Scrutatio

Mercoledi, 8 maggio 2024 - Madonna del Rosario di Pompei ( Letture di oggi)

LA PASQUA DEL SIGNORE (1)

Sant'Antonio da Padova

LA PASQUA DEL SIGNORE (1)
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Temi del sermone

 

– Vangelo di Pasqua: “Maria Maddalena”; questo vangelo si divide in quattro parti.

– Anzitutto sermone al predicatore: come da tutte le specie di virtù debba confezionare un estratto (un tonico) per l’anima: “Lo speziale farà le miscele”.

– Parte I: Sermone sull’umiltà: “Maria Maddalena”.

– Sermone sul disprezzo del mondo e come si deve ricevere il corpo di Cristo: “Gettate via il lievito vecchio”.

– Sermone sulla pace: “Di tre cose si è compiaciuto il mio spirito”; natura delle api.

– Sermone ai religiosi: “Prendi gli aromi”.

– Sermone morale sulla tranquillità del cuore: “Di buon mattino”.

– Parte II: Sermone per coloro che vogliono entrare in un ordine religioso: “Chi ci rotolerà via il masso?”

– Parte III: Sermone ai contemplativi: “Ed entrando nel sepolcro”.

– Parte IV: Sermone sulle dieci apparizioni del Signore e sul loro significato: “Voi cercate Gesù”.

– Sermone sulla risurrezione finale e sulle quattro prerogative del corpo glorificato, che sono indicate nei quattro fiumi del paradiso terrestre: “La luce della luna sarà come la luce del sole”.

– Sermone al predicatore, o al prelato della chiesa: “Prendi la verga”.

– Sermone ai penitenti: “Undici teli di lana di capra”; e “Dio onnipotente mi apparve a Luz”.

– Sermone sulla misericordia verso i poveri: “Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco”.

 

esordio - sermone al predicatore

 

1. In quel tempo: “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comprarono gli aromi per andare ad imbalsamare Gesù”, ecc. (Mc 16,1).

Dice l’Ecclesiastico: “Lo speziale fa pigmenti soavi e prepara unguenti salutari” (Eccli 38,7). Sono detti pigmenti – si potrebbero chiamare piligmenti – perché vengono lavorati nella pila (mortaio) con il pilum (pestello). I pigmenti sono quelle spezie delle quali l’anima penitente dice: “Come mirra scelta ho emanato profumo soave: come storace, gàlbano, onice (unghia) e gutta (essenza gommosa)” (Eccli 24,20-21). Queste essenze, come dice la Glossa, sono per i medici pigmenti preziosi, e raffigurano le varie virtù che i veri medici, cioè i medici dello spirito, usano per curare gli uomini. Nella mirra è indicata la penitenza; ma non c’è vera penitenza se ad essa non sono mescolate queste quattro essenze: lo storace, il gàlbano, l’onice e la gutta.

Lo storace è un’essenza di profumo gradevolissimo; stilla da una pianta che lo emana come un liquido mielato; il gàlbano è una spezie (resina) che con il suo odore mette in fuga i serpenti; l’onice, nominato anche nell’Esodo (Es 35,27), è una pietra preziosa così chiamata con la parola greca onyx, in lat. ungula, unghia, perché assomiglia all’unghia dell’uomo; la gutta è un’essenza che cura ogni indurimento e attenua i gonfiori.

Ecco dunque che nello storace è indicata la compunzione delle lacrime, le quali mandano profumo al cospetto di Dio, e all’anima penitente sono più dolci del miele e del favo di miele (cf. Sal 18,11); nel gàlbano è indicata la confessione che mette in fuga i serpenti, cioè i demoni; nella gutta è indicata l’umiltà nel compiere l’opera di penitenza, che cura la durezza della mente e reprime l’impudenza del corpo. Ma poiché non è detto beato chi incomincia, ma chi persevera sino alla fine (cf. Mt 10,22; 24,13), a queste tre essenze si deve aggiungere l’onice, l’unghia, che è la parte estrema del corpo, e quindi raffigura la perseveranza finale. Lo speziale dunque, cioè il predicatore, deve pestare queste spezie nel mortaio, cioè nel cuore del peccatore, deve agire con il pestello della predicazione e mescolare il balsamo grezzo alla misericordia divina, perché abbia un gusto più gradito all’anima del penitente.

“E prepara unguenti salutari”. L’unzione (l’unguento) in grado di istruire l’uomo su tutte quelle cose che gli sono necessarie, è composta di due elementi: il vino e l’olio; il vino che fluì dalla vera vite, pressata nel torchio della croce; l’olio con il quale fu unta la chiesa primitiva nel giorno della Pentecoste: cioè il sangue di Cristo e la grazia dello Spirito Santo. Lo speziale deve fare gli unguenti con queste due sostanze per poter ungere, insieme alle tre donne, le membra di Cristo, cioè i fedeli della chiesa. Leggiamo infatti nel vangelo di oggi: “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi per ungere il corpo di Gesù”.

 

2. Osserva che in questo vangelo sono posti in evidenza quattro fatti. Primo, la devozione delle pie donne e la compera degli aromi, quando è detto: Maria Maddalena, ecc. comperarono gli aromi; secondo: la rimozione della pietra, quando aggiunge: E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà la pietra?; terzo: la visione degli angeli, dove dice: Entrate nel sepolcro, videro, ecc.; quarto: la risurrezione di Cristo: “Egli disse loro: Non spaventatevi!...”

 

I. la devozione delle pie donne e la compera degli aromi

 

3. “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi”. In queste tre donne sono indicate tre virtù della nostra anima, e cioè l’umiltà della mente, il disprezzo del mondo, la giocondità della pace.

Nella Maddalena, così chiamata dal villaggio di Magdala, che s’interpreta “torre”, è indicata l’umiltà della mente; in Maria di Giacomo, che s’interpreta “soppiantatrice”, madre di Giacomo il minore (cf. Mc 15,40), è indicato il disprezzo del mondo; in Salome, che vuol dire “pacifica”, madre di Giacomo e di Giovanni l’evangelista, è raffigurata la giocondità della pace. Queste tre donne vengono chiamate con un solo nome: Maria, che s’interpreta “illuminazione”, perché le tre virtù che rappresentano illuminano la mente nella quale dimorano. Diciamo qualcosa di ciascuna di esse.

Maria Maddalena è l’umiltà della mente, che mentre reputa se stessa un nulla, si protende verso l’alto come una torre. Perciò dice Giacomo: “Il fratello umile si rallegri nella sua esaltazione” (Gc 1,9), perché da dove viene l’umiliazione di lì viene anche l’esal­tazione. Di questa torre è detto nella Genesi che Giacobbe “piantò una tenda al di là della torre del gregge” (Gn 35,21). Nella torre è indicata l’umiltà, nel gregge la vera semplicità. Giacobbe, cioè il giusto, fissa la tenda della sua vita, tenda nella quale milita – giacché la vita del giusto sopra la terra è una milizia (cf. Gb 7,1) –, al di là della torre del gregge, perché si mantiene costantemente nell’umiltà, che è la madre della vera semplicità. E osserva che è detto “al di là della torre” e non nella torre, perché il giusto, finché vive quaggiù, ha di se stesso un concetto molto più modesto di quanto non sia in realtà.

Della Maddalena dice Giovanni: “Maria stava fuori del sepolcro piangendo. Mentre piangeva si chinò e guardò dentro al sepolcro. E vide due angeli biancovestiti che sedevano uno al capo e uno ai piedi del luogo dove il corpo di Gesù era stato posto” (Gv 20,11-12). Fa’ attenzio­ne alle singole parole. Il sepolcro, detto in latino monumentum, monumento, perché ammonisce la mente a ricordarsi del defunto, sta a significare il pensiero della nostra morte, il pensiero della nostra sepoltura: e questi pensieri ci esortano a dolerci nella nostra mente e a persistere nelle opere di penitenza.

“Maria stava al di fuori del sepolcro”, perché l’umile è assiduo nel pensiero della sua morte, affinché, quando essa verrà, lo trovi vigilante. E come stava al sepolcro? Fuori, piangendo. Fuori, non dentro. Fuori non c’è altro che “pianto e grande lamento”. Rachele” – nome che significa “pecora” –, cioè l’anima semplice del penitente, “piange i suoi figli”, cioè le sue opere che, a causa del peccato erano morte, “e non vuole essere consolata perché non sono più” (Mt 2,18) così vive come lo erano prima di essere uccise dal peccato. Ahimè, quanto facile è la discesa, e quanto difficile invece è la salita! Si distrugge in breve, ciò che si è costruito in lungo tempo! (Catone).

“Mentre continuava a piangere, si chinò e guardò nel sepolcro”. Ecco la vera umiltà del penitente. Fa’ attenzio­ne a queste tre parole: piangeva, si chinò, guardò. Piange­va, ecco la contrizione; si chinò, ecco la confessione; guardò, ecco la soddisfazione (l’opera penitenziale), alla quale si impegna seriamente, quando volge l’occhio al monumento, quando cioè pensa alla sua morte.

