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Giovedi, 28 marzo 2024 - San Castore di Tarso ( Letture di oggi)

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE
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Temi del sermone

 – Vangelo della IV domenica dopo Pentecoste: “Siate misericordiosi”; vangelo che si divide in quattro parti.

– Anzitutto sermone sul predicatore o sul prelato della chiesa: “Davide che siede in cattedra”.

  • Parte I: Sermone sulla triplice misericordia di Dio e dell'uomo: “Siate misericordiosi”.

  • Natura delle gru e il loro simbolismo.

– Sermone contro coloro che fanno giudizi temerari su cose che sono nascoste: “Uzza protese la mano verso l'Arca”.

  • Sermone contro coloro che godono della caduta o della morte del nemico: “Davide salì alla stanza superiore e pianse”.

– Sermone per educare alla pazienza: “Simei maledisse il re”.

– Parte II: Sermone sulla triplice misura e relativo significato: “Una misura buona, pigiata e traboccante”.

– Sermone contro coloro che si gloriano della bellezza, che si confessano una volta all'anno e non fanno mai la penitenza imposta dal confessore: “Non c'era uomo bello come Assalonne”.

– Sermone sulle quattro prerogative del corpo: “Una misura buona, pigiata e traboccante”.

  • Parte III: Sermone contro i prelati ciechi della chiesa: “Bestie tutte della campagna”.

  • Natura dell'orso e suo significato morale.

– Sermone sulla natività del Signore: “Ruben uscì al tempo della mietitura”.

– Sermone sulla passione del Signore: “Il re Davide attraversò il torrente Cedron”.

– Parte IV: Sermone contro coloro che sono immondi e pretendono di eliminare l'im­mo­ndezza degli altri: “Tu che vedi la pagliuzza”.

– Sermone sugli occhi: loro descrizione e significato.

 

esordio - sermone sul predicatore o sul prelato della chiesa

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).

Leggiamo nel secondo libro dei Re: “Davide, che siede in cattedra, principe sapientissimo fra i tre; egli è come il delicatissimo tarlo del legno; in un solo assalto uccise ottocento uomini” (2Re 23,8). Davide è figura del predicatore, che deve sedere in cattedra, ecc. Fa’ attenzione alle varie parole. Nella “cattedra” è indicata l’umiltà della mente; in “sapientis­simo” lo splendore; in “principe”, la costanza; nei “tre” la vita, la scienza e l’eloquenza; nel “legno” l’ostinata malizia dei perversi; in “delicatissimo” la misericordia e la pazienza; nel “tarlo” la severa disciplina. Ecco dunque che il predicatore deve sedere sulla catte­dra dell’umiltà, ammaestrato dall’esempio di Gesù Cristo, il quale umiliò la gloria della divinità nella cattedra della nostra umanità; dev’essere sapientissimo nella sapienza dell’amore, che sola conosce e gusta quanto è soave il Signore (cf. Sal 33,9); dev’essere principe per la fermezza dello spirito, in modo da non temere l’incontro di alcuno, come il leone che è la più forte delle fiere; fra i tre, cioè nella vita, nella scienza e nell’eloquen­za. Deve anche essere delicatissimo tarlo del legno: tarlo, per forare e corrodere il legno, vale a dire gli induriti nel male e gli sterili di opere buone; delicatis­simo, cioè paziente e misericordioso con gli umili e i pentiti.

Oppure: come nulla è più resistente del verme quando attacca il legno, e nulla è più molle quando viene toccato, così il predicatore, quando presenta la parola del Signore deve penetrare con forza nel cuore degli uditori; se invece egli stesso viene fatto oggetto di ingiurie, deve mostrarsi ed essere dolce e affabile. È detto di Davide che “in un solo assalto ne uccise ottocento”. Dice “in un solo assalto” a motivo di certi che, dopo aver sconfitto la superbia, assecondano l’ingordigia. Nel numero “ottocento” sono compresi tutti i vizi del corpo e dello spirito. E il predicatore deve eliminarli tutti da se stesso, per poter compiere le opere buone prima nei propri riguardi e quindi nei riguardi degli altri. Appunto a questo proposito il vangelo di oggi dice: “Siate misericordiosi...”.

 

2. In questo vangelo sono posti in evidenza quattro punti. Primo, la misericordia di Dio: “Siate misericordiosi...”; secondo, la misura della gloria eterna: “Una misura buona...”; terzo, la caduta dei ciechi nel fosso: “Disse loro anche una parabola: Può forse un cieco guidare un altro cieco?”; quarto, la pagliuzza del peccato nell’occhio del fratello: “Come puoi vedere la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello?”. Troveremo in alcuni racconti del secondo libro dei Re delle concordanze con queste quattro parti del vangelo.

Nell’introito della messa di oggi si canta: “Il Signore è la mia luce” (Sal 26,1). Si legge quindi un brano dell’epistola del beato Paolo ai Romani: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura”, ecc. (Rm 8,18). Divideremo il brano in quattro parti e ne vedremo la corrispondenza con le quattro parti del vangelo. Parte prima: “Io ritengo”; parte seconda: “L’attesa della creazione”; parte terza: “Sappiamo che tutta la creazione”; parte quarta: “Non solo la creazione”.

 

I. la misericordia di Dio

 

3. “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condanna­te e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato” (Lc 6,36-38). Osserva che in questa prima parte del vangelo sono evidenziati cinque comandi molto importanti: aver miseri­cordia, non giudicare, non condannare, perdonare e dare. Vogliamo trovarne la concordanza con cinque racconti del secondo libro dei Re.

Primo comando. È detto misericordioso chi soffre parte­cipando alla miseria degli altri. Questa compassione è chiamata misericordia, perché rende il “cuore misero” (lat. misericordia, miserum cor), soffrendo per l’altrui miseria. In Dio invece la misericordia è senza la miseria del cuore. Infatti la misericordia di Dio è detta miserazione, in lat. miseratio, come volesse dire “azione di misericordia” (lat. misericordiæ actio). In questo senso dunque il Signore dice: “Siate misericordiosi”. E osserva che, come è triplice la misericordia del Padre celeste nei tuoi riguardi, così triplice dev’essere la tua misericordia nei riguardi del prossimo. La misericordia del Padre è graziosa, spaziosa, preziosa.

