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Giovedi, 28 marzo 2024 - San Castore di Tarso ( Letture di oggi)

DOMENICA DELL’ OTTAVA DI PASQUA

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA DELL’ OTTAVA DI PASQUA
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Temi del sermone

 

– Vangelo dell’Ottava di Pasqua: “La sera di quello stesso giorno”; vangelo che si divide in cinque parti.

– Anzitutto sermone sul predicatore e a chi deve predicare: “Mi trovavo nella città di Joppe (Giaffa)”.

– Parte I: Sermone contro la prosperità del mondo: “Non bramai il giorno dell’uo­mo”.

– Sermone ai peccatori convertiti: “La sera di quello stesso giorno”, e “Tutto il monte Sinai fumava”.

– Sermone sulle porte, che sono i cinque sensi dell’uomo: “E le porte erano chiuse”.

– Parte II: Sermone sulla triplice pace, sulla carità e sulla natura degli elefanti: “Venne Gesù...”

– Parte III: Sermone sull’assoluzione di Dio e del sacer­dote, con quale procedimento uno venga risuscitato dalla morte dell’anima alla penitenza: “Ricevete lo Spirito Santo”, e “Non possiedo né oro né argento”.

– Parte IV: Sermone per la risurrezione del Signore: “In quel giorno rialzerò la tenda di Davide”.

– Parte V: Sermone sul latte della misericordia divina: “Come bambini appena nati”, e sulla castità degli elefanti.

 

esordio - il predicatore, e a chi deve predicare

 

1. In quel tempo: “Venuta la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato, ed essendo chiuse le porte [della casa] dove i discepoli si erano radunati per paura dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a Voi!” (Gv 20,19).

Negli Atti degli Apostoli, Pietro racconta: “Io mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa, ed ebbi in estasi una visione: una specie di involto, simile a una grande tova­glia, scendeva come calato dal cielo, sorretto per i quattro capi, e giunse fino a me. Guardandolo lo esaminavo attentamente, e vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e uccelli del cielo. Quindi sentii una voce che mi diceva: Àlzati, Pietro, uccidi e mangia!” (At 11,5-7).

In Pietro è raffigurato il predicatore, che deve sostare in preghiera nella città di Joppe, che s’interpreta “bel­lezza", cioè in unione con la chiesa, nella quale c’è la bellezza delle virtù e fuori della quale c’è solo la lebbra dell’infedeltà [mancanza della fede]. Il predicatore deve fare prima di tutto questa cosa: attendere alla preghiera. Alla preghiera segue l’estasi, cioè l’elevazione sopra le cose della terra; e nell’estasi vede “un involto, come una grande tovaglia...”, ecc. Nel grande involto di lino è indicata la grazia della predicazione, che giustamente è detta “vaso”, perché inebria le menti dei fedeli con il vino della compunzione; è detta anche “grande tovaglia di lino” perché deterge i sudori delle fatiche e ridona vigore per affron­tare gli attacchi delle passioni. I “quattro capi” sono gli insegnamenti dei quattro evangelisti; “scendeva calata dal cielo”, perché “ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto” (Gc 1,17). “E giunse fino a me”. In questo fatto è indicato in modo particolare il privilegio del predicatore, al quale proprio dal cielo viene affidato il compito della predicazione. E in questo vaso, in questo involto misterioso, ci sono “i quadrupedi della terra”, cioè i golosi e i lussuriosi, e “le bestie”, nome che suona come vastiae (devastatrici), cioè i traditori e gli omicidi; e “i rettili”, cioè gli avari e gli usurai; e “i volatili del cielo”, cioè i superbi e tutti coloro che s’innalzano con le penne della vanagloria.

Questo vaso è come la rete calata nel mare, che cattura ogni genere di pesci (cf. Mt 13,47); e al predicatore viene detto: “Àlzati, uccidi e mangia”. Àlzati ad evangelizzare; uccidi al mondo; mortifica e immola, per offrire sacrifici a Dio, affinché spogliati della vecchiezza arrivino alla novità; e mangia, vale a dire accogli nell’unità e nella comunità del corpo della chiesa. Di questa unità e comunità è detto appunto nel vangelo di oggi: “Giunta la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato, ... i discepoli erano radunati”, ecc.

