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Giovedi, 25 aprile 2024 - San Marco ( Letture di oggi)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA

Sant'Antonio da Padova

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA
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Temi del sermone

 

– Vangelo di Quinquagesima: “Un cieco sedeva lungo la via”.

– Anzitutto sermone ai predicatori: “Samuele prese un’ampolla di olio”.

– Sermone contro il superbo: “Un cieco sedeva lungo la via”; le proprietà del nido e del sangue mestruale.

– Sermone contro i tiepidi e i lussuriosi: “Avvenne un giorno che Tobia”, ecc.

– Sermone sulla passione di Cristo: “Apri il ventre del pesce”.

– Sermone ai prelati della chiesa: “Le labbra del sacerdo­te”.

– Sermone sulla passione di Cristo: “Sarà consegnato ai pagani”, ecc.

 

esordio - sermone ai predicatori

 

1. “Un cieco sedeva lungo la via, e gridava: Figlio di David, abbi pietà di me” (Lc 18,35.38).

Leggiamo nel primo libro dei Re: “Samuele prese un’ampolla di olio e lo versò sul capo di Saul” (1Re 10,1). Samuele s’interpreta “richiesto”, e indica il predicatore, che la chiesa con le sue preghiere richiede a Cristo, il quale dice nel vangelo: “Pregate il padrone della mèsse, perché mandi operai nella sua mèsse” (Mt 9,38). Il predica­tore deve prendere l’ampolla dell’olio, che è un vasetto quadrangolare, figura della dottrina evangelica, detta quadrangolare a motivo dei quattro evangelisti, e da essa deve versare l’olio della predicazione sul capo di Saul, vale a dire nell’anima del peccatore. Saul s’in­ter­preta “colui che abusa”, che fa cattivo uso, e giustamente rappresenta il peccatore che fa cattivo uso dei doni di grazia e di natura.

Osserva che l’olio unge e illumina. Così la predicazione unge e rende malleabile la pelle invecchiata nei giorni di peccato (cf. Dn 13,52) e indurita dai peccati, vale a dire la coscienza del peccatore; o anche unge l’atleta di Cristo e lo consacra al combattimento contro le potenze dell’aria (diaboliche) che devono essere debellate. Per questo troviamo nel terzo libro dei Re che Sadoc unse Salomone a Gihon (cf. 3Re 1,45). Sadoc s’interpreta “giusto”, e simboleggia il predicatore che in qualità di sacerdote offre il sacrificio di giustizia sull’altare della passione del Signore. Egli unse Salomone, che s’in­ter­preta “pacifico”, a Gihon, che significa “lotta”; infatti il predicatore con l’olio della predicazione deve ungere il peccatore convertito per renderlo idoneo alla lotta, affinché non ceda alle suggestioni diaboliche, calpesti le lusinghe della carne e disprezzi il mondo ingannatore. L’olio inoltre illumina, perché la predicazione illumina l’occhio della ragione, affinché diventi capace di vedere il raggio del vero sole. E allora, nel nome di Cristo io prenderò l’ampolla di questo santo vangelo, e da essa verserò l’olio della predicazione, con il quale si illuminino gli occhi di questo cieco, del quale è detto: “Un cieco sedeva lungo la via”.

 

2. In questa domenica si legge il vangelo del cieco illuminato. Nello stesso vangelo si fa memoria della passione di Cristo, e si legge e si canta la storia della peregrinazione di Abramo e dell’immolazione del figlio suo Isacco. E nell’introito della messa si dice: “Sii per me, Signore, il Dio che protegge”, e si legge l’epistola del beato Paolo ai Corinzi: “Anche se parlassi le lingue degli angeli e degli uomini”, ecc. Quindi a onore di Dio e per l’illuminazione della vostra anima, concorderemo tra loro tutte queste letture.

 

I. la cecità dell’anima

 

3. “Un cieco sedeva”, ecc. Senza nominare per ora tutti gli altri ciechi illuminati dal Signore, vogliamo ricordar­ne soltanto tre. Il primo è quello del vangelo, cieco dalla nascita, illuminato con la saliva e il fango (cf. Gv 9,1­7); il secondo è Tobia, accecato dallo sterco delle rondini, ma guarito con il fiele del pesce (cf. Tb 2,11 ss.); il terzo è il vescovo della chiesa di Laodicea, al quale il Signore dice: “Non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato e raffinato con il fuoco per diventare ricco, e di indossare vesti bianche perché non si manifesti la vergogna della tua nudità; e ungi i tuoi occhi con il collirio, affinché tu possa vedere” (Ap 4,17-18). Vedremo che cosa simboleggino questi tre ciechi.

Il cieco dalla nascita rappresenta in modo allegorico il genere umano, accecato nei progenitori. Gesù lo illuminò quando sputò in terra e gli spalmò sugli occhi il fango così ottenuto. La saliva, che scende dalla testa, simboleg­gia la divinità, la terra rappresenta l’umanità. La mesco­lanza della saliva con la terra raffigura l’unione della natura divina con la natura umana: per effetto di questa unione fu illuminato il genere umano. E le parole del cieco che grida, seduto lungo la strada, richiamano appunto le due nature: “Abbi pietà di me”, si riferisce all’umanità, e “Figlio di David” alla divinità.

 

4. In senso morale, questo cieco raffigura il superbo. La sua superbia viene così descritta dal profeta Abdia: “Anche se tu fossi innalzato come un’aquila e collocassi il tuo nido fra le stelle, di lassù ti farei precipitare, dice il Signore” (Abd 1,4).

L’aquila, che vola più in alto degli altri uccelli, raffigura il superbo, che con le due ali dell’arroganza e della vanagloria brama d’essere ritenuto superiore a tutti. A lui è detto: “Anche se tu collocassi il tuo nido”, cioè la tua vita, “fra le stelle”, vale a dire fra i santi, che in un luogo caliginoso (cf. 2Pt 1,19) brillano come stelle nel firmamento, “io ti farò precipitare di lì, dice il Signore”. Infatti il superbo tenta di collocare il nido della sua vita in compagnia dei santi. Dice infatti Giobbe: “La piuma dello struzzo”, cioè dell’ipocrita, “assomiglia alle penne della cicogna e dello sparviero” (Gb 39,13), cioè del giusto.