Graziosa, perché con la grazia purifica l’anima dai vizi. Dice l’Ecclesiastico: “Piena di grazia è la misericordia di Dio nel tempo della tribolazione, come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità” (Eccli 35,26). Nel tempo della tribolazione, cioè quando è tormentata a motivo dei suoi peccati, l’anima viene irrorata dalla pioggia della grazia che la ristora e lava e cancella i peccati.

Spaziosa, perché col tempo si allarga e si espande nelle opere buone. Dice infatti il salmo: “La tua misericordia è davanti ai miei occhi e mi compiaccio nella tua verità” (Sal 25,3), perché mi è venuta in odio la mia iniquità.

Preziosa, nelle delizie dell’eterna vita, della quale dice Anna nel libro di Tobia: “Chiunque ti onora ha la certezza che se la sua vita è stata messa alla prova, sarà coronato; se è passato attraverso le tribolazioni, sarà liberato; se è stato oppresso e perseguitato, gli sarà concesso di entrare nella tua misericordia” (Tb 3,21).

Su questo argomento, vedi anche il sermone della domenica XV dopo Pentecoste., parte II, dove è spiegato il vangelo: “Nessuno può servire a due padroni” (Mt 6,24).

Riferendosi alle tre prerogative della misericordia del Padre, il profeta Isaia dice: “Io mi ricorderò delle misericordie del Signore, e loderò il Signore per tutte le cose che ha fatto per noi e per la moltitudine dei benefici da lui fatti alla casa d’Israele, secondo la sua benignità e secondo la moltitudine dei suoi atti di miseri­cordia” (Is 63,7).

E anche la tua misericordia verso il prossimo dev’essere triplice: devi perdonarlo se ha peccato contro di te; devi istruirlo, se ha deviato dalla via della verità; devi ristorarlo, se è affamato. Nel primo caso, dice Salomone: “Per mezzo della fede e della misericordia si espiano i peccati”(Pro 15,27). Nel secondo caso, dice Giacomo: “Chi farà convertire un pecca­tore dalla sua vita di peccato, ne salverà l’anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc 5,20). Nel terzo caso, infine, dice il salmo: “Beato chi ha cura dell’indigente e del povero” (Sal 40,2).

Giustamente quindi è detto: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”.

 

4. Concorda con questo ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Davide disse a Merib-Baal: “Non temere, perché voglio trattarti con misericordia per amore di Gionata, tuo padre: ti restituirò tutti i campi di Saul, tuo avo, e tu mangerai sempre il pane alla mia mensa” (2Re 9,7).

In questo passo è indicata la triplice misericordia che si deve avere con il prossimo. Primo, quando dice: “per amore di Gionata”, vale a dire: per amore di Gesù Cristo, il quale disse: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Con colui che pecca contro di te devi usare misericordia con il cuore e con la bocca, per perdonargli sia con le parole che con i fatti. Secondo, quando aggiunge: “Ti restituirò tutti i campi di Saul, tuo avo”. Campo si dice in lat. ager, da àgere, fare, lavorare, perché in esso si fa qualcosa, si lavora, e simboleggia la grazia infusa con l’unzione nel battesimo: il battezzato la riceve per esercitarla poi nelle opere buone. Ma quando Saul, cioè l’anima unta con l’olio della fede, muore per il peccato, allora perde la grazia: e tu gliela restituisci, quando converti il battezzato dalla sua vita di peccato. Terzo, quando conclude: “E tu mangerai sempre il pane alla mia mensa”. Dice infatti Salomone: “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere” (cf. Pro 25,21; Rm 12,20). Giustamente quindi è detto: “Siate misericordiosi”.

Siamo dunque misericordiosi, imitando le gru, delle quali si dice che, quando vogliono arrivare ad un dato luogo, volano altissime, come per meglio individuare da un punto più alto di esservazione il territorio da raggiungere. Quella che conosce il percorso precede lo stormo, ne scuote la fiacchezza del volo, lo incita con la voce; e se la prima perde la voce o diventa rauca, subito ne subentra un’altra. Tutte si prendono cura di quelle stanche, in modo che se qualcuna viene meno, tutte si uniscono, sostengono quelle stanche finché con il riposo ricuperano le forze. E anche quando sono in terra, la loro cura non diminuisce: si ripartiscono i turni di guardia, in modo che una ogni dieci sia sempre sveglia. Quelle sveglie stringono tra le zampe dei piccoli pesi che, quando eventualmente cadono a terra, le avvertono che stanno per addormentarsi. Uno strido dà l’allarme se c’è un pericolo da evitare. Le gru fuggono di fronte ai pipistrelli.

Siamo dunque misericordiosi come le gru: posti in un più alto osservatorio della vita, preoccupiamoci per noi e per gli altri; facciamo da guida a chi non conosce la strada; con la voce della predicazione stimoliamo i pigri e gli indolenti; diamo il cambio nella fatica, perché senza alternare il riposo alla fatica, non si resiste a lungo; carichiamoci sulle spalle i deboli e gli infermi perché non vengano meno lungo la via; siamo vigilanti nell’orazione e nella contemplazione del Signore; teniamo strettamente tra le dita la povertà del Signore, la sua umiltà e l’amarezza della sua passione; e se qualcosa di immondo tentasse di insinuarsi in noi, subito gridiamo aiuto, e soprattutto fuggiamo i pipistrelli, vale a dire la cieca vanità del mondo.

 

5. Secondo comando: “Non giudicate e non sarete giudica­ti”. Dice la Glossa: Dei mali evidenti, che certamente non possono essere fatti con retta intenzione, ci è permesso dare un giudizio. Ma ci sono delle cose intermedie, delle quali non si sa con quale intenzione vengano fatte: possono essere bene e male. E neppure sappiamo che cosa potrà diventare colui che oggi ci sembra cattivo: sarebbe temera­rio disperare della sua conversione e considerarlo rigettato da Dio. “Non giudicate, dunque, e non sarete giudicati”.

Abbiamo in proposito una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che “Uzza protese la mano verso l’arca di Dio e la tenne ferma perché i buoi scalciavano e l’avevano fatta piegare. Il Signore si adirò grandemente contro Uzza e lo colpì per la sua temerarietà: Uzza cadde morto vicino all’arca del Signore” (2Re 6,6-7). L’arca è figura dell’anima e i buoi raffigurano i sensi del corpo. Uzza, nome che s’interpreta “robusto”, è figura di colui che è convinto di essere virtuoso e diffama gli altri. Quando dunque i buoi scalciano, quando cioè i sensi del corpo tormentano e si ribellano, l’anima si piega talvolta e acconsente a qualche colpa: se uno presume temerariamente di colpirla con la mano della diffamazione, sappia che incorrerà nel giudizio del Signore, il quale ha detto: “Non giudicate e non sarete giudicati”. Dice il Filosofo: Vedi se anche tu sei cattivo, e perdona a quelli che sono come te.