 

2. In questo vangelo sono posti in evidenza cinque momenti: Primo: la riunione dei discepoli, quando incomincia con le parole “Venuta la sera”, ecc. Secondo: il triplice saluto di pace, quando aggiunge: “Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi”. Terzo: il potere concesso agli apostoli di legare e di sciogliere: “E dicendo questo, alitò su di loro”, ecc. Quarto: l’incredulità di Tommaso: “Tommaso, uno dei dodici, non era con loro”, ecc. Quinto: la professione di fede di Tommaso e la conferma della nostra fede: “Otto giorni dopo”, ecc.

Osserva ancora che in questa domenica si legge l’epistola del beato Giovanni: “Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo” (1Gv 5,4). Nella notte, secondo l’uso della chiesa romana, si leggono gli Atti degli Apostoli. Vogliamo accennare brevemente a cinque episodi narrati dagli Atti e metterli a confronto con le cinque parti del vangelo sopra riportate. I cinque episodi sono: Primo, la riunione degli apostoli a Gerusalemme: “Quindi dal monte degli Ulivi fecero ritorno a Gerusalemme”. Secondo, dove dice: “In quei giorni Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli”, ecc. Terzo, lo storpio dal seno della madre, al quale Pietro disse: “Non possiedo né oro né argento”, ecc. Quarto, la conversione di Saulo. Quinto, l’eunuco e il centurione Cornelio.

 

I. la riunione dei discepoli

 

3. “Giunta la sera di quel giorno”. In questa prima parte si deve fare attenzione a cinque momenti: la sera, quel giorno, primo dopo il sabato, le porte chiuse, i discepoli riuniti per paura dei giudei.

Il giorno (lat. dies, dal sanscrito dian, luminosità) sta a indicare lo splendore (la gloria) delle vanità del mondo. Di essa dice il Signore: “Io non ricevo gloria dagli uomini” (Gv 5,41); e Geremia: “Non ho desiderato il giorno degli uomini, tu lo sai” (Ger 17,16); e Luca: “E ora in questo tuo giorno” e non mio, se tu conoscessi “ciò che è utile per la tua pace” (Lc 19,42), e non per la mia; e negli Atti degli Apostoli: “Il giorno seguente, Agrippa e Berenice arrivarono con molto sfarzo” (At 25,23) (lat. ambitione), cioè con una grande folla che li attorniava. Per ambitione c’è in greco – lo dice la Glossa – il termine phantasia (ostentazione).

Agrippa s’interpreta “urgente accumulo”, e Berenice “figlia eccitata dall’ele­ganza”. Agrippa raffigura il ricco di questo mondo, che si affretta ad accumulare ricchezze con l’usura e i giuramenti falsi: “ma le ricchezze che ha divorato – dice Giobbe – le vomiterà e il Signore gliele strapperà dalle viscere” (Gb 20,15). Berenice raffigura la lussuria della carne, figlia del diavolo, che si eccita con l’eleganza esteriore e fa eccitare gli altri. Quindi Agrippa e Berenice, cioè i ricchi e i lussuriosi, nel giorno del fasto mondano procedono con grande ambizione, che è solo deludente fantasia, giacché produce l’im­pres­sione di essere qualcosa, quando poi in realtà è un nulla, e quando si crede di afferrare qualcosa, tutto si dilegua e svanisce.

“Giunta la sera di quel giorno”. La sera di tale giorno è la penitenza, nella quale il sole dello splendore mondano si cambia in tenebre e la luna della concupiscenza carnale si tramuta in sangue. Negli Atti degli Apostoli Pietro, servendosi delle parole del Signore, riportate da Gioele, dice: “Farò prodigi in alto nel cielo e segni in basso sulla terra, sangue, fuoco e vapore di fumo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue” (At 2,19­-20; Gl 2,30-31).

Senso allegorico. Il Signore fece prodigi in cielo e sulla terra, quando discese in terra per mezzo del sangue sparso sulla croce; nel fuoco, quando mandò lo Spirito Santo sugli apostoli; e così salì in alto il fumo della compunzione. È detto infatti negli Atti: “Si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli? E Pietro: Pentitevi, – disse – e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo” (At 2,37-38).

Senso morale. Nel sangue è indicata la macerazione della carne, nel fuoco l’ardore della carità e nel vapore del fumo la compunzione del cuore. Questi prodigi fa il Signore nel cielo, cioè nel giusto, e sulla terra, vale a dire nel peccatore.

 

4. E con questi tre elementi concorda anche ciò che leggiamo nell’epistola di oggi: “Tre sono quelli che danno testimo­nianza sulla terra: lo spirito, l’acqua e il sangue” (1Gv 5,8).