Osserva anche che il nido ha in se stesso tre qualità: all’interno è fatto di cose soffici, all’esterno è costrui­to di cose dure e ruvide, è situato in un luogo insicuro, esposto al vento. Così la vita del superbo ha all’interno una certa morbidezza, che è il piacere carnale; ma lui all’esterno è circondato di spine e di legni secchi, cioè di opere morte; infine è esposto al vento della vanità, si trova in una situazione precaria, perché dal mattino alla sera non sa se sarà tolto di mezzo. E questa è la conclu­sione: “Di lassù”, dice il Signore, “io ti precipiterò giù all’inferno”. E per questo è detto ancora nell’Apocalisse: “Quanto si innalzò e visse nei piaceri, tanto dategli di tormenti” (Ap 18,7).

 

5. E osserva che questo cieco superbo viene illuminato con lo sputo e il fango. Lo sputo è il seme del padre, che viene immesso nella flaccida matrice della madre, nella quale viene generata la misera creatura umana: certamente la superbia non l’acceche­rebbe, se considerasse la forma così miseranda della sua generazione. Per questo dice Isaia: “Ponete mente alla pietra dalla quale siete stati tagliati e alla cava del lago dalla quale foste tratti” (Is 51,1). La pietra è il nostro padre carnale; la cava del lago è la matrice della madre nostra. Dal primo usciamo nella fetida effusione del seme, dalla seconda veniamo estratti nel parto pieno di dolore.

Perché dunque ti insuperbisci, o misera creatura umana, generata con sì vile sputo, procreata in così orrido lago e ivi nutrita per nove mesi con sangue mestruo? Al contatto di quel sangue le messi più non germogliano, il mosto va in aceto, le erbe muoiono, le piante perdono i frutti, la ruggine corrode il ferro, i bronzi anneriscono, e se i cani ne ingeriscono sono colpiti dalla rabbia, di modo che i loro morsi sono pericolosi e rendono linfatici. Inoltre gli sguardi stessi delle donne, che pure durante il periodo delle loro regole sentono minori stimoli, non sono certo innocui. Con lo sguardo guastano gli specchi, così che la loro lucentezza, colpita dallo sguardo, viene diminuita. E questa lucentezza quasi spenta fa svanire la consueta somiglianza del volto; l’aspetto viene come offuscato da una specie di caligine, causata appunto dall’indebolimento della lucentezza.

Se tu, o misero uomo, o cieco superbo, mediterai attentamente queste cose e ti considererai generato col fango e con lo sputo, veramente sarai illuminato, realmente ti umilierai. E che la citazione di Isaia sopra riportata si riferisca alla generazione carnale, risulta chiarissimo da ciò che segue: “Guardate ad Abramo, vostro padre, e a Sara che vi ha partorito” (Is 51,2).

A questo cieco superbo il Signore comanda: “Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre”, ecc. (Gn 12,1). Osserva qui tre specie di superbia: la superbia nei riguardi dell’inferiore, dell’uguale e del superiore.

Il superbo calpesta, disprezza e schernisce: calpesta l’inferiore come fosse terra, la quale si chiama così dal verbo latino tero, pestare; disprezza l’uguale come fosse della sua parentela; il superbo infatti disprezza e scandalizza con facilità parenti e affini; schernisce perfino il superiore, come la casa del padre. Il superiore è detto “casa del padre” perché sotto di lui il suddito, come fa il figlio nella casa paterna, si deve proteggere dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica, dal fuoco della prosperità mondana. Ma il cieco superbo schernisce il superiore con quel disprezzo che si esprime come arricciando il naso. Dice perciò il Signore: “Esci”, o cieco superbo, “dalla tua terra” per non calpestare l’inferiore; “esci dalla tua parentela” per non disprezzare l’uguale, “e dalla casa di tuo padre” per non schernire il superiore.

 

6. Segue: “E va’ in una terra che io ti indicherò” (Gn 12,1). Questa terra è l’uma­nità di Gesù Cristo, della quale il Signore dice a Mosè: “Slégati i calzari dai piedi, perché la terra sulla quale stai è terra santa” (Es 3,5). I calzari sono le opere morte, che tu devi sciogliere, cioè togliere, dai piedi, vale a dire dagli affetti della tua mente, perché la terra, cioè l’umanità di Cristo, nella quale stai per mezzo della fede, è santa e santifica te peccatore. Va’ dunque, o superbo, in quella terra, considera l’umanità di Cristo, osserva la sua umiltà e distruggi l’orgoglio del tuo cuore. Cammina con i passi dell’amore, avvicinati con l’umiltà del cuore, dicendo con il Profeta: “Nella tua verità (con ragione) mi hai umiliato” (Sal 118,75).

O Padre, nella tua verità, cioè nel Figlio tuo, umiliato, povero e pellegrino, mi hai umiliato; il Figlio tuo è stato umiliato nel grembo della Vergine, è stato povero nel presepio, nella stalla degli animali; è stato pellegrino andando al patibolo della croce. Nulla è in grado di umiliare la superbia del peccatore quanto l’umiliazione dell’umanità di Gesù Cristo. Dice infatti Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi: al tuo cospetto si liqueferebbero i monti” (Is 64,1). Al suo cospetto, cioè alla presenza dell’umanità di Cristo, i monti, vale a dire i superbi, si dileguano, e vengono meno in se stessi quando considerano il capo della divinità reclinato nel grembo della Vergine Maria.

Va’ dunque nella terra che quasi con il dito ti ho indicato nel fiume Giordano, dicendo: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3,17). Anche tu sarai il diletto, nel quale mi sono compiaciuto, figlio adottivo per grazia, se sul­l’esem­pio del Figlio mio, che è a me uguale, ti sarai umiliato; per questo te l’ho mostrato, perché tu uniformassi il comportamento della tua vita alla forma della sua vita, e così uniformato ricevessi l’illuminazione, e quindi potessi udire: “Vedi, la tua fede ti ha salvato” (Lc 18,42), ti ha ridato la vista.

