Scrutatio

Sabato, 20 aprile 2024 - Beata Chiara Bosatta ( Letture di oggi)

DOMENICA VI DOPO PASQUA

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA VI DOPO PASQUA
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Temi del sermone

 

– Vangelo della VI domenica dopo Pasqua: “Quando verrà il Paràclito”; vangelo che si divide in due parti.

– Anzitutto sermone sulla risurrezione dell’anima e del corpo: “I morti vivranno”.

– Parte I: Sermone sulla santa Trinità: “Quando verrà il Paràclito”.

– Sermone contro coloro che sono nella stretta del diavo­lo, che vivono in peccato mortale: “Il faraone mise a capo dei figli d’Israele dei sovrintendenti”; natura della rana e del ragno.

– Sermone contro coloro che vivono nei piaceri: “Seppelli­rono Asa”.

– Sermone contro la vanità del mondo che inganna anche l’uomo spirituale: “Il vecchio profeta ingannò l’uomo di Dio”.

– Sermone a consolazione di chi si trova nella tentazione: “Quando attraverserai le acque, io sarò con te”.

– Sermone sull’infusione della grazia e sulla compunzione della mente: “Figlie di Sion, esultate e rallegratevi”.

– Sermone sul giusto che rinuncia al mondo: “Giacobbe attraversò il guado di Iabbok”.

– Sermone sulla preghiera: “Ascolta, Signore, la mia voce”.

– Parte II: Sermone sulla pazienza: “Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate”.

– Sermone contro molti predicatori; sulla natura della mucca selvatica che colpisce il cacciatore con lo sterco: “Sai che i farisei nel sentire questa parola si sono scandalizzati?”

– Sermone sull’ospitalità: “Siate ospitali a vicenda”.

 

esordio - la risurrezione dell’anima e del corpo

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre”, ecc. (Gv 15,26).

Dice il Signore per bocca di Isaia: “Vivranno i morti, i miei uccisi risorgeranno. Risvegliatevi e cantate lodi, voi che giacete nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada di luce” (Is 26,19). La rugiada è chiamata in lat. ros perché è rara, cioè rarefatta e leggera, e non densa e fitta come la pioggia. Si dice poi che la rugiada bagni più intensamente i campi quando la notte è più serena e la luna più limpida, e che la rugiada, nel breve corso della notte, restituisca alla terra tutta l’umidità che il calore del sole le ha sottratto lungo tutto il corso del giorno.

La rugiada simboleggia il Paràclito, lo Spirito di verità che, scendendo con delicatezza nella mente del peccatore, raffredda l’ardore del sole, vale a dire la concupiscenza della carne. Dice infatti l’Ecclesiastico: “La rugiada che scende su chi viene dal caldo, lo rinfresca (lat. humilem facit, lo rende umile)” (Eccli 43,24). Sul peccatore, che viene dall’ardore dei vizi, scende la grazia dello Spirito Santo e ne raffredda l’ardore, e mentre gli fa conoscere in quanti e quanto grandi vizi sia impantanata la sua anima, lo rende umile fino al pianto, perché si dolga di ciò che ha commesso. Dice infatti Geremia: “Dopo che tu mi hai illuminato, io ho percosso il mio femore” (Ger 31,19). Dopo che la grazia dello Spirito Santo ha mostrato al peccatore il cumulo della sua iniquità, egli percuote con i flagelli della penitenza il suo femore, vale a dire il suo corpo.

E osserva che giustamente lo Spirito Santo è detto “rugiada di luce”: rugiada perché rinfresca, di luce perché illumina. Perciò quando arriva la rugiada di luce i morti per i peccati vivranno la vita della grazia, e gli uccisi dalla spada della colpa risorgeranno nella prima risurrezione, che è la penitenza. “Svegliatevi”, dunque, voi che siete immersi nel sonno del peccato, “e lodate Dio” confessando il vostro crimine, “voi che abitate nella polvere” della vanità terrena, “perché rugiada di luce” è lo Spirito Santo, padre dei penitenti e consolatore di coloro che gemono: di essi il Figlio di Dio nel vangelo di oggi dice: “Quando verrà il Paràclito”, ecc.

 

2. In questo brano evangelico sono posti in evidenza due fatti. Primo, l’invio dello Spirito, dove dice: “Quando verrà il Paràclito”; secondo, la persecuzione contro i discepoli di Cristo, dove si legge: “Vi ho detto queste cose affinché non vi scandalizziate”.

In questa domenica poi si canta l’introito: “Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato” (Sal 26,7); inoltre si legge l’epistola del beato Pietro: “Siate prudenti e vigilanti”, che noi divideremo in due parti mettendone in evidenza la concordanza con le due parti del vangelo su indicate. La prima parte: “Siate prudenti e vigilanti”; la seconda, “Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione”.

 

I. l’invio del Paraclito

 

3. “Quando verrà il Paràclito”. Si dive notare anzitutto che in questo brano evangelico viene proclamata espressa­mente la fede nella santa Trinità. Dal Padre e dal Figlio viene mandato lo Spirito Santo: queste Tre divine Persone sono una sola sostanza e perfette nell’uguaglianza. Unità nell’essenza e pluralità nelle Persone. Il Signore rivela chiaramente l’Unità della divina sostanza e la Trinità delle Persone, quando dice: Andate e battezzate tutte le genti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cf. Mt 28,19). Dice appunto: “nel nome”, e non “nei nomi”, per indicare l’unità della sostanza. E con i tre nomi che aggiunge, indica che sono “Tre Persone”.

Nella Trinità è il principio ultimo di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la suprema beatitudine. Per “principio ultimo”, come dimostra Agostino nella sua opera La vera religione, s’intende Dio Padre, dal quale sono tutte le cose, dal quale sono il Figlio e lo Spirito Santo. Per “bellezza perfettissima” si intende il Figlio, cioè la verità del Padre, per nulla diverso da lui; bellezza che con lo stesso Padre e nello stesso Padre adoriamo, che è forma di tutte le cose, da un solo Dio create e ad un solo Dio ordinate. Per “suprema beatitudine” e “somma bontà” s’intende lo Spirito Santo, che è dono del Padre e del Figlio; dono che noi dobbiamo adorare e credere immutabile insieme con il Padre e il Figlio.

In riferimento alle cose create, intendiamo la Trinità in una sola sostanza, vale a dire un solo Dio Padre dal quale proveniamo, un unico Figlio per mezzo del quale esistiamo, e un solo Spirito Santo nel quale viviamo; vale a dire: il principio al quale ci riferiamo, la forma, il modello al quale tendiamo e la grazia con la quale veniamo riconciliati. E affinché la nostra mente si innalzi alla contemplazione del Creatore, e creda senza ombra di dubbio all’Unità nella Trinità e alla Trinità nell’Unità, consideriamo quale impronta della Trinità ci sia nella mente stessa.

Dice Agostino nell’opera La Trinità: “Benché la mente umana non sia della stessa natura di Dio, dobbiamo tuttavia cercare e trovare la sua immagine – della quale nulla di meglio esiste – in ciò che di meglio c’è nella nostra natura, vale a dire nella mente. La mente si ricorda di se stessa, comprende se stessa e ama se stessa. Se riconosciamo questo, riconosciamo la trinità: non certo Dio, ma l’immagine di Dio. Qui infatti compare una certa trinità: della memoria, dell’intelligenza e dell’amore o della volontà. Queste tre facoltà non sono tre vite, ma una sola vita; né tre menti, ma una sola mente; non tre sostanze, ma una sola sostanza. Memoria vuol dire relazione a qualche cosa; intelligenza e volontà, o amore, indicano pure relazione a qualche cosa; la vita invece è in se stessa e mente e sostanza. Quindi queste tre facoltà sono una sola cosa, in quanto sono una sola vita, una sola mente e una sola sostanza.