Senso allegorico. Lo Spirito è l’anima umana, che Cristo esalò nella passione; l’acqua e il sangue sgorgarono dal suo fianco, ciò che non sarebbe potuto avvenire se non avesse avuto la vera natura della carne (dell’uomo).

Senso morale. Lo spirito è la carità, l’acqua la compunzione e il sangue la macerazione della carne. Su questo concordano anche le parole dell’Esodo: “Tutto il monte Sinai fumava, perché su di esso era disceso il Signore nel fuoco, e da esso saliva il fumo come da una fornace: e il monte incuteva a tutti spavento. E il suono della tromba a poco a poco diventava più forte e si faceva più penetrante” (Es 19,18-19). Il monte Sinai raffigura la mente del penitente nella quale, quando discende il Signore nel fuoco della carità – del quale egli stesso ha detto: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra” (Lc 12,49) –, tutto il monte fuma, e da esso sale il fumo della compunzione come da una fornace, cioè dall’ardore della mente. E così tutto il monte incute spavento a motivo della macerazione della carne, oppure incute spavento agli spiriti immondi. Infatti leggiamo in Giobbe: “Nessuno gli diceva una parola: vedevano infatti che la sua sofferenza era terribile!” (Gb 2,13).

“E il suono della tromba”, cioè della confessione, “a poco a poco diventava più forte e si faceva più penetrante”, perché il penitente quando si confessa deve incominciare dai pensieri illeciti, quindi passare alle parole e poi alle opere cattive.

“Il sole si cambierà in tenebra e la luna in sangue”. Il sole si cambia in tenebra quando il lusso mondano viene oscurato dal sacco della penitenza; e la luna si cambia in sangue quando la concupiscenza della carne viene repressa con le macerazioni, con le veglie e le astinenze. Giusta­mente quindi è detto: “Quando venne la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato”. E il Signore dice nell’Esodo: “Ricordati di santificare il sabato” (Es 28,8).

 

5. Santifica il giorno del sabato colui che dimora nella quiete dello spirito e si astiene dalle opere proibite. “E le porte erano chiuse”. Le porte sono i cinque sensi del corpo, che dobbiamo chiudere con le serrature dell’amo­re e del timore di Dio, perché non ci accada ciò che dice Paolo negli Atti degli Apostoli: “So che dopo la mia dipartita sorgeranno tra voi dei lupi rapaci che non risparmieranno il gregge” (At 20,29). Paolo s’inter­preta “umile”. Quando l’umiltà scompare dal cuore, i lupi rapaci, cioè i desideri carnali, entrano per le porte dei cinque sensi e divorano il gregge dei buoni pensieri.

“Dov’erano riuniti i discepoli per timore dei giudei”. I discepoli sono i giudizi della ragione, che devono riunirsi insieme per timore dei giudei, cioè dei demoni, per fare in modo che questi non possano nuocere. È detto infatti nel Cantico dei Cantici: Sei bella e leggiadra, figlia di Gerusalemme, terribile come un esercito schierato in battaglia (cf. Ct 6,3). L’anima è la figlia della Gerusalemme celeste, bella per la fede e leggiadra per la carità; essa sarà anche terribile per gli spiriti immondi se schiererà i giudizi della ragione e i pensieri della mente, come un esercito di soldati viene schierato per combattere contro i nemici.

E su questa riunione [dei discepoli] concorda anche quanto è detto in altra parte degli Atti: “Allora ritorna­rono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso nel sabato. E entrati nel cenacolo, salirono [al piano superiore] dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti costoro erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con le donne, con Maria Madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,12-14). Il monte degli Ulivi dista da Gerusalemme un miglio, il cammino permesso di sabato, cioè mille passi: di sabato non era lecito ai giudei camminare di più. Il cenacolo è chiamato dalla Glossa “terzo tetto”, ed è figura della carità, della fede rinsaldata e della speran­za. Dobbiamo salire a questo cenacolo, restarvi con i discepoli e perseverare unanimi nell’orazione, nella contemplazione e nella effusione delle lacrime, per essere degni di ricevere la grazia dello Spirito Santo. Per questo il Signore dice: “Restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).

Se dunque il giorno della gloria mondana sarà al declino e tramonterà nella sera della penitenza nella quale, come di sabato, l’uomo deve desistere dalle opere cattive, e le porte dei cinque sensi saranno chiuse, e tutti i discepoli di Cristo, ossia i sentimenti del giusto saranno riuniti insieme, allora il Signore farà ciò che dice il vangelo proseguendo nel racconto.