 

6. Terzo comando: “Non condannate e non sarete condan­nati”. Su questo concorda il secondo libro dei Re, dove si racconta che Davide non volle condannare Assalonne, il quale invece voleva condannare lui (Davide); anzi “ordinò a Ioab, Abisai e Etai: Risparmiatemi il giovane Assalonne” (2Re 18,5). E dopo l’esecuzione di quel figlio, Davide “salì nella sua stanza singhiozzando e, con la disperazione nel cuore, diceva: Figlio mio, Assalonne; Assalonne, figlio mio. Chi mi concederà di morire al tuo posto, Assalonne, figlio mio, figlio mio, Assalonne!” (2Re 18,33).

Non si deve quindi godere della morte del nemico, ma addolorarsi e piangere. Anche Cristo salì nella sua stanza, cioè sulla croce, e lì pianse su Adamo e su tutti i suoi discendenti, uccisi da Ioab, vale a dire dal diavolo, con tre lance, cioè con la gola, con la vanagloria e con l’ava­rizia. E anche Cristo pianse dicendo: Figlio mio, Adamo, chi mi concederà di morire per te? Cioè: che la mia morte ti sia di giovamento? Come dicesse: Nessuno volle conceder­mi di morire per lui. Cristo reputa un grande dono il fatto che il peccatore gli conceda che la propria morte gli sia di giovamento.

 

7. Quarto comando: “Perdonate e vi sarà perdonato”. Anche su questo abbiamo la concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Simei maledisse Davide, dicendo: “Vattene, vattene, sanguinario, scellerato! Il Signore ha fatto ricadere sul tuo capo tutto il sangue della casa di Saul, perché hai usurpato il suo regno; e ora il Signore ha messo il regno nelle mani di Assalonne, tuo figlio. Ed ecco che sei oppresso dalle sventure, perché sei un sanguinario. Allora Abisai, figlio di Sarvia, disse al re: Perché questo cane morto maledice il re, mio signore? Andrò io a troncargli la testa. Ma il re disse: Che cosa avete in comune con me voi, figli di Sarvia? Lasciatelo pure che lanci maledizioni. È il Signore che gli ha comandato di maledire Davide; chi oserà domandargli: perché fai così? Quindi il re, rivolto ad Abisai e a tutti i suoi ministri, disse: Ecco, se il mio figlio, il figlio uscito dalle mie viscere, cerca di togliermi la vita: quanto più lo cerca ora il figlio di Iemini (cioè della tribù di Beniamino)! Lasciate che maledica, come gli ha comandato il Signore: forse il Signore guarderà alla mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi. Davide e quelli che erano con lui continuarono il cammino tutti insieme, mentre Simei camminava sul pendio del monte tenendosi all’altezza del re, continuando a lanciargli maledizioni e a scagliargli contro sassi e terra” (2Re 16,7-13).

Commenta Gregorio: Chi non può o non si sente capace di conservare la pazienza quando è fatto oggetto di parole ingiuriose, richiami alla mente questo episodio di Davide, il quale, mentre Simei si ostinava con le villanie e i capi armati si contendevano l’ono­re di vendicarlo, disse: Che cosa avete in comune con me voi, figli di Sarvia?, ecc. E un po’ più avanti: Lasciatelo che maledica, come gli ha ordinato il Signore, ecc. Con queste parole fa capire che, mentre fuggiva dal figlio che era insorto contro di lui, Davide aveva richiamato alla mente il peccato che aveva commesso con Betsabea: pensò quindi che le parole ingiuriose non erano tanto insulti, quanto piuttosto rimedi, con i quali avrebbe potuto purificarsi e ottenere misericordia per se stesso.

Anche noi infatti sopporteremo volentieri le ingiurie che ci vengono fatte, se nel segreto della mente riandiamo ai peccati commessi. Certamente ci sembrerà leggera l’offesa che ci colpisce, se guardiamo al castigo molto più severo che avremmo meritato. Di conseguenza di fronte alle ingiu­rie si deve piuttosto ringraziare che adirarsi: per mezzo di esse, al giudizio di Dio, viene evitata una pena più grave.

 

8. Quinto comando: “Date e vi sarà dato”. Anche su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che “Sobi, figlio di Nacas, Machir, figlio di Ammiel, e Barzillai, il galaadita, portarono a Davide letti e tappeti, vasi di ter­racotta, frumento e orzo, farina, grano arrostito, fave e lenticchie, ceci tostati, miele, burro, pecore e vitelli ingrassati” (2Re 17,27-29). Questo è il “date”. Sentiamo ora il “vi sarà dato”. “Il re Davide disse a Barzillai: Vieni, ti riposerai e starai tranquillo con me a Gerusalemme” (2 Re 19,33). Vediamo il significato morale di tutto questo.

Machir s’interpreta “che vende”, Ammiel “popolo di Dio”, Barzillai “mia forza”, Galaad “cumulo di testimonianze”. I tre personaggi rappresentano tutti i penitenti che vendono i loro beni e ne distribuiscono il ricavato ai poveri, i quali sono il popolo di Dio, che il Signore si è scelto come erede (cf. Sal 32,12); i poveri che, con la forza delle opere buone sbaragliano le tentazioni dell’antico avversario; i poveri, nei quali sono accumulate tutte le testimonianze (prove) della passione del Signore.

Questi tre danno a Cristo i letti, sui quali si dorme, cioè la tranquillità di una coscienza pura, nella quale Cristo stesso riposa insieme con l’anima; danno tappeti di vari colori, cioè la varietà delle virtù; danno vasi di terracot­ta, cioè se stessi, quando si umiliano e si riconoscono fragili e impastati di fango; danno il frumento, cioè la dottrina del vangelo, e l’orzo, cioè gli insegnamenti dell’Antico Testamento; e la farina, che è la confessione, fatta con la precisazione di tutte le circostanze dei peccati; danno il grano arrostito della pazienza, le fave del­l’astinenza, lelenticchie della propria pochezza; danno i ceci tostati della compassione verso il prossimo, il miele e il burro della vita attiva e di quella contemplativa; danno infine le pecore dell’innocenza e i vitelli ingrassa­ti della macerazione del corpo troppo nutrito. Se tu darai queste cose, anche a te sarà dato, e sentirai il vero Davide che ti dirà: “Vieni, riposati tranquillo con me nella Gerusalemme” celeste.