Queste tre facoltà, pur essendo distinte tra loro, sono dette una cosa sola, perché esistono sostanzialmente nello spirito. E la mente stessa è quasi la genitrice, e la sua cognizione è quasi la sua prole. La mente infatti, quando riconosce se stessa, genera la conoscenza di sé ed è essa sola la genitrice della sua conoscenza. Terzo viene l’amore, che procede dalla mente stessa e dalla sua cono­scenza, quando la mente, conoscendo se stessa, si ama: non potrebbe infatti amare se stessa se non conoscesse se stessa. E ama anche la prole in cui si compiace, cioè la conoscenza di sé: e così l’amore è una specie di legame tra genitrice e prole. Ecco quindi che in queste tre parole – memoria, intelligenza e amore – compare una certa impronta della Trinità.

 

4. “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità”, ecc. Fa’ attenzione a queste tre parole: Paràclito, Spirito e ‘di verità’. Nella miseria di questo mondo ci sono tre mali: l’angustia (oppressione) che tormenta, il peccato che dà la morte e la vanità che inganna.

Dell’oppressione che tormenta è detto nell’Esodo che “il faraone impose ai figli d’Israele dei sovrintendenti ai lavori per opprimerli con i loro gravami, e così costruiro­no per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses” (Es 1,11). Così il diavolo, a coloro che sono cristiani solo a parole, impone dei sovrintendenti ai lavori, cioè altri demoni incaricati a fomentare ogni vizio, perché li tormentino con il peso dei peccati. E quindi essi gemono e si lamentano: “Eravamo minacciati e afferrati per il collo; eravamo sfiniti, ma non ci si concedeva riposo. All’Egitto abbiamo teso la mano e agli Assiri, per essere saziati di pane” (Lam 5,5-6). I Babilonesi, cioè i demoni, impongono gravi pesi sul collo dell’uomo che conducono in schiavitù, e con minacce lo trascinano con una fune legata al collo, come un asino o un bue; e anche se è sfinito non gli danno tregua, poiché lo fanno precipitare di peccato in peccato.

Ahimè, quanto grande follia è lo stancarsi nel cammino e non volersi fermare! Abbiamo teso la mano all’Egitto e agli Assiri, cioè ci siamo fatti servi del mondo e dei demoni, per essere saziati di pane, cioè dei piaceri della carne. Questi cristiani costruiscono le città-deposito per il faraone, cioè per il diavolo: Pitom e Ramses. Pitom s’in­terpreta “bocca dell’abisso”, e Ramses “danno dalla tigno­la”.

Pitom simboleggia la lussuria, che è la bocca dell’abis­so che mai dice basta, giacché è priva della luce della grazia e non c’è misura che la plachi. “Il piacere, dice Girolamo, ha sempre fame di se stesso”.

Di questo abisso dice il salmo: “L’abisso chiama l’abis­so” (Sal 41,8), cioè la lussuria chiama lussuria, come la rana chiama la rana. La rana ha un suo richiamo particolare, che suona coax, e lo fa solo nell’acqua. È soprattutto il maschio che al tempo degli accoppiamenti chiama la femmina con questo richiamo ben noto. E la rana aumenta la sua voce quando tiene la mandibola inferiore sul livello dell’acqua e spalanca quella superiore. E a motivo della dilatazione delle due mandibole, i suoi occhi luccicano come candele. Analogo è pure il comportamento dei ragni quando vogliono accoppiarsi. La femmina attira il maschio per mezzo dei fili della tela e il maschio fa altrettanto con la femmina. E la trazione reciproca non cessa, finché non arrivano all’accoppiamento. I lussuriosi sono come le rane che, nell’acqua del piacere carnale, si incitano vicendevolmente alla lussuria con segni e richiami: i loro occhi sono pieni di adulterio, accesi di libidine e, come i ragni, si attraggono con certi fili di parole e di promesse; si attraggono e infine si congiungono nell’abisso della loro perdizione.

Ramses simboleggia l’avarizia, che corrode la mente come la tignola corrode le vesti. La tignola è chiamata in lat. tinea, perché tiene, e penetra a tal punto da corrodere. Parimenti l’avarizia corrode la mente dell’avaro perché moltiplichi i suoi beni: ma l’in­fe­lice, più moltiplica e più ha fame. Infatti dice il beato Bernardo: “Non diversamente il cuore dell’uomo si sazia con l’oro, di quanto non si sazi il suo corpo con l’aria”. E il Filosofo: “Che cosa puoi augurare di male all’avaro se non che viva a lungo?” E ancora: “Nulla di buono può fare l’avaro, se non morire” (P. Siro). Queste sono le città del diavolo, la lussuria e l’avarizia. E quale oppressione è più dolorosa di essere imprigio­nati nell’abisso e invasi dalla tignola?

 

5. Sul peccato che dà la morte si legge nella Genesi che “Rachele morì e fu sepolta sulla strada che porta ad Efrata” (Gn 35,19). Efrata s’interpreta “fertile”, e simboleggia l’abbondan­za delle cose temporali, dalle quali l’infelice anima è soffocata e, dopo sepolta, è schiacciata dalla massa delle abitudini cattive. Infatti “il ricco rivestito di porpora, poiché quaggiù visse sepolto nei piaceri, nell’aldilà fu sepolto nei tormenti dell’in­ferno (cf. Lc 16,19-22).

Leggiamo nel secondo libro dei Paralipomeni che “posero Asa sul suo letto, pieno di aromi e di unguenti da meretri­ce, preparati da un esperto di profumeria, e li bruciarono su di lui in grandissima quantità (cf. 2Par 16,14). Asa s’interpreta “che s’innalza”, e raffigura il ricco di questo mondo nella sua superbia, del quale dice il Profeta: “Ho visto l’empio trionfante, ergersi come il cedro del Libano” (Sal 36,35). Il suo letto è il corpo, nel quale giace dissoluto, (privo di forze) come un paralitico; letto che è pieno di aromi e di unguenti da meretrice, cioè di onori, di ricchezze e di piaceri, preparati da esperti profumieri, cioè dai demoni. Ma poi nell’aldilà l’infelice anima sarà bruciata, insieme con lo sventurato suo corpo, nel fuoco inestinguibile della geenna, in una fiamma smisurata. “Ogni uomo serve dapprima il vino buono, e poi quello meno buono” (Gv 2,10). Poiché hai bevuto dal calice d’oro di Babilonia, berrai poi fino alla feccia dal pozzo della dannazione eterna.

 

6. Sulla vanità ingannatrice parla il terzo libro dei Re, dove si legge che un vecchio profeta ingannò un uomo di Dio e lo costrinse ad andare con lui nella sua casa: e l’uomo di Dio nella casa di lui mangiò il pane e bevve l’acqua. E dopo aver mangiato e bevuto, sellò il suo asino. Partito di lì, l’uomo di Dio lungo la strada fu assalito da un leone, che lo uccise; il suo cadavere era steso a terra e l’asino stava fermo accanto ad esso: il leone stava vicino al cadavere dell’uomo di Dio. E il leone non fece nulla all’asino e non si cibò neppure del cadavere (cf. 3Re 13,11-30).

Il vecchio profeta raffigura la vanità del mondo, che promette sempre cose false. Dice infatti Geremia: “I tuoi profeti fanno per te profezie false e stolte” (Lam 2,14). I nostri profeti sono la vanità del mondo e i piaceri della carne, i quali, se vedono che noi disprezziamo il mondo e mortifichiamo la carne, subito ci predicono miseria e malattie. Dicono: Se tu dài via le tue cose, di che cosa vivrai? Se tu fai del male al tuo corpo, ti ammalerai. Ahimè, quanta gente hanno ingannato questi profeti! Questi sono profeti che parlano in nome proprio e non in nome di Dio.