 

II. il triplice saluto di pace

 

6. “Venne Gesù, si fermò in mezzo ai discepoli e disse: Pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. I discepoli gioirono nel vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,19-21). Da notare anzitutto che in questo vangelo per ben tre volte è detto “Pace a voi”, a motivo della triplice pace che il Signore ha ristabilito: tra Dio e l’uomo, riconciliando quest’ultimo al Padre per mezzo del suo sangue; tra l’angelo e l’uomo, assumendo la natura umana ed elevandola al di sopra dei cori degli angeli; tra uomo e uomo, riunendo in se stesso, pietra angolare, il popolo dei giudei e quello dei gentili (pagani).

Osserva poi che nella parola pace, pax, ci sono tre lettere che formano una sola sillaba: in questo viene raffigurata l’Unità e la Trinità di Dio. Nella P è indicato il Padre; nella A, che è la prima delle vocali, è indicato il Figlio, che è la voce del Padre; nella X, che è una consonante doppia, è indicato lo Spirito Santo, che procede da entrambi [dal Padre e dal Figlio]. Quando dunque disse: Pace a voi, ci raccomandò la fede nell’Unità e nella Trini­tà.

“Venne Gesù e si fermò nel mezzo”. Il centro è il posto che compete a Gesù: in cielo, nel grembo della Vergine, nella mangiatoia del gregge e sul patibolo della croce.

In cielo: “L’Agnello che sta in mezzo al trono”, cioè nel seno del Padre, “li guiderà e li condurrà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7,17), cioè alla sazietà del gaudio celeste.

Nel grembo della Vergine: “Esultate e cantate lodi, abitanti di Sion, perché grande è in mezzo a voi il Santo d’Israele” (Is 12,6). O beata Maria, che sei figura degli abitanti di Sion, cioè della chiesa, che nell’incarnazione del Figlio tuo ha posto il fondamento dell’edificio della sua fede, esulta con tutto il cuore, canta con la bocca la sua lode: “L’anima mia magnifica il Signore!” (Lc 1,46), perché il grande, il piccolo e l’umile, il santo e il santificatore di Israele sta in mezzo a te, cioè nel tuo grembo.

Nella mangiatoia del gregge: “Sarai conosciuto in mezzo a due animali” (Ab 3,2 - Trad. dei LXX). “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone (Is 1,3).

Sul patibolo della croce: “Crocifissero insieme con lui altri due, da una parte e dall’altra, e Gesù nel mezzo” (Gv 19,18).

Venne dunque Gesù e si fermò nel mezzo. “Io sto in mezzo a voi – ci dice in Luca – come colui che serve” (Lc 22,27). Sta al centro di ogni cuore; sta al centro perché da lui, come dal centro, tutti i raggi della grazia si irradino verso di noi che camminiamo all’intorno e ci agitiamo alla periferia.

 

7. Con tutto ciò concordano le parole degli Atti degli Apostoli: “In quei giorni Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli (c’era riunito un gruppo di quasi centoventi uomini), disse: Fratelli...” (At 1,15-16), ecc., e tutto ciò che avvenne per l’elezione di Mattia.

Cristo, risorto dai morti, si fermò in mezzo ai discepo­li; e Pietro, che per primo era caduto rinnegandolo, si alzò in mezzo ai fratelli, indicando con questo a noi che, rialzandoci dal peccato, ci fermiamo in mezzo ai fratelli, perché al centro c’è la carità che si estende sia all’amico che al nemico. “Venne dunque Gesù e si fermò in mezzo ai discepoli, e disse: “Pace a voi”.

Ricorda che esiste una triplice pace. Primo: la pace del tempo, della quale è scritto nel terzo libro dei Re che “Salomone ebbe pace tutt’all’intorno (con i confinanti) (3Re 4,24). Secondo: la pace del cuore, della quale è detto: “In pace mi corico e subito mi addormento” (Sal 4,9); e ancora: “La chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, ricolma del conforto dello Spirito Santo” (At 9,31). Giudea s’interpreta “confessione”, Galilea “passaggio”, e Samaria “custodia”. Quindi la chiesa, cioè l’anima fedele, trova la pace in questi tre atti: nella confessione, nel passaggio dai vizi alle virtù, nella custodia del precetto divino e della grazia ricevuta. E in questo modo cresce e cammina di virtù in virtù nel timore del Signore: non un timore servile ma un affettuoso timore filiale; e in ogni tribolazione è ricolma della consolazione dello Spirito Santo. Terzo: la pace dell’eternità, della quale dice il salmo: “Egli ha messo pace nei tuoi confini” (Sal 147,14).