“E vide due angeli”. Questi due angeli – angelo significa “nunzio” – raffigurano in senso morale il nostro miserevole ingresso alla vita e la nostra amara dipartita. Noi, che siamo il corpo di Cristo, procuriamo di avere questi due angeli, uno alla testa e uno ai piedi della nostra vita, mentre meditiamo sulla nostra miserevole entrata e uscita da essa. Giustamente sono detti angeli, perché ci annunziano la caducità del nostro corpo e la vanità di questo mondo. Questi sono i due angeli che, come è detto nella Genesi, “fecero uscire Lot da Sodoma, e gli dissero: Salva la tua vita; non voltarti indietro e non fermarti in nessun posto all’intorno. Sàlvati sul monte, per non perire con tutti gli altri” (Gn 19,17). Chiunque meditasse attentamente sulla sua entrata e sulla sua uscita da questa vita, uscirebbe subito da Sodoma, cioè dal fetore del mondo e del peccato, e salverebbe la sua anima; non si volterebbe indietro, cioè non ritornerebbe ai peccati passati; e non si fermerebbe in nessun luogo all’intorno: si ferma all’intorno colui che dopo aver abbandonato il peccato, non si cura di fuggire anche le occasioni e le fantasie di peccato; ma si salverebbe sul monte, cioè in una vita perfetta. Ecco quindi che giustamente nella Maddalena è indicata l’umiltà.

 

4. Alla Maddalena è felicemente accompagnata Maria di Giacomo, il cui nome s’in­ter­preta “soppiantatrice”. Essa rappresenta il disprezzo del mondo, per cui uno calpesta sotto i piedi, come fango, tutte le cose transitorie e getta via il lievito della precedente [cattiva] condotta. L’Apostolo infatti nell’epistola di oggi dice: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete azzimi (puri). Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7).

Lievito, in latino fermentum, deriva da fervore, o bollore. Dopo la prima ora non è più possibile frenarlo, perché crescendo trabocca e oltrepassa ogni misura; in greco si chiama zyma (da cui àzimo, senza lievito, e quindi puro). Nella “sequenza” composta da Adamo di San Vittore, è detto: “Sia espurgato il vecchio fermento, affinché sia annunziata con cuore sincero la nuova risurrezione”. Il lievito, o fermento, raffigura la cupidigia delle cose terrene e la concupiscenza dei desideri carnali che, quando incominciano a ribollire, eccedono ogni misura: infatti l’avaro non è mai sazio di denaro, né il lussurioso è mai pago del piacere dei sensi.

Dice infatti Isaia: “Gli empi, cioè gli avari e i lussuriosi, sono come un mare agitato che non può placarsi e i cui flutti portano in superficie sudiciume e fango. Non c’è pace per gli empi, dice il Signore” (Is 57,20-21). I flutti del mare ribollente e tempestoso raffigurano i desideri dell’uomo perverso, che avviliscono la sua anima e la riducono miseramente a sudiciume e fango, in cui i porci, cioè i demoni, volentieri si insediano. Gettate via dunque il vecchio lievito! Per questo il Signore comanda: “Per sette giorni non si tro­verà lievito nelle vostre case; e chiunque mangerà qualcosa di lievitato, perirà la sua anima dalla terra d’Israele” (Es 12,19). Per sette giorni, cioè per tutto il tempo della nostra vita, che si evolve quasi nel giro di sette giorni, non si trovi nelle vostre case, cioè nei vostri cuori, nulla di fermentato, cioè ardente di mondana e carnale concupiscenza. Diversamente, l’anima di colui che ne avrà mangiato perirà dalla terra d’Israele, cioè dalla vita eterna, nella quale vedremo Dio faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12). “Gettate via dunque il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete puri”.

Leggiamo nell’Esodo: “Il popolo prese la farina impasta­ta, prima che fosse lievitata: avvoltala nei mantelli, la gente se la pose sulle spalle” (Es 12,34). E poco dopo: “Cossero la farina che avevano portata dall’Egitto già impastata e ne fecero dei pani azzimi, cotti sotto la cenere” (Es 12,39). In questa citazione ci sono tre cose da notare: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. La farina, detta così da farro (grano) che è il cibo degli infermi, raffigura la penitenza che è il cibo dei peccatori: dobbiamo impastarla con l’acqua della contrizione e chiuderla nei mantelli, cioè nella nostra coscienza, con il vincolo della confessione e portarla sulle nostre spalle con le opere penitenziali della soddisfazione. Questa farina, perché non fermenti, dobbiamo cuocerla con il fuoco, cioè con l’amore dello Spirito Santo, e farne come dei pani cotti sotto la cenere, viatico della nostra condizione mortale, pani azzimi della sincerità e della verità (cf. 1Cor 5,8), vivendo nella sincerità nei nostri riguardi, e nella verità nei riguardi di Dio e del prossimo.

 

5. “Cristo nostra Pasqua è stato immolato”. Secondo Agostino, pasqua deriva il suo nome non da “passione”, ma da “passaggio”, perché in quel giorno passò attraverso l’Egitto l’angelo sterminatore, figura del Signore che venne a liberare il suo popolo. Con lo stesso nome (pasqua) indicavano l’Agnello, che in questo giorno sarebbe passato da questo mondo al Padre. E osserva che è detto pasqua l’agnello e anche l’ora della sera nella quale l’agnello veniva ucciso, cioè la decimaquarta luna del mese; e si dice anche “giorni degli azzimi”, che andavano dalla decimaquinta luna al giorno ventunesimo dello stesso mese. Ma gli evangelisti scrivono indifferentemente giorni degli azzimi per pasqua, e pasqua per giorni degli azzimi. Infatti Luca scrive: “Si avvicinava il giorno di festa degli azzimi, che è chiamato pasqua” (Lc 22,1). “Cristo, nostra Pasqua, dunque, è immolato”. Mangiamo perciò, in questa solennità pasquale, questo Agnello “bruciato” per noi sulla croce, immolato al Padre per la riconciliazione del genere umano; mangiamolo con le erbe selvatiche, come fu ordinato ai figli d’Israele, vale a dire con il dolore e la contrizione del cuore.

Disse il Signore: “Vi cingerete i fianchi, calzerete i sandali ai piedi, terrete in mano il bastone e mangerete l’agnello in fretta: è infatti la pasqua, cioè il passaggio del Signore” (Es 12,11). Fa’ attenzione a queste tre parole: i fianchi, i sandali, il bastone.

I fianchi, in lat. renes; i reni sono così chiamati perché da essi nascono quasi dei ruscelli (lat. rivi) di liquido ripugnante. Infatti le vene e le viscere secernono nei reni un umore leggero che, liberato poi dai reni stessi, scende eccitando i sensi. La secrezione dei reni è calda, e i reni sono circondati da molto grasso: quindi giustamente dice il Signore: Cingerete i vostri reni ( le reni, i fianchi), reprimerete cioè con la mortificazione della carne l’ardore della lussuria.

I sandali raffigurano gli esempi dei santi, con i quali dobbiamo proteggere i piedi, cioè gli affetti della mente, per essere in grado di camminare in tutta sicurezza sui serpenti, cioè le suggestioni del diavolo, e sugli scorpio­ni, vale a dire sulle false promesse del mondo.

Il bastone nelle mani rappresenta le parole della predicazione, tradotte nella pratica delle opere.

Quindi, chi vuole ricevere degnamente il corpo del Signore, si cinga i fianchi con la cintura della castità, fortifichi gli affetti della mente con gli esempi dei santi, e traduca le parole in opere: così con i veri Israeliti celebri la vera pasqua, per passare da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1). Di questo passaggio disse un filosofo: Il mondo è come un ponte: pàssaci sopra senza fermarti. E un altro: Il mondo è un ponte malsicuro, il suo ingresso è il grembo della madre, e la sua uscita sarà la morte. Ottima cosa è dunque edificare la torre dell’umiltà con Maria Maddalena, e soppiantare, cioè disprezzare il mondo, insieme con Maria di Giacomo.

 

6. A queste due Marie si aggiunge la terza, cioè Salome, che è “l’abbondanza della pace”. Di essa dice Salomone: “Di tre cose mi sono compiaciuto nel mio spirito, tre cose gradite a Dio e agli uomini: la concordia dei fratelli, l’amore tra i vicini, e marito e moglie che vanno d’accordo tra loro” (Eccli 25,1-2). Da questa triplice pace nasce il gaudio di Dio e dei suoi angeli, e la gioia per gli uomini. “Ecco – dice il profeta – quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 132,1).

“Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi per andare ad imbalsamare il corpo di Gesù”. Scrive Luca: “Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, guardarono attentamente il sepolcro e come era stato deposto il suo corpo. Ritornarono indietro e prepararono gli aromi e gli unguenti; e il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il precetto” (Lc 23,55-56).