Giustamente quindi è detto che il vecchio profeta ingannò l’uomo di Dio. E giustamente la vanità del mondo è detta “vecchio profeta”: infatti ha continuato ad ingannare dall’inizio del mondo fino alla feccia di questo nostro tempo, e ancora continuerà. “E nella sua casa” l’uomo di Dio “mangiò il pane e bevve l’acqua”. Il pane simboleggia la grandezza della gloria del mondo, della quale Salomone dice: “È gradito all’uomo il pane della menzogna, ma poi la sua bocca sarà piena di sassi” (Pro 20,17). Il pane della menzogna è la gloria del mondo che si illude di essere qualcosa, mentre non è nulla. Dice Agostino: “Tutto ciò che ha una fine è da ritenersi come passato”. Questa gloria, essendo piacevole per l’uomo, riempie la sua bocca di sassi, di pietra infuocata, cioè della pena eterna, che non può essere inghiottita né vomitata. “E bevve l’acqua”. L’acqua raffigura la lussuria o l’avarizia: chi la beve avrà ancora sete (cf. Gv 4,13). Chi mangerà questo pane e berrà quest’acqua sarà ucciso dal leone, vale a dire dal diavolo.

E osserva che il leone non fece alcun male all’asino, e non mangiò il cadavere, perché il diavolo non si cura del denaro o del corpo, ma fa di tutto solo per uccidere l’ani­ma. Disse infatti il re di Sodoma ad Abramo: “Dammi le anime, il resto tienilo pure” (Gn 14,21). Cristo ha compe­rato le anime, consegnando alla morte la sua anima (cf. Is 53,12); e perciò il diavolo fa ogni sforzo per ingannare un sì grande “compratore”, quando vuole uccidere l’anima nostra.

 

7. Ma il Signore, contro i tre mali su descritti, cioè l’oppressione, il peccato e la vanità, mandò il Paràclito, lo Spirito Santo, Spirito di verità: Paràclito contro l’op­pressione, Spirito contro la colpa, di verità contro la vanità. Il Paràclito ci consola nell’oppressione delle tribolazioni. Dice Isaia: “Quando attraverserai le acque io sarò con te e i fiumi non ti sommergeranno; se camminerai in mezzo al fuoco non ti scotterai e la fiamma non ti brucerà” (Is 43,2). Fa’ attenzione a queste quattro parole: acque, fiumi, fuoco e fiamma. Le acque raffigurano la gola e la lussuria; i fiumi la prosperità mondana; il fuoco l’oppressione delle avversità e la fiamma la malizia della persecuzione diabo­lica.

Dice dunque: “Quando attraverserai le acque...” La mente che lo Spirito Santo ha reso forte con il fuoco della carità, non può essere travolta dalle acque della gola e della lussuria, né sommersa dai fiumi della prosperità terrena. Dice infatti Salomone: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo, perché le sue vampe sono vampe di fuoco e di fiamme” (Ct 8,7.6). La mente che lo Spirito Santo infiamma, non può essere consumata né dal fuoco delle avversità né dalla fiamma della persecuzione diabolica. Lo Spirito stesso infatti, come è detto nel libro di Daniele, allontana la fiamma di fuoco dalla fornace e fa spirare in mezzo alla fornace come un venticello rugiadoso (cf. Dn. 3,49-50).

Parimenti, contro il peccato mandò lo Spirito per ridare la vita all’anima. Leggiamo nella Genesi: “Spirò sul suo volto il soffio della vita e l’uomo divenne anima vivente” (Gn 2,7). Il soffio della vita è la grazia dello Spirito Santo, e quando Dio la infonde nel volto dell’anima, non c’è dubbio che l’anima risuscita da morte a vita.

E questo Spirito è detto “di verità”, contro la vanità del mondo, che la verità stessa discaccia. Dice Gioele: “Figlie di Sion, gioite e rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi ha dato il maestro della giustizia, e farà scendere su di voi la pioggia del mattino e della sera. E le vostre aie si riempiranno di frumento, e i vostri torchi traboccheranno di vino e di olio” (Gl 2,23-24). Sia benedetto il Signore, Dio nostro, il Figlio di Dio, nel quale noi, figli di Sion, cioè della chiesa militante e trionfante, dobbiamo gioire nel cuore e rallegrarci con le opere, perché ci ha dato il maestro della giustizia, cioè lo Spirito della grazia, che insegna a ciascuno di noi a mostrare la sua giustizia (santità). Nel darci questo Spirito, egli ha fatto discendere su di noi la pioggia del mattino, cioè la compunzione dei nostri peccati, e la pioggia della sera, cioè il dolore per i peccati degli altri. Infatti chi piange pietoso per i peccati altrui, lava perfettamente anche i propri. Nella discesa di questo Maestro della giustizia le aie, cioè le menti dei fedeli, furono riempite del frumento della fede, e i torchi, cioè i loro cuori, traboccarono del vino della compunzione e dell’olio della pietà.

Giustamente quindi è detto: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza. E anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dall’inizio” (Gv 15,26-27).

Infatti nel cuore dei fedeli lo Spirito di verità rende testimonianza dell’incarnazione di Cristo, della sua passione e della sua risurrezione. E anche noi dobbiamo dare a tutti gli uomini la testimonianza che Cristo si è veramente incarnato, ha veramente subìto la passione ed è veramente risorto.

 

8. Con questa prima parte del brano evangelico concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Siate prudenti e vegliate nella preghiera. Soprattutto abbiate sempre tra voi la carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,7-8). Osserva che il beato Pietro ci richiama a tre virtù: alla prudenza, alla vigilanza e alla costanza nella preghiera.

Della prudenza dice Salomone: “Beato l’uomo che è pieno di prudenza: il suo possesso vale più dell’argento e il suo provento più dell’oro” (Pro 3,13-14). Chi invece è negli­gente e imprudente, è esposto a molti pericoli.

Sulla vigilanza poi leggiamo nella Genesi che “Giacobbe attraversò il guado di Iabbok: trasportate all’altra riva tutte le sue cose, restò solo. Ed ecco, un uomo incominciò a lottare con lui fino al mattino, e poi gli disse: Lasciami andare perché ormai spunta l’aurora” (Gn 32,22-24). Giacobbe s’interpreta “soppiantatore”; Iabbok “torrente di polvere”, e raffigura i piaceri temporali che passano come un torrente, sono sterili e accecano gli occhi come la polvere. Il penitente deve attraversare questo torrente con tutti i beni che il Signore gli ha elargito, deve attraversarlo e rimanere solo. Rimane solo colui che nulla attribuisce a se stesso, ma tutto al Signore; che sottomet­te la sua volontà a quella degli altri; che non conserva il ricordo delle ingiurie ricevute e che accetta di essere disprezzato (lett. sperni se non spernit, non disprezza l’essere disprezzato).

E se in questo modo resterà solo, potrà lottare valorosamente con il Signore e ottenere da lui ciò che vuole, e meriterà di sentirsi dire: “Lasciami andare, ormai spunta l’aurora”. L’aurora segna la fine della notte e l’inizio del giorno. Essa raffigura la morte del giusto, la fine della miseria di questa vita, e l’inizio della beatitudine, nella quale il Signore dice al giusto: Lasciami andare, ormai spunta l’aurora. Come dicesse: Non c’è più bisogno di lotta, finisce per te la prova, la miseria, e incomincia la gloria.

Infatti dell’anima del giusto è detto nel Cantico dei Cantici: “Chi è costei che sorge come l’au­rora, bella come la luna, fulgida come il sole?” (Ct 6,9). La luna è chiamata così perché è quasi (lat.) luminum una, una delle luci. L’anima del giusto, quando sale dalla dimora di questa miseria, entra nella beatitudine, nella quale è bella come la luna, perché viene immersa nella luce delle anime sante, come una di esse. Ed è fulgida come il sole, perché viene illuminata dallo splendore di tutta la Trinità.