 

7. Il secondo cieco, reso tale dallo sterco delle rondini, ma poi risanato con il fiele del pesce, è Tobia, del quale nell’omonimo libro si racconta: “Avvenne che un giorno, stanco per aver fatto una sepoltura, tornato a casa si sdraiò appoggiato alla parete e si addormentò, e da un nido di rondini caddero sui suoi occhi, mentre dormiva, degli escrementi e così diventò cieco” (Tb 2,10-11). Vediamo brevemente che cosa significhino Tobia, la sepoltura, la casa, il muro, il prender sonno, il nido, le rondini e i loro escrementi. Tobia è il giusto tiepido, la sepoltura è la penitenza, la casa è la cura del corpo, la parete è il piacere della carne, il prender sonno è il torpore della negligenza, il nido è il consenso della mente viziosa, le rondini sono i demoni, gli escrementi sono la gola e la lussuria.

Tobia raffigura il giusto tiepido, svogliato, del quale il Signore dice nell’Apoca­lisse: “Giacché non sei freddo”, per la paura della pena, “e neppure caldo”, per amore della grazia, “ma perché sei tiepido, per questo incomincerò a vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). Infatti come l’acqua tiepida provoca il vomito, così la tiepidezza e la negli­genza espelle dal seno della misericordia divina l’ozioso e il tiepido. Maledetto colui che compie con indolenza le opere del Signore, esclama Geremia (cf. Ger 48,10). Costui, stanco dalla sepoltura, ritorna a casa, quando nella fatica della penitenza – nella quale e sotto la quale deve nascondere i corpi dei morti, cioè i peccati mortali, per essere tra quelli di cui è detto: Beati coloro dei quali i peccati sono coperti (Sal 31,1) – è preso dalla noia e ritorna con i suoi desideri alla cura del suo corpo e alla sua concupiscenza, comportandosi così al contrario di ciò che dice l’Apostolo (cf. Rm 13,14).

Infatti soggiunge: “Si sdraiò contro una parete”. La parete è il piacere della carne. Come nella parete una pietra viene posta sull’altra ed è fissata con il cemento, così nei piaceri della carne il peccato della vista è unito al peccato dell’udito, il peccato dell’udito a quello del gusto, e così degli altri sensi, e si congiungono tenace­mente tra loro con il cemento delle cattive abitudini; quindi si addormenta abbandonato al torpore della negligen­za, e così avviene la defecazione delle rondini sugli occhi del dormiente.

Le rondini, per il loro agilissimo volo, raffigurano i demoni, la cui superbia avrebbe voluto volare al di sopra delle nubi, al di sopra delle stelle del cielo, e arrivare all’ugua­glianza con il Padre, a somiglianza del Figlio (cf. Is 14,13-14).

Il nido dei demoni è il consenso della mente effeminata, costruito con le penne della vanagloria e con il fango della lascivia. Da tale nido cadono gli escrementi della gola e della lussuria sugli occhi di Tobia addormentato, e così vengono accecati gli occhi, cioè la ragione e l’intel­letto della sventurata anima.

 

8. Fate attenzione, o carissimi, e guardatevi bene da questo funesto ingranaggio: dal tedio della sepoltura, cioè dal disgusto della penitenza si arriva alla casa della cura del corpo; questa, sotto l’apparenza della necessità, si appoggia alla parete del piacere, e quindi, immersa nel sonno della negligenza, viene accecata dallo sterco della lussuria. Dice il Poeta: Ci si domanda come mai Egisto sia diventato adultero. Il motivo è lì evidente: se ne stava in ozio (Ovidio). Grida dunque, o tiepido Tobia, o cieco lussurioso, che giaci appoggiato alla parete, grida: “Figlio di David, abbi pietà di me!”.

Perciò questo cieco, nell’introito della messa di oggi, prega di essere illuminato, dicendo: “Sii tu il Dio che mi protegge, il luogo di riparo, perché tu sei il mio sostegno e il mio rifugio, e per il tuo nome sarai la mia guida e mi nutrirai” (Sal 30,2 ss.). Il cieco chiede quattro cose: “Sii tu il Dio che mi protegge”: mi proteggi e mi difendi con le braccia aperte sulla croce, come la chioccia i suoi pulcini sotto le sue ali; “il luogo di riparo”: nel tuo fianco, trafitto dalla lancia, possa io trovare il luogo di riparo, dove nascondermi di fronte al nemico; “perché tu sei il mio sostegno”, affinché non cada, “e il mio rifugio”, anzi “retrofugio”, perché se cadrò, non ad altri ma solo a te io mi rivolga; “e per il tuo nome” che è “Figlio di David”, sarai guida a me che sono cieco, perché mi porgerai la mano della tua misericordia, e mi nutrirai con il latte della tua grazia. “Figlio di David, abbi dunque pietà di me”.

 

II. la passione di cristo

 

9. Il Figlio di Dio e di David, l’angelo del supremo consiglio, il medico e la medicina del genere umano, sempre nel libro di Tobia, ti consiglia dicendo: Sventra il pesce, estrai il fiele, ungi gli occhi (cf. Tb 6,5 ss.) e così potrai riacquistare la vista.

In senso allegorico, il pesce raffigura Cristo, che per noi è stato, per così dire, arrostito sulla graticola della croce. Il fiele è la sua amarissima passione, e se gli occhi della tua anima saranno di essa cosparsi, riacquisterai la vista. Infatti l’amarezza della passione del Signore scaccia tutta la cecità della lussuria e ogni escremento di carnale concupi­scenza. Ha detto un sapiente: “Il ricordo del crocifisso crocifigge i vizi” (Guerrico); e nel libro di Rut leggiamo: “Intingi il tuo boccone nell’aceto” (Rt 2,14). Il boccone è il meschino, momentaneo piacere della carne; devi intingere il boccone nell’aceto, cioè nel­l’ama­rezza della passione di Gesù Cristo.