La Glossa, commentando Matteo (Mt 28,1), dice: Era comandato che il silenzio del sabato fosse osservato da vespro a vespro; quindi le pie donne, sepolto il Signore, mentre era ancora permesso il lavoro – e cioè il giorno della parasceve (venerdì) fino al tramonto del sole – si occuparono nella preparazione dei vari unguenti. E poiché, per il poco tempo a disposizione, non riuscirono a completare i preparativi, passato il sabato, cioè al tramonto del sole, quando di nuovo era permesso il lavoro, subito si affretta­rono a comperare gli aromi, per essere pronte al mattino seguente per andare a imbalsamare il corpo di Gesù. Queste pie donne si affrettavano: si affaticavano a preparare unguenti come si affaticano le api nel produrre il miele e la cera.

Dice la Storia Naturale che le varie attività delle api sono ben distinte tra loro, giacché alcune producono la cera e altre il miele; alcune portano acqua, altre radunano il miele e altre ancora lo pressano; alcune escono per il lavoro allo spuntar del giorno e altre riposano finché una le sveglia. Quindi tutte insieme volano fuori a lavorare. In quest’ape che sveglia le altre che stanno dormendo, io vedo raffigurata la beata Maddalena, la quale, poiché ardeva di grande amore, sollecitava vivamente le altre a preparare gli unguenti. Invece la Vergine Maria, dopo che il figlio suo Gesù fu deposto nel sepolcro, mai se ne allontanò, come affermano alcuni, ma restò sempre lì a vegliare in lacrime, finché per prima lo vide risorgere: per questo i fedeli festeggiano in suo onore il giorno di sabato.

 

7. Sul loro esempio, le anime fedeli, illuminate dallo splendore dell’umiltà, della povertà e della pace, comprino, con il denaro della buona volontà, segnato con l’immagine dell’imperatore (cf. Mt 22,19-21), quegli aromi dei quali dice Mosè: “Procùrati aromi: mirra scelta e vergine, cinnamomo, canna odorosa, cassia e olio d’oliva: ne farai l’un­guento per l’unzione sacra, confezionato con l’arte del profumiere. Ungerai con esso la tenda della testimonianza e l’arca dell’alleanza, la mensa con i suoi vasi, il candelabro con i suoi accessori, l’altare dell’incenso e l’altare dell’olocausto” (Es 30,23-28). Nella mirra vergine e scelta è indicata la devozione della mente, alla quale dobbiamo tendere più che a tutto il resto; nel cinnamomo, che è color cenere, è indicato il pensiero della morte; nella canna odorosa la melodia della confessione; nella cassia, che ha il suo habitat in luoghi umidi e cresce molto alta, è indicata la fede, che si nutre nelle acque del battesimo e si spinge verso l’alto per mezzo dell’amore; nell’olio d’oliva è indicata la misericordia del cuore. Con questi cinque elementi dobbiamo preparare l’unguento sacro che ci santifica, confezionato con l’arte del profumiere, cioè dello Spirito Santo.

Con questo unguento devono essere unte queste cinque cose: la tenda della testimonianza, cioè i poveri di Cristo, i quali, segnati con il carattere della sua povertà, finché sono in questo mondo, sono come in esilio, lontani dal Signore; l’arca dell’alleanza, cioè coloro che portano l’arca dell’obbedienza sul carro nuovo, vale a dire in un cuore e in un corpo rinnovati con la penitenza; la mensa con i suoi vasi, cioè coloro che porgono a tutti i dodici pani, che è la dottrina dei dodici apostoli, con un pugno d’incenso, che è l’umiltà e la devozione della mente, e la patena d’oro, vale a dire la luce dell’amore fraterno; il candelabro e i suoi accessori, cioè tutti i santi prelati della chiesa, che non nascondono il candelabro della loro dignità sotto il moggio, cioè sotto il guadagno materiale, ma lo mettono sopra il monte di una vita veramente santa, affinché illumini e mostri la strada a tutti coloro che sono nella casa (cf. Mt 5,15), cioè nella chiesa; e questo valga non solo per il candelabro ma anche per i suoi accessori, vale a dire per tutti gli altri che hanno dignità minori; e finalmente i due altari dell’olocausto e dell’incenso. Nell’altare dell’olocausto sono indicati gli attivi, coloro che si dedicano totalmente alle necessità del prossimo; mentre nell’altare dell’incenso sono indicati i contemplativi, che sperimentano la soavità delle dolcezze celesti.

Quindi con questo unguento, confezionato per opera dello Spirito Santo, devono essere unti tutti coloro che abbiamo nominato, che sono le membra di Gesù Cristo, crocifisse sulla croce della penitenza, morte al mondo, lontane dall’agitazione degli uomini perché rinchiuse nel sepolcro della frequentazione delle cose celesti.

 

8. “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi, per andare ad imbalsamare il corpo di Gesù. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, andarono al sepolcro, appena sorto il sole” (Mc 16,1-2).

Matteo scrive così: “La sera del sabato, in cui ha inizio il primo giorno dopo il sabato, Maria Maddalena e l’altra Maria andarono a vedere il sepolcro” (Mt 28,1). E Luca: “Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparato” (Lc 24,1). E Giovanni: “Il primo giorno dopo il sabato, Maria Maddalena si recò al sepolcro al mattino, quando ancora era buio” (Gv 20,1).

Dunque Marco dice: “di buon mattino”, e in questo non si discosta da Luca e da Giovanni. Matteo invece, parlando della prima parte della notte, cioè della sera, vuole indicare la notte, alla fine della quale [vale a dire al mattino] si recarono al sepolcro. Devi quindi intendere le sue parole in questo modo: Andarono al sepolcro alla sera, cioè nella notte che incomincia quando finisce la luce, poiché il crepuscolo non è la prima ma l’ultima parte della notte. Quindi la sera del sabato, cioè all’inizio della notte dopo il sabato; certamente incominciarono ad avviarsi alla sera, a preparare gli aromi, ma arrivarono ai primi albori del giorno: ciò che Matteo, per motivi di brevità, dice in modo poco chiaro, gli altri invece lo dicono esplicitamente.

Ed ecco il senso morale. “Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato”. Al mattino, cioè agli inizi della grazia, senza la quale nell’anima c’è la notte. Dice il profeta: “Al mattino starò davanti a te” (Sal 5,5), ritto ed eretto, come ritto ed eretto tu mi hai fatto. Il primo giorno dopo il sabato le anime sante vanno al sepolcro, perché se l’animo non desiste dal preoccuparsi delle cose temporali, non si avvicina a Dio. Dice il Signore per bocca di Geremia: “Custodite le vostre anime, e non vogliate portare pesi il giorno di sabato, e non introduceteli per le porte di Gerusalemme” (Ger 17,21). Sabato s’interpreta “riposo”; Gerusalemme è l’anima e le porte sono i cinque sensi del corpo. Quindi portano pesi nel giorno di sabato e li introducono per le porte di Gerusalemme coloro che, implicati negli affanni delle cose temporali, attraverso le porte dei cinque sensi introducono nell’anima il peso dei peccati, il bagaglio delle preoccupazioni di questo mondo, e quindi non custodi­scono l’anima dal peccato. Invece le anime fedeli, evitato ogni ronzio delle mosche dell’Egitto (cf. Is 7,18), “il primo giorno dopo il sabato si recano al sepolcro”.

 

II. rimozione della pietra dalla porta del sepolcro

 

9. “E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà via la pietra dalla porta del sepolcro? E guardando, videro la pietra già rimossa: era una pietra molto grande!” (Mc 16,3-4).

Senso allegorico. La rimozione della pietra ci ricorda la rivelazione dei sacri misteri di Cristo, che erano coperti dal velo della lettera della legge. La legge infatti era scritta nella pietra e, rimossa la sua copertura, fu manifestata la gloria della risurrezione, e incominciò ad essere proclamata in tutto il mondo l’abolizione della morte antica e la vita senza fine, nella quale ci era dato di sperare.

Senso morale. La pietra viene rimossa quando per mezzo della grazia viene tolto il peso del peccato. Quando questo avvenga, e come debba comportarsi l’uomo perché questo si realizzi in lui, è detto nella Genesi: Era uso che, quando tutte le pecore erano radunate, fosse rimossa la pietra dalla bocca del pozzo (cf. Gn 29,3). Quindi se vuoi che venga rimossa la pietra del peccato, che ti impedisce di rialzarti, raduna attorno a Cristo le pecore, vale a dire i buoni pensieri. E continua la Genesi: “Ed ecco arrivò Rachele con le pecore di suo padre, giacché essa pascolava il gregge” (Gn 29,9). Rachele, che s’inter­preta “pecora”, pasce le pecore, perché l’uomo semplice si ferma su pensieri onesti.

Così pure, in senso morale, va al sepolcro colui che si propone di fare penitenza in qualche monastero o in un ordine religioso. Ma, considerando la grandezza e il peso della pietra, vale a dire le difficoltà della vita religiosa, dice tra sé: Chi mi rimuoverà la pietra dalla porta del sepolcro? Grande e pesante è la pietra, difficile è l’ingresso, difficili le lunghe veglie, i frequenti digiuni, la scarsità del cibo, la ruvidezza della veste, la severa disciplina, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta: e chi mi rimuoverà questa pietra dalla porta del sepolcro?