 

9. Dell’assiduità nell’orazione si parla nell’introito della messa di oggi: Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato. Di te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cercherò. Non nascondermi il tuo volto (cf. Sal 26,7-9). Ricordati che ci sono tre specie di orazione: l’orazio­ne mentale, l’orazione vocale e l’orazione manuale (delle opere). Della prima dice l’Ecclesiastico: “L’orazione di colui che si umilia, penetra i cieli” (Eccli 35,21). Della seconda parla il salmo: “La mia orazione entri al tuo cospetto” (Sal 87,3). Della terza parla l’Apostolo: “Pregate senza interruzione” (1Tes 5,17). Non cessa mai di pregare colui che non cessa mai di fare il bene.

Dice dunque l’introito: “Ascolta, Signore, la mia voce”, la voce del cuore, della bocca e delle opere, “con la quale a te ho gridato. A te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto”. Il volto del Signore è quell’immagine secondo la quale siamo stati creati “a sua immagine e somiglianza” e che poi abbiamo perduto quando siamo caduti nel peccato mortale. Infatti sopra il volto del Signore abbiamo disegnato il volto del diavolo; e questo lo vieta l’Ecclesiastico, dove dice: “Non assumere un volto contro il tuo volto” (Eccli 4,26). Ogni volta che commetti il peccato mortale, sovrapponi il ceffo del diavolo al volto di Dio. Dice infatti il salmo: “Fino a quando giudicherete iniquamente e assumerete la faccia dei peccatori?” (Sal 81,2).

Per essere in grado di ritrovare il volto del Signore, che abbiamo perduto, accendiamo la lucerna, buttiamo completamente all’aria la casa, finché lo troviamo (cf. Lc 15,8): ciò significa che dobbiamo quasi distruggerci per i nostri peccati, perlustrare ogni angolo della coscienza nella confessione e perseverare nelle opere di penitenza. E così finalmente potremo ritrovare il volto del Signore, perduto con il peccato, e cantare esultanti: “Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto” (Sal 4,7).

E poiché il volto del Signore si ricompone e si conserva sino alla fine con la carità, dice Pietro di questa virtù: “Soprattutto abbiate sempre tra di voi una grande carità” (1Pt 4,8). Come Dio è il principio di tutte le cose, così la carità, virtù fondamentale, si deve conquistare prima di tutte le altre; e se sarà reciproca e costante, coprirà tutto il cumulo dei peccati. La carità dev’essere vicendevole, cioè reciproca, e fatta in comune; dev’essere continua: non deve cioè mai mancare, non solo quando tutto va bene, ma anche quando tutto sembra andar male; e dev’essere incessante e perseverare sino alla fine. Oppure anche: la carità è il Paràclito, lo Spirito di verità che, come l’olio copre ogni liquido, copre la molti­tudine dei peccati. Ma fa’ attenzione, che se l’olio viene soffiato via, ricompare ciò che prima era nascosto. Così la grazia di Dio che con la penitenza copre la moltitudine dei peccati, se viene soffiata via con la ricaduta nel peccato mortale, ciò che era già stato perdonato ritorna, perché chi pecca contro il primo dei precetti, cioè contro il precetto della carità, si rende colpevole anche di tutti gli altri (cf. Gc 2,10). E quindi se commetterai di nuovo il peccato mortale e ti rivolgerai ad un altro confessore, sarà necessario che tu confessi tutto.

Lo Spirito Santo, che è l’amore del Padre e del Figlio, si degni di coprire con la sua carità la moltitudine dei nostri peccati. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la persecuzione contro i discepoli di Cristo

 

10. “Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E vi faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, vi ricordiate che ve ne ho parlato” (Gv 16,1­4). E poiché “i dardi che si prevedono feriscono di meno” (Gregorio), per questo il Signore ha prevenuto i suoi soldati affinché, contrapponendo ai dardi della persecuzione lo scudo della pazienza, non si scandalizzino quando si imbatteranno nel momento della prova. “Vi ho detto queste cose, perché non vi scandalizziate”. Io, Verbo del Padre, da cui dovete prendere esempio di pazienza, parlo a voi affinché non vi scandalizziate.

Chi si scandalizza nel momento della persecuzione, con lo scandalo della sua impazienza si separa dai discepoli di Cristo. “Vi scacceranno dalle loro sinagoghe”. Infatti dice Giovanni: “I giudei avevano già stabilito che se uno avesse riconosciuto il Cristo, sarebbe stato espulso dalla sinagoga” (Gv 9,22).

Cristo dice: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Chi predica la verità professa Cristo. Chi invece nella predicazione tace la verità rinnega Cristo. “La verità genera l’odio” (Terenzio), e quindi alcuni, per non incorrere nell’odio di certe persone, si coprono la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, se dicessero le cose come stanno, come la stessa verità esige e come la sacra Scrittura espressamente comanda, incorrerebbero – se non mi inganno – nell’odio dei carnali e forse questi li scaccerebbero dalla loro sinagoga; siccome si regolano sull’esempio degli uomini, temono lo scandalo degli uomini, mentre non è lecito rinunciare alla verità per timore dello scandalo. E infatti i discepoli dissero a Gesù: “Sai che i farisei, sentita questa parola, si sono scandalizzati? Allora Gesù rispose: Ogni albero che non è stato piantato dal Padre mio celeste, sarà sradicato. Lasciateli perdere: sono ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,12-14).

O predicatori ciechi, poiché temete lo scandalo dei ciechi, per questo cadete nella cecità dell’anima. Questi fanno con voi ciò che fa la vacca selvatica con il cacciatore. Si legge nella Storia Naturale che la vacca selvatica lancia da lontano il suo sterco contro il cacciatore che la insegue e lo colpisce: il cacciatore viene così trattenuto e ritardato, e intanto essa fugge. Sicuramente fanno oggi così anche alcuni prelati, vacche grasse sul monte di Samaria (cf. Am 4,1), vacche belle e molto grasse che pascolano in luoghi paludosi (cf. Gn 41,2), le quali al cacciatore, cioè al predicatore, lanciano lo sterco delle cose temporali per sfuggire alle sue rampogne. Leggiamo infatti nell’Ecclesiastico: “Il pigro sarà lapidato con sassi infangati” (Eccli 22,1). E il Signore dice per bocca di Isaia: “Susciterò contro di loro i Medi”, cioè dei predicatori, “che non cerchino l’argento, né bramino l’oro, affinché uccidano con le frecce i loro pargoli”, cioè gli amatori del mondo, con le frecce della santa predicazione (Is 13,17-18).

 

11. Con questa seconda parte del brano evangelico concorda la seconda parte dell’epi­stola: “Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione; ognuno secondo la grazia che ha ricevu­to, mettendola a disposizione degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Se uno parla, usi le parole di Dio; se uno esercita un ufficio, lo compia con la forza che ha ricevuto da Dio” (1Pt 4,9-11).

Ospite è colui che accoglie e anche colui che è accolto. È chiamato in lat. hospes, come mettesse un piede sulla porta (lat. infert ostio pedem), oppure perché tiene la porta aperta (ostium patens), e quindi è detto ospitale. Sono ospitali quei predicatori che sentono il dovere di aprire ai peccatori la porta della predicazione; e fanno ciò senza mormorazione, cioè senza scandalo. Non si può infatti fare della mormorazione senza scandalo.

E giustamente i predicatori sono detti ospitali, perché come buoni amministratori devono mettere a disposizione altrui la grazia della predicazione che hanno ricevuto e che si effettua in tante forme. Infatti, come tante sono le forme con cui si fanno i peccati, così anche la predicazione deve assumere svariate forme, affinché le anime, deformate dalle varie forme di vizi, vengano riformate con la forma della predicazione. Così parla Pietro ai prelati predicatori: “Pascete il gregge di Dio, che vi è affidato, provvedendo ad esso non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interes­se, ma di buon animo; e non spadroneggiando sulla parte a voi affidata, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt 5,2-3).