La prima pace devi averla con il prossimo, la seconda con te stesso, e così, nell’ot­tava della risurrezione, avrai anche la terza pace, con Dio nel cielo. Férmati dunque nel mezzo e avrai la pace con il prossimo. Se non starai nel mezzo non potrai avere la pace. Infatti nelle “circonferenze” non c’è né pace né tranquillità, ma piuttosto movimento e volubilità.

Si dice degli elefanti che quando devono affrontare un combattimento, hanno una cura particolare dei feriti: infatti li chiudono al centro del gruppo insieme con i più deboli. Così anche tu accogli nel centro della carità il prossimo debole e ferito. Come fece quel custode del carcere, del quale si parla negli Atti degli Apostoli, che presi in disparte Paolo e Sila in quella stessa ora della notte, lavò loro le ferite, li condusse nella sua casa, preparò loro la mensa e fu ricolmo di gioia insieme con tutta la sua famiglia per aver creduto in Dio (cf. At 16,33-34).

 

8. “Gesù si fermò in mezzo ai discepoli e disse loro: Pace a voi. Detto questo mostrò loro le mani e il costato”. Luca scrive che Gesù disse: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24,39).

A mio parere, il Signore mostrò agli apostoli le mani, il costato e i piedi per quattro motivi. Primo, per dimostrare che era veramente risorto e toglierci così ogni dubbio. Secondo, perché la colomba, cioè la chiesa, o anche l’anima fedele, facesse il nido nelle sue piaghe, quasi come in profonde aperture, e così potesse nascondersi dalla vista dello sparviero che trama insidie per rapirla. Terzo, per imprimere nei nostri cuori i segni distintivi della sua passione. Quarto, li mostrò perché anche noi, parteci­pando alla sua passione, non lo inchiodiamo più alla croce con i chiodi dei peccati. Ci mostrò quindi le mani e il costato dicendo: Ecco le mani che vi hanno plasmato, come sono state trafitte dai chiodi; ecco il costato, dal quale voi fedeli, mia chiesa, siete stati generati, come Eva fu procreata dal fianco di Adamo; ecco come è stato aperto dalla lancia per aprirvi la porta del paradiso, sbarrata dalla spada fiammeggiante del cherubino. La virtù del sangue sgorgato dal costato di Cristo, ha allontanato l’angelo e ha reso innocua la sua spada, e l’acqua ha spento il fuoco. Non vogliate dunque crocifiggermi di nuovo e profanare il sangue dell’alleanza, nel quale siete stati santificati, e fare oltraggio allo Spirito della grazia. Se farai bene attenzione a queste cose e le ascolterai, avrai pace con te stesso, o uomo. Quindi il Signore, dopo aver mostrato loro le mani e il costato, disse di nuovo: “Pace a voi. Come il Padre ha mandato me” alla passione, nonostante l’amore che ha per me, così anch’io con lo stesso amore “mando voi” incontro a quelle sofferenze, alle quali il Padre ha mandato me.

 

III. il potere dato agli apostoli di legare e di sciogliere

 

9. “Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. Coloro ai quali rimetterete i peccati, saranno rimessi; coloro ai quali non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23). L’alitare di Cristo indicò che lo Spirito Santo non era solo Spirito del Padre ma anche suo. Dice Gregorio: “Lo Spirito viene mandato sulla terra perché sia amato il prossimo; viene mandato dal cielo perché sia amato Dio”. Disse: “Ricevete lo Spirito Santo: coloro ai quali rimetterete i peccati...”, cioè coloro che giudicherete degni di remissione, con le due chiavi del potere e del giudizio, vale a dire con l’applicazione del potere e del giudizio; s’intende: osservando le modalità e l’ordine nel potere di legare e di sciogliere.

Vediamo dunque in che modo il sacerdote rimetta i peccati e assolva il peccatore. Uno pecca mortalmente: subito si rende degno della geenna, legato con la catena della morte eterna. Ma poi si pente e, veramente contrito, promette di confessarsi. Subito il Signore lo libera dalla colpa e dalla morte eterna, che in forza della contrizione si tramuta nella pena del purgatorio. E la contrizione potrebbe essere così grande, come nella Maddalena e nel buon ladrone, che se quel peccatore morisse, volerebbe subito in cielo. Va dal sacerdote e si confessa; il sacerdote gli impone una penitenza temporanea, in virtù della quale anche la pena del purgatorio può essere espiata in questa vita: e se l’avrà compiuta a dovere, se ne volerà nella gloria. In questo modo Dio e il sacerdote perdonano e assolvono.