O menti femminee, avvicinatevi e guardate, non siate diffidenti e vedrete che la pietra è già rimossa. “Un angelo – dice Matteo – discese dal cielo e rimosse la pietra: e ora stava seduto su di essa” (Mt 28,2). L’angelo è la grazia dello Spirito Santo che rimuove la pietra dalla porta del sepolcro, sostiene la nostra fragilità, mitiga ogni asprezza e addolcisce con il balsamo del suo amore ogni amarezza. Il cavallo – cioè la buona volontà –, viene preparato per la battaglia, ma è il Signore che dà la salvezza (cf. Pro 21,31). “Nulla è difficile per chi ama” (Bernardo).

 

III. la visione dell’angelo

 

10. “Entrate nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra, vestito di una stola candida, e furono molto stupi­te” (Mc 16,5).

Senso morale. Il sepolcro raffigura la vita contemplativa nella quale l’uomo, morto al mondo, si seppellisce nel nascondimento. Dice Giobbe: “Entrerai nel sepolcro nel­l’ab­­bon­­danza, come si raccoglie il mucchio di grano a suo tempo” (Gb 5,26). Il giusto, soffiata via la pula delle cose temporali, uscendo dal mondo, nell’abbondanza della grazia divina entra nel sepolcro della vita contemplativa, nella quale viene messo in serbo come un cumulo di grano, giacché la sua anima si raccoglie con celeste dolcezza nella contem­plazione. Egli, entrando nel sepolcro, vede un giovane seduto dalla parte destra, coperto di una veste candida. Il “giovane”, così chiamato perché pronto a “giovare” (aiutare), è il Figlio di Dio, che come un giovane ci aiuta ed è sempre pronto ad aiutare. Giustamente è detto: “Sedeva dalla parte destra”. Si dice destra, come per dire “dando fuori” (lat. dextera, dans extra). Egli ci aiutò in modo meraviglioso quando diede a noi la divinità e assunse la nostra umanità, affinché noi, che eravamo fuori, fossimo dentro; perché noi entrassimo, egli uscì e si coprì della veste candida, cioè della carne umana, ma senza alcuna macchia. Dice il beato Bernardo: “Dopo tutti i benefici, volle essere trafitto alla parte destra, per mostrarci che solo dalla destra volle prepararci un posto a destra”.

Il giusto che esce dal mondo ed entra nel sepolcro, deve vedere, deve contemplare questo “giovane”, nel modo indicato dal beato Bernardo: “Come l’animale che viene iniziato al lavoro, così il giovane apprendista di Cristo deve essere istruito sul modo di avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui. Dev’essere esortato a rivolgersi, con la massima purezza di cuore possibile, a colui al quale presenta l’offerta della sua preghiera. Quanto più vede e comprende colui al quale fa la sua offerta, tanto più arderà di amore per lui, e la comprensione stessa si trasformerà in amore; e quanto più sarà di lui innamorato, tanto più capirà se ciò che gli offre è veramente degno di Dio e se in lui ne avrà giovamento. Tuttavia a colui che prega o medita in questo modo, sarà meglio e più sicuro proporre l’immagine dell’umanità del Signore, della sua natività, della sua passione e risurre­zione, affinché lo spirito debole, che non sa pensare se non alla materia e a cose materiali, trovi qualcosa su cui fissarsi con sguardo di pietà e a cui attaccarsi, secondo le sue disposizioni. Ciò che si legge in Giobbe, che l’uomo, se si ferma a considerare la sua natura, non peccherà (cf. Gb 5,24), è detto certamente in riferimento al Mediatore Cristo, e significa: quando l’uomo rivolge a lui lo sguardo della sua intelligenza, considerando in Dio la natura umana, non si allontani mai dalla verità, e mentre per mezzo della fede non separa Dio dall’uomo, impara alla fine a riconoscere nell’uomo il suo Dio. Con tutto ciò, nell’animo dei poveri nello spirito e dei figli di Dio più semplici, il sentimento è, di solito, tanto più soave, quanto più si avvicina alla natura umana. In un secondo momento però, quando la fede si trasforma in affetto, accogliendo nel centro del loro cuore, con il dolce abbraccio dell’amore, Cristo Gesù, uomo perfetto assunto per l’uomo, e vero Dio in quanto Dio che assume, incominciano a conoscerlo non più secondo la carne, per quanto non possano ancora pensarlo pienamente Dio secondo Dio, e benedicendolo nel loro cuore, amano offrirgli i loro voti” (Guigo Certosino, Epistole) e i loro aromi, insieme con le sante donne, delle quali appunto è detto: “Entrando nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra”, ecc.

 

IV. la risurrezione di Gesù Cristo

 

11. “Il giovane disse loro: Non abbiate timore! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’hanno deposto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che vi precederà in Galilea; ivi lo vedrete, come egli vi ha detto” (Mc 16,6-7). “È scomparsa l’amara radice della croce, è sbocciato il fiore della vita con i suoi frutti”. “Chi giaceva nella morte, è risorto nella gloria”. “Al mattino è risorto, chi alla sera era stato sepolto”, affinché si adempisse la parola del salmo: “Alla sera perdura il pianto, ma al mattino ecco la gioia!” (Sal 29,6).

Gesù quindi fu sepolto il sesto giorno della settimana, che si chiama parasceve; verso il tramonto, prima che incominciasse il sabato; la notte seguente, il giorno di sabato con la notte seguente restò deposto nel sepolcro; il terzo giorno, cioè il mattino del primo giorno dopo il sabato, risuscitò. Restò nel sepolcro esattamente un giorno e due notti, perché unì la luce della sua unica morte alle tenebre della nostra duplice morte. Noi infatti eravamo schiavi della morte dell’anima [vita naturale] e dello spirito [vita spirituale]. Egli subì per noi un’unica morte, quella della carne, e così ci liberò dalla nostra duplice morte. Unì la sua unica morte alla nostra duplice morte, e morendo le distrusse entrambe.

Leggiamo nel vangelo che il Signore, dopo la risurrezio­ne, apparve ai suoi discepoli ben dieci volte, di cui le prime cinque il giorno stesso della risurrezione. La prima volta apparve a Maria Maddalena, la seconda alle donne che tornavano dal sepolcro, la terza a Pietro, secondo quanto afferma Luca: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34); la quarta volta è apparso ai due discepoli diretti a Emmaus; la quinta ai dieci apostoli nel cenacolo a porte chiuse, in assenza di Tommaso. La sesta volta riapparve ai discepoli, otto giorni dopo, presente anche Tommaso; la settima volta apparve a sette discepoli che stavano pescando; l’ottava fu sul monte Tabor, dove il Signore aveva stabilito che tutti si riunissero ad attenderlo: e così prima della sua ascensione apparve otto volte; e nel giorno dell’ascensione apparve altre due volte, e cioè mentre gli undici stavano mangiando nel cenacolo, per cui dice Luca: “Mentre mangiava insieme ad essi, comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme” (At 1,4). Poi si mostrò di nuovo dopo la refezione: gli undici apostoli e altri discepoli, la Vergine Maria con altre donne si recarono al monte degli Ulivi, dove apparve loro il Signore e “mentre essi stavano guardando, egli si sollevò verso l’alto, e una nube lo nascose ai loro occhi” (At 1,9). Vediamo quale sia il significato morale di queste dieci apparizioni.

 

12. 1. Apparve a Maria Maddalena. Infatti all’anima peni­tente appare la grazia di Dio, prima che agli altri. È detto nell’Esodo: “Apparve nel deserto la manna, una cosa minuta, come pestata nel mortaio, simile alla brina che si posa sulla terra” (Es 16,14). Nel deserto, cioè in colui che fa penitenza, appare la manna della grazia divina, frantumata nella contrizione, pestata nel mortaio della confessione, simile alla brina nell’opera penitenziale della soddisfazione.

2. Apparve alle donne che tornavano dalla visita al sepolcro. Il Signore infatti appare a coloro che ritornano dal sepolcro, cioè escono dalla loro miseranda morte spirituale e considerano il lacrimevole ingresso della loro nascita. Leggiamo nella Genesi: “Il Signore apparve ad Abramo nella valle di Mamre, mentre era seduto all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno” (Gn 18,1). Abramo è il giusto, la valle è la duplice umiltà; Mamre s’interpreta “splendore”; la tenda raffigura il corpo, l’ingresso della tenda l’ingresso e l’uscita dalla vita; l’ora più calda del giorno raffigura il pentimento dell’anima. Il Signore appare quindi al giusto che si mantiene nella duplice umiltà del cuore e del corpo, la quale conduce allo splendore della gloria celeste; al giusto che sta seduto all’ingresso della sua tenda, che medita cioè sulla nascita del suo corpo e sulla sua morte: e deve meditare tutto questo nel fervore del pentimento.

3. Apparve a Pietro. Scrive Geremia: “Il Signore mi apparve [e mi disse]: Io ti ho amato di amore eterno; perciò ti ho attirato a me con misericordia; di nuovo ti edificherò” (Ger 31,3-4). Dice Pietro: Il Signore risorto da morte è apparso a me, a me penitente, a me amaramente piangente! E risponde il Signore: “Ti ho amato di amore eterno”. Infatti “il Signore, voltatosi, guardò Pietro” (Lc 22,61). Lo guardò perché lo amava; quindi con la fune dell’amore “ti ho attirato a me con misericordia”. Dice Agostino: Non vuole vendicarsi dei peccatori, colui che brama concedere il perdono a coloro che si pentono. “E di nuovo ti edificherò”, ti riporterò alla dignità dell’aposto­lato: “Andate, e dite ai suoi discepoli e a Pietro”. Commenta Gregorio: “Pietro viene chiamato per nome, perché non si disperi per la sua triplice negazione. Se l’angelo infatti non lo avesse indicato per nome, lui che era giunto a rinnegare il Maestro, non avrebbe più osato ritornare tra i discepoli”.

4. Apparve ai due discepoli diretti a Emmaus. Emmaus s’interpreta “desiderio di consiglio”, del consiglio dato dal Signore che disse: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri” (Mt 19,21). I due discepoli rappresentano i due comandamenti della carità: l’amore di Dio e del prossimo. A colui che ha la carità e che desidera essere povero come Cristo, appare il Signore. Si legge nella Genesi che Isacco salì a Bersabea, dove gli apparve il Signore (cf. Gn 26,23-24). Bersabea s’interpreta “pozzo che sazia” e sono in esso raffigurate la carità e la povertà che saziano l’anima: chi ha queste due virtù “non avrà sete in eterno” (Gv 4,13).

5. Apparve ai dieci discepoli, radunati insieme [nel cenacolo] a porte chiuse. Quando i discepoli, cioè i senti­menti della ragione, sono radunati insieme per uno scopo, e le porte dei cinque sensi sono chiuse alle vanità, allora di certo appare alla mente la grazia dello Spirito Santo. Si legge in Luca: A Zaccaria “entrato nel tempio del Signore, apparve l’angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso” (Lc 1,9.11). Quando Zaccaria, che si in­ter­preta “memoria del Signore” – vale a dire uomo giusto, perché ha riposto il Signore nel tesoro della sua memoria –, quando Zaccaria entra nel tempio del Signore, cioè nella sua coscienza nella quale il Signore dimora, allora l’angelo del Signore, cioè la grazia dello Spirito Santo, gli appare, lo illumina, stando alla destra dell’altare dell’in­censo. L’altare dell’incenso rappresenta la compunzione della mente; la destra è la retta intenzione. Quindi la grazia del Signore sta alla destra dell’altare dell’incenso, perché approva quella compunzione, loda e gradisce quell’incenso che il giusto fa salire dalla retta intenzione della mente.

 

13. 6. Otto giorni dopo la risurrezione, apparve ai disce­poli mentre c’era con loro anche Tommaso, dal cui cuore estirpò ogni dubbio. Quando infatti saremo nel giorno ottavo della risurrezione finale, il Signore eliminerà da noi ogni ruga di dubbio e ogni macchia di mortalità e di infermità. Dice Isaia: “La luce della luna sarà come la luce del sole, e la luce del sole sarà sette volte più intensa, come la luce di sette giorni, nel giorno in cui il Signore curerà la ferita del suo popolo e risanerà il livido della sua piaga” (Is 30,26). Fa’ attenzione a queste due parole: ferita e piaga. La ferita si riferisce all’anima, la piaga al corpo. Nella ferita è raffigurato il pensiero impuro dell’anima, nella piaga la morte del corpo. Ma nel giorno della risurrezione finale, quando il sole e la luna – come dice Isidoro nel Libro delle creature – riceveranno la ricompensa della loro fatica, perché il sole sfolgorerà e arderà immobile ad oriente sette volte più di adesso, in modo da straziare coloro che sono nell’inferno, e la luna, ferma ad occiden­te, avrà lo splendore che ha oggi il sole, allora, veramen­te, il Signore curerà la ferita della nostra anima, perché, come dice il Profeta, nessuna bestia, cioè nessun cattivo pensiero, passerà per Gerusalemme (cf. Is 35,9). Anzi, come dice Giovanni nell’Apocalisse, “la città” – vale a dire la nostra anima –, “sarà come oro purissimo simile a terso cristallo” (Ap 21,18). Che cosa c’è di più brillante dell’oro, di più luminoso del cristallo? E io vi domando: nella risurrezione finale che cosa ci sarà di più brillante e di più luminoso dell’anima dell’uo­mo glorificato? Allora il Signore risanerà il livido della nostra piaga – dalla quale siamo stati colpiti per la disobbedienza dei nostri proge­nitori –, e questo corpo mortale indosserà l’immortalità e questo corpo corruttibile sarà rivestito di incorruttibi­lità (cf. 1Cor 15,53-54).

Nella risurrezione finale il “giardino del Signore”, cioè il nostro corpo glorificato, sarà irrigato da quattro fiumi, il Pison, il Ghicon, il Tigri e l’Eufrate; sarà cioè dotato di quattro prerogative: la luminosità, la sottigliezza, l’agilità e l’immortalità. Pison s’in­terpreta “cambiamento di aspetto”, Ghicon “petto”, Tigri “freccia”, Eufrate “fertile (cf. Gn 2,10-14). Nel Pison è indicato lo splendore della risurrezione: dalla nostra grande bruttura e oscurità saremo trasformati come in un sole. È detto infatti: “I giusti risplenderanno come il sole...” (Mt 13,43). Nel Ghicon è indicata la sottigliezza; infatti, come il petto dell’uomo non si squarcia, non viene leso, non si apre né ha alcuna sofferenza quando escono dal cuore i pensieri (cf. Mt 15,19), così il corpo glorificato sarà dotato di sì grande sottigliezza che nessuna cosa sarà per esso impenetrabile; e tuttavia sarà inviolabile, inscindibile, compatto e solido, come lo fu il corpo glorificato di Cristo, che entrò dagli apostoli [nel cenacolo] a porte chiuse (cf. Gv 20,26). Nel Tigri è indicata l’agilità, che è efficacemente raffigurata dalla velocità della freccia. Nell’Eufrate è indicata l’im­mor­talità, nella quale saremo inebriati dall’abbon­danza della casa di Dio (cf. Sal 35,9): piantati in essa come l’albero della vita nel centro del paradiso terrestre, daremo frutto. Saranno i frutti dell’eterna sazietà, per cui non sentiremo più fame in eterno.

 

14. 7. Apparve quindi ai sette discepoli che stavano pescando. La pésca raffigura la predicazione, e a coloro che vi si dedicano certamente appare il Signore. Sta scritto infatti nel libro dei Numeri che “apparve la gloria del Signore su Mosè ed Aronne. E il Signore parlò a Mosè dicendo: Prendi il bastone e raduna il popolo, tu e Aronne tuo fratello, e parlate alla roccia davanti a loro, e la roccia lascerà scaturire le acque. E quando avrai fatto uscire l’acqua dalla roccia, berrà tutta la moltitudine e il suo bestiame” (Nm 20,6-8). In questo passo Mosè raffigura il predicatore. Aronne s’interpreta “forte monte”, nel quale sono indicate due cose: la santità della vita e la costanza della fortezza. Senza questo fratello Mosè non deve mai muoversi. Il Signore gli disse: Prendi il bastone della predicazione e raduna il popolo, tu e Aronne tuo fratello, senza del quale il popolo non viene mai radunato con profitto, perché quando si disprezza la condotta di una persona, si disprezza anche la sua predicazione; e parlate alla roccia, cioè al cuore indurito del peccatore, e quella roccia farà scaturire le acque della compunzione. E giustamente è detto “parlate”, e non “parla”. Infatti se parla soltanto la bocca, e la vita è muta, non potrà mai far uscire acqua dalla roccia. Il Signore maledisse il fico nel quale non trovò frutti ma solo foglie (cf. Mt 21,19; Mc 11,13-14): di foglie furono rivestiti i progenitori scacciati dal paradiso terrestre (cf. Gn 3,7). Parlino dunque Mosè ed Aronne, e scaturirà l’acqua, e berranno la moltitudine del popolo e tutto il bestiame: sia i chierici che i laici, sia gli spirituali che i viziosi si sazieranno dell’ac­qua della compunzione. Questa è la molti­tudine della quale Giovanni dice: “Gettarono la rete e non riuscivano più a tirarla a riva per la grande quantità [moltitudine] di pesce catturato” (Gv 21,6).

 

15. 8. Apparve poi agli undici su un monte della Galilea (cf. Mt 28,16-17). Galilea s’interpreta “trasmigrazione”, e indica la penitenza, con la quale si effettua una trasmi­grazione, quando l’uomo dalla riva del peccato mortale, attraverso il ponte della confessione, passa alla riva dell’opera penitenziale della soddisfazione. Quindi il Signore appare su un monte della Galilea, cioè nella perfetta penitenza; appare agli undici discepoli, cioè ai penitenti che giustamente sono in numero di undici, perché undici furono i teli di lana di capra con i quali fu coperto il tetto della tenda della testimonianza, come è scritto nell’Esodo (cf. Es 26,7). Nei teli di lana di capra sono indicate due cose: il rigore della penitenza e il fetore del peccato, del quale i penitenti confessano di essere stati schiavi. Con questi teli è coperto il tetto della tenda, cioè della chiesa militante: essi trattengono l’ardore del sole, portano il peso della giornata e del caldo (cf. Mt 20,12); proteggono le cortine intessute di lino, di seta, di porpora e di scarlatto tinto due volte; queste cortine raffigurano i fedeli della chiesa, ornati del lino della castità, della seta della contemplazione, della porpora della passione del Signore, dello scarlatto tinto due volte, vale a dire decorato con il duplice comandamento della carità. E gli undici teli li proteggono dall’inondazione delle piogge, cioè dalla protervia degli eretici; dal turbine, che è la suggestione diabolica; dalla sporcizia della polvere, vale a dire dalla vanità del mondo. Ecco dunque come il Signore apparve agli undici discepoli.

Giacobbe parla così nella Genesi: “Dio onnipotente mi apparve in Luz, che si trova nella terra di Canaan” (Gn 48,3). Luz s’interpreta “mandorlo”, e indica la penitenza, nella quale, come nella mandorla, ci sono tre elementi: la corteccia amara, il guscio solido, il seme dolce. Nella corteccia amara è indicata l’amarezza della peniten­za, nel guscio solido la costanza della perseveranza e nel seme dolce la speranza del perdono.

Apparve dunque il Signore a Luz, che si trova nella terra di Canaan e s’interpreta “mutamento”. La vera penitenza infatti è quella per la quale l’uomo passa da sinistra a destra, e con gli undici discepoli trasmigra nel monte della Galilea, dove appare il Signore.

9. Apparve ancora il Signore agli undici mentre stavano a tavola – come racconta Marco (cf. Mc 16,14) –, il giorno stesso della sua ascensione al cielo, quando, mentre mangiava con loro, precisa Luca, ordinò che non si allontanassero da Gerusalemme (cf. At 1,4). Il Signore dunque appare a quelli che, nel cenacolo della loro mente, si liberano delle preoccupazioni di questo mondo, si nutrono del pane delle lacrime nel ricordo dei loro peccati e dell’esperien­za della dolcezza celeste. Dice la Genesi: “Il Signore apparve ad Isacco e gli disse: Non discendere in Egitto, ma fermati nella terra che io ti indicherò e sii pellegrino in essa: io sarò con te e ti benedirò” (Gn 26,2-3). Tre cose il Signore comanda al giusto: di non scendere in Egitto, cioè di non immergersi nell’affanno delle cose del mondo, dove si fabbricano i mattoni con il fango della lussuria, con l’acqua dell’ avarizia e con la paglia della superbia; di fermarsi a riposare nella terra della sua coscienza; e in tutti i giorni della sua vita, che sono come un continuo combattimento (cf. Gb 14,14), si reputi solo un pellegrino. E così il Signore sarà con lui e lo benedirà con la benedizione della sua destra.

 

16. 10. E finalmente apparve di nuovo agli undici, come racconta Luca, quando “li condusse fuori città verso Betania, cioè al monte degli Ulivi, e alzate le mani li benedisse (Lc 24,50); “sotto i loro occhi fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro sguardi” (At 1,9). Il Signore appare a coloro che stanno sul monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Infatti è detto nell’Esodo: “Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto; e vedeva che il roveto bruciava ma non si consumava” (Es 3,2). A Mosè, cioè all’uomo misericordioso, appare il Signore nella fiamma del fuoco, vale a dire mentre partecipa alle sofferenze degli altri. Ma da dove scaturisce questa fiamma? Dal centro del roveto, cioè del povero, spinoso, tribolato, affamato, nudo, sofferente; e il giusto trafitto dalle spine di quella povertà, arde di compassione per poi usargli misericordia. E così potrà constatare che il roveto, cioè il povero, arderà di maggiore devozione e non si consumerà nella sua povertà.

Orsù dunque, carissimi fratelli, che siete qui riuniti per festeggiare la Pasqua di Risurrezione, io vi supplico di comperare con il denaro della buona volontà, insieme alle pie donne, gli aromi delle virtù, con i quali possiate ungere le membra di Cristo con l’amabilità della parola e con il profumo del buon esempio; vi supplico, pensando alla vostra morte, di venire e di entrare nel sepolcro della celeste contemplazione, nella quale vedrete l’angelo dell’Eterno Consiglio, il Figlio di Dio, assiso alla destra del Padre. Egli nella risurrezione finale, quando verrà a giudicare il mondo nel fuoco, si svelerà a voi, non dico dieci volte, ma per sempre: in eterno e nei secoli dei secoli lo vedrete come egli è, con lui godrete, con lui regnerete.

Si degni di concederci tutto questo colui che è risorto da morte: a lui sia onore e gloria, dominio e potestà nei cieli e sulla terra per i secoli eterni.

E ogni fedele, in questo giorno di letizia pasquale, esclami: Amen, alleluia!

 

 

LA RISURREZIONE DEL SIGNORE (2)

 

1. “Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero” (Eccle 12,5).

 

esordio - nella risurrezione

l’umanità di cristo fiorì come la verga di Aronne.

 

2. Leggiamo nel libro dei Numeri che la verga di Aronne germogliò e fiorì e, sviluppatesi le foglie, produsse delle mandorle (cf. Nm 17,8).

Aronne, sommo pontefice, è figura di Cristo, il quale, entrò nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue (cf. Eb 9,12); questo è il pontefice che “fece di sé un ponte”, affinché attraverso di lui potessimo passare dalla riva della mortalità a quella dell’immortalità: oggi la sua verga è fiorita.

La verga è la sua umanità, della quale è detto: “La verga del tuo potere stende il Signore da Sion” (Sal 109,2): infatti l’umanità di Cristo, per mezzo della quale la divinità esercitava la sua potenza, ebbe origine da Sion, cioè dal popolo giudaico, “perché – come è detto nel vangelo – la salvezza, cioè il Salvatore, viene dai giudei” (Gv 4,22).

Questa verga giacque quasi arida nel sepolcro per tre giorni e tre notti; ma poi fiorì e produsse frutto, perché risuscitò e portò a noi il frutto dell’immortalità.

 

I. sermone allegorico

 

3. “Fiorirà il mandorlo”.

Dice Gregorio che il mandorlo è il primo tra tutte le piante a mettere i fiori; e dice l’Apostolo che Cristo è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti (cf. Col 1,18), perché è risorto per primo.

Osserva che la pena inflitta all’uomo era duplice: la morte dell’anima e quella del corpo: “In qualunque giorno mangerai – disse il Signore –, morirai di morte” (Gn 2, 17), della morte dell’anima: e non potrai sottrarti alla legge della morte. Infatti un’altra traduzione dice con maggior precisione: “diventerai mortale”. Venne il nostro Samaritano, Gesù Cristo, e sopra questa duplice ferita versò vino e olio (cf. Lc 10,34), perché con l’effusione del suo sangue distrusse la morte dell’anima nostra. Dice infatti Osea: “Io li libererò dalla mano della morte, li riscatterò dalla morte. O morte, io sarò la tua morte! Io sarò il tuo morso, o inferno!” (Os 13,14). Dall’inferno prese una parte e una parte la lasciò, alla maniera di colui che morde, e con la sua risurrezione abolì la legge della morte, poiché diede la speranza di risorgere: “E non ci sarà più la morte” (Ap 21,4). La risurrezione di Cristo è raffigurata nell’olio, che galleggia sopra tutti i liquidi. Il gaudio provato dagli apostoli alla risurrezione di Cristo superò ogni altro gaudio da loro sperimentato, quando egli era ancora con loro nel suo corpo mortale. E anche la glorificazione dei corpi supererà ogni altro gaudio: “I discepoli gioirono nel vedere il Signore” (Gv 20,20).

 

4. “E la locusta s’ingrasserà”. Nella locusta è raffigurata la chiesa primitiva, che con il fiore della risurrezione del Signore si ingrandì e fu riempita di meravigliosa letizia. Infatti Luca scrive: “Poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: Avete qui qualche cosa da mangiare? Allora essi gli offrirono una porzione di pesce arrostito e un favo di miele” (Lc 24,41-42). Il pesce arrostito è figura del nostro Mediatore che subì la passio­ne, fu preso con il laccio della morte nelle acque del genere umano, e arrostito, per così dire, nel tempo della passione; egli è per noi anche il favo di miele, a motivo della risurrezione, che oggi celebriamo. Il favo presenta il miele nella cera, e ciò raffigura la divinità rivestita dell’umanità. E in questa mescolanza di cera e di miele si indica che Cristo accoglie nell’eterna quiete, nel suo corpo, coloro che quando soffrono tribolazioni per Iddio, non vengono meno nell’amore dell’eterna dolcezza. Quelli che quaggiù vengono, per così dire, arrostiti dalla tribolazione, saranno saziati lassù della vera dolcezza.

Osserva che “oggi il Signore è apparso cinque volte”: prima a Maria Maddalena, quindi di nuovo a lei mentre era insieme con altri, quando correva a dare l’annuncio ai discepoli; poi a Pietro; poi a Cleofa e al suo compagno [mentre andavano a Emmaus] (cf. Lc 24,14-31; Gv 20,19-23), e infine ai discepoli, a porte chiuse, dopo il ritorno dei due discepoli da Emmaus. Ecco dunque in che modo la locusta fu ingrassata con il fiore del mandorlo, vale a dire in che modo la chiesa primitiva fu allietata dalla risurrezione del Signore.

La locusta, quando il sole brucia, fa salti e voli; così la chiesa primitiva, quando nel giorno della Pentecoste lo Spirito Santo la infiammò, fece in tutto il mondo i salti e i voli della predicazione. “In tutta la terra si è diffuso il suono della loro voce” (Sal 18,5). Ingranditasi in questo modo la chiesa, “fu dissipato il cappero”, che è una pianticella che s’attacca alla pietra, e raffigura la sinagoga, alla quale è stata data la legge scritta sulla pietra, per mostrare la sua durezza, alla quale sempre restò attaccata. “Questo è un popolo dalla dura cervice” (Es 34,9).

Quanto più la chiesa s’ingrandiva, tanto più la sinagoga si disgregava. Concorda con questo ciò che si legge nel secondo libro dei Re: “Vi fu una lunga lotta tra la casa di Saul e la casa di Davide. La casa di Davide cresceva e diveniva sempre più forte, mentre la casa di Saul s’indeboliva di giorno in giorno” (2Re, 3,1). La casa di Davide è la chiesa; la casa di Saul, che s’interpreta “colui che abusa”, raffigura la sinagoga, la quale, avendo abusato dei doni speciali di Dio, ricevette il libello del ripudio e abban­donò il talamo dello sposo legittimo. Quanto sia stato lungo il dissidio tra la chiesa e la sinagoga, lo dimostrano gli Atti degli Apostoli. La chiesa si ingrandiva perché “ogni giorno il Signore aggiungeva ad essa quelli che erano salvati” (At 2,47). Invece la sinagoga ogni giorno diminuiva: “Chiama il suo nome “non mio popolo”, perché voi non siete il mio popolo e io non sarò il vostro Dio”; e ancora: “Io mi dimenticherò totalmente di loro; invece avrò misericordia della casa di Giuda” (Os 1,9.6-7), cioè della chiesa.

A Gesù Cristo onore e gloria nei secoli. Amen.

 

II. sermone morale

 

5. Ora vedremo che cosa significhino in senso morale: il mandorlo, la locusta e il cappero. In queste tre entità sono raffigurate: l’elargizione dell’elemosina, la consolazione del povero, la distruzione dell’avarizia.

Elargizione dell’elemosina. “Fiorirà il mandorlo”, cioè l’elemosiniere. A lui dice Isaia: “Al mattino fiorirà la tua semente” (Is 17,11). La semente è l’elemosina, la quale al mattino, cioè tempestivamente, deve fiorire nella mano del cristiano prima di ogni altra attività materiale, come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante.

Osserva che nel fiore ci trono tre elementi: il colore, il profumo e la promessa del frutto. Con il colore si allieta la vista, con il profumo si delizia l’olfatto, con il frutto si soddisfa il gusto. Così è dell’elemosina: nel suo colore si ristora, per così dire, la vista del povero, che ha l’occhio rivolto alla mano di chi porge. Infatti Pietro, insieme a Giovanni, disse allo storpio: “Guarda verso di noi! Allora egli li guardò, nella speranza di ricevere da essi qualche cosa” (At 3,4-5).

E qui, non senza rincrescimento, dobbiamo denunciare ciò che fanno i prelati della chiesa e i grandi di questo mondo: essi fanno aspettare a lungo alla loro porta i poveri di Cristo, che implorano e chiedono l’elemosina con voce lacrimosa, e finalmente, solo dopo che es­si si sono ben rimpinzati e non di rado ubriacati, ordinano che venga loro dato qualche avanzo della loro mensa e le sciacquature della cucina. Certo non si comportava così Giobbe, mandorlo che fioriva per tempo, il quale dice: “Mai ho negato ai poveri ciò che mi domanda­vano, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai ho mangiato un boccone da solo, senza che ne mangiasse anche l’orfano. Poiché dalla mia infanzia sono cresciute con me la pietà e la misericordia” (Gb 31,16-18). E questo lo diceva parlando del cibo. Senti che cosa dice del vestito: “Mai ho disprezzato un pellegrino perché non aveva indumenti, e un povero che non aveva di che coprirsi: mi hanno benedetto i suoi fianchi e con la lana delle mie pecore si è riscaldato” (Gb 31,19-20).

Parimenti il profumo dell’elemosina edifica il prossimo, perché ne riceve buon esempio e glorifica Dio, mentre l’animo di colui che dà si consola nella speranza di riceverne il frutto nella vita eterna.

 

6. Consolazione del povero. “Si ingrasserà la locusta”. Dice Naum che “le locuste nel tempo del freddo si rifu­giano nelle siepi” (Na 3,17). Così i poveri nel rigore della povertà che li angustia, si rifugiano letteralmente presso le siepi, chiedendo l’elemosina ai passanti, come dei lebbrosi, respinti dagli uomini. O anche: le siepi, nelle quali ci sono rami appuntiti e spine, raffigurano le trafitture, i dolori e le malattie dei poveri. Ecco quanta sofferenza! E perciò quanto è necessaria la consolazione! La locusta si ingrassa con il fiore, il povero viene consolato con l’elemosina. Per questo Giobbe dice: “Veniva su di me la benedizione di colui che stava per perire; io portai conforto al cuore della vedova” (Gb 29,13). E il Signore per bocca di Isaia: “Questo è il mio riposo: Fate riposare chi è stanco; e questo è il mio sollievo. Ma non hanno voluto ascoltarmi” (Is 28,12). E quindi anch’essi, quando grideranno: “Signore, Signore, àprici!” (Mt 25,11), non saranno ascoltati. Adesso il Signore, nella persona dei suoi poveri, sta alla porta e bussa (cf. Ap 3,20): gli si apre quando il povero viene ristorato. Ristoro del povero, riposo di Cristo. Ciò che avrete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (cf. Mt 25,40).

E osserva che dice “s’ingrasserà” (impinguabitur, si impinguerà). La pinguedine ha qualcosa in comune con l’aria e il fuoco: per questo galleggia sopra l’acqua, perché l’aria che c’è in essa la sorregge. Parimenti la consola­zione del povero partecipa del­l’aria della devozione nei riguardi di se stesso, che riceve; e del fuoco della carità nei riguardi di te, che dài. La devozione lo innalza affinché preghi per te. È detto infatti: Riponi l’elemosi­na nel seno del povero ed essa pregherà per te (cf. Eccli 29,15), affinché ti siano rimessi i peccati, perché la tua mente sia illuminata dalla grazia e ti venga data la vita eterna.

 

7. Distruzione dell’avarizia. “Il cappero sarà disperso”. La radice del cappero si attacca alla pietra, nella quale è raffigurata la durezza dell’avaro, che non si intenerisce di fronte alle miserie dei poveri. L’avaro è come Nabal, del quale è detto nel primo libro dei Re che era “un uomo duro e molto cattivo”. I messaggeri di Davide gli dissero: “Siamo giunti da te in un giorno lieto: qualunque cosa troverà la tua mano, dalla ai tuoi servi e al tuo figlio Davide. Egli rispose loro: Chi è Davide, e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono aumentati i servi che fuggono dai loro padroni. Dovrò forse prendere i miei pani e le carni delle pecore che ho ucciso per i miei tosatori, e darle a uomini che non so di dove vengano?” (1Re 25,3-11). Questa è anche la risposta dell’avaro ai poveri di Cristo, che chiedono l’elemosina: egli non dà loro niente, anzi bestemmia e li svergogna. Perciò gli succede quello che segue: “Il cuore gli si tramortì nel petto ed egli restò come un pietra” (1Re 25, 37). È ciò che capita all’avaro quando gli viene sottratta la grazia ed è privo di viscere di misericordia.

Fortunato invece colui che toglie da sé il cuore di pietra e prende un cuore di carne (cf. Ez 11,19), che, colpito dalle miserie dei poveri, soffre con loro affinché la sua compassione diventi il loro sollievo e il loro sollievo segni la distruzione della sua avarizia. Se uno avesse nel suo frutteto una pianta sterile, forse che non la sradicherebbe e al suo posto non ne pianterebbe un’altra in grado di dare frutto? L’avarizia è la pianta sterile! Perché occupa la terra? Tàgliala! (cf. Lc 13,7), sràdicala, e al suo posto pianta l’elemo­si­na, che ti possa dare frutto per la vita eterna.

Te lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen

 

III. sermone morale

 

8. “Il mandorlo fiorirà”. Qui sono indicate tre cose: l’onestà della vita, la dolcezza della contemplazio­ne e l’estinzione della libidine.