E continua: “Se uno parla, adoperi le parole di Dio”. Usa le parole di Dio colui che attribuisce a Dio, e non a se stesso, la perizia che ha nel parlare. E colui che usa le parole di Dio, si ricordi che null’altro deve insegnare se non la volontà di Dio, la dottrina delle sacre Scritture e ciò che è utile ai fratelli; e si guardi bene dal tacere ciò che invece deve insegnare. “E chi esercita un ufficio”, sia con la parola, sia con qualunque altro incarico di carità, “lo faccia con la forza” non sua, ma “con quella ricevuta da Dio, affinché in tutte le cose”, in tutte le nostre opere, “venga glorificato Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 4,11).

Fratelli carissimi, supplichiamo umilmente Cristo Gesù affinché infonda in noi il Paràclito, lo Spirito di verità, e ci dia la pazienza per non scandalizzarci nel momento della tribolazione. A lui appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

LITANIE (O ROGAZIONI)

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Se uno di voi ha un amico [e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti. E se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.

Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, che cerca trova e chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà un sasso? O se gli chiede un pesce gli darà una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?

Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!]” (Lc 11,5-13).

In questo vangelo sono posti in evidenza tre argomenti:

- la richiesta del pane,

- l’insistenza nella preghiera,

- l’amore del padre verso il figlio.

 

I. la richiesta del pane

 

2. “Se uno di voi ha un amico”. Vedremo il significato di queste sei cose: l’amico, la notte, i tre pani, l’amico che torna da un viaggio, la porta chiusa, e i bambini che sono a letto col padre.

L’amico – in lat. amicus, che suona quasi come animi custos, custode dell’animo – è Gesù Cristo, che, se non è lui che custodisce l’animo, invano veglia chi lo custodisce (cf. Sal 126,1). Leggiamo nell’Ecclesiastico: “Un amico fedele è una protezione potente: chi lo trova, trova un tesoro. Nulla è paragonabile a un amico fedele, e non c’è peso d’oro e d’argento che possa contrapporsi al valore della sua fedel­tà” (Eccli 6,14­15); e più avanti continua: “Non abbandonare un vecchio amico, perché quello recente non è uguale a lui” (Eccli 9,14): l’amico recente simboleggia il diavolo, che si avvantaggia nei cambiamenti.

Il vero amico nostro è Gesù Cristo, che ci ha amati tanto da dare per noi la sua vita (cf. Gal 2,20). Pensa quale amico fedele sarebbe colui che, vedendoti in punto di morte, si offrisse per te e prendesse volentieri su di sé la tua malattia e la tua morte!

Si legge nella Storia Naturale che la calandra (l’allo­dola), uccello tutto bianco, le cui interiora curano l’annebbiamento (la cataratta) degli occhi, fissa lo sguardo su di un ammalato se questi è destinato a sopravvivere, perché questo fatto è presagio della sua guarigione: quest’uccello si avvicina al volto dell’infermo, assorbe e prende su di sé la sua malattia, quindi vola in cielo e lì, tra i raggi infuocati del sole, la disperde e la distrugge. Così Cristo, amico nostro, tutto bianco perché assolutamente immune da ogni ombra di peccato, con il sangue che uscì dalla ferita del suo costato, guarì l’offusca­mento della nostra anima, che prima non poteva vedere con chiarezza. Per questo è detto che il sangue estratto dal fianco di una colomba rimuove la macchia dell’occhio (Plinio).

Gesù Cristo, con gli occhi della sua misericordia, guardò fissamente il genere umano malato, e questo fu il segno della nostra salvezza; si avvicinò a noi, prese su di sé la nostra infermità, salì sulla croce, e lì nel fuoco ardente della sua passione consumò e distrusse i nostri peccati. Fu dunque veramente nostro amico, e di lui è detto: “Se uno di voi ha un amico, e va da lui a mezzanotte”.

La notte, chiamata in lat. nox perché nuoce agli occhi, è simbolo della tribolazione o della tentazione, che ostacola l’occhio della ragione. Dice Giobbe della notte: “Quella notte sia di solitudine e non sia degna di lode” (Gb 3,7). La notte della tentazione è “di solitudine” quando non trova consenso nell’uo­mo, e “non è degna di lode” quando l’uomo non l’asseconda e non l’approva. Acconsente alla tentazione e l’approva colui che quando essa si presenta l’accoglie e, accoltala, se ne compiace con l’immaginazione della mente. In tale notte devi andare da Cristo, tuo amico, e dirgli: “Amico, prestami tre pani”.

I tre pani simboleggiano la triplice grazia della compunzione. La prima consiste nel ricordo della propria fragilità e della propria malizia; la seconda nella considerazione dell’esilio di questa vita terrena; la terza nella contemplazione del creatore. Questi tre pani chiede che gli siano prestati [chi è tentato].

Prestare vuol dire dare una cosa, con la condizione che venga restituita. Tutto ciò che abbiamo nell’ambito della grazia lo riceviamo da Dio e a lui dobbiamo restituirlo. “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria” (Sal 113B,1). Sei povero, non hai il pane della compunzione: chiedilo in prestito all’amico, con il patto di restituirgli ciò che da lui hai ricevuto.

“Perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti” (Lc 11,6). L’amico che è venuto dal viaggio raffigura l’anima nostra la quale, ogni volta che va in giro alla ricerca delle cose temporali, si allontana da noi: ritorna poi quando medita sulle verità eterne e brama rifocillarsi con il nutrimento celeste. Ma non c’è nulla da metterle dinanzi, perché all’anima, che dopo le tenebre sospira a Dio, nulla più piace se non pensare, parlare e guardare a Dio soltanto. L’anima, quando rico­mincia a vedere con chiarezza, fa di tutto unicamente per meditare più profondamente e per giungere al gaudio della Trinità, anche questo simboleggiato nei tre pani.

 

3. “Ma l’amico dall’interno deve rispondere: Non m’impor­tunare: ormai la porta è chiusa e i miei bambini sono a letto con me” (Lc 11,7). Lo stesso amico nostro è all’in­terno, e noi miseri stiamo ancora fuori, perché siamo stati allontanati dallo sguardo dei suoi occhi, nella miseria del presente esilio; stiamo fuori, e perciò dobbiamo gridare: “Amico, prestami tre pani”. Chiede che gli siano prestati tre pani colui che è oppresso da molte sofferenze. Ecco, sta fuori nel cuore della notte e nell’assoluta necessità di pane; sta fuori davanti alla porta chiusa, chiama e si sente rispondere: “Non importunarmi!”, cioè non ho il dovere di preoccuparmi per le tue richieste, perché ormai “la porta è chiusa”.

Troviamo qualcosa di simile nel Deuteronomio: “Il cielo che ti sta sopra sia di bronzo, e la terra che calpesti di ferro. Il Signore mandi sulla tua terra come pioggia la polvere, e dal cielo discenda su di te la cenere, finché sarai schiacciato” (Dt 28,23-24). La porta è chiusa e il cielo diventa di bronzo quando il raggio della grazia divina non illumina più la mente dell’uomo, la cui preghiera non penetra più nel cielo che per lui è diventato di bronzo. “Hai posto davanti a te una nube, perché non giungesse fino a te la preghiera” (Lam 3,44).

Infatti se il cielo fosse di bronzo e il sole non desse più la sua luce e non cadesse più la pioggia, gli uomini sarebbero avvolti dalle tenebre e perirebbero tutti per la siccità. Così avviene anche quando la porta o il cielo della grazia celeste si chiude, e il peccatore resta nelle tenebre della sua coscienza e rimane privo della pioggia della compunzione; la terra che calpesta, cioè la vita attiva, nella quale lavora e suda, diventa di ferro, quando da essa non ricava alcun frutto di consolazione, ma solo gelo e durezza di mente: il ferro infatti è freddo e duro.

Alla terra è data la polvere invece della pioggia quando, invece dell’effusione delle lacrime, viene data all’infelice anima la polvere dei pensieri inutili e frivoli, dai quali resta come accecata. Cade su di essa la cenere, quando ricerca solo le cose caduche e periture, dalle quali viene tormentata e distrutta. Quanto dolore e quanta sofferenza! Nella vita contemplativa nessuna dolcezza, in quella attiva nessuna consolazione, nell’orazio­ne l’oscuramento della mente, nelle cose temporali traviamento!