Considera ancora queste quattro parole: vieni, riposati, tranquillo con me, in Gerusalemme. A queste quattro parole corrispondono le altre quattro che vengono cantate nell’in­troito della messa di oggi: “Il Signore è mia luce e mia salvezza... Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò paura? I miei nemici che mi tormentano, sono essi a inciampare e cadere” (Sal 26, 1-3). “Il Signore è mia luce” corrisponde alla parola “vieni”: non potrebbe camminare diritto verso il Signore, chi prima non venisse illuminato. “Mia salvezza” corrisponde a “riposerai”: dove c’è salvezza c’è anche riposo. “Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?” corrisponde a “tranquillo con me”: chi è difeso dal Signo­re, senza dubbio se ne sta tranquillo. “I miei nemici che mi tormentano, sono essi a inciampare e cadere” corrisponde a “in Gerusalemme”: quando saremo nella Gerusalemme celeste non avremo più paura dei nemici che adesso ci tormentano: essi infatti sprofonderanno nella geenna, mentre noi saremo nella gloria.

Ecco quindi che con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18). Appunto perché le sofferenze sono temporanee, leggere e transitorie, non sono paragonabili; la sofferenza passa, la gloria invece durerà nei secoli dei secoli.

E allora, per poter giungere a quella gloria, preghiamo il Signore Gesù Cristo, che è padre misericordioso, perché infonda in noi la sua misericordia, affinché anche noi la usiamo verso noi stessi e verso gli altri, non giudicando mai nessuno, non condannando mai nessuno, perdonando sempre a chi ci offende e dando sempre noi stessi e le nostre cose a chi ce le domanda.

Si degni di concederci tutto questo lo stesso Signore, che è benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la misura della gloria eterna

 

9. “Una misura giusta, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata in grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato anche a voi” (Lc 6,38). Considera che ci sono tre misure: la misura della fede, la misura della penitenza e la misura della gloria.

La misura della fede è giusta nel ricevere i sacramenti; è pigiata, cioè piena, nel compimento delle opere buone; è scossa nelle tribolazioni o nel sostenere il martirio per il nome di Cristo; ed è traboccante con la perseveranza finale. Di questa misura dice l’Apostolo: “Ciascuno secondo la misura della fede che Dio gli ha dato” (Rm 12,3).

La misura della penitenza è giusta nella contrizione, nella quale si conosce la bontà di Dio; è pigiata nella confessione, che dev’essere piena e completa; scossa nella soddisfazione, cioè nel compimento dell’opera penitenziale; traboccante nel perdono di ogni colpa e nella riconquistata purezza della coscienza. Di questa misura dice il libro della Sapienza: “Tutto hai disposto con misura, numero e peso” (Sap 11,21). “Tutto”, cioè tutta la salvezza dell’anima, per la quale si deve fare tutto ciò che si fa, e alla quale deve essere ordinato tutto ciò che l’uomo fa. “Hai disposto”, tu, Signore Dio, la misura della penitenza la quale, per essere vera, deve avere “numero e peso”: il numero riguarda la confes­sione, nella quale devono essere numerati con precisione tutti i peccati e le loro circostanze; il peso riguarda la soddisfazione, cioè l’opera penitenziale imposta dal confessore, che deve corrispondere alla gravità della colpa commessa. Questo è “il peso del santuario”, non “il peso comune”.

 

10. Abbiamo su questo un riferimento nel secondo libro dei Re: “Ora in tutto Israele non vi era uomo che fosse bello come Assalonne, e come lui elegante: dalla pianta dei piedi alla sommità del capo non vi era in lui alcun difet­to. E quando si tagliava i capelli” gli crescevano ancora più folti. “E se li tagliava una volta all’anno perché gli pesavano troppo; e pesava i capelli della sua testa, e il peso era di duecento sicli, a peso ufficiale” (2Re 14,25­26).

La bellezza di Assalonne, che parte dalla pianta dei piedi e arriva fino alla sommità del capo, simboleggia quella bellezza che proviene dalle cose terrene; si pensa che in essa non ci sia alcun difetto finché la sua floridezza non viene compromessa da alcun malanno. Invece la bellezza che scende dalla sommità del capo simboleggia quella bellezza che proviene dalla conoscenza delle cose celesti, come troviamo nel vangelo, dove il Signore dice: Perché “salgono” questi pensieri nel vostro cuore? (cf. Lc 24,38). Infatti i pensieri che salgono nel cuore provengono dalle cose terrene, quelli invece che scendono provengono dalle cose celesti.

“Si tosava una volta all’anno”. Il taglio dei capelli troppo lunghi raffigura l’accusa dei peccati nella confessione, che molti fanno una sola volta all’anno, quando invece sarebbe necessario confessarsi anche ogni giorno. Essendo l’uomo fragile per natura e incline al peccato, e macchiandosi di peccati ogni giorno, e avendo poi una memoria così debole, che a mala pena si ricorda alla sera di ciò che ha fatto al mattino dello stesso giorno, perché – sventurato! – rimanda la confessione di un anno? Anzi, perché la rimanda anche di un sol giorno, se non sa che cosa porterà il giorno seguente? Oggi sei, domani forse non sarai. Vivi dunque oggi, come se oggi tu dovessi morire. Niente infatti è più certo della morte, niente più incerto dell’ora della morte. Tu dunque, che ogni giorno bevi il veleno del peccato, ogni giorno devi anche prendere il contravveleno della confessione. Dice il Filosofo: Non vive, colui che ha nella mente la sola preoccupazione di vivere.

“Pesava i capelli della sua testa: il loro peso era di duecento sicli, a peso ufficiale”. Il peccatore invece sovrebbe stimare il peso dei suoi peccati trecento sicli, cioè reputarli meritevoli di triplice castigo; deve pesarli con una perfetta contrizione, con una perfetta confessione e con una perfetta opera penitenziale; e invece ne stima il peso a duecento sicli, perché sono molti coloro che, veramente contriti, fanno una perfetta confessione, ma poi vengono meno nel “terzo siclo” (terzo centinaio), quello della soddisfazione: non fanno cioè una penitenza proporzionata alla colpa.