L’onestà della vita. Leggiamo nel libro di Daniele: “Io, Nabucodonosor, ero tranquillo nella mia casa e prospero nel mio palazzo” (Dn 4,1). Che cosa dobbiamo intendere per “casa” se non la coscienza? E che cosa per “palazzo” se non la sicurezza della coscienza e la fiducia che proviene dalla sicurezza? Infatti anche il palazzo è una casa, ma non tutte le case possono dirsi palazzo. Il palazzo è una specie di casa solida, alta, regale. Se nella casa dobbiamo veder raffigurata la coscienza, giustamente per palazzo dobbiamo intendere la sicurezza della coscienza. Siede dunque tranquillo nella sua casa, colui al quale la coscienza non rimorde. Una congrua riparazione e penitenza dei peccati passati e una vigile attenzione per evitarli in futuro, rendono la coscienza tranquilla. Se ne sta dunque tranquillo nella sua casa, colui al quale la co­scienza non rimorde né per le colpe passate né per quelle presenti. Se ne stava veramente tranquillo nella sua casa colui che diceva con sincerità: “Il mio cuore nulla mi rimprovera in tutta la mia vita” (Gb 27,6). Tranquillo se ne stava nella sua casa, colui che poté dire con sincerità: “Non sono consapevole di colpa alcuna” (1Cor 4,4). In quel tempo era veramente tranquillo in casa, e prosperava nel suo palazzo, quando diceva: “Questa è la nostra gloria (vanto), la testimonianza della nostra coscienza” (2Cor 1,12).

E poiché nel fiore c’è la speranza del frutto, giustamente nel fiore è raffigurata l’at­tesa sicura dei beni futuri. E poiché il fiore è in qualche modo l’inizio dei frutti futuri, per fiore s’intende quanto meno un cambiamento e un rinnovamento nell’impegno di progredire. Quindi nel fiore è raffigurata la sicura attesa dei beni futuri, o anche un rinnovato impegno nell’acquistare meriti. Perciò prospera veramente nel suo palazzo colui che, nella testimonianza della sua buona coscienza, attende con certezza la corona di gloria, e nel frattempo con il salto e con il volo della contemplazione, ne pregusta la dolcezza.

 

9. La dolcezza della contemplazione: “Si ingrasserà la locusta”, la quale, quando il sole scotta, è solita spicca­re dei salti e volare nell’aria, direi quasi con una certa allegria. Così, senza dubbio, anche l’anima santa, quando viene eccitata in se stessa da un certo plauso interiore della sua gioia, quando viene spinta a superare se stessa con l’eleva­zione della mente, quando è totalmente assorbita dalle cose celesti, quando è totalmente immersa nelle visioni angeliche, sembra proprio che abbia superato i confini delle sue possibilità naturali. Per questo dice il Profeta: “I monti saltellarono come arieti e le colline come agnelli di un gregge” (Sal 113,4). Chi non vede che è oltre la natura, anzi contro natura, che i monti o i colli, a somiglianza di arieti o di agnelli che giocano, spicchino dei salti verso l’alto, e che la terra si stacchi dalla terra e si libri nel vuoto? Ma non si tiene forse sospesa terra su terra, quando un uomo vuole mettersi al di sopra di un altro uomo, mentre invece la voce del Signore lo ammonisce dicendogli: “Sei terra e in terra ritornerai”? (Gn 3,19). Quando dunque l’anima s’innalza con l’elevazione della mente, viene saziata dalla dolcezza della contemplazione.

Leggiamo nel Cantico dei Cantici: “Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto?” (Ct 8,5). Dal deserto l’anima sale alla contemplazione, quando abbandona tutte le cose inferiori e, penetrando fino al cielo, con la devozione si im­­mer­ge totalmente in quelle divine; e viene veramente ricolmata di delizie, quando si allieta nella pienezza del gaudio spirituale e si rinvigo­risce nell’abbondanza delle delizie interiori datele dal cielo e in lei copiosamente infuse. L’anima si appoggia al suo diletto quando nulla presume dalle sue forze, nulla attribuisce ai suoi meriti, ma tutto alla grazia del suo diletto: “In realtà è lui che ci ha fatti, e non noi” (Sal 99,3). E Isaia: “Tutte le nostre opere tu hai operato in noi” (Is 26,12). E quale sia l’utilità di questo “ingrassamento” della locusta, lo dice espressamente ciò che segue.

 

10. Estinzione della libidine: “Il cappero sarà disperso”. Questo si riferisce ai reni; e poiché nella zona dei reni ha sede la libidine, nel cappero è indicata la libidi­ne, la quale viene distrutta quando l’anima viene riempita della dolcezza [della contemplazione] sopra descritta. Daniele infatti dice: “Io, rimasto solo, vidi questa grande visione; e non rimase in me alcuna forza; e anche il mio aspetto cambiò, e venni meno, e vennero meno tutte le mie forze” (Dn 10,8). E Giobbe: “La mia anima scelse il cappio e le mie ossa la morte. Sono senza speranza, io non vivrò più” (Gb 7,15-16). Ecco in che modo viene distrutto il cappero. “Daniele, l’uomo dei desideri” (Dn 10,11) raffigura il contemplativo, che rimane solo quando disprezza tutte le cose esteriori e con la fune dell’amore si lega alla dolcezza della contemplazione, e allora, con la mente illuminata, vede la grande visione, che però non può ancora comprendere, giacché quaggiù viene contemplata attraverso uno specchio, come in enigma, non ancora faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12).

Quando l’anima viene illuminata ed elevata in questo modo, viene meno la forza del corpo, il volto diventa pallido, la carne è prostrata e non fa più conto dei piaceri del corpo e del tempo presente, nei quali non vuole assolutamente più vivere, come faceva prima, perché ormai non è più lei che vive, ma vive in lei la vita di Cristo (cf. Gal 2,20), che è benedetto nei secoli. Amen.

 

IV. sermone anagogico (mistico)

 

11. “Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero”. In queste tre similitudini sono misticamente indicate la risurrezione del corpo, la glori­ficazione dell’anima e la distruzione della morte. Trattiamone singolarmente con brevi parole.

La risurrezione del corpo: “Fiorirà il mandorlo”. Troviamo in Giobbe: “Nell’albero c’è la speranza: se viene tagliato, di nuovo ributta e i suoi rami crescono. Se la sua radice invecchia sotto terra e il suo tronco muore nella polvere, al sentore dell’acqua germoglia [di nuovo] e farà la chioma quasi come quando fu piantato la prima volta” (Gb 14,7-9). Benché l’albero, cioè il corpo dell’uomo, venga tagliato dalla scure della morte, sia invecchiato, decomposto nella terra e ridotto in polvere, tuttavia l’uomo deve avere la speranza ch’esso rifiorirà, cioè risorgerà, e che le sue membra ricresceranno e che, al sentore dell’acqua, cioè per la munificenza della sapienza divina, germoglierà di nuovo, ritornerà al suo splendore, ricostituirà la sua chioma per quanto riguarda l’immortalità, quasi come quando fu piantato la prima volta nel paradiso terrestre.

Infatti la primitiva condizione dell’uomo nel paradiso terrestre fu la possibilità di non morire: ma a causa del peccato gli fu comminata la pena di non poter non morire; ora nell’eterna felicità gli rimane il terzo modo di essere: non poter più morire. Il mandorlo dunque fiorirà. Dice il salmo: “Rifiorì la mia carne, e con tutte le mie forze canterò le sue lodi” (Sal 27,7). Ricorda che la carne dell’uomo fiorì nel paradiso terre­stre prima del peccato, sfiorì dopo il peccato, rifiorì però nella risurrezione di Cristo, “superfiorirà”, cioè fiorirà perfettamente, nella risurrezione finale.

 

12. E allora “s’ingrasserà la locusta”, vale a dire l’anima sarà glorificata. “Sarò saziato quando apparirà la tua gloria” (Sal 16,15). E ancora: “Li nutrì con fiore di frumento e li saziò con miele di roccia” (Sal 80,17). Il frumento e la roccia sono figura di Cristo, Dio e uomo: nella miseria del pellegrinaggio terreno è per noi frumento, perché ristora; è roccia perché accoglie coloro che si rifugiano in lui e li difende: “La roccia è un rifugio per gli iraci” (Sal 103,18), cioè per i peccatori convertiti; nella gloria della patria sarà per noi fior di frumento e miele di roccia, perché ci nutrirà con lo splen­dore della sua umanità e ci sazierà con la dolcezza della sua divinità. Infatti dice Isaia: “Vedrete e gioirà il vostro cuore”, ecco l’ingrassamento della locusta; e “le vostre ossa germoglieranno come erba fresca” (Is 66,14), ecco il fiore del mandorlo: “Vedrete” lo splendore del­l’umanità, “e il vostro cuore gioirà” della dolcezza della divinità.

 

13. E allora “sarà disperso il cappero”. Dice l’Apostolo: “Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito di incor­ruttibilità e questo corpo mortale di immortalità, allora si compirà la parola della Scrittura – nei succitati passi di Isaia e di Osea –: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il punngi­glione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano dunque rese grazie a Dio che ci ha dato la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15,54-57). Egli è benedetto nei secoli. Amen.