Ma si deve forse disperare? Si deve forse desistere dalla preghiera? No, certamente! E anche se la porta della grazia celeste è chiusa, forse lo è a causa dei nostri peccati, oppure è chiusa allo scopo di spronarci ad implorare e a scongiurare con maggiore insistenza. E anche se i bambini, vale a dire se gli spiriti angelici, per mezzo dei quali Dio infonde i doni della sua grazia e manda la consolazione nelle tribolazioni, sono con lui a letto, cioè nella pace eterna, per il fatto che non escono a farci questo servizio – di essi dice l’Apostolo: “Non sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza?” (Eb 1,14) – si deve forse smettere di domandare il pane? “Non posso, dice, alzarmi a darti il pane”. Osserva la Glossa: Non toglie la speranza di ottenere ma, dopo averne posto in evidenza la difficoltà, stimola ancor più il desiderio di pregare.

“Ma se lui persisterà nel bussare, io vi dico...”, ecc. Commenta ancora la Glossa: Se l’amico si alza e gli dà i pani, spinto non dall’amicizia ma solo dalla voglia di liberarsi da quella seccatura, quanto più generoso sarà Dio, il quale senza badare al fastidio, dà nella più larga misura quanto gli si domanda. Perciò, affinché l’anima nostra, convertitasi dalla vanità dell’errore, non languisca più a lungo per la mancanza di aspirazioni spirituali, chiediamo i pani, cerchiamo l’amico che ce li dia, bussiamo alla porta dove sono tenuti nascosti. Dà una grande speranza colui che non inganna con la sua promessa. “Si alzerà almeno a motivo della sua indiscrezione”, perché la dura fatica (l’ostinazione) vince tutte le diffi­coltà, “e gliene darà”, con l’infusione della sua grazia, “quanti gliene occorrono”, anche se non sempre quanti egli ne vorrebbe.

 

II. l’insistenza nella preghiera

 

4. “E io vi dico: Chiedete e vi sarà dato” (Lc 11,9). Dice il profeta Zaccaria: “Chiedete al Signore la pioggia della sera, ed egli manderà la neve; e darà loro piogge abbondan­ti e a ciascuno erba nei campi” (Zc 10,1).

Nella neve che è candida e fredda è raffigurato il nitore della castità; nelle piogge abbondanti la compunzione accompagnata dalle lacrime; nell’erba la compassione per le necessità dei fratelli, che sempre deve verdeggiare nel campo del nostro cuore. Queste tre cose dobbiamo chiedere al Signore, anche se non al mattino presto, almeno sul far della sera, cioè in un secondo momento, giacché prima di tutto dovremmo cercare il regno di Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33; Lc 12,31). I mondani chiedono prima di tutto le cose terrene, e per ultime quelle eterne, mentre prima dovrebbero incominciare dal cielo, dove sta il nostro tesoro, e dove perciò dovrebbe essere anche il nostro cuore (cf. Mt 6,21; Lc 12,34), e anche la nostra domanda.

“Cercate e troverete” (Lc 11,9). Dice la sposa del Cantico dei Cantici: “Mi alzerò e mi aggirerò per la città: per strade e piazze cercherò colui che la mia anima ama” (Ct 3,2). La città raffigura la patria celeste, nella quale ci sono strade e piazze, vale a dire gerarchie angeliche minori e maggiori. L’anima alzandosi, vale a dire sollevandosi dalle cose terrene, va in giro quando contempla l’ardente amore dei serafini verso Dio, quando osserva la sapienza dei cherubini nei riguardi di Dio, e così degli altri ordini angelici, tra i quali è alla ricerca del suo sposo. Ma poiché egli è molto più in alto di tutti, non lo trova, e quindi è necessario che essa superi con lo sguardo della mente le sentinelle, cioè gli spiriti celesti, per poter trovare il suo amato.

“Cercate e troverete”. Dice Sofonia: “Cercate il Signore voi tutti, umili della terra, che avete praticato i suoi precetti; cercate la giustizia, cercate l’umiltà per trovarvi al riparo nel giorno della sua ira” (Sof 2,3). E Amos: “Cercate il Signore e vivrete. Non rivolgetevi a Betel, non andate a Gàlgala e non passate a Bersabea” (Am 5,4-5). I figli d’Israele avevano fabbricato dei vitelli d’oro e li avevano collocati a Betel, per adorarli in quel luogo (cf. 3Re 12,32). Nell’oro è simboleggiato lo splendore della gloria temporale, nel vitello la lussuria della carne. Non cercate queste cose.

“Non andate a Gàlgala”, che s’interpreta “pantano”, figura del fango della lussuria, nel quale i porci si rotolano. “E non passate a Bersabea”, che s’interpreta “settimo pozzo”, vale a dire abisso di cupidigia, che è assolutamente senza fondo, come il settimo giorno del quale si legge che non ha fine. “Cercate, dunque, il Signore finché si fa trovare; invocatelo mentre è vicino” (Is 55,6).

 

5. Infatti continua: “Bussate e vi sarà aperto” (Lc 11,9). Leggiamo negli Atti degli Apostoli: “Pietro continuava a bussare. Quando finalmente aprirono la porta e lo videro, rimasero stupefatti” (At 12,16). Pietro, liberato dalla prigione per opera di un angelo, raffigura colui che per mezzo della grazia di Dio viene liberato dal carcere del peccato. Costui deve bussare con perseveranza alla porta della corte celeste, e allora gli angeli gli apriranno, presenteranno cioè al cospetto del Signore la sua devota orazione: e il loro stupore, per così dire, non è altro che la gioia che provano per un peccatore che fa penitenza (Lc 15,10).

 

III. l’amore del Padre verso il Figlio

 

6. “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane…” (Lc 11,11), ecc. Vedremo quale sia il significato di queste sei cose, che si contrappongono tra loro, e cioè: il pane e il sasso, il pesce e il serpente, l’uovo e lo scorpione.

Il pane, così chiamato perché si pone [in tavola] insieme con ogni altro cibo, simboleggia la carità, la quale deve accompagnare ogni altro cibo di opere buone. “Tutto si faccia nella carità” (1Cor 16,14). Come senza il pane la mensa sembra squallida, così senza la carità le altre virtù sono un nulla: esse sono perfette solo unite alla carità.

Leggiamo a questo proposito nel Levitico: “Mangerete il vostro pane a sazietà e dimorerete senza paura nella vostra terra” (Lv 26,5). Il Signore promette qui due cose, che avremo in modo perfetto nella vita futura: la sazietà della carità, della quale sarà ricolma l’anima, e la pace della terra, cioè della nostra carne. Ogni cristiano, figlio della grazia, deve chiedere a Dio Padre questo pane, per essere capace di amare Dio sopra tutte le cose e il prossi­mo come se stesso. Per questo prega: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3).

“Forse che gli darà un sasso?” (Lc 11,11). Dice Giobbe: “Un torrente separa la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo peregrinante” (Gb 28,3-4). Il torrente raffigura la compunzione delle lacrime, la quale separa la pietra della caligine, cioè la durezza della mente ottenebrata, e l’ombra della morte, cioè il peccato mortale che proviene dal diavolo il cui nome è morte (cf. Ap 6,8), dal popolo peregrinante, cioè dai penitenti, i quali si considerano pellegrini in questo esilio. Quindi al figlio che domanda la carità, Dio Padre non dà la durezza del cuore, ma piuttosto la toglie. “Toglierò da voi il cuore di pietra”, che è insensibile, “e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26), in grado di sentire dolore.