E con questo concorda ciò che leggiamo negli Atti degli Apostoli, dove Pietro dice [allo storpio]: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina. E presolo per la mano destra, lo sollevò: subito i suoi piedi e le sue caviglie si rinvigori­rono. E balzato in piedi, camminava. Ed entrò con loro nel tempio di Gerusalemme ” (At 3,6-8).

Il beato Bernardo, scrivendo al papa Eugenio, dice: “Medita sull’eredità che ti hanno lasciato i tuoi padri: gli scritti del testato­re non stabiliscono nulla di tutti questi beni. Ascolta la voce del tuo predecessore che dice: Non possiedo né argento né oro. È vero – dice la Glossa – che la prima tenda [dell’alleanza] aveva le prescrizioni dei terreni (l’ordina­mento delle colture), e che il santuario secolare (il tempio di Salomone) era rinomato per l’oro e l’argento. Ma il sangue del vangelo splende più prezioso dei metalli della legge, perché il popolo, che giaceva infermo davanti alle porte dorate, solo nel nome di Cristo crocifisso entra nel tempio celeste”. E Girolamo: “Se vuoi richiamare oro e argento nella chiesa, richiama anche il sangue versato, che agli antichi era lecito avere, perché venivano promesse loro queste cose. Ora invece il Cristo povero santificò la povertà nel suo corpo, e ai suoi promise non beni temporali, ma i beni celesti”.

“Nel nome di Gesù Cristo...”. Ecco il cammino verso la perfezione: primo, colui che giaceva si alza; secondo, intraprende la via della virtù, e così con gli apostoli entra per la porta del regno. Fa’ attenzione alle parole: “àlzati” per mezzo della contrizione; “cammina” per mezzo della confessione; e così “presolo per la mano destra lo sollevò”, cioè lo assolse e lo rimandò in pace.

Anche qui concordano le parole degli Atti degli Aposto­li, dove si legge che Pietro “trovò a Lidda un uomo di nome Enea, che giaceva nel letto da otto anni, ed era paraliti­co. E Pietro gli disse: Enea, Gesù Cristo ti guarisce! Àlzati e rifatti il letto. E subito si alzò” (At 9,33-34). Enea s’interpreta “povero” o “misero”, e raffigura il peccatore che si trova in peccato mortale, povero di virtù e in miseria perché schiavo del diavolo. Costui, come un paralitico, giace nel letto della concupiscenza carnale, devastato in tutte le sue membra: a lui il rappresentante di Pietro deve dire: “Enea”, povero e misero, “ti guarisca Gesù Cristo! Àlzati”, con la contrizione, e “rifatti il letto” con la confessione. “Tu, non un altro, rifatti il letto”. “E subito si alzò”, liberato da ogni legame di peccato.

Altra concordanza: “Pietro disse: Tabità, àlzati! Ed essa aprì gli occhi. Egli le diede la mano e la sollevò” (At 9,40-41). Tabità s’interpreta “gazzella” (cf. At 9,36), e l’ani­male è chiamato così perché fugge di mano (in lat. dammula, de manu), è pavido e pauroso, una specie di capra selvatica. Raffigura l’anima del peccatore, paurosa e pigra, che fugge dalla mano del Padre celeste. A lei viene detto: Àlzati con la contrizione; e allora apre gli occhi con la confessione, e si ferma, umiliandosi con la penitenza, e quindi si alza in piedi in virtù dell’assoluzione di tutti i suoi peccati.

Ci elargisca questa assoluzione il vero sacerdote e sommo pontefice Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

IV. l’incredulità di Tommaso

 

10. “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo (gemello), non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri disce­poli: Abbiamo visto il Signore. Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani la trafittura dei chiodi, e non metto le mie dita nel posto dei chiodi, e non metto le mie mani nel suo costato, non crederò” (Gv 20,24-25). Tommaso s’interpreta “abisso”, perché dubitando conseguì una conoscenza più profonda e così si sentì più sicuro. Dìdimo è termine greco che significa “doppio”, quindi dubbio, dubbioso (scettico). Non per un caso, ma per un disegno divino, Tommaso era assente e non volle credere a quello che sentiva racconta­re. O disegno divino! O santo dubbio del discepolo! “Se non vedrò nelle sue mani...” Desiderava vedere riedificata la tenda di Davide, che era crollata, e della quale il Signore, per bocca di Amos, dice: “In quel giorno io rialzerò la tenda di Davide che è crollata, e riedificherò le aperture delle sue mura” (Am 9,11).