Anche a te perciò il Signore comanda quello che ha comandato ad Abramo, nel racconto che si legge in questa domenica: “Prendi il tuo figlio Isacco, che tanto ami, e va’ nella terra della visione, e lì offrilo a me in olocausto” (Gn 22,2). Isacco s’interpreta “riso” o “godimento”, e in senso morale sta a significare la nostra carne, che ride quando le cose di questo mondo le sorridono, e gode quando soddisfa i suoi desideri. E Salomone dice in proposito: “Il riso”, cioè le cose temporali, “ho reputato un errore” perché fanno deviare (errare) dalla via della verità, “e al godimento” della carne ho detto: perché invano ti illudi?” (Eccle 2,2).

Prendi dunque il figlio tuo, la tua carne, che ami e che nutri con tanto affetto: non sai, povero meschino, che non c’è al mondo peste peggiore del nemico che vive in casa con te? E continua Salomone: “Colui che nutre con delicatezza il suo servo fin dall’in­fan­zia, se lo ritroverà poi pieno di insolenza” (Pro 29,21). “Prendilo dunque, prendilo e crocifiggilo” (Gv 19,15), è reo di morte. Risponde Pilato, cioè l’affetto carnale: “Che cosa ha fatto di male?” (Mt 26,66; 27,23; Lc 23,22). Oh, quanti mali ha fatto il tuo riso, il tuo figlio. Ha disprezzato Dio, ha scandalizzato il prossimo, ha dato la morte alla sua anima. E tu dici: Che cosa ha fatto di male? Prendilo dunque e va’ nella terra della visione.

 

10. “Terra della visione” fu chiamata Gerusalemme, della quale si legge nel vangelo di oggi: “Gesù chiamò segreta­mente i suoi dodici discepoli e disse loro: Saliamo a Gerusalemme” (Mt 20,17-18). Prendi anche tu il figlio tuo e sali con Gesù e gli apostoli a Gerusalemme, e lì offri sull’altare, cioè nella meditazione della passione del Signore, sulla croce della penitenza, il tuo corpo in olocausto. E fa’ bene attenzione che dice “in olocausto”. “Olocausto” viene dal greco olon, tutto, e cauma, bruciamento, combustione; perciò “olocausto” significa “tutto bruciato”. Offri quindi tutto il tuo figlio, tutto il tuo corpo a Gesù Cristo, che si offrì tutto al Padre per distruggere tutto intero il corpo del peccato (cf. Rm 6,6).

E osserva che come il corpo umano è composto di quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra, il fuoco negli occhi, l’aria nella bocca, l’acqua nei lombi, la terra nelle mani e nei piedi; così il corpo del peccatore, schiavo del peccato, ha il fuoco negli occhi per la curiosità (bramosia), l’aria nella bocca per la loquacità, l’acqua nei lombi per la lussuria e la terra nelle mani e nei piedi per la spietatezza. Invece il Figlio di Dio ebbe velato il suo volto – nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12) – per mortificare la morbosa curiosità dei tuoi occhi; restò muto come un agnello davanti a colui che non solo lo tosò, ma addirittura lo uccise, e mentre veniva maltrattato non aprì la sua bocca (cf. Is 53,7; At 8,32), per frenare la tua smodata loquacità; il suo fianco fu squarciato dalla lancia per far uscire da te gli umori malsani della lussuria; fu appeso alla croce con i chiodi conficcati nelle mani e nei piedi per eliminare dalle tue mani e dai tuoi piedi l’iniquità (delle opere cattive). Prendi dunque il figlio tuo, il tuo riso, la tua carne, e offri tutto in olocausto, affinché tu possa ardere tutto di carità “la quale copre la moltitudine dei peccati” (1Pt 4,8).

L’Apostolo nell’epistola di oggi dice della carità: “Se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo risonante o un cembalo squillante” (1Cor 13,1). Dice Agostino: Io chiamo carità quell’impulso dell’a­ni­ma che spinge a fruire di Dio per lui stesso, e a fruire di sé e del prossimo in ordine a Dio. E chi non ha questa carità, anche se fa tante cose buone, tante buone opere, fatica invano; per questo appunto dice l’Apostolo: Anche se parlassi le lingue degli angeli, ecc. La carità portò il Figlio di Dio al patibolo della croce. È detto nel Cantico dei Cantici: “L’amore è forte come la morte” (Ct 8,6). E il beato Bernardo esclama: “O carità, quanto forte è il tuo legame, con il quale perfino il Signore poté essere legato!”. Prendi dunque il figlio tuo (il tuo corpo) e offrilo sull’altare della passione di Gesù Cristo: con il suo fiele, cioè con la sua amarezza sarai illuminato e meriterai di sentirti dire: “Vedi! la tua fede ti ha salvato” (Lc 18,42), ti ha ridato la vista.

 

11. C’è anche un’altra applicazione. Tobia fu illumina­to con il fiele del pesce. La carne del pesce è gustosa, invece il fiele è amaro, e se con esso si bagna la carne del pesce, anch’essa diventa tutta amara. La carne del pesce raffigura il piacere della lussuria, e il fiele che dentro vi è nascosto è l’amarezza della morte eterna. Per questo Giobbe, nello stesso senso anche se con parole diverse, dice: “Il loro cibo era la radice del ginepro” (Gb 30,4). Osserva che la radice del ginepro è dolce e commestibile, ma ha come foglie le spine; così il piacere della lussuria, che è il cibo degli uomini dediti ai piaceri carnali, al momento sembra dolce, ma alla fine produrrà le spine dell’eterna morte.

Sventra dunque il pesce, medita cioè sul piacere del peccato e comprendi quanto sia abietto. Estrai il fiele, vale a dire volgi la tua attenzione alla pena, al castigo che è comminato al peccato e come quel castigo non abbia mai fine: così potrai cambiare in amarezza ogni piacere della tua carne.