“O che chiede un pesce” (Lc 11,11). Il pesce raffigura la fede nelle cose invisibili. Infatti come il pesce nasce immerso nell’acqua e in essa vive e si nutre, così la fede che riguarda Dio, viene generata in modo invisibile nel cuore; viene consacrata dalla grazia invisibile dello Spirito Santo per mezzo dell’acqua del battesimo; viene nutrita, affinché non venga meno, con il misterioso aiuto della protezione divina; compie tutto il bene che le è possibile in vista dei premi invisibili. O anche: la fede viene paragonata al pesce perché, come esso è continuamente sbattuto dalle onde del mare ma non ne viene ucciso, così la fede non viene scossa dalle avversità. Questo pesce ogni cristiano deve chiedere a Dio Padre dicendo: Concedimi di vivere e di morire nella fede dei tuoi apostoli e della tua santa chiesa cattolica.

 

7. “Forse che invece del pesce gli darà un serpente?” (Lc 11,11). Il serpente è così chiamato perché si avvicina di nascosto, serpeggiando.

I serpenti sono freddi per natura, e non attaccano se non quando si sono riscaldati. Alcuni affermano che i serpenti nascono dal midollo spinale di un uomo morto. Dicono che il serpente muore se gli si gettano sopra delle foglie di rovo. Si dice anche che se il serpente vede un uomo nudo, ha paura, mentre se lo vede vestito, lo attacca. E i serpenti gradiscono molto il vino, e mangiano la carne e le erbe, e succhiano gli umori dell’ani­male al quale si attaccano.

Il serpente è il diavolo, che si avvicina di nascosto per tentare; oppure anche la sua perfidia che “serpeggia”, va cioè di traverso come il granchio. Il diavolo, per innata malvagità è freddo, ma infiammato dall’ardore di nuocere, tenta di inoculare il veleno dell’infedeltà (mancanza di fede) nei fedeli, i soli che sono vivi. Invece tutti gli altri sono morti, perché uccisi dal veleno dell’infedeltà, che nasce dal loro stesso cuore e ne fuoriesce per dare la morte anche ad altri. Ma siano rese grazie a Dio che, contro questo veleno, ci ha dato un rimedio: le foglie del rovo. Il rovo, che ardeva e non si consumava (cf. Es 3,2), simboleggia l’uma­nità di Cristo la quale, coperta degli aculei della sofferenza, bruciò nel fuoco della passione, ma non si consumò: “Si disseccò come un coccio la mia potenza” (Sal 21,16). Le sue foglie, cioè le sue parole uccidono il serpente, vale a dire il diavolo e la sua perfidia.

Il diavolo ha paura dell’uomo nudo, cioè del povero di Cristo, spoglio di cose temporali; ma quando vede l’uomo vestito, cioè ingordo, pieno di beni terreni, lo attacca, vale a dire lo assedia di tentazioni e, per quanto gli è possibile, gli inocula il veleno. Oppure: l’uomo nudo è colui che si è spogliato della veste della sua volontà; di lui dice il vangelo: “Gettato il mantello, balzò in piedi e corse da Gesù” (Mc 10,50). Chi vuole ricevere la luce e giungere alla salvezza, deve prima di tutto gettare lontano la sua volontà. Chi invece vuole restare coperto con la veste della sua volon­tà, viene subito attaccato dal diavolo. Questo si constata chiaramente in Adamo: finché restò nell’obbe­dienza, il diavolo ebbe paura di lui: “Erano tutti e due nudi e non se ne vergognavano” (Gn 2,25); ma quando si coprirono con la veste della loro volontà, il serpente li attaccò: “Quando si accorsero di essere nudi, intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture” (Gn 3,7).

Il diavolo poi gradisce molto il vino della lussuria, e la carne, cioè la carnalità della gola; ingoia anche volentieri le erbe, cioè lo splendore della gloria terrena; e dall’uomo, al quale si attacca approfittando del suo consenso, succhia ed estrae tutti gli umori, vale a dire la compunzione della mente.

Dio Padre non darà mai un tale serpente al figlio suo che gli chiede un pesce; anzi, di un infedele fa un fedele, e lo richiama dalla morte alla vita.

 

8. “Oppure, se il figlio gli chiede un uovo…” (Lc 11,12), ecc. Nell’uovo è simboleggiata la certezza della nostra speranza, perché nell’uovo si può vedere il feto non ancora perfetto, ma si spera, riscaldandolo, che giunga a maturazione. L’uovo deriva il suo nome dal lat. uvidum, umido: infatti nel suo interno è pieno di umore. Così colui che nutre la speranza dei beni eterni è pieno dell’umore della devozione.

Si legge nella Storia Naturale che le uova si diversificano tra loro per la forma: alcune sono appuntite, altre tondeggianti. Le uova lunghe, con una estremità stretta, producono i maschi; quelle tondeggianti producono invece le femmine, e hanno le estremità larghe. Ci sono anche le “uova di vento”, piccole e sterili, che non producono nulla. Quando durante la cova ci sono dei tuoni, le uova si guastano.

Nelle uova appuntite è indicata la speranza dei beni eterni. Dimentico delle cose passate, dice l’Apostolo, sono proteso a quelle future (cf. Fil 3,13). Nella lun­ghezza e nella parte stretta dell’uovo è simboleggiato il desiderio che l’anima nutre nella speranza del regno cele­ste. Da tale uovo nasce un maschio, cioè la vita virtuosa. Invece nelle uova larghe e tondeggianti è simboleggiata la speranza dei beni passeggeri, se può esser detta speranza. “Ciò che uno vede, come può sperarlo?” (Rm 8,24). C’è appunto in tali uova la via larga che conduce alla morte (cf. Mt 7,13). E ancora: “All’in­torno (lat. in circuitu) si aggirano gli empi” (Sal 11,9); “Dio mio, fa’ che siano come una ruota” (Sal 82,14). Da queste uova nasce una femmina, cioè una vita effeminata.

E tale speranza è ottusa, cioè oscura, perché preferisce le tenebre alla luce (cf. Gv 3,19). Questa speranza è raffigurata nell’uovo di vento, perché è volubile e piena di vento. Infatti dice Osea: “Hanno seminato vento: raccoglieranno tempesta” (Os 8,7). Quale il seme, tale il frutto, perché chi semina vanità, raccoglierà dannazione. La speranza posta nel vento non produce il frutto della carità; è piccola e meschina perché non cresce in Dio; è insipida perché la sua sapienza non è condita con il divino sapore.

Infine, quando all’inizio della conversione e della nuova vita scoppiano i tuoni, cioè le tentazioni della prosperità o delle avversità, queste riescono spesso a guastare le uova della speranza e dei santi propositi. Quindi il figlio della grazia deve domandare al Padre della misericordia l’uovo della speranza dei beni eterni perché, come dice Geremia, “benedetto è l’uomo che confida nel Signore: il Signore stesso sarà la sua speranza” (Ger 17,7).

 

9. “Forse che il padre gli darà uno scorpione?” (Lc 11,12). Come si deve aver paura del pungiglione che lo scorpione ha sulla coda, così è un atto contrario alla speranza guardare indietro, cioè al passato: la speranza è la virtù che si protende in avanti, che aspira cioè ai beni futuri.

Lo scorpione, che ha la caratteristica di non ferire il palmo della mano, lambisce con la bocca, ma intanto la coda, nella quale ha due pungiglioni, colpisce e inocula il veleno. Il palmo della mano è così chiamato in quanto è glabro e non ha peli. La mano raffigura l’opera buona, il palmo la retta intenzione nell’operare. Il pelo nel palmo o nell’occhio è l’intenzione cattiva. Leggiamo nel vangelo: “Se il tuo occhio” – cioè la tua intenzione – “è limpido, tutto il tuo corpo” – cioè il tuo operare – “sarà luminoso” (Lc 11, 34). Lo scorpione è il diavolo che, mentre blandisce, lusinga con la suggestione, e alla fine colpisce con i due pungiglioni della coda: infatti nella vita presente avvelena con il peccato il corpo e l’anima, e poi in quella futura manda entrambi all’eterna punizione. Beato colui che nella mano delle sue opere ha il palmo della retta intenzione, che il diavolo non è in grado di danneggiare. Infatti il palmo senza macchia della retta intenzione purifica e rende bello il volto e tutto il corpo.

“Se dunque voi, che siete cattivi…” (Lc 11,13), ecc. Tutte le creature al cospetto della bontà divina sono cattive, perché “nessuno è buono se non Dio solo” (Lc 18,19). Il paragone è quanto mai appropriato. Infatti se l’uomo peccatore, ancora sotto il peso della fragilità della carne, non si rifiuta di dare i beni temporali ai figli che glieli chiedono, a maggior ragione il Padre celeste largisce ai figli, che vivono in terra nel suo timore e nel suo amore, i beni imperituri nel cielo. Colui che è benedetto nei secoli si degni di elargire anche a noi questi beni eterni. Amen.

 

IV. sermone morale

 

10. “Vennero da Sichem, da Silo e da Samaria ottanta uomini con la barba rasa, con le vesti stracciate, smunti e macilenti: avevano in mano doni e incenso da offrire nella casa del Signore” (Ger 41,5).

Così ci dice Geremia. Come quegli uomini si unirono insieme per pregare il Signore, così anche noi in questi giorni ci raduniamo nella preghiera: perciò questi giorni sono chiamati in greco litanèia (litanie, suppliche) e in it. rogazioni (dal lat. rogare, pregare, domandare).

Le rogazioni sono state istituite per pregare il Signore e per ottenere da lui qualche cosa. Proprio per questi due scopi sono state istituite: per pregare Dio che ci perdoni i peccati; infatti dice Isaia: “Mi chiedono giudizi giusti e vogliono avvicinarsi a Dio” (Is 58,2); e per ottenere i benefici della sua misericordia, sia nelle cose spirituali che in quelle temporali. E noi per meritare di ricevere questi benefici dobbiamo fare spiritualmente ciò che quegli uomini hanno fatto materialmente.

Gli “ottanta” raffigurano tutti quelli che, “nei sette giorni” della vita presente, vivono operando il bene nell’attesa dell’ottavo giorno, quello della risurrezione. Tutti sono chiamati uomini (lat. viri), perché non compiono opere frivole o vane, ma solo atti di virtù. Infatti il sostantivo vir, uomo, viene dalla parola virtus, virtù, fortezza.

Questi uomini vengono da Sichem che s’interpreta “fati­ca", e da Silo che s’interpreta “dov’è lui?”, e da Samaria, che s’interpreta “lana”, termine che deriva dal lat. laniare, dilaniare, cioè lacerare, strappare. Queste tre località simboleggiano le tre caratteristiche che riguardano i beni temporali: si conquistano con fatica e travaglio; si conservano con il timore di perderli: infatti l’avaro dice sempre: “Dov’è lui?”, cioè il denaro; si perdono con grande dispiacere: ecco la “dilaniazione”, cioè lo strazio del cuore. Deve disprezzare tutte queste cose colui che vuole veramente pregare il Signore.

 

11. “Con la barba rasa”. Nel fatto di radersi la barba è simboleggiata l’opera virtuosa. Dice il salmo: “Come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne” (Sal 132,2). Aronne s’interpreta “monte eccelso”, e raffigura l’uomo costante, che stende la mano a cose eccelse (cf. Pro 31,19), sul cui capo, cioè nella cui mente, è sparso l’olio profumato della grazia divina.

I pugili che si accingono al combattimento sono soliti ungersi il capo. Così Dio unge la mente del giusto affinché sia forte contro l’antico avversario. Questo unguento scende su tutta la barba, parola che il salmo dice due volte, perché dall’abbondanza della grazia interiore vengono profumate le grandi opere del duplice comandamento della carità. E si rade la barba colui che mai presume di affidarsi al valore delle sue opere buone. Dice infatti Isaia: “In quel giorno il Signore, con un rasoio affilato”, o preso in prestito, “raderà il capo, il pelo delle gambe e tutta la barba a coloro che sono oltre il fiume” (Is 7,20). Al di là del fiume dei piaceri mondani stanno i penitenti, ai quali il Signore con il rasoio affilato, o preso in prestito, della sua passione rade ogni presunzione e fiducia nel bene operato. Chi può infatti presumere o gloriarsi del bene operato, quando vede il Figlio del Padre, fortezza e sapienza del Padre (cf. 1Cor 1,24), inchiodato in croce, sospeso in mezzo a due ladroni?

Nel capo, nelle gambe e nella barba sono simboleggiati l’inizio, la continuazione e il compimento dell’opera buona; e il Signore rade nel penitente tutto questo, quando gli vieta di confidare o di gloriarsi sia all’ini­zio, che nella continuazione e nel compimento dell’opera buona, perché “chi si gloria, si glori nel Signore” (1Cor 1,31; 2Cor 10,17)), e non in se stesso.

 

12. “E con le vesti strappate”. Le vesti simboleggiano le membra del corpo. Dice infatti l’Apocalisse: “Hai nella città di Sardi poche persone che non hanno macchiato le loro vesti” (Ap 3,4), cioè le loro membra. Sono veramente poche a Sardi quelle persone. Sardi s’interpreta “bellezza del dominio”, e in ciò è indicata la verginità, e chi la conserva possiede veramente la bellezza del dominio. Quale splendido dominio quando il creatore domina lo spirito, e lo spirito domina la carne!

Si strappa le vesti colui che non risparmia se stesso nel mortificare il corpo. È detto di Giobbe: “Si alzò, si strappò la tunica; tosatosi il capo si prostrò a terra e adorò Dio” (Gb 1,20). Giobbe, che s’interpreta “dolente”, è figura del penitente che si duole nella contrizione, si alza nella confessione, si strappa la tunica, cioè castiga la sua carne per riparare al peccato, si tosa il capo con l’umiltà della mente, si prostra per terra nella meditazione della morte, e adora Dio nel rendimento di grazie.

“Smunti e macilenti”. Il latino dice squalentes, squallidi. Lo squallore significa pallore, magrezza, sporcizia e denutrizione. I grandi penitenti hanno questo squallore: sono pallidi in viso, magri nel corpo, miseri nelle vesti e sobri nel mangiare.

 

13. “Avevano in mano doni e incenso”. Dice la Storia Naturale che la mano dell’uo­mo, datagli dal creatore, è adatta a qualsiasi lavoro, perché è aperta e larga, è articolata in varie parti: e se ne può usare una parte sola, o due e anche molte, a seconda del­le circostanze. E l’agi­lità e le articolazioni delle dita danno la capacità di prendere e di trattenere.

Nella mano è simboleggiata l’attività caritativa; dobbiamo stendere la mano ad utilità del prossimo e articolarla, per così dire, in tante parti a seconda delle necessità. Viene usata una sola parte (della mano), quando ci dedichiamo solo a Dio; ne vengono usate due parti, quando si somministra al prossimo il nutrimento dell’anima e del corpo. L’agilità delle dita, cioè la pratica delle virtù nella vita attiva, compie due cose: prende la grazia data da Dio, quindi la trattiene, cioè la conserva, per non perderla. In questa mano, dunque, dobbiamo avere i doni della fortezza, della carità e dell’ele­mo­sina, e l’incenso della devozione interiore, affinché tutto ciò che facciamo, sia fatto con devozione.

“Per offrirli nella casa del Signore”. E questo è ciò che si dice anche nell’Apoca­lisse: “E il fumo degli incen­si, con le preghiere dei santi, salì davanti a Dio per mano dell’angelo” (Ap 8,4). Chi cerca la propria lode per le buone opere che compie, non offre doni nella casa di Dio e neppure il fumo dell’incenso sale davanti al Signore. Veniamo così istruiti a fare l’offerta delle nostre opere nella casa del Signore, davanti a lui, cioè con pura coscienza nella quale egli dimora, e da lui solo attendere la ricompensa.

Solo così, mediante il ministero degli angeli deputati alla nostra custodia, la nostra devozione salirà a Dio e la sua grazia scenderà su di noi, affinché anche noi diveniamo finalmente capaci di salire alla sua gloria.

Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.