In Davide, che s’interpreta “di mano forte”, dobbiamo vedere la divinità; nella tenda il corpo dello stesso Cristo nel quale, quasi in una tenda, abitò la divinità: tenda che crollò con la passione e con la morte. Per aperture delle mura s’intendono le ferite delle mani, dei piedi e del costato: il Signore le riedificò nella sua risurrezione. Di queste dice Tommaso: “Se non vedrò nelle sue mani le trafitture...” Il Signore misericordioso non volle abbandonare nel suo onesto dubbio quel discepolo, che sarebbe diventato un vaso di elezione: gli tolse misericordiosamente ogni caligine, ogni ombra di dubbio, come in seguito avrebbe tolto a Saulo la cecità dell’infedeltà.

Ed ecco appunto la concordanza negli Atti degli Apostoli. Dice Anania: “Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia ricolmo di Spirito Santo. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista. Si rialzò e fu battezzato. Preso del cibo si sentì rinfrancato” (At 9,17-19). Si avverò così la profezia di Isaia (Is 65,25): “Il lupo pascolerà insieme con l’agnello”, cioè Saulo con Anania, nome, que­st’ul­timo, che s’inter­preta appunto “agnello”. Il corpo del serpente si copre di squame. I Giudei sono serpenti e razza di vipere (Mt 23,33). Saulo, imitando la perfidia dei Giudei, aveva come ricoperto di pelle di serpente gli occhi del cuore, ma poi, cadute le squame sotto la mano di Anania, manifesta nel volto la luce che ha ricevuto nella mente. Così sotto la mano di Anania, cioè di Gesù Cristo, che fu condotto al sacrificio come un agnello (cf. Is 53,7), caddero le squame del dubbio dagli occhi di Tommaso e egli ricuperò la vista della fede.

 

V. professione di fede di Tommaso e conferma della nostra fede

 

11. “Otto giorno dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi!” (Gv 20,26). Non voglio qui spiegare di nuovo ciò che è già stato spiegato.

“Disse poi a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente. Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati quelli che, pur non avendo visto, hanno creduto” (Gv 20,27-29).

Dice il Signore per bocca di Isaia: “Io ti ho disegnato nelle mie mani” (Is 49,16). Osserva che per scrivere sono necessarie tre cose: carta, inchiostro e penna. Le mani di Cristo furono la carta, il suo sangue l’inchiostro e i chiodi la penna. Cristo dunque ci disegnò nelle sue mani per tre ragioni. Primo, per mostrare al Padre le cicatrici delle piaghe che aveva subìto per noi, e indurlo così alla misericordia. Secondo, per non dimenticarsi mai di noi, e perciò egli stesso dice per bocca di Isaia: “Può forse una donna dimen­ticare il suo bambino, e non aver più pietà del figlio del suo grembo? Ma anche se essa si dimenticherà, io non mi dimenticherò di te. Ecco, io ti ho disegnato nelle mie mani” (Is 49,15-16). Terzo, scrisse nelle sue mani come noi dobbiamo essere e che cosa dobbiamo credere. Non essere dunque incredulo, o Tommaso, o cristiano, ma credente!

“Esclamò Tommaso: Mio Signore e mio Dio!”, ecc.” Rispondendogli, il Signore non disse: Perché hai toccato, ma “perché hai veduto”, perché la vista è in qualche modo un senso generale, che di solito è di aiuto agli altri quattro. Dice la Glossa: Forse non osò toccare, ma guardò solamente, o forse anche guardò toccando. Vedeva e toccava un uomo, e al di là di questo, eliminato ogni dubbio, credette che era Dio, professando così ciò che non vedeva. “Tommaso, hai veduto me” uomo, “e hai creduto” me Dio.

 

12. “Beati coloro che pur senza aver visto, hanno credu­to”. Con queste parole loda la fede dei gentili (pagani); ma usa il tempo passato perché nella sua prescienza vedeva come già avvenuto ciò che sarebbe accaduto in futuro. Ne troviamo conferma negli Atti degli Apostoli, quando Filippo interrogò l’eunuco di Candàce, regina di Etiopia: “Credi con tutto il tuo cuore? Rispose: Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio. E lo battezzò” (At 8,37.38); così pure dove si parla del centurione Cornelio, che Pietro battezzò insieme con tutta la sua famiglia, nel nome di Gesù Cristo. Questi due, che credettero in Cristo, prefiguravano la chiesa dei gentili, che sarebbe stata rigenera­ta nel sacramento del battesimo e avrebbe creduto nel nome di Gesù Cristo. A costoro Pietro parla oggi con le parole dell’introito della messa, e dice: “Come bambini appena nati bramate il latte, ragionevoli, senza inganno” (1Pt 2,2).