 

12. Il terzo cieco fu l’angelo di Laodicea, illuminato con il collirio. Laodicea s’inter­preta “tribù cara al Signore”, e indica la santa chiesa, per amore della quale il Signore ha versato il suo sangue, e da essa, come fece con la tribù di Giuda, scelse il “sacerdozio regale” (1Pt 2,9). L’angelo di Laodicea è il vescovo, ossia il prelato della santa chiesa, che giustamente è chiamato “angelo” per la dignità del suo ufficio, del quale il profeta Malachia dice: “Le labbra del sacerdote custodiscono la scienza; dalla sua bocca si ricerca la legge, perché egli è l’angelo del Signore degli eserciti” (Ml 2,7).

Osserva che in questa citazione sono indicate cinque prerogative, assolutamente necessarie al vescovo o al prelato della chiesa: e cioè la vita, la fama, la scienza, la ricchezza della carità, la tunica talare della purezza.

Le labbra del sacerdote sono due: la vita e la fama; esse devono custodire la scienza, affinché ciò che il sacerdote sa e predica custodisca la sua vita, per quanto riguarda lui stesso, e la sua scienza, per quanto riguarda il prossimo. Da queste due labbra infatti procede la scienza di una predicazione fruttuosa. E se nel prelato ci sono anzitutto queste tre qualità, dalla sua bocca i sudditi ricercheranno la legge, cioè la carità, della quale dice l’Apostolo: “Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2), cioè il suo precetto della carità; Cristo infatti solo per amore portò nel suo corpo sopra la croce il peso dei nostri peccati. La legge è la carità, che i sudditi “cercano al di fuori” (ex­quirunt), cercano cioè anzitutto nelle opere, per riceverla poi più volentieri e più fruttuosamente dalla bocca stessa del prelato: perché Gesù “incominciò prima a fare e poi a insegnare” (At 1,1). Egli infatti “era potente in opere e in parole” (Lc 24,19).

 

13. “Perché è l’angelo (il messaggero) del Signore degli eserciti”. Ecco la stola della purezza interiore. Vivere nella carne, prescindendo dalla carne, come dice Girolamo, è proprio non della natura umana ma di quella celeste.

Ma all’angelo di Laodicea, cioè al prelato della chiesa, privo di queste cinque doti, il Signore fa dei gravi rimproveri, quando dice: “Tu sei infelice e miserabile, cieco, povero e nudo”. Sei infelice nella tua vita, misera­bile nella fama, cieco nella scienza, povero nella carità, nudo della tunica talare della purezza. Ma poiché il Signore sa curare i mali con i rimedi ad essi contrari, e quando corregge insegna e mentre pungola lenisce il dolore, ecco che dà i suoi consigli al cieco di Laodicea, dicendo: “Ti esorto a comprare da me oro purificato nel fuoco e garantito, per diventare ricco, e a indossare vesti bianche affinché non si veda la vergogna della tua nudità; e ungi i tuoi occhi con il collirio per vedere”. Ti esorto a comprare con il prezzo della buona volontà, da me e non dal mondo, l’oro di una vita preziosa, contro la scoria della tua vita infelice; oro purificato dal fuoco della carità, contro la miseria della tua povertà; oro garantito dal crogiolo della buona fama, contro il fetore della tua infamia; e a rivestirti di vesti bianche, contro la vergogna della tua nudità, e irrorare i tuoi occhi con il collirio, contro la cecità della tua insipienza.

 

14. Osserva che questo collirio, con il quale si illumina­no gli occhi dell’anima, si compone delle cinque parole della passione del Signore, che sono come cinque erbe, delle quali parla appunto il vangelo di oggi: “Sarà conse­gnato ai pagani, e sarà schernito, flagellato e coperto di sputi; e dopo averlo flagellato, lo uccideranno” (Lc 18,32). Ahimè, ahimè, [colui che è] la libertà dei prigio­nieri è imprigionato; la gloria degli angeli è schernita, il Dio di tutti è flagellato, lo specchio senza macchia e il candore della luce eterna (cf. Sap 7,26) è coperto di sputi; colui che è la vita dei morenti è ucciso: e a noi miseri che resta ormai da fare, se non che andiamo e moriamo con lui? (cf. Gv 11,16). Sollevaci, o Signore, dal fango della feccia con l’uncino della tua croce, perché possiamo correre, non dico al profumo (cf. Ct 1,3), ma all’amarezza della tua passione. O anima mia, prepàrati il collirio, fa’ un amaro pianto sulla morte dell’Unigenito (cf. Ger 6,26), sulla passione del Crocifisso! Il Signore innocente è tradito dal discepolo, è schernito da Erode, è flagellato dal preside, è coperto di sputi dalla plebaglia dei giudei, è crocifisso dalla coorte dei soldati! Facciamo una breve considerazione su ognuno di questi fatti.

 

15. Fu tradito da un suo discepolo. Giuda disse: “Che cosa volete darmi, e io ve lo consegnerò?” (Mt 26,15).

O dolore! Si tenta di dare un prezzo a ciò che è inestimabile! Ahimè, Dio viene tradito e venduto per poco denaro. “Che cosa volete darmi?” O Giuda, tu vuoi vendere Dio, il Figlio di Dio, come uno schiavo senza valore, come un “cane morto”, giacché interroghi non la tua volontà ma quella dei compratori. “Che cosa volete darmi?”. E che cosa possono darti? Se ti dessero Gerusalemme, la Galilea e la Samaria, potrebbero forse comperare Gesù? Se potessero darti il cielo e gli angeli, la terra e gli uomini, il mare con quanto contiene, sarebbero forse in grado di comperare il Figlio di Dio, “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza”? (Col 2,3). Certamente no! Il Creatore può forse essere comperato o venduto dalla creatura? E tu dici: Che cosa volete darmi, e io ve lo consegnerò? Dimmi un po’: In che cosa ti ha offeso, che cosa ti ha fatto di male, perché tu dica: E io ve lo consegnerò? Dov’è l’incomparabile umiltà del Figlio di Dio e la sua volontaria povertà? Dov’è la sua dolcezza e la sua affabilità? Dov’è la sua umanissima predicazione e dove i miracoli da lui operati? Dove sono le sue lacrime pietose versate su Gerusalemme e per la morte di Lazzaro? Dov’è il privilegio per il quale ti ha scelto come apostolo e ti ha fatto suo amico e familiare? Questi fatti e altri ancora non avrebbero dovuto intenerire il tuo cuore e richiamarlo alla pietà e impedirti di dire: Io ve lo consegnerò? Purtroppo, quanti Giuda Iscariota, nome che s’inter­preta “mercede”, ci sono oggi, che per la mercede di un qualche vantaggio temporale vendono la verità, tradiscono il prossimo con il bacio dell’adulazione, e così alla fine si impiccano al laccio della dannazione eterna!

