). In lat. è detto ad ubera, alle mammelle. Sono chiamate ubera perché sono uvida, cioè bagnate, molli, a motivo del latte. Considera che le mammelle sono due: l’incarna­zione e la passione; la prima fu di consolazione, la seconda di riconciliazione. I penitenti, da poco convertiti, come i lattanti vengono portati alle mammelle per essere consolati con il latte dell’incarnazione, e per essere riconciliati con il sangue che uscì dalla mammella aperta dalla lancia sul monte Calvario, e venir così incoraggiati ad affrontare la passione. Vengono anche presi sulle ginocchia della benevolenza paterna, come fa la madre con il figlio, e vengono accarez­zati affinché abbiano la certezza che, chi ha loro offerto le mammelle dell’incarnazione e della passione, non ha cer­to negato loro la remissione dei peccati e la beatitudine del Regno.

“Allontànati da me”. Dove si trova oggi uno che abbia paura di essere schiacciato da un beneficio troppo grande? Pietro ebbe paura. Noi invece, pur consci di tanti peccati, ci mettiamo alla presenza della maestà divina senza alcun riguardo, e senza alcun timore. La maestà divina, infatti, è presente dove c’è il corpo di Cristo, gloria degli angeli, dove ci sono i sacramenti della chiesa, dove si amministrano i santi misteri. Certamente noi crediamo a tutte queste cose e ciononostante, ostinati nella nostra malizia, non smettiamo mai di peccare. Perciò il Signore, per bocca di Geremia, dice: “Com’è che il mio diletto, nella mia casa ha commesso tante scelleratezze? Forse che le carni dei sacrifici ti libereranno dai tuoi peccati?” (Ger 11,15). No, di certo, anzi ne aggiungeranno altri.

“Grande stupore infatti aveva preso lui e quelli che erano insieme”, ecc. Restano stupefatti, Pietro e i suoi compagni, di fronte ad una pesca così abbondante! Anche noi dobbiamo meravigliarci di fronte alla conversione dei peccatori, come facevano coloro dei quali si racconta nel libro dei Giudici, che “Sansone colpì i filistei e ne fece una tale strage che essi, per lo stupore, se ne stavano lì seduti con le gambe accavallate” (Gdc 15,8). Il testo latino dice letteralmente: “Mettevano il polpaccio sulla coscia”. Il polpaccio è il muscolo che copre la tibia.

Quando il Signore colpisce i filistei, cioè i demoni, e libera dalle loro mani Israele, cioè l’anima, dobbiamo anche noi restare stupefatti e mettere il polpaccio sopra la coscia. Nella coscia è simboleggiato il piacere carnale e noi mettiamo sopra di esso il polpaccio quando , sull’esempio del peccatore convertito, reprimiamo il piacere del­la carne proprio con la mortificazione della carne stessa.

“Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. E questo spetta in modo particolare a Pietro, al quale appunto Gesù spiega che cosa significhi la cattura dei pesci. Come allora catturava i pesci con le reti, così in seguito avrebbero catturato gli uomini con le parole. O anche: Perché sei stato umile, ti sei vergognato delle macchie che c’erano nella tua vita, ma questa vergogna non ti ha impedito di confessarle, anzi, messa a nudo la piaga, hai cercato il rimedio: d’ora in poi sarai pescatore di uomini.

“Tirate le barche a terra, lasciato tutto, lo seguiro­no”. Cristo, il gigante che ha in sé due nature, l’agile corridore che divora le sue strade, esultò come un gigante che percorre la via (cf. Sal 18,6), e si affretta a compiere la missione per la quale era venuto.

Quindi chi vuole seguirlo deve necessariamente lasciare tutto, tutto deporre e tutto posporre, perché chi è carico non può star dietro a uno che corre. Dice infatti il terzo libro dei Re: “La mano del Signore fu sopra Elia il quale, cintosi i fianchi, incominciò a correre” (3Re 18,46). La mano, in lat. manus, che suona quasi come munus, servizio, aiuto, è la grazia di Dio, e quando è sopra l’uomo, gli infonde un così grande aiuto che, cinti i fianchi, può correre per mezzo della castità, e seguire Cristo nudo e povero, anche lui nudo e povero per la povertà.

21. Infine con questa quarta parte del vangelo concorda la quarta parte dell’epistola: “Santificate il Signore Cristo nei vostri cuori” (1Pt 3,15). Fa’ attenzione a queste tre parole: il Signore, Cristo, santificate. Signore, in lat. Dominus, da dominio (it. signore, signoria, signoreggiare). Cristo viene da crisma, olio misto a balsamo profumato. Santo, si dice in greco àgios, e significa “senza terra” (a, senza, gès, terra), nella quale ci sono quattro brutture: l’impurità, l’insaziabilità, l’oscurità e la fragilità. Quindi chi è senza terra, chi cioè è senza attaccamento alle cose terrene, nelle quali c’è l’impurità della lussuria, l’in­saziabilità dell’avarizia, l’oscurità dell’ira e dell’invi­dia, e la fragilità dell’in­costanza, costui senza dubbio santifica nel suo cuore il Signore come un umile servo, santifica nel suo cuore Cristo come un vero cristiano.

Fratelli carissimi, rivolgiamo le nostre preghiere allo stesso Gesù Cristo, perché, lasciate tutte le nostre cose, ci conceda di poter correre con gli apostoli, di santifi­carlo nel nostro cuore, per poter giungere a lui che è il Santo dei santi.

Ce lo conceda egli stesso, che è degno di lode e di amore, che è dolce e mite. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. E ogni anima penitente, tratta fuori dal lago di Genesaret, risponda: Amen, alleluia!