E non pesano i loro peccati con il “peso del santuario”, cioè non li ritengono gravi nella misura in cui li ritengo­no tali Dio e i santi, ma li pesano con il peso comune, cioè li sottovàlutano seguendo il giudizio della gente. E che questo non basti, lo afferma Giovanni Battista: “Razza di vipere”, cioè velenosi, figli di velenosi, “chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira che vi sovrasta?” (Lc 3,7). Come dicesse: Non avete imparato bene a fuggire, perché non si sfugge all’ira quando avete trascurato la soddisfazione, la riparazione dovuta per il peccato. E quindi continua: “Fate frutti degni di penitenza” (Lc 3,8). E fa’ attenzione che dice “frutti”. Ci sono tre cose nella pianta: il germoglio, il fiore e il frutto. Il germoglio è la contrizione, il fiore è la confessione, il frutto è la soddisfazione: e chi non ha quest’ultima, non ha neppure la penitenza perfetta.

 

11. La misura della gloria. Dice il vangelo di oggi: “Una misura giusta, pigiata, scossa e traboccante”. In queste quattro parole dobbiamo vedere le quattro doti del corpo (glorificato), che sono l’agilità, la sottigliezza, la luminosità e l’impassibilità; perché, come è detto, il corpi saranno più luminosi del sole, più agili del vento, più sottili delle scintille, non più passibili di alcun danno. Sta scritto infatti: Il Signore assunse la luminositàsul monte Tabor (cf. Mt 17,2), l’agilità quando “camminò sulle acque” (cf. Mt 14,25), la sottigliezza quando “se ne andò via passando in mezzo a loro” (Lc 4,30), l’impassibilità quando fu assunto come cibo (cf. Lc 22,19) dai discepoli sotto la specie del pane, senza averne alcuna sofferenza. Parimenti: “I giusti splenderanno come il sole”, ecco la luminosità; “e come scintille”, ecco la sottigliezza; “guizzeranno qua e là”, ecco l’agilità; e i loro nomi vivranno in eterno, ecco l’impassibilità, perché non potranno né morire, né venir meno (Sap 3,7; cf. Eccli 44,14).

Oppure: “una misura giusta”, la gioia senza alcuna sofferenza; “pigiata”, la pienezza di tutto senza alcun vuoto; “scossa”, vale a dire la stabilità e la saldezza senza alcuna disgregazione, perché ciò che viene scosso e agitato diventa compatto e stabile; “traboccante”, cioè amore senza alcuna finzione (cf. Rm 12,9): ognuno infatti godrà del premio dell’altro, e così il suo amore traboccherà nell’altro. Questa misura la daranno i poveri, cioè saranno loro la causa per la quale Dio la darà: essi infatti hanno dato l’occasione di meritarla.

“Vi sarà versata in grembo”. Dice Giobbe: “Questa speranza è riposta nel mio seno” (Gb 19,27). Il seno rappresenta una specie di rifugio (in lat. sinus, porto), ed è figura del riposo eterno, nel quale i santi, liberati dalla burrasca di questo mondo, saranno, per così dire, accolti nella tranquillità del porto. O anche: come il figlioletto piangente ritorna al seno della madre, che accarezzandolo gli asciuga le lacrime, così i santi dal pianto di questo mondo ritorneranno in seno alla gloria, nella quale Dio asciugherà le lacrime da ogni volto (cf. Ap 7,17).

“Con la stessa misura con cui avrete misurato, sarà misurato anche a voi”. Dice in proposito Agostino: Il giusto misura le sue buone azioni in rapporto alla sua volontà, la quale perciò sarà pure misura della sua felicità. Allo stesso modo il malvagio misura le sue azioni cattive in rapporto alla propria volontà, che sarà quindi la misura della sua infelicità. Vengono perciò inflitti castighi eterni alle cattive azioni, quantunque non siano eterne, in modo che colui che avrebbe voluto provare un godimento eterno nella colpa, subisca un castigo eterno nel rigore della pena.

 

12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola di oggi: “La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Anche la creazione infatti è soggetta alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, pur lasciandole la speranza. La creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”(Rm 8,19-21).

Osserva che, in questo brano dell’epistola, per ben tre volte c’è la parola “creazione”, e questo corrisponde alle tre suddette misure: della fede, della penitenza e della gloria. Creazione sta qui per “chiesa dei fedeli”. Dice dunque: “La creazione”, vale a dire tutta la chiesa, “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio”. Cioè: coloro che per la fede sono figli di Dio nella chiesa, aspettano la gloria nella quale, quando si rivele­rà, contempleranno Dio faccia a faccia, essi che ora lo contemplano come sotto un velo, in maniera confusa come in uno specchio (cf. 1Cor 13,12). Questa creazione è soggetta alla caducità, cioè alla volubilità e all’incostanza: infatti, come dice Salomone, il giusto cade sette volte (cf. Pro 24,16): non per sua volontà tuttavia, perché il giusto non ha il peccato nella volontà, essendogli stato detto: “Va’ e non voler più peccare” (Gv 8,11); egli sopporta questa caducità nella pazienza, per amor di Dio, che ve lo ha sottoposto, cioè che ha voluto, o permesso, che vi fosse sottoposto, e questo nella speranza della vita eterna.

E aggiunge in proposito: “La creazione stessa (la chiesa) sarà liberata dalla schiavitù di questa corruzione, di questa volubilità e incostanza, che sarà trasformata nella libertà della gloria dei figli di Dio, nella quale riceverà la “misura giusta” nella piena maturità di Cristo (cf. Ef 4,13); “pigiata” per la completa felicità delle anime; “scossa” per il conferimento della duplice stola (veste), e “traboccante” nella felicità di tutti, che durerà in eterno.

Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di distribuirci i carismi dello Spirito Santo nella misura della fede; di riempirci della misura della penitenza, per saziarci poi con la misura della gloria nella visione del tuo volto. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

III. la caduta dei ciechi nella fossa

 

13. “Disse loro anche una parabola: Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in una fossa? Non c’è discepolo da più del maestro; ma ognuno sarà perfetto, se sarà come il suo maestro” (Lc 6,39-40). Vedremo che cosa raffigurino allegoricamente i ciechi, la fossa, il discepolo e il maestro.

Il cieco raffigura il prelato o il sacerdote, indegni o corrotti, privi della luce della vita e della scienza. Dei prelati ciechi della chiesa, dice Isaia: “Voi tutte, bestie della campagna, venite a mangiare, e anche voi tutte, bestie della foresta. I suoi [di Israele, della chiesa] sorveglianti sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare, visionari, sonnolenti e amanti dei sogni; sono cani avidissimi, non conoscono sazietà. Gli stessi pastori sono incapaci di comprendere: tutti vanno per la loro strada, ciascuno ai propri interessi, dal più elevato al più basso. Venite, beviamo vino e ubriachiamoci: come è oggi, così sarà anche domani, e molto di più” (Is 56,9-12).

Nelle bestie della campagna sono indicati i demoni; in quelle della foresta gli istinti della carne, i quali divorano la chiesa e l’anima fedele. E questo perché? Appunto perché i sorveglianti della chiesa sono tutti ciechi, privi della luce della vita e della scienza; cani muti, che hanno in bocca il “rospo” del diavolo, e perciò sono incapaci di latrare contro il lupo. Sono visionari, perché predicano per denaro, e credono di richiamare le anime al pentimento dicendo quasi per burla: “Pace, pace, e pace non c’è” (Ger 6,14; Ez 13,10). Dormono nei peccati, amano i sogni, cioè le cose tempo­rali che poi deludono amaramente coloro che le amano. Sono cani avidissimi, sfrontati come una prostituta, e non vogliono arrossire (cf. Ger 3,3). Non conoscono sazietà; dicono sempre: Porta, porta!, e mai: Basta! (cf. Pro 30,15). I pastori stessi pascono se stessi (cf. Gd 12), sono privi di quella intelligenza della quale dice il Profeta: “Agirò con intelligenza nella via dell’innocenza” (Sal 100,2).

Tutti camminano per la loro strada, non sulla strada di Gesù Cristo, ciascuno pensando ai propri interessi. È quella strada buia e scivolosa (cf. Sal 34,6) sulla quale tutti procedono, dal più elevato al più basso, dal porco padrone fino al porcellino più piccolo. Essi stessi si invitano: “Venite, beviamo vino”, “il quale porta alla lussuria” (Ef 5,18), “e diamoci all’ubriachezza”, la quale toglie cuore e cervello (cf. Os 4,11), “e tutto sarà come oggi”.

Ma, credete a me: domani non sarà come oggi. Leggiamo infatti nel primo libro dei Maccabei: “La gloria del peccatore è sterco e vermi. Oggi è esaltato e domani non si trova più, perché è ritornato alla polvere e i suoi progetti sono falliti” (1Mac 2,62-63). “Domani risponderà per me la mia giustizia” (la mia onestà), dice Giacobbe nella Genesi (Gn 30,33). Oggi, cani sfrontati, siete pieni di ubriachezza, ma domani, vale a dire nel giorno del giudizio, vi troverete di fronte alla morte eterna. Dice l’Apocalisse: “Quanto si innalzò e si circondò di piaceri, tanto dategli di tormen­ti” (Ap 18,7).

 

14. Inoltre, questi ciechi ci danno la prova della loro malizia dicendo, sempre con le parole di Isaia: “Come ciechi abbiamo tastato la parete, e come privi di occhi vi ci attacchiamo; abbiamo inciampato a mezzogiorno come nelle tenebre; siamo come i morti nei luoghi oscuri: noi tutti ruggiamo come orsi” (Is 59,10-11).

Fa’ attenzione a queste quattro parole: parete, privi di occhi, a mezzogiorno, come orsi. Nella parete è simboleg­giata l’abbondanza delle cose temporali, negli occhi la vita e la scienza, nel mezzogiorno l’eccellenza delle dignità ecclesiastiche e negli orsi la gola e la lussuria. Questi ciechi dunque tastano la parete, cioè le ricchezze, come fossero una cosa morbida e liscia, mentre sono spine pungenti; ed essendo privi degli occhi della vita e della scienza, vi si attaccano, le eleggono a scopo e norma della loro vita, essendo senza la guida della ragione. Nel mezzogiorno, nella luce della dignità ecclesiastica, inciampano come fossero nelle tenebre, perché vengono accecati proprio da ciò che dovrebbe invece illuminarli. E come orsi, perché golosi e lussuriosi, urlano e ringhiano, cioè si avventano sul miele, vale a dire sui piaceri temporali.

L’orso è così chiamato perché con la sua bocca completerebbe un feto, appena abbozzato, (lat. orsus) iniziato. Raccontano infatti che gli orsi, al trentesimo giorno di gravidanza, partoriscono esseri informi. È appunto questa affrettata, precipitosa fecondità che produce esseri informi. Le orse emettono una piccola massa carnosa di color bianco, senza occhi, che mentre va celermente maturando, si copre tutta di marcio, eccetto l’abbozzo delle unghie. Lambendo quella massa informe, le danno gradatamente forma, e intanto la tengono al petto, come covandola e riscaldandola, per attivarne il respiro vitale. Nel frattempo niente cibo. Nei primi quattordici giorni le madri cadono in un sonno così profondo, da non poter essere svegliate neppure ferendole. Dopo aver partorito restano nascoste quattro mesi. Poi, quando escono all’aperto in un giorno sereno, soffrono talmente per l’incapacità di sopportare la luce, che le crederesti colpite da cecità.

Gli orsi hanno la testa debole, senza forze, mentre la forza più grande ce l’hanno negli arti superiori e nei fianchi. Vanno in cerca degli alveari delle api, s’impadro­niscono soprattutto dei favi e nulla mangiano più avidamente del miele. Se assaggiano i frutti della mandragola, muoiono; però reagiscono vagando qua e là perché il male non si aggravi a morte, e divorano le formiche per ricuperare la guarigione.

Le orse del nostro tempo, cioè i prelati corrotti, partoriscono carni morte, cioè i figli carnali, che sono di colore bianco, come i sepolcri imbiancati, pieni di putridume (cf. Mt 23,27), ma sono senza occhi e perciò non vedono né Dio né il prossimo. Non c’è in essi alcuna forma di virtù, non c’è onestà di costumi, ma solo marciume di peccati; fa eccezione la formazione delle unghie, con le quali arraffano i beni dei poveri. Le orse lambendo queste carni, cioè adulando, gradatamente danno ad esse una forma, una figura: quella figura della quale è detto: “Passa la figura di questo mondo” (1Cor 7,31); e con il calore di un costante cattivo esem­pio, ne suscitano il respiro, lo spirito della vita naturale, di cui dice l’Apostolo: L’uomo naturale non comprende le cose dello spirito (cf. 1Cor 2,14). E così, animali con animali, ciechi con ciechi, “cadono nella fossa” (Mt 15,14).

C’è inoltre da osservare che, come gli orsi non hanno alcuna forza nella testa, così questi indegni prelati della chiesa non hanno alcuna energia spirituale, non essendo capaci di resistere alle tentazioni del diavolo: ma tutta la forza l’hanno nelle braccia e nei fianchi, forza di rapina e di lussuria. Tendono insidie agli alveari delle api, cioè alle case dei poveri; bramano in sommo grado i dolci favi della lode e della vanagloria, cioè i saluti nelle piazze, i primi posti nelle cene, i primi seggi nelle sinagoghe (cf. Mt 23,6-7), essi che, alla fine, saranno privati anche dei secondi. Costoro, dopo aver assaggiato i frutti della mandragola, muoiono.

 

15. La mandragola è un’erba aromatica; i suoi frutti hanno un buonissimo profumo, come quello delle mele maziane. I frutti della mandragola raffigurano le opere dei giusti; al profumo della loro vita gli orsi muoiono ringhiando: per essi, dice l’Apostolo, sono odore di morte per la morte(cf. 2Cor 2,16). Di queste mandragole dice la sposa del Cantico dei Cantici: “Le mandragole hanno dato il loro profumo alle mie porte” (Ct 7,13). Alle porte della chiesa i santi spandono il profumo della loro santa vita. Di essi dice anche la Genesi: “Ruben, uscito nel campo al tempo della mietitura dell’or­zo, trovò le mandragole” (Gn 30,14).

Ruben, che s’interpreta “figlio della visione”, è figura di Gesù Cristo, Figlio di Dio Padre, “nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo”(1Pt 1,12). Egli, uscito dal seno del Padre, venne nel campo di questo mondo al tempo della mietitura dell’orzo, cioè nella pienezza dei tempi, nel quale il frumento, per opera di Giuseppe, doveva essere serbato nel “granaio” della beata Vergine, perché l’intero Egitto non morisse di fame; e trovò le mandragole, cioè gli apostoli e i seguaci degli apostoli, al cui profumo muoiono, ringhiando, gli orsi.

Dicono infatti, come è scritto nel libro della Sapienza: Sono contrari alle nostre opere, ci rimproverano le colpe contro la legge e ci rinfacciano le mancanze contro l’edu­cazione ricevuta. Sono diventati per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci sono diventati insopportabili solo al vederli, perché la loro vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le loro strade. Siamo da loro stimati frivoli e vani e schivano le nostre abitudini come immondezze. La pensano così, quegli sventurati, ma si sbagliano (cf. Sap. 2,12.14-16.21). E quindi si sono gettati sulle formiche, vale a dire sulle vanità e sulle astuzie del mondo e credono che il loro falso piacere possa essere il loro rimedio. Ma ecco, viene il formichiere, il leone delle formiche (greco­lat. mirmicoleo), cioè il diavo­lo, che divorerà sia gli orsi ciechi che le formiche.

A proposito di questi ciechi abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Davide stabilì di dare un premio a colui “che avesse battuto i Gebusei e fosse passa­to per i canali delle case, avesse cacciato i ciechi e gli zoppi, che avevano in odio la vita di Davide. Per questo è invalso il detto: I ciechi e gli zoppi non entreranno nel tempio” (2Re 5,8).

Fa’ attenzione alle tre parole: avesse battuto, fosse passato, avesse cacciato. Il vero Davide, Gesù Cristo, darà il premio dell’eterna vita a colui che avrà battuto il Gebuseo che abita sulla terra, vale a dire l’appetito carnale, e sarà passato per i canali delle case, che sono i condotti degli edifici, avrà cioè imitato gli esempi dei santi, e avrà scacciato gli zoppi e i ciechi, cioè i prelati e i sacerdoti che zoppicano da entrambi i piedi, vale a dire nei sentimenti e nelle opere, e che sono ciechi da entrambi gli occhi, cioè nella vita e nella scienza: questi hanno in odio la vita di Gesù Cristo, poiché vendono al diavolo la loro anima, per la quale Cristo ha dato la sua vita (cf. 1Gv 3,16).

Tali ciechi e zoppi non dovrebbero entrare nel tempio, quel tempio che oggi è dato loro in custodia, e dalla cui cieca custodia invece vengono accecati molti e sono con loro parimenti travolti nella fossa della dannazione. Giustamente quindi è detto: Se un cieco guida un altro cieco, cadranno tutti e due nella fossa (cf. Lc 6,39).



16. “Non c’è discepolo che sia superiore al maestro”. Dice la Glossa: Se il maestro, che è Dio, non si vendica delle ingiurie ricevute, ma sopportandole vuole rendere più miti i persecutori, anche i discepoli, che sono uomini, devono seguire questa regola di perfezione. Abbiamo proprio su questo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che “il re Davide attraversava il torrente Cedron, e tutto il popolo camminava sulla via degli ulivi verso il deserto. Davide saliva l’erta degli ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e i piedi nudi; e anche tutto il popolo che era con lui saliva con il capo coperto e piangendo” (2Re 15,23.30).

Senso allegorico. Davide è figura di Cristo. Cedron s’interpreta “triste afflizione”. Quindi il Cedron che Davide attraversò raffigura la tristezza della passione, attraversata da Cristo. Infatti dice Giovanni: “Gesù uscì con i suoi discepoli e passò al di là del torrente Cedron” (Gv 18,1). E dietro a lui il popolo, sulla via degli ulivi: infatti il popolo segue Cristo, il quale precede sulla via della passione, e i discepoli seguono il maestro, per meritarsi la sua misericordia.

Il re dunque camminava a capo coperto, perché Cristo salì al monte degli Ulivi nascondendo la sua divinità sotto la sua umanità, e coi i piedi nudi, perché allora rese manifesta la sua umanità. Anche il popolo camminava a capo coperto, ma non leggiamo che andasse a piedi nudi. Infatti non dobbiamo scoprire il segreto della mente con l’arro­ganza della voce, e i piedi non devono essere nudi, ma calzati e difesi con gli esempi dei santi. Dice Geremia: “Preserva il tuo piede dalla nudità e la tua gola dalla sete” (Ger 2,25). Dalla nudità, vale a dire dalla mancanza di virtù dobbiamo preservare il piede, cioè i sentimenti, e dalla sete dell’avarizia la gola. Spengono questa sete soltanto il fiele e l’aceto della passione del Signore. Ciò che per primo ha bevuto il medico e ciò che per primo ha gustato il maestro, non lo aborrisca il discepolo, al quale è sufficiente essere come il suo maestro (cf. Mt 10,25).

 

17. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: “Sappiamo che tutta la creazione geme e partorisce nella sofferenza fino ad oggi” (Rm 8,22). Fa’ attenzione alle due parole: geme e partorisce nella soffe­renza. Il maestro gemette nel­l’ope­rare miracoli; infatti leggiamo in Marco: “Guardando verso il cielo, sospirò (lat. ingemuit) e disse: Effatà!, che vuole dire: Ápriti!” (Mc 7,34). Partorì nel dolore della passione. Dice infatti Isaia: “Io, che faccio partorire gli altri, non partorirò io stesso?” (Is 66,9). Così anche i discepoli del maestro, che sono sua creazione, devono gemere nella contrizione, partorire nella confessione. È sufficiente infatti che il discepolo sia come il suo maestro.

Ti preghiamo, dunque, Maestro e Signore, buon Gesù, di illuminare i ciechi, di istruire i tuoi discepoli e di mostrare loro la via della vita, per la quale possano giungere a te, che sei la via e la vita. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

IV. la pagliuzza del peccato nell’occhio del fratello

 

18. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio, e allora potrai vederci bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Lc 6,41-42). Fa’ attenzione a queste tre cose: la pagliuzza, l’occhio e la trave. Nella pagliuzza viene indicata una colpa leggera, nell’occhio la ragione o l’intelletto, nella trave la colpa grave. E la Glossaavverte: In verità, chi pecca non ha diritto di rimproverare un altro peccatore.

Su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che il Signore proibì a Davide di edificargli un tempio (cf. 2Re 7,12-13). Dice Gregorio: Dev’essere assolutamente esente da vizi, colui che si preoccupa di correggere i vizi degli altri: non deve pensare alle cose terrene, non deve accondiscendere a desideri abietti, e quanto più vuol vedere chiaramente negli altri ciò che è da fuggire, tanto più diligentemente deve evitarlo egli stesso sia nella teoria che nella pratica. Un occhio accecato dalla polvere non vede distintamente una macchia in una parte del corpo, e le mani sporche di fango non sono in grado di pulire alcuna lordura.

Se vuoi rimproverare qualcuno, vedi prima se tu non sia come lui. E se lo sei, piangi insieme con lui, non pretendere che egli ti obbedisca, ma comandagli e ammoniscilo che insieme con te si sforzi di emendarsi. Se invece non sei come lui, ricordati che forse lo sei stato in passato o saresti potuto esserlo, e quindi sii indulgente, e rimproveralo non spinto dall’odio ma dalla misericordia. I rimproveri e le correzioni dunque non si devono fare se non raramente e quando sono assolutamente necessari e solo nell’inte­resse di Dio, dopo però aver rimosso la trave dal proprio occhio. Giustamente quindi è detto: “Perché guardi la pagliuzza nell’oc­chio del tuo fratello…?”, ecc.

 

19. Considera ancora che gli occhi sono così chiamati, o perché l’ombra delle ciglia li nasconde (lat. occulit), li protegge, perché non subiscano lesioni o non vengano danneggiati incidentalmente; oppure perché hanno una luce nascosta (lat. occulta), cioè segreta o interposta (indiretta). Tra tutti i sensi, gli occhi sono i più vicini all’anima. Dagli occhi infatti traspare ogni giudizio della mente: infatti il turbamento o la gioia dell’ani­ma si manifesta negli occhi.

Gli occhi sono collocati nelviso, dentro due profonde cavità, dalle quali prende nome la fronte (lat. foratus, foro; frons, fronte). Gli occhi, che sembrano delle gemme, sono coperti da membrane trasparenti, attraverso le quali, come attraverso il vetro, la mente vede in traspa­renza quello che c’è all’esterno. Al centro delle orbite ci sono quelle che chiamiamo pupille, per le quali abbiamo la facoltà di vedere.

E dobbiamo anche sapere che gli occhi possono essere o grandi o piccoli o medi. L’occhio medio rivela buona disposizione alla discrezione, all’intelligenza e all’erudi­zione. E ci possono essere anche occhi prominenti, profondi o medi. Gli occhi profondi hanno vista acuta; quelli prominenti indicano disturbi nella valutazione, e disposizione alla cattiveria; chi li ha in posizione intermedia è fortunato, perché sono segno di bontà.

E ci sono occhi molto chiusi, e occhi molto aperti e poco mobili, e occhi con caratteristiche intermedie. Se sono molto aperti e poco chiusi, manifestano stoltezza e inverecondia. Se sono molto chiusi, indicano grande volubi­lità, poca discrezione e incostanza nell’agire. Invece l’occhio che ha caratteristiche intermedie indica disposi­zione alla bontà e giusto equilibrio in ogni attività.

 

20. “Ipocrita, togli dapprima la trave dal tuo occhio”, ecc. Infatti non c’è medico capace di guarire gli altri, se non sa prima guarire se stesso. L’ipocrita è colui che ha l’oc­chio perfidamente aperto per vedere i delitti altrui, e non vede la sua presunzione. Dice infatti il poeta: Se tu, o cisposo, vedi i tuoi vizi con occhi malati, come mai hai la vista così acuta nello scoprire i vizi degli amici? (Orazio). Volesse il cielo, che l’occ­hio che tutto vede, vedesse anche se stesso!

Con questa quarta parte del vangelo si accorda anche la quarta parte dell’epistola: “Non solo la creazione, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli di Dio” (Rm 8,23). Le primizie dello Spirito sono la contrizione e l’amarezza per i peccati, che per prima cosa devono essere offerte al Signore. I santi che le hanno, non guardano la trave nell’occhio altrui, non giudicano nessuno, non condannano nessuno, ma gemono e sospirano dentro se stessi nel­l’amarezza della loro anima, aspettando l’adozione, vale a dire l’immortalità del corpo.

Di questa immortalità ci faccia partecipi colui che è morto per noi, che veramente risuscitò, Gesù Cristo, Signore nostro, al quale è onore e gloria, con il Padre e lo Spirito Santo, nei secoli eterni. E ogni anima misericordiosa risponda: Amen. Alleluia!