 

16. Fu poi schernito da Erode. Dice infatti Luca: “Erode con il suo esercito lo disprezzò, e per schernirlo gli fece indossare una veste bianca” (Lc 23,11). Il Figlio di Dio viene disprezzato da quella volpe di Erode – “Andate, aveva detto un giorno Gesù, e dite a quella volpe” (Lc 13,32) –, e dal suo eserci­to; mentre invece l’esercito degli angeli gli canta con voce incessante: Santo, santo, santo il Signore, Dio degli eserciti. E Daniele dice: Mille migliaia lo servono e diecimila miriadi lo assistono (cf. Dn 7,10).

“E per schernirlo gli fece indossare una veste bianca” (simbolo di pazzia). Il Padre rivestì il figlio suo Gesù di una veste bianca, vale a dire “la carne, monda da ogni macchia di peccato”, presa dalla Vergine immacolata. Dio Padre ha glorificato il Figlio, che Erode ha disprezzato. Il Padre l’ha rivestito della veste bianca, e Erode lo ha schernito vestendolo allo stesso modo. Oh, dolore, così avviene anche oggi! Erode s’interpreta “gloria della pelle”, e raffigura l’ipocrita che si vanta della sua apparenza esteriore quasi di una pelle, mentre invece “tutta la gloria della figlia del re”, cioè dell’a­nima che è figlia del Re del cielo, deve provenire “dall’interno” (Sal 44,14).

Costui (l’ipocrita) disprezza e schernisce il Signore: lo disprezza quando predica il crocifisso, ma del crocifisso non porta le stimmate; lo schernisce quando si nasconde sotto la gloria della pelle (dell’apparenza) per poter ingannare le membra di Cristo. Suona dolcemente lo zufolo l’uccellatore, mentre inganna l’uccello (Catone). Quanti ne inganna anche oggi la gloria della pelle erodiana (l’ipocrisia)!

 

17. Fu anche flagellato da Ponzio Pilato. Leggiamo in Giovanni: “Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare” (Gv 19,1). E dice Isaia: “Quando passerà il flagello distruttore, voi sarete la massa da lui calpesta­ta, e ogni volta che passerà vi prenderà” (Is 28,18-19). Affinché questo flagello, nel quale sono indicate la morte eterna e la potenza del diavolo, non ci colpisse, il Dio di tutti, il Figlio di Dio, fu legato alla colonna come malfattore, e spietatamente flagellato, tanto da sprizzare sangue da ogni parte del corpo.

O dolcezza della divina misericordia, o pazienza della paterna bontà, o profondo e imperscrutabile mistero dell’e­terno consiglio! Tu, o Padre, vedevi il tuo Unigenito, colui che è uguale a te, venir legato alla colonna come un malfattore e dilaniato con i flagelli come un omicida. E come hai potuto trattenerti? Ti rendiamo grazie, o Padre santo, perché per le catene e per i flagelli del tuo Figlio diletto siamo stati liberati dalle catene e dai flagelli del diavolo. Ma, ahimè, Ponzio Pilato flagella ancora e di nuovo Gesù Cristo. Ponzio s’interpreta “deviante”, e Pilato “martellatore”, o anche “che abbatte con la bocca”, e raffigura colui che devia dai buoni propositi e dopo il voto ritorna al vomito. Costui con la sua bocca blasfema e con il martello della lingua colpisce e flagella Cristo nelle sue membra: allontanatosi infatti, insieme a Satana, dalla presenza del Signore (cf. Gb 2,7), diffama l’Ordine, di uno dice che è superbo, dell’altro che è goloso e, per apparire lui stesso innocente, giudica gli altri colpevoli, e così maschera la sua cattiveria infamando tanti altri.

 

18. Fu anche coperto di sputi dai giudei. Matteo: “Allora gli sputarono in faccia e lo percossero con pugni; altri gli dettero degli schiaffi sul viso” (Mt 26,67).

O Padre, il capo del figlio tuo Gesù, che incute tremore negli arcangeli, viene percosso con una canna; il volto, nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12), è lordato dagli sputi dei giudei, colpito dai loro schiaffi; la sua barba è strappata, è colpito con pugni, è trascinato per i capelli. E tu, o clementissimo, taci e dissimuli, e preferisci che uno, che è il tuo unico, sia così coperto di sputi, così schiaffeggiato, piuttosto che tutto il popolo perisca (cf. Gv 11,50). A te la lode, a te la gloria, perché dagli sputi, dagli schiaffi e dai pugni ricevuti dal figlio tuo Gesù hai ricavato per noi la teriàca, il contravveleno per espellere il veleno dall’anima nostra.

Altra applicazione: Il volto di Gesù Cristo raffigura i prelati della chiesa, per mezzo dei quali, come per mezzo del volto, conosciamo Dio. Su questo volto i perfidi giudei, cioè i sudditi malvagi, sputano, quando calunniano e maledicono gli stessi prelati, cosa che il Signore vieta quando dice: “Non maledire il capo del tuo popolo” (At 23,5; cf. Es 22,28).

 

19. Infine, fu crocifisso dai soldati. Dice Giovanni: “I soldati, dopo averlo crocifisso, presero le sue vesti” ecc. (Gv 19,23). “O voi tutti che passate per la strada”, fermate il passo, “considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lam 1,12).