Il bambino (in lat. infans) è così chiamato perché non sa parlare (lat. in fans, non parlante). I fedeli della chiesa, generati dall’acqua e dallo Spirito Santo, devono essere infanti, non parlanti (non fantes), che non parlano cioè la lingua dell’Egitto, della quale dice Isaia: “Il Signore rifiuterà la lingua del mare dell’Egitto” (Is 11,15). Nella lingua è indicata l’elo­quenza, nel mare la sapienza filosofica e nell’Egitto il mondo. Il Signore dunque rifiuta la lingua del mare dell’Egitto, quando per mezzo dei semplici e dei non eruditi dimostra che la sapienza del mondo è arida e insipida.

“Ragionevoli, senza inganno”. Ragionevole è ciò che si fa con la ragione. La ragione è lo sguardo dell’anima, con il quale il vero viene contemplato per se stesso e non attraverso il corpo; oppure è anche la stessa contemplazione del vero, non per mezzo del corpo; oppure è anche lo stesso vero che viene contemplato. Ragionevoli quindi nei riguardi di Dio e di noi stessi; senza inganno nei riguardi del prossimo.

“Bramate il latte”. Quel latte del quale parla Agostino: “Il pane degli angeli è diventato latte dei piccoli”. Il latte (lat. lac) è così chiamato dal suo colore: è infatti un liquido bianco. Bianco in greco si dice leukòs, in latino albus. La sua sostanza è prodotta dal sangue. Infatti dopo il parto, se una parte del sangue non è stata ancora consumata per il nutrimento avvenuto nell’utero, per vie naturali sale alle mammelle e, diventando bianco per opera di queste, assume la natura e la sostanza del latte. E da quel momento diventa cibo di ogni neonato, poiché la sostanza per la quale avviene la generazione è la stessa con la quale avviene la nutrizione: il latte infatti è come sangue bollito, digerito, non corrotto (Aristotele). Nel sangue, che al vederlo fa ribrezzo, è raffigurata l’ira di Dio; nel latte invece, che è di sapore gradevole e di piacevolissimo colore, è raffigurata la misericordia di Dio. Il sangue dell’ira fu tramutato nel latte della misericordia nella mammella, cioè nell’uma­nità di Gesù Cristo. Infatti dice il Profeta: “Cambiò i fulmini in pioggia” (Sal 134,7). I fulmini dell’ira divina furono tramutati in pioggia di misericordia, quando il Verbo si fece carne (cf. Gv 1,14).

 

13. Senso morale. L’eunuco etiope e il centurione Cornelio sono figura dei peccatori convertiti. Cornelio s’interpreta “che capisce la circoncisione”. Giustamente Cornelio e l’eunuco vengono accomunati: i penitenti infatti si rendono eunuchi per il regno dei cieli (cf. Mt 19,12), vale a dire circoncidono, eliminano da se stessi i desideri carnali e, credendo nel nome di Gesù Cristo, si lavano alla fonte viva della compunzione e si rinnovano con il battesimo della penitenza.

Fanno quindi come gli elefanti, dei quali dice Solino: Le femmine prima dei dieci anni ignorano il sesso, e i maschi prima dei quindici. Per un biennio hanno rapporti non di più di cinque giorni all’anno, e non ritornano tra i compagni del branco senza prima essersi lavati in acque sorgive. Così i penitenti e i giusti, se sono caduti in qualche peccato, si vergognano di rientrare nel numero dei fedeli se prima non si sono purificati nelle acque sorgive delle lacrime e della penitenza.

Preghiamo dunque, fratelli carissimi, e supplichiamo la misericordia di Gesù Cristo perché venga e si fermi in mezzo a noi, ci conceda la pace, ci liberi dai peccati, estirpi dal nostro cuore ogni dubbio e imprima nella nostra anima la fede nella sua passione e risurrezione, affinché con gli apostoli e con i fedeli della chiesa possiamo conseguire la vita eterna. Ce lo conceda colui che è benedetto, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: Amen. Alleluia