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Giovedi, 25 aprile 2024 - San Marco ( Letture di oggi)

DOMENICA I DI QUARESIMA (2)

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA I DI QUARESIMA (2)
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La penitenza

 

Esordio. Sermone ai claustrali, ossia sermone sull’anima penitente

 

1. “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto”, ecc. (Mt 4,1).

Leggiamo nell’Apocalisse: “Furono date alla donna due ali di aquila, perché volasse nel deserto” (Ap 12,14). Questa donna raffigura l’anima penitente, della quale nel vangelo di Giovanni il Signore dice: “La donna”, cioè l’anima, “quando partorisce” nella confessione il peccato, che ha concepito nel piacere, “è in tristezza” (Gv 16,21), ed è giusto che lo sia. A questa donna vengono date due ali di aquila. L’aquila, così chiamata per l’acutezza della sua vista, o anche del becco, raffigura il giusto; l’aquila infatti ha una vista acutissima, e quando per la vecchiaia il suo becco si ingrossa, lo affila sfregandolo ad una pietra, e così ringiovanisce. Allo stesso modo il giusto, con l’acu­tezza della contemplazione, fissa lo sguardo nello splendore del vero sole, e se un po’ alla volta il suo becco, cioè l’ardore della mente, si infiacchisce a motivo di qualche peccato, così che non è più in grado di nutrirsi dell’abituale cibo della dolcezza interiore, subito lo affila alla pietra della confessione e così ringiovanisce nella giovinezza della grazia. Infatti dice di lui il Profeta: “La tua giovinezza si rinnoverà come quella dell’aquila” (Sal 102,5).

Due sono le ali di quest’aquila, l’amore e il timore di Dio, di cui il Signore dice a Giobbe: “Forse che per la tua sapienza si veste di penne lo sparviero e distende la sue ali verso il mezzogiorno?” (Gb 39,26). Anche lo sparviero, come l’aquila, è figura del giusto. E osserva che lo sparviero fa due cose: afferra con gli artigli del piede, e non afferra un uccello se non durante il volo.

Così fa anche il giusto: afferra con il piede dell’affetto, e non afferra il bene se non volando: delle cose terrene non si cura. Egli mette le penne della sapienza di Dio. Le penne dell’avvoltoio sono i pensieri puri del giusto, che si formano ordinatamente nella sua mente per mezzo della sapienza di Dio, così chiamata da “sapore”: infatti in quanto hai sapore di Dio, in tanto metti le penne; in quanto provi il sapore della sua dolcezza, in tanto metti le penne dei buoni pensieri. E così quest’avvoltoio disten­de le sue ali, cioè l’amore e il timore divino, verso mezzogiorno, cioè verso Gesù Cristo, che viene da mezzo­giorno (cf. Ab 3,3), per effondere il calore che nutre e infondere in esse la grazia che sostiene. Queste due ali sono date alla donna, cioè all’anima penitente, con le quali, sollevata dalle cose terrene, possa volare nel deserto della penitenza, del quale è detto nel vangelo di questa domenica: “Gesù fu condotto nel deserto”.

 

2. E sempre in questa domenica si legge nell’introito della messa: “Mi invocherà e io lo esaudirò”; e l’epistola del beato Paolo ai Corinzi dice: “Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio”.

E poiché sono arrivati per noi i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e per la salvezza delle anime, tratteremo della penitenza, che consiste in tre atti: la contrizione del cuore, la confessione della bocca e l’opera di soddisfazione (riparazione); tratteremo poi dei peccati contrari alla penitenza, cioè la gola, la vanagloria e l’avarizia. Tutti questi sei argomenti sono desunti dal vangelo di oggi. E tutto sia a lode di Dio e ad utilità della nostra anima.

 

I. la contrizione del cuore

 

3. “Gesù fu condotto nel deserto”. “Io vi ho dato un esempio – dice Gesù – affinché come ho fatto io, così facciate anche voi” (Gv 13,15). Che cosa ha fatto Gesù? Fu condotto dallo Spirito nel deserto. E tu che credi in Gesù e da Gesù speri la salvezza, fatti condurre, ti scongiuro, nel deserto della confessione dallo spirito di contrizione, per compiere in modo perfetto il numero quaranta della soddisfazione (riparazione).

Osserva che la contrizione del cuore è chiamata “spirito”, soffio; infatti Davide dice: “Con il soffio violento tu sfascerai le navi di Tarsis” (Sal 47,8). Tarsis s’interpreta “ricerca del godimento”. Le navi di Tarsis raffigurano le aspirazioni dei secolari che, attraverso il mare di questo mondo, dalla vela della concupiscenza carnale e dal vento della vanagloria sono portati alla ricerca del godimento del benessere mondano. Quindi nel vento impetuoso della contrizione il Signore sfascia le navi di Tarsis, vale a dire le aspirazioni dei secolari, affinché, trasformati dalla contrizione, non ricerchino il falso godimento, ma quello vero.

Osserva che lo spirito (vento) di contrizione è detto “impetuoso” per due motivi: perché porta in alto la mente (vehemens, vehit sursum mentem), e perché sopprime l’eterno “guai!” (vae àdimit). Di questo spirito è detto nella Genesi: “Soffiò sul suo viso un alito di vita” (Gn 2,7). Il Signore soffia sul volto dell’anima l’alito di vita, che è la contrizione del cuore, quando l’immagine e la somiglianza di Dio, deturpata dal peccato, si imprime nuovamente nell’anima, e si rinnova, per mezzo della contrizione del cuore.

 

4. Quale debba essere la contrizione, lo indica il Profeta dicendo: “Sacrificio a Dio è lo spirito addolorato, affranto; un cuore contrito e umiliato tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50,19). In questo versetto vengono indicati quattro atti: il pentimento del cuore addolorato per i peccati, la riconci­liazione del peccatore, l’universale contrizione di tutti i peccati, la continua umiliazione del peccatore contrito. Dice dunque: Lo spirito del penitente, il quale per i peccati che sono come triboli, è tribolato e compunto, è sacrificio a Dio, che cioè placa Dio nei riguardi del peccatore e riconcilia il peccatore stesso con Dio. E poiché la contrizione deve essere universale, aggiunge “cuore contrito”.