I discepoli fuggono, i conoscenti e gli amici si eclissano, Pietro rinnega, la sinagoga incorona di spine, i soldati crocifiggono, i giudei bestemmiano deridendo e gli danno da bere fiele e aceto. Quale dolore è come il mio dolore? Come dice la sposa nel Cantico dei Cantici, “le sue mani torni­te, auree, piene di giacinti” (Ct 5,14) furono trafitte dai chiodi. I piedi, ai quali il mare stesso si offrì perché vi camminas­sero sopra, furono inchiodati alla croce. Il volto, che è come il sole quando splende in tutto il suo fulgore (cf. Ap 1,16), si coprì del pallore della morte. Gli occhi amati, ai quali nessuna creatura è invisibile, sono chiusi nella morte. E quale dolore è come il mio dolore? In tutto quello strazio, venne in suo soccorso soltanto il Padre, nelle cui mani affidò il suo spirito dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). E dopo aver detto questo, “reclinato il capo”, egli che non aveva dove posare il capo, “rese lo spirito” (Gv 19,30).

Ma ahimè, ahimè, tutto il corpo mistico di Cristo, che è la chiesa (cf. Col 1,24), viene di nuovo crocifisso e ucciso! E in questo corpo alcuni sono il capo, altri le mani, altri i piedi, altri il corpo. Il capo sono i contemplativi, le mani sono coloro che fanno vita attiva, i piedi sono i predicatori santi, il corpo tutti i veri cristiani. Tutto questo corpo di Cristo, ogni giorno, i soldati, cioè i demoni, lo crocifiggono con le loro istigazioni, che sono in certo modo dei chiodi; i giudei, i pagani, gli eretici lo bestem­miano, e gli fanno bere il fiele e l’aceto dei tormenti e della persecuzione. Ma non c’è da meravigliarsi: perché “tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo, subiranno persecuzione” (2 Tm 3,12). Giustamente quindi è detto: “Sarà consegnato, sarà schernito, sarà flagellato, sarà lordato di sputi e sarà crocifisso”. Con queste cinque parole, come con cinque preziosissime erbe, prepàrati il collirio, o angelo di Laodicea, e irrora gli occhi della tua anima per riavere la luce e tu possa sentirti dire: “Vedi! La tua fede ti ha salvato” (Lc 18,42).

O carissimi, preghiamo e chiediamo con insistenza e con la devozione della mente che il Signore Gesù Cristo si degni di illuminare gli occhi della nostra anima con la fede nella sua incarnazione, con il fiele e il collirio della sua passione, egli che ha illuminato il cieco nato, Tobia e l’angelo di Laodicea, affinché anche noi siamo fatti degni di contemplare, nello splendore dei santi e nel fulgore degli angeli, lo stesso Figlio di Dio, che è luce da luce. Ce lo conceda egli stesso, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

 

INIZIO DEL DIGIUNO

(Mercoledì delle Ceneri)

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Quando digiunate non diventate tristi come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiuna­no. In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompen­sa. Tu invece, quando digiuni, ungiti il capo e lavati il volto, perché gli uomini non vedano che tu digiuni, ma il Padre tuo che è nel segreto” (Mt 6,16-18).

In questo brano evangelico notiamo due argomenti:

- il digiuno,

- l’elemosina.

 

I. il digiuno

 

2. “Quando digiunate”. In questa prima parte si devono considerare quattro cose: la finzione degli ipocriti, l’unzione della testa, la lavanda del volto, l’occultamento del bene.

“Quando digiunate”. Si legge nella Storia Naturale che con la saliva dell’uomo digiuno si resiste agli animali portatori di veleno: anzi se un serpente la ingerisce, esso muore (Plinio). Quindi nell’uomo digiuno c’è veramente una grande medicina.

Adamo nel paradiso terrestre, finché digiunò dal frutto proibito, si mantenne nell’inno­cenza. Ecco la medicina che uccide il diabolico serpente e che restituisce il paradiso, perduto per colpa della gola. Perciò è detto che Ester castigò il suo corpo con i digiuni, per far cadere l’orgo­glioso Aman e riconquistare ai giudei la benevolenza del re Assuero (cf. Est 4). Digiunate dunque se volete conseguire queste due cose: la vittoria sul diavolo e la restituzione della grazia perduta.

Ma “quando digiunate, non diventate tristi come gli ipocriti” (Mt 6,16), cioè non ostentate il vostro digiuno con la tristezza del volto: non proibisce la virtù, bensì la falsa apparenza della virtù..

Ipocrita si dice anche “dorato”, che cioè ha l’apparenza dell’oro, ma all’interno, nella coscienza, è fangoso. Questo è l’idolo dei Babilonesi Bel (Bal), del quale dice Daniele: “Non t’ingannare, o re, quest’idolo di fuori è di bronzo, ma di dentro è solo fango” (Dn 14,6).

Il bronzo risuona e all’aspetto può quasi sembrare oro. Così l’ipocrita ama il suono della lode e ostenta una parvenza di santità. L’ipocrita è umile nel volto, dimesso nella veste, sommesso nella voce, ma lupo nella sua mente.

Questa tristezza non è secondo Dio. È un modo strano di procurarsi la lode, quello di ostentare i segni della tristezza. Gli uomini sono soliti rallegrarsi quando guada­gnano soldi. Ma si tratta di affari diversi: in questi ultimi c’è la vanità, negli altri la falsità.

“Si sfigurano (lat. exterminant) la faccia” (Mt 6,16), cioè la avviliscono oltre i limiti (extra terminos) della condizione umana. Come si può menar vanto del lusso delle vesti, così si può farlo anche dello squallore e della macilenza. Non si deve abbandonarsi né ad uno squallore esagerato, né ad una eccessiva ricercatezza: è bene tenere il giusto mezzo.

“Per far vedere agli uomini...”. Qualunque cosa facciano, è apparenza, dipinta di falso colore. Commenta la Glossa: Lo fanno per apparire diversi dagli altri ed essere chiamati superuomini, perfino per lo svilimento.

“... che digiunano” (Mt 6,16). L’ipocrita digiuna per riceverne lode, l’avaro per riempire la borsa, il giusto per piacere a Dio. “In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,16). Ecco la mercede del postribolo, del quale dice Mosè: “Non prostituire tua figlia” (Lv 19,29). La figlia rappresenta le loro opere, che pongono nel postribolo del mondo per riceverne la ricompensa della lode. Sarebbe pazzo chi vendesse per un soldo di piombo una preziosa moneta d’oro. Ma vende per un prezzo vilissimo una cosa di grande valore, colui che fa il bene per averne lode dagli uomini.