E osserva che non dice soltanto tritum (tritato), ma contritum (tritato insieme). Il peccatore deve avere il cuore trito e contrito: trito, per spezzarlo con il martello della contrizione, e perché la spada del dolore lo divida in tante particelle, e una particella sia posta su ogni peccato mortale, e pianga nel dolore, e si addolori nel pianto, e si dolga maggiormente di un peccato mortale commesso, che non se avesse perduto, dopo esserne venuto in possesso, tutto il mondo e tutto ciò che in esso si trova. Infatti con il peccato mortale ha perduto il Figlio di Dio che è più degno, più caro e più prezioso di tutto il creato. Deve avere inoltre il cuore contrito, cioè trito insieme, per struggersi per tutti i peccati commessi, per tutti i peccati di omissione e per quelli dimenticati, per tutti globalmente.

E poiché la perfezione di ogni bene è l’umiltà, al quarto e ultimo posto è detto: [un cuore] “umiliato Dio non lo disprezza”. Anzi, come dice Isaia: “L’Eccelso e il Sublime, che ha una sede eterna, ha la sua dimora nello spirito contrito e umile, per ravvivare lo spirito degli umili e vivificare lo spirito dei contriti” (Is 57,15).

O bontà di Dio! O dignità del penitente! Colui che ha una sede eterna, abita anche nel cuore dell’umile e nello spirito del penitente! È proprio del cuore veramente contrito umiliarsi in tutto e reputarsi un cane morto e una pulce (cf. 1Re 24,15).

 

II. la confessione della bocca (l’accusa)

 

5. Da questo spirito di contrizione, dunque, il penitente è condotto nel deserto della confessione, la quale è detta giustamente “deserto” per tre motivi.

Osserva che è chiamata deserto una terra inabitabile, piena di bestie, e che incute terrore. Tale precisamente era il deserto nel quale restò Gesù per quaranta giorni e quaranta notti. Così anche la confessione dev’essere inabitabile, cioè privata, segreta, nascosta ad ogni conoscenza di uomo e rinchiusa nel tesoro della memoria del solo confessore sotto inviolabile sigillo, e occulta per ogni umana coscienza: tanto che, se anche tutti gli uomini che sono nel mondo conoscessero il peccato del peccatore che si è confessato da te, tu devi ugualmente tenerlo nascosto e chiuderlo sotto la chiave del tuo perpetuo silenzio.

Sono veramente figli del diavolo, condannati dal Dio vivo e vero, espulsi dalla chiesa trionfante, scomuni­cati dalla chiesa militante, da destituirsi dall’ufficio e dal beneficio e da esporre alla pubblica infamia, coloro che, non dico con le parole, cosa che è peggiore di ogni omicidio, ma anche con un gesto o in qualunque altro modo occulto o palese, per scherzo o sul serio, scoprono o manifestano il segreto della confessione. Lo affermo espressamente: Chiunque viola la confessione pecca più gravemente di Giuda traditore, che vendette ai giudei il Figlio di Dio, Gesù Cristo.

Io mi confesso all’uomo, non come a uomo, ma come a Dio. E il Signore dice per bocca di Isaia: “Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me” (Is 24,16). E l’uomo, nato dall’umo (terra), non sigillerà il segreto della confessione nella parte più recondita del suo cuore?

 

6. Giustamente dunque è detto che la confessione dev’essere come una terra inabitabile e inaccessibile, affinché a nessun uomo sia svelato il segreto della confes­sione. Perciò il Signore, minacciando, comanda nell’Esodo: “Guardatevi dal salire sul monte e dal toccare le sue falde: chiunque toccherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano però dovrà toccare costui; egli dovrà essere colpito con le pietre e trafitto con le frecce; che sia animale o che sia uomo, non dovrà sopravvivere” (Es 19,12-13).

Questo monte Sinai, il cui nome s’interpreta “misura”, raffigura la confessione, che giustamente è detta “monte” per la sua sublimità, che è la remissione dei peccati. Che cosa infatti ci può essere di più sublime della remis­sione dei peccati? Ed è detta “misura” per l’esatta corri­spondenza che ci dev’essere tra la colpa e la confessione di essa. Il peccatore cioè deve fare in modo che la confes­sione corrisponda esattamente alla colpa, in modo da non dire di meno per vergogna o timore, né, sotto l’apparenza di umiltà, aggiungere di più, di come realmente stanno le cose. Neppure per umiltà infatti è lecito mentire.

Guardatevi bene, dunque, o confessori, o sacerdoti, dal salire su questo monte. Salire sul monte significa svelare il segreto della confessione. E non dico soltanto: non salite, ma “non toccatene neppure le falde”. Le falde del monte sono le circostanze della confessione, che né a parole, né con gesti, né in qualunque altro modo devono essere rivelate.

Ahimè, ci sono alcuni che hanno sì paura di salire sul monte, ma non temono di violarne le falde, palesando appunto con qualche parola e gesto le circostanze del peccato. Ascoltino perciò, questi infelici, la loro sentenza di morte: “Chiunque toccherà il monte, sarà messo a morte”. E quale morte, o Signore? La mano del potere secolare non lo tocchi, per essere impiccato come un ladro o un omicida, ciò che forse sarebbe meno penoso per lui, ma venga colpito con le pietre, cioè con severe scomuniche, oppure sia trafitto con le frecce della dannazione eterna; e sia che si tratti di un animale, cioè di un semplice sacerdote, oppure di un uomo, cioè di un sacerdote istruito e pieno di scienza, non dovrà sopravvivere.

Inteso altrimenti: sia che si tratti di un animale, cioè di un laico o di un semplice chierico, ai quali in caso di estrema necessità possiamo confessare i peccati se non è presente un sacerdote; sia che si tratti di un uomo, cioè di un sacerdote della chiesa, non potrà più vivere, ma morirà in eterno, perché è salito sul monte e ne ha toccato le falde. Ben a ragione quindi è detto che la confessione è una terra inabitabile e inaccessibile.

 

7. La confessione è detta anche deserto perché è piena di bestie. Vediamo quali sono queste bestie, delle quali la confessione deve essere piena.

Le bestie sono i peccati mortali; il termine latino bestiae, suona quasi come vastiae, devastatrici, perché i peccati mortali devastano e dilaniano l’anima. Di essi Isaia, quando parla della perfida Giudea, cioè dell’anima peccatrice, dice: “Sarà un covo di dragoni e pascolo di struzzi. Vi si incontreranno demoni con onocentàuri (animali favolosi, incrocio tra asino e toro), e i satiri (caproni) grideranno uno all’altro; lì si accovacciò lo sciacallo (làmia) e vi trovò riposo. Lì trovò la sua tana il riccio e vi nutrì i suoi piccoli, scavò intorno e li riscaldò alla sua ombra” (Is 34,13-15).

Osserva che in questo passo sono nominate sette specie di bestie, che sono il drago, lo struzzo, l’onocentàuro, inteso per due: asino e toro, il satiro, lo sciacallo e il riccio. In queste sette bestie ravvisiamo sette specie di peccati, tutti da rivelare con esattezza nella confessione, insieme con quelli che sono ad essi simili; come sono stati commessi nel consenso della mente e nell’esecu­zione dell’opera. Dice dunque: Sarà un covo di draghi, ecc. Nel drago è indicata la velenosa malizia dell’odio e della diffamazio­ne, nello struzzo la falsità dell’ipocrisia, nell’asino la lussuria, nel toro la superbia, nei satiri (caproni) l’avarizia e l’usura, nello sciacallo la perfidia dell’eresia, nel riccio la cavillosa scusa del peccatore.

 

8. “Sarà un covo di draghi”, ecc. La mente, o la coscienza del peccatore è un covo di draghi a causa del veleno dell’odio e della diffamazione. Infatti è detto nel cantico di Mosè: “Fiele di draghi è il loro vino, veleno micidiale di vipere” (Dt 32,33). Il loro vino, cioè l’odio e la diffamazione dei peccatori, che stordisce e intossica la mente di coloro che li ascoltano, è fiele di draghi e micidiale veleno di vipere. Per questo dice Salomone nell’Ecclesiaste: “Il diffamatore occulto non è da meno del serpente che morde senza rumore” (Eccle 10,11). E giustamente dice “micidiale”, perché “Il colpo della sferza produce un livido, ma il colpo della lingua spezza le ossa” (Eccli 28,21). Infatti il colpo della sferza produce un livido che si vede all’esterno, ma i colpi della lingua della diffamazione frantumano all’interno le ossa delle virtù. Giustamente quindi è detto: Sarà un covo di draghi.

 

9. “Sarà pascolo degli struzzi”. Lo struzzo, che ha sì le ali ma che a motivo della grandezza del suo corpo non può volare, è figura dell’ipocrita, il quale, appesantito dall’attaccamento alle cose terrene, si camuffa da sparvie­ro fingendo di elevarsi alla contemplazione con le ali di una falsa religiosità.

Dice Giobbe: “L’ala dello struzzo è simile a quelle della cicogna e dello sparviero” (Gb 39,13). Quindi nella mente del religioso falso c’è il “pascolo dello struzzo”. Osserva con quanta proprietà sia detto “pascolo”, perché l’ipocrita, mentre si vanta di avere le ali dello sparvie­ro, in realtà si pasce della sua stessa vanteria; fa come il pavone che, quando è ammirato dai bambini, mette in mostra tutta la magnificenza delle sue penne, con la coda fa una ruota, ma facendo la ruota scopre vergognosamente il posteriore. Così l’ipocrita: mentre si vanta, ostenta le penne della santità che finge di avere e fa la ruota della sua vanagloria. Dice infatti: Ho fatto questo e quello, ho incominciato la tal cosa, ho portato a termine quest’altra. E mentre in questo modo “fa la ruota” e si pavoneggia, non fa che rivelare la laidezza della sua infamia. Lo stolto infatti diventa ributtante proprio per ciò per cui crede di rendersi attraente.

 

10. “E i demoni si incontreranno con gli onocentàuri” (asino e toro). Onos in greco, asinus in latino.

L’asino raffigura il lussurioso. L’asino infatti è ignorante, pigro e pauroso. Così il lussurioso è ignorante perché ha perduto la vera sapienza, il cui sapore rende l’uomo saggio e sobrio e così elimina la lussuria della carne, che rende l’uomo appunto ignorante e fatuo. Il lussurioso è anche pigro. Dice il Poeta: “Ci si domanda come mai Egisto è diventato adultero; la causa è evidente: era pigro” (Ovidio).

Ed è anche pauroso, come l’asino. Si legge nella Storia Naturale che l’animale che ha il cuore grosso è pauroso, quello che lo ha misurato è più coraggioso. E la situazione in cui viene a trovarsi questo animale per la paura, dipende solo dal fatto che il calore del cuore è limitato e non può riscaldare tutto il suo corpo; e diventa ancora più debole nei cuori dilatati, e perciò il sangue si raffredda. Il cuore dilatato lo hanno anche le lepri, i cervi e i topi, oltre che gli asini. Come un fuoco piccolo scalda meno in una casa vasta che in una casa piccola, così in questi animali avviene anche del calore del cuore. La stessa cosa si verifica nel lussurioso, che ha un cuore dilatato nel pensare e nel commettere un grande delitto e un grave peccato di lussuria, ma poco o nulla ha di calore e di amore dello Spirito Santo; e quindi è vigliacco, instabile e incostante in tutte le sue azioni (cf.Gc 1,8).

Il toro poi raffigura il superbo. E il Signore si lamenta per bocca del Profeta: “Grossi tori mi hanno assediato” (Sal 21,13). I tori, cioè i superbi, grossi per l’abbon­danza delle cose materiali, mi hanno assediato, come i giudei, con la volontà di crocifiggermi di nuovo.

A questi “onocentàuri”, cioè ai lussuriosi e ai superbi, nell’ora della morte correranno vicino i demoni per impa­dronirsi della loro anima mentre esce dal corpo, per trascinarla alle pene eterne: e così avranno come torturatori nella pena coloro che ebbero come istigatori nella colpa.

 

11. “E i satiri grideranno uno all’altro”. I satiri (caproni) sono gli avari e gli usurai, che giustamente sono chiamati satiri (in lat. pilosi, pelosi, irsuti), vale a dire danarosi. L’avarizia chiama l’usura e l’usura chiama l’avarizia: quella induce a questa, e questa induce a quella. Oh, sventura! Il clamore di questi satiri ha riempito ormai tutto il mondo. E di costoro è figura il “peloso” Esaù, nome che s’interpreta “quercia”; e gli avari e gli usurai sono pelosi nel ricevere, ma sono come fatti di quercia, cioè duri e irremovibili, quando si tratta di restituire.

 

12. “Lì si accovacciò lo sciacallo e vi trovò riposo”. Lo sciacallo, dicono, è una bestia che ha volto umano, ma termina con la coda da bestia. Raffigura gli eretici che, per trarre più facilmente in inganno, si presentano con volto umano e parole suadenti. Dice di essi Geremia nelle Lamentazioni: “Gli sciacalli scoprono la mammella e allat­tano i loro cuccioli” (Lam 4,3). Gli eretici scoprono la mammella quando esaltano la loro setta, e allattano i loro cuccioli quando in quella falsità ammaestrano i loro seguaci spergiuri, che giustamente sono chiamati cuccioli e non figli, perché non sanno fare altro che latrare contro la chiesa e bestemmiare contro i cattolici, dato che sono rozzi, volgari e dissoluti.

 

13. E continua: “Lì ha la tana il riccio”. Osserva che il riccio è tutto spinoso, e se qualcuno tenta di catturarlo si arrotola completamente su se stesso e diventa come un palla in mano di colui che vuole prenderlo; ha la testa e la bocca piuttosto in basso e in bocca ha cinque denti.

Il riccio è il peccatore ostinato, tutto ricoperto delle spine del peccato. Se vuoi rimproverarlo del peccato commesso, si rinchiude subito su se stesso e nasconde con varie scuse il peccato commesso: per questo ha la testa e la bocca rivolte in basso. Nella testa è indicata la mente, nella bocca la parola. Il peccatore, quando scusa se stesso del male commesso, che cos’altro fa se non piegare verso le cose terrene la mente e le parole? Per questo si dice che in bocca ha cinque denti. I cinque denti che sono in bocca al riccio sono le cinque specie di scuse del peccatore ostinato. Infatti, quando è rimproverato adduce come scuse l’ignoranza, o la fatalità, o la suggestione diabolica, o la fragilità della carne o l’occasione creata dal prossimo; e così, soggiunge Isaia, “nutre i cuccioli”, vale a dire i suoi impulsi peccaminosi, “vi scava intorno le difese e li asseconda all’ombra delle sue scuse”.

 

14. Queste sette bestie, nel numero delle quali si possono racchiudere tutte le specie di peccati, devono comparire in grande numero, anzi tutte, nel deserto della nostra confes­sione, affinché nulla resti nascosto al sacerdote, niente sfugga al penitente, ma confessi tutto con la massima esattezza, sia i peccati che le circostanze. Dice infatti il Signore per bocca di Isaia: “Dopo settant’anni Tiro sarà come il canto di una meretrice. Prendi la cetra, percorri la città, o meretrice posta in oblio: canta bene, ripeti il tuo canto, affinché riviva il tuo ricordo” (Is 23,15-16).

In questo passo, con il numero settanta degli anni e il numero sette delle bestie, è indicata la totalità dei peccati. Per questo è detto che il Signore scacciò dalla Maddalena sette demoni, cioè tutti i vizi. Quindi con i settant’anni e le sette bestie intendiamo tutti i vizi. Dice dunque Isaia: “Dopo settant’anni”, cioè dopo aver commesso ogni sorta di crimini, “per Tiro” – che significa angustia –, vale a dire per l’anima angustiata dai peccati, “non resta che il canto”, cioè la confessione; infatti, dopo aver commesso ogni sorta di crimini, all’infelice anima non resta altro rimedio che la confessione dei peccati, “che è la seconda tavo­la di salvezza dopo il naufragio” (P. Lombardo). All’anima è detto: “O meretrice”, poiché hai scacciato il vero sposo Gesù Cristo e ti sei unita al diavolo adultero, e se non ti convertirai sarai consegnata all’eterno oblio, “prendi la cetra”.

Fa’ attenzione alle parole. In questo verbo “prendi” (sume) è indicata la volontà pronta, non costretta, ma disposta a confessarsi; nella cetra è indicata la confessione di ogni peccato e delle sue circostanze. Prendi dunque la cetra, confessati spontaneamente: “Vivo e sano, dice l’Ecclesiastico, tu confesserai” (Eccli 17,27), cioè darai lode a Dio.

 

15. Osserva che come nella cetra si tendono le corde, così nella confessione si devono spiegare le circostanze dei peccati, che rispondono alle domande seguenti: Chi, che cosa, dove, per mezzo di chi, quante volte, perché, in che modo, quando. Specifica [o confessore] tutte queste cose, e tanto con le donne come con gli uomini, interroga con diligenza e con discrezione.

Chi: se è sposato o celibe, se è laico o chierico, se è ricco o povero, quale ufficio esercita o quale carica ricopre, se è libero o schiavo, a quale ordine o a quale religione appar­tiene.

Che cosa: quanto grande o di che specie è il peccato, se è una semplice fornicazione, come avviene tra due che non hanno contratto matrimonio; se colei che è nubile si prostituisce o vende il suo corpo; se c’è adulterio; se c’è incesto, che avviene tra consanguinei e tra affini; se uno ha violato una vergine, perché così ha aperto la via al peccato e ha commesso un atto gravissimo; e si guardi costui di non rendersi complice di tutti i peccati che quella donna potrebbe commettere, se non l’avrà sistemata in qualche posto dove possa fare penitenza, o trovarle da sposarsi se è in grado di farlo; se ha commesso un peccato contro natura, che consiste in qualsiasi effusione del seme, che non avvenga nell’organo femminile.

Però di tutte queste cose si deve parlare con la massima discrezione et a remotis, cioè da lontano, [senza scendere in particolari]. Se ha commesso un omicidio con la mente, con la bocca o di fatto; se ha fatto un sacrilegio, una rapina, un furto, e a quali persone, e se è stato fatto in pubblico o in privato; se ha esercitato l’usura e in quale modo – infatti tutto ciò che si riceve in più del capitale è usura –; se c’è spergiuro, falsa testimonianza, e in che modo è stata fatta; se ha agito con superbia, che è di tre specie: non voler obbedire al superiore, non voler avere uguali, disprezzare l’inferiore: anche queste cose devono essere confessate a puntino.

Dove: se ha commesso il peccato in una chiesa consacrata o non consacrata, o vicino alla chiesa, o nel cimitero dei fedeli, o in qualche luogo destinato alla preghiera, o se in tutti questi luoghi ha fatto dei discorsi illeciti.

Per mezzo di chi: con l’aiuto o con il consiglio di quali persone ha peccato, o chi ha indotto a peccare; se pochi o molti sono stati complici o a conoscenza del suo peccato; se ha commesso il peccato per ricevere denaro, o se ha dato denaro per poter peccare.

Quante volte: si deve confessare quante volte si è commesso un peccato, almeno approssimativamente; se ha peccato spesso o raramente; se è rimasto in peccato a lungo

o per breve tempo; se è recidivo e si confessa abbastanza spesso.

Perché: se ha peccato con pieno consenso della mente, o se ha prevenuto la tentazione, compiendo il peccato addirittura prima di essere tentato; se per compiere il peccato ha fatto, in qualche modo, violenza alla natura, peccando così in modo gravissimo.

In che modo: si devono confessare le modalità del peccato: se in modo indebito, in modo inconsueto, con illeciti contatti, o cose simili.

Quando: se nel tempo del digiuno, se nella festa di qualche santo; se è andato a compiere qualcosa di illecito nel tempo in cui avrebbe dovuto andare in chiesa; e anche che età aveva quando ha commesso questo o quel peccato.

Poiché queste circostanze e altre simili rendono più grave il peccato e tormentano l’anima del peccatore, devono essere tutte dichiarate nella confessione. Queste sono come le corde tese nella cetra della confessione, della quale appunto è detto: “Prendi la cetra”.

 

16. “Percorri la città”. La città è la vita dell’uomo, che egli stesso deve percorrere: il tempo e l’età, il peccato e le sue modalità, il luogo e le persone con le quali ha pec­cato e che ha fatto peccare con il cattivo esempio, con la parola e con le azioni; e i peccatori che non ha trattenuto dal peccato, potendolo fare; tutto, come si è detto, deve confessare apertamente e con chiarezza.

Così infatti faceva il Profeta, che diceva: “Andai intorno e immolai nella sua tenda un sacrificio di vocife­razione (lode ad alta voce)” (Sal 26,6). Ho percorso tutta la mia vita come un buon soldato che va intorno al suo accampamento per controllare che non ci sia [nella recinzione] qualche squar­cio per il quale possa entrare il nemico, e immolai nella sua tenda, cioè nella chiesa, davanti al sacerdote, un sacrificio di “vociferazione”, cioè ho fatto la confessio­ne, che giustamente è detta vociferazione, perché il peccatore non deve confessare il suo peccato a metà e a bocca stretta, quasi balbettando, ma a piena bocca, quasi gridando. Giustamente dunque è detto: Percorri la città.

 

17. “Canta bene”, canta te stesso e non dare la colpa al diavolo, o alla fatalità o ad altre persone. Oppure anche: canta bene, confessando tutti i tuoi peccati ad un solo sacerdote, e non dividendoli tra diversi sacerdoti.

Forse mi domandi un consiglio su questo fatto, e mi dici: Ho fatto la confessione generale di tutti i miei peccati a un solo sacerdote, ma poi sono ricaduto in peccato mortale: è necessario che io confessi di nuovo tutti i peccati già confessati? Ti do un consiglio retto e vantaggioso e veramente necessario alla tua anima. Ogni volta che ti presenti a un confessore nuovo, confessati come se non ti fossi mai confessato prima di allora. Se invece vai dal confessore al quale la tua co­scienza è nota e al quale hai già fatto la tua confessione generale, sei tenuto a confessargli soltanto i peccati fatti dopo quella confessione generale, o quelli dimenti­cati.

“Canta bene”, dunque, “e ripeti il canto” della confessione, più e più volte accusando te stesso. E questo perché? Perché il ricordo di te viva al cospetto di Dio e dei suoi angeli, perché Dio perdoni i tuoi peccati, ti infonda la sua grazia e ti renda partecipe della gloria eterna.

 

18. Adesso sai quali sono le bestie, delle quali il deserto della tua confessione deve abbondare; nella confes­sione si devono dichiarare con semplicità e chiarezza i peccati e le loro circostanze: solo così il deserto della confessione incuterà grande terrore. E a chi? Appunto agli spiriti immondi. Leggiamo infatti nella Genesi: “Quanto è terribile questo luogo! Questa è veramente la casa di Dio e la porta del cielo” (Gn 28,17).

Il luogo della confessione, anzi la stessa confessione è terribile per gli spiriti immondi. È scritto nel libro di Giobbe: “I miei ruggiti sgorgano come un’inondazione” (Gb 3,24). Al ruggito del leone tutte le altre bestie trattengono il passo. L’inondazione travolge ogni ostacolo. Il ruggito del leone è la confessione del peccatore pentito, del quale dice il Profeta: “Ruggivo per lo strazio del mio cuore” (Sal 37,9), perché dallo strazio del cuore deve prorompere il ruggito della confessione e, ascoltandolo, gli spiriti del male, terrorizzati, più non si azzardano a farsi avanti con le tentazioni. L’inon­da­zione raffigura le lacrime della contrizione che dissolvono e travolgono tutto ciò che gli spiriti del male ordiscono per impedire al peccatore di piangere il suo peccato.

La confessione è detta anche “casa di Dio”, a motivo della riconciliazione del peccatore. Infatti nella confes­sione il peccatore viene riconciliato con Dio, il figlio viene riconciliato con il padre, quando viene da lui accolto nella casa paterna. Per questo leggiamo in Luca che quando il figlio maggiore fu vicino alla casa paterna, nella quale il figlio pentito banchettava con il padre, sentì la musica e il coro (cf. Lc 15,25).

Osserva che in quella casa c’erano tre cose: il banchet­to, la musica e il coro; così nella casa della confessio­ne, nella quale viene accolto il peccatore che ritorna dalla “regione della dissomiglianza” [dove con il peccato ha perduto la somiglianza con Dio], ci devono essere tre cose: il banchetto della contrizione, la musica dell’accu­sa, il coro dell’emendamento: come ti accusi peccatore, così devi anche fare ogni sforzo per correggerti. Ascolta la musica che risuona soavemente: “Riconosco la mia colpa e il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Sal 50,5). Ascolta il coro che risponde in perfetta sintonia: “Io sono pronto al castigo... e sta sempre davanti a me il mio dolore” (Sal 37,18). Purtroppo, quanti sono coloro che fanno musica soave, che cioè si accusano, ma che poi mai si correggono!

 

19. Altra applicazione. Se nella casa della confessione risuona la musica del pianto dell’amara compunzione, subito risponde ad una voce il coro della divina misericordia che perdona i peccati. Infatti nell’introito della messa di oggi è promesso: Mi invocherà e io lo esaudirò, lo libere­rò e lo coprirò di gloria, lo sazierò di lunghi giorni (cf. Sal 90,15-16).

Osserva che al penitente vengono fatte quattro promesse: la prima, quando dice “mi invocherà” perché io gli perdoni i peccati, “e io lo esaudirò”, perché gli infonderò la mia grazia. La seconda: “lo libererò” da quei quattro mali che sono nominati nel “tratto” della messa, e cioè dal terrore della notte, dalla freccia che vola di giorno, dalla peste che vaga nelle tenebre e dal demonio che devasta a mezzogiorno (cf. Sal 90,5-6). Il terrore della notte è la subdola tentazione del diavolo; la freccia che vola è la sua palese iniquità; la peste che vaga nelle tenebre sono gli intrighi degli ipocriti; il demonio che devasta a mezzogiorno è la focosa lussuria della carne: da tutto ciò il Signore libera il vero pentito. La terza: “lo glorificherò” nel giorno del giudizio con una duplice stola di gloria. La quarta: “lo sazierò di lunghi giorni” nella perennità dell’eterna vita.

La confessione è chiamata anche “porta del cielo”. O vera porta del cielo, o vera porta del paradiso! Per mezzo di essa infatti, come attraverso una porta, il peccatore pentito viene introdotto al bacio dei piedi della divina misericor­dia, viene sollevato al bacio delle mani della grazia celeste, viene innalzato al bacio del volto della riconci­liazione con il Padre.

O casa di Dio, o porta del cielo, o confessione del peccato! Beato colui che abiterà in te, beato colui che entrerà attraverso di te, beato chi si umilierà in te! Umiliatevi ed entrate per la porta della confessione, carissimi fratelli; confessate i peccati, confessate le circostanze del peccato, come avete sentito, perché “questo è il tempo favorevole” per la confessione, “questo è il giorno della salvezza” (2Cor 6,2), per la riparazione.

E dopo tutto questo aggiunge: “Avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti” (Mt 4,2).

 

  1. l’opera di riparazione (soddisfazione)

 

20. Il digiuno di Cristo, durato quaranta giorni e quaranta notti, ci insegna in quale modo possiamo fare penitenza per i peccati commessi e come dobbiamo comportarci per non ricevere inutilmente la grazia di Dio. Ci dice l’Apostolo: “Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Dice infatti il Signore per bocca di Isaia: “Al momento favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favore­vole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6,1-2; cf. Is 49,8).

Riceve inutilmente la grazia di Dio chi non vive secondo la grazia che gli è stata data; e anche riceve inutilmente la grazia di Dio chi crede di aver ricevuto per suo merito quella grazia che invece gli è stata elargita gratuitamen­te; e la riceve inutilmente anche colui che, dopo la confessione dei suoi peccati, si rifiuta di farne la penitenza nel momento favorevole, nel giorno della salvezza.

Ecco dunque ora il tempo favorevole, ecco il giorno della salvezza, che ci è dato appunto perché conquistiamo questa salvezza. Dice il beato Bernardo: “Niente è più prezioso del tempo, e, purtroppo, nulla si trova oggi che sia meno apprezzato. Passano i giorni della salvezza e nessuno riflette, nessuno si preoccupa di perdere un giorno che non gli ritornerà mai più. Come non cadrà un capello dal capo, così neppure un istante di tempo andrà perduto”. E anche Seneca avverte: “Se ci fosse tanto tempo di avanzo, ugualmente dovrebbe essere usato con parsimonia; che cosa quindi si deve fare, disponendone di così poco?”. E l’Ecclesiastico: “O figlio, abbi cura del tempo!” (Eccli 4,23) perché è un dono sacrosanto. Quindi in questi sacrosanti quaranta giorni [della quaresima] facciamo penitenza.

Il numero quaranta è formato dal quattro e dal dieci. Il creatore di tutte le cose, Dio, ha creato il corpo e l’ani­ma, e in ognuna di queste due entità [dell’uomo] ha immesso una serie di quattro elementi e un’altra serie di dieci.

Il corpo è composto dei “quattro elementi” e si regola ed agisce con i dieci organi di senso, quasi dieci soprintenden­ti, che sono: due occhi, due orecchi, l’odorato, il gusto, due mani e due piedi. Nell’anima invece Dio ha infuso quattro virtù principali, che sono: la prudenza, la giusti­zia, la fortezza e la temperanza; e le ha dato i dieci precetti del decalogo, che sono: “Ascolta, Israele: Il Signore tuo Dio è uno solo” (Dt 6,4). “Non usare invano il nome del tuo Dio. Ricordati di santificare il sabato” (Es 20,7-8). Questi tre precetti, che si riferiscono all’amore di Dio, sono stati scritti nella prima tavola. Gli altri sette, che si riferiscono all’amore del prossimo, sono stati scritti nella seconda, e sono: “Onora tuo padre e tua madre, non uccidere, non fornicare, non rubare, non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo, non desiderare la casa (le cose) del tuo prossimo, non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo, né la sua serva, né il bue, né l’asino, né null’altro di quanto gli appartiene” (Es 20,12-17).

Ora, giacché noi, con il nostro corpo mortale, che è compo­sto dei quattro elementi e che agisce attraverso i dieci sensi, pecchiamo ogni giorno contro le quattro virtù e contro i dieci precetti, dobbiamo riparare e soddisfare il Signore con il digiuno di quaranta giorni.

 

21. E in che modo questo si debba fare, l’abbiamo nel libro dei Numeri, dove si racconta che gli esploratori, mandati da Mosè e dai figli di Israele, percorsero per quaranta giorni tutta la terra di Canaan (cf. Nm 13,26).

Canaan s’interpreta “commercio” o anche “umile”. La terra di Canaan è il nostro corpo, con il quale dobbiamo operare, o permutare, con cambio favorevole, le realtà terrene per quelle eterne, le cose passeggere per quelle che resteranno, e questo sempre nel­l’umil­tà del cuore.

Di questo commercio leggiamo nei Proverbi, quando si parla della donna forte: “Gustò e vide che il suo commer­cio andava bene” (Pro 31,18). Nota che dice due cose: gustò e vide. La donna forte, cioè l’anima, gusta quando, con il sano palato della mente, prova le delizie della gloria celeste, per amore della quale di­sprezza il regno di questo mondo e tutte le sue ricchezze; e in questo modo, con l’andar del tempo, con l’occhio penetrante della ragione, vede e comprende che è un buon affare vendere tutto quello che ha e darne il ricavato ai poveri (cf. Mt 19,21), e poi, spoglia di tutto, seguire Cristo nudo.

È quello che dice Giobbe: “Pelle per pelle, e tutto quanto l’uomo ha, è pronto a darlo per la sua anima” (Gb 2,4). L’uomo, provando e constatando quanto è buono il Signore (cf. Sal 33,9), dà e scambia la pelle della grandezza di questo mondo per la pelle della gloria celeste. Ed è anche disposto a conse­gnare al carnefice e al torturatore il suo corpo mortale di pelle ed esporlo alla spada e alla morte, in cambio della pelle gloriosa del corpo immortale.

Giustamente il nostro corpo è chiamato “pelle”: infatti, come la pelle più viene lavata e più si deteriora, così il nostro corpo quanto più viene nutrito con delicatezza e infiacchito dai piaceri, tanto più presto perde le forze, invecchia e si copre di rughe. E per la sua anima l’uomo dev’essere disposto a dare non solo la pelle, ma anche tutto ciò che possiede, per meritare di sentirsi dire, come agli apostoli che avevano abbandonato la pelle e tutto il resto: “Sederete su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele” (Mt 19,28).

 

22. Noi dunque, come veri e valorosi esploratori, durante questi quaranta giorni percorriamo ogni regione del nostro corpo, cercando attentamente i peccati che abbiamo commesso con la vista, con l’udito, con il gusto, con l’odorato e con il tatto, confessandoli diligentemente con tutte le loro circostanze, affinché non ne rimanga neppure la minima traccia, sull’esempio di quanto fece Giosuè, del quale è detto: “Giosuè conquistò anche Makkeda e passò a fil di spada il suo re e tutti i suoi abitanti: non vi lasciò neppure il minimo avanzo” (Gs 10,28).

Makkeda s’interpreta “prima” o anche “bruciamento”, e indica il peccato, per il quale l’uomo viene dapprima bruciato per mezzo del battesimo; questo peccato infatti si eredita come castigo [il peccato originale]. Il re di questa città è la cattiva volontà che viene distrutta con la “bocca della spada” (lat. in ore gladii), vale a dire con la “spada della bocca”, nella confessione. I sudditi di quel re sono coloro che obbediscono ai cinque sensi, che devono essere distrutti pure con la penitenza, cioè liberati dallo stato di peccato. “Gli avanzi” sono la memoria del peccato e il piacere di parlarne, che non devono assolutamente essere risparmiati.

Leggiamo nello stesso libro: “Giosuè devastò tutto il territorio montuoso, quello di mezzogiorno e quello di campagna, come pure Asedoth, con i loro re; non vi lasciò alcun resto, ma uccise tutto ciò che aveva respiro” (Gs 10,40). Il territorio montuoso è la superbia; quello a mezzogiorno è la cupidigia; quello di campagna è la lussu­ria, per la quale il lussurioso scorrazza attraverso i campi come un cavallo sfrenato. Asedoth s’in­ter­preta “maleficio del popolo”, e indica ogni turpe immaginazione che alimenta il fuoco del peccato.

Deponiamo tutto questo nella confessione con il proposi­to di non ricadervi mai più, e di tutto facciamo una congrua penitenza: quanto più il corpo è insorto e si è ribellato, tanto più umiliamolo nella confessione; quanto più si è abbandonato ai piaceri, tanto più castighiamolo con le sofferenze (cf. Ap 18,7), mettendolo a pane e acqua, con la disciplina e con le veglie, perché si senta dire come la figlia di Jefte: “Mi hai rovinato, figlia mia”, mia carne, con i piaceri della gola e della lussuria, ma adesso resti rovinata anche tu (cf. Gdc 11,35), cioè sei castigata con i flagelli, con le veglie e con i digiuni.

Dopo aver fatto tutte queste cosiderazioni sullo spirito di contrizione, sul deserto della confessione, sui quaranta giorni della penitenza, e dopo aver precisato in che cosa consista la remissione di tutti i peccati, l’infusione della grazia e il premio della vita eterna, accingiamoci ora a descrivere i vizi che vi si oppongono, e cioè la gola, la vanagloria e la lussuria.

 

  1. ciò che si oppone ai tre atti di penitenza,ossia la triplice tentazione

 

23. Il vangelo continua: “Il tentatore gli si accostò e gli disse: Se sei il Figlio di Dio,” ecc. Il diavolo in circostanze uguali procede con uguali metodi. Con la tattica con la quale ha tentato Adamo nel paradiso terrestre, con la stessa ha tentato Cristo nel deser­to, e con la stessa tenta anche ogni cristiano in questo mondo.

Tentò il primo Adamo con la gola, con la vanagloria e con l’avarizia, e tentandolo lo vinse; tentò il secondo Adamo, Gesù Cristo, allo stesso modo, ma nella tentazione restò vinto, perché colui che tentò non era solo un uomo, ma era anche Dio. Noi che siamo partecipi di entrambi, dell’uomo secondo la carne e di Dio secondo lo spirito, spogliamoci dell’uomo vecchio con le sue opere che sono la gola, la vanagloria e l’avarizia, e rivestiamoci dell’uomo nuovo (cf. Col 3,9), rinnovati per mezzo della confessione, per frenare col digiuno lo sfrenato ardore della gola, per abbattere con l’umiliazione della confessione la boriosità della vanagloria, per pestare e disprezzare con la contrizione del cuore il denso fango dell’avarizia.

“Beati, dice il Signore, i poveri nello spirito”, che hanno cioè lo spirito addolorato e il cuore contrito (cf. Sal 50,19), “perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3).

 

24. Osserva ancora che, come il diavolo tentò il Signore di gola nel deserto, di vanagloria nel tempio e di avarizia sul monte, così fa anche con noi ogni giorno: ci tenta di gola nel deserto del digiuno, di vanagloria nel tempio dell’orazione e dell’ufficio, e di tante forme di avarizia nel monte delle nostre cariche.

Mentre digiuniamo ci tenta di gola, con la quale pecchiamo in cinque modi, come è detto nel seguente versetto di san Gregorio: Troppo presto, lautamente, troppo, voracemente, con raffinatezza.

Troppo presto, quando si anticipa l’ora [del pasto].

Lautamente, quando si eccita la golosità e si vuole risvegliare un appetito fiacco con condimenti, spezie e sontuosità di cibi.

Troppo, quando si ingurgita più cibo di quanto sia necessario al corpo. Dicono certi golosi: Siamo tenuti al digiuno, quindi mangiamo tanto da supplire in una sola volta sia al pranzo che alla cena. Questi sono come il bruco che non abbandona la pianta nella quale si è insediato se prima non l’ha divorata interamente. Il bruco è chiamato così perché è fatto quasi solo di bocca (in lat. bruchus, bucca) e raffigura il goloso che è tutto gola e ventre e che assalta il piatto come si trattasse di una fortezza e non lo lascia se prima non ha divorato tutto: o crepa il ventre o si vuota il piatto.

Voracemente, quando l’uomo si getta su ogni cibo quasi andasse all’assalto di un forte, apre le braccia, allunga le mani, e mangia con tutto se stesso: a tavola è come un cane che, in cucina, non tollera rivali.

Con raffinatezza, quando si cercano cibi squisiti e si preparano con grande ricercatezza. Come si legge nel primo libro dei Re, che i figli di Eli non volevano accettare la carne cotta, ma pretendevano quella cruda, per potersela poi preparare con più ricercatezza e raffinatezza (cf. 1Re 2,15).

 

25. Parimenti il diavolo ci tenta di vanagloria nel tempio. Infatti mentre siamo in preghiera, mentre recitiamo l’ufficio e siamo occupati nella predicazione, siamo assaliti dal diavolo con i dardi della vanagloria e, purtroppo, molto spesso feriti. Ci sono infatti alcuni che mentre pregano e piegano le ginocchia e mandano sospiri, vogliono essere veduti. E ci sono altri che quando cantano in coro modulano la voce e gorgheggiano, e desiderano essere ascoltati. E ci sono altri ancora che quando predicano, tuonano con la voce, moltiplicano le citazioni, le commentano a modo loro, si girano intorno, e desiderano essere lodati. Tutti questi mercenari, credetemi, “hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,2), e hanno collocato la loro figlia nel postribolo.

Dice Mosè nel Levitico: “Non prostituirai la tua figlia” (Lv 19,29). Mia figlia è la mia opera, e la prostituisco, cioè la metto nel lupanare, quando la vendo per il denaro della vanagloria. Per questo il Signore ci consiglia: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la porta, prega il Padre tuo” (Mt 6,6). Tu, quando vuoi pregare o fare qualcosa di bene – e in questo consiste il pregare senza interruzione (cf. 1Ts 5,17) –, entra nella tua stanza, cioè nel segreto del tuo cuore, e chiudi la porta dei cinque sensi, per non bramare di essere né visto, né ascoltato, né lodato.

Dice infatti Luca che Zaccaria entrò nel tempio del Signore nell’ora dell’incenso (cf. Lc 1,9). Nel tempo della preghiera, che sale al cospetto del Signore come l’incenso (cf. Sal 140,2), devi entrare nel tempio del tuo cuore e pregare il Padre tuo, “e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà” (Mt 6,6).

 

26. Inoltre sul monte delle nostre cariche, della nostra temporanea dignità, siamo tentati a commettere molti peccati di avarizia. Non c’è solo l’avarizia del denaro ma anche quella della preminenza (predominio). Gli avari più hanno e più bramano di avere, e coloro che sono posti in alto, quanto più salgono tanto più si forzano di salire, e così avviene che crollino con una caduta molto più rovinosa, giacché “i venti investono le cose molto alte” (Ovidio) e agli idoli vengono immolati vittime nelle alture (cf. 3Re 3,2; 4Re 12,3).

Dice Salomone in proposito: “Il fuoco non dice mai: basta!” (Pro 30,16). Il fuoco, cioè l’avarizia del denaro e della preminenza, non dice mai: basta! Ma cosa dice? “Dammi, dammi!” (Pro 30,15).

O Signore Gesù, togli, togli questi due “dammi, dammi” dai prelati della tua chiesa, che si pavoneggiano sul monte delle dignità ecclesiastiche e sperperano il tuo patrimo­nio, da te conquistato con gli schiaffi, con i flagelli, con gli sputi, con la croce, con i chiodi, con l’aceto, con il fiele e la lancia.

Noi dunque, che siamo chiamati cristiani dal nome di Cristo, imploriamo tutti insieme con la devozione della mente lo stesso Gesù Cristo e chiediamogli insistentemente che dallo spirito di contrizione ci faccia arrivare al deserto della confessione, affinché in questa quaresima meritiamo di ricevere la remissione di tutte le nostre iniquità e, rinnovati e purificati, siamo fatti degni di fruire della letizia della sua santa Risurrezione e di essere collocati nella gloria dell’eterna beatitudine.

Ce lo conceda colui al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.