 

3. “Tu invece, quando digiuni, ungiti il capo e lavati il volto” (Mt 6,17). Ciò è in accordo con quanto dice Zaccaria: “Questo dice il Signore degli eserciti: Il digiuno del quarto mese, del quinto, del settimo e del decimo mese saranno per la casa di Giuda giorni di gaudio e di letizia, giorni di grande festa” (Zc 8,19).

“Casa di Giuda” s’interpreta “che manifesta”, o “che loda”, e raffigura i penitenti che manifestando e confessando i loro peccati dànno lode a Dio. Di costoro è, e dev’es­sere, il digiuno del quarto mese, perché digiunano (si astengono) da quattro peccati: dalla superbia del diavolo, dall’impurità dell’anima, dalla gloria del mondo, dall’in­giuria al prossimo. “Questo è il digiuno che io amo” dice il Signore (Is 58,6).

Il digiuno del quinto mese consiste nel trattenere i cinque sensi dalle distrazioni e dai piaceri illeciti. Il digiuno del settimo mese è la repressione della cupidigia terrena: come infatti si legge che il settimo giorno non ha fine, così neppure la cupidigia del denaro tocca mai il fondo della sufficienza.

Il digiuno del decimo mese consiste nell’astenersi dal perseguire uno scopo cattivo. Il dieci segna la fine di ogni numero: e chi vuol contare oltre deve ricominciare dall’uno. Il Signore si lamenta per bocca di Malachia: “Voi mi frodate, e mi dite: In che cosa ti abbiamo frodato? Nelle decime e nelle primizie” (Ml 3,8), cioè nel cattivo scopo e nel­l’inizio di una intenzione perversa. E fa’ attenzione, che mette le decime prima delle primizie, perché è soprat­tutto per il fine perverso che viene condannata tutta l’opera precedente. Questo digiuno si trasforma per i penitenti in gaudio della mente, in letizia di amore divino e in splendida solennità di celeste conversazione.

Questo vuol dire ungere il capo e lavare il volto. Unge il capo colui che nel suo interno è ricolmo di letizia spirituale; lava il suo volto colui che orna le sue opere con l’onestà della vita.

 

4. Altro senso. “Tu invece quando digiuni...”. Sono molti coloro che digiunano in questa quaresima, e tuttavia persi­stono nei loro peccati. Questi non si ungono il capo.

Osserva che c’è un triplice unguento: il lenitivo (seda­tivo), il corrosivo e il pungitivo (che punge). Il primo lo produce il pensiero della morte, il secondo la presenza del futuro Giudice, il terzo la geenna.

C’è il capo coperto di pustole, di verruche e di impetigine. La pustola è una piccola protuberanza superficiale, rigonfia di marcia (pus); la verruca è un’escrescenza di carne superflua, per cui verrucoso può significare anche “superfluo”; l’impetigine è una scabbia secca, che deturpa la bellezza. In queste tre infermità sono indicate la superbia, l’avarizia e la lussuria ostinata.

Tu, o superbo, richiama agli occhi della tua mente la corruzione del tuo corpo, il marciume e il fetore che manderà. Dove sarà allora quella tua superbia del cuore, quella tua ostentazione di ricchezze? Allora non ci saranno più le parole piene di vento, perché la vescica si sgonfia ad una minima puntura di ago. Queste verità, meditate nell’intimo, ungono il capo pustoloso, umiliano cioè la mente orgogliosa.

E tu, o avaro, ricordati dell’ultimo esame, dove ci sarà il Giudice sdegnato, ci sarà il carnefice pronto a tormentare, vi saranno i demoni che accusano e la coscienza che rimor­de. Allora il tuo argento sarà gettato via, l’oro divente­rà sudiciume; il tuo oro e il tuo argento non potranno liberarti dal giorno dell’ira del Signore (cf. Ez 7,19). Queste verità, meditate con attenzione, consumano e stacca­no le verruche della superfluità, e le dividono tra coloro che mancano anche del necessario. Perciò, quando digiu­ni, cospargi – ti scongiuro – il tuo capo con questo unguento, affinché ciò che sottrai a te stesso venga elargito al povero.

Tu poi, o lussurioso, pensa alla geenna dal fuoco inestinguibile, dove ci sarà morte senza morte, fine senza fine; dove si cerca la morte ma non la si trova; dove i dannati si mangeranno la lingua e malediranno il loro Creatore. Legna di quel fuoco saranno le anime dei peccato­ri e il soffio dell’ira di Dio le incendierà. Dice Isaia: “Da ieri”, cioè dall’eternità, “è preparato il Tofet”, la geenna di fuoco, “profonda e vasta. Fuoco e legna abbonderanno; il soffio del Signore l’accenderà come torrente di zolfo” (Is 30,33).

Ecco l’unguento che punge, che penetra, capace di risanare la più ostinata lussuria. Come chiodo scaccia chiodo, così queste verità, meditate assiduamente, sono in grado di reprimere gli stimoli della lussuria. Tu quindi, quando digiuni, ungiti il capo con questo unguento.

 

5 “Lava il tuo volto”. Le donne, quando vogliono uscire in pubblico, si mettono davanti allo specchio e se scoprono nel loro viso qualche macchia, la lavano con l’acqua. Così anche tu, guarda nello specchio della tua coscienza, e se vi troverai la macchia di qualche peccato, corri immediata­mente alla fonte della confessione. Quando nella confes­sione si lava con le lacrime il viso del corpo, anche il volto dell’anima viene deterso e illuminato. C’è da osservare che le lacrime sono luminose contro l’oscurità, sono calde contro il freddo, sono salate contro il fetore del peccato.

“Perché gli uomini non vedano che tu digiuni”. Digiuna per gli uomini chi cerca il loro plauso. Digiuna per il Signore chi si macera per suo amore e largisce agli altri ciò che sottrae a se stesso.

“Ma solo il Padre tuo che è nel segreto” (Mt 6,18). Aggiunge la Glossa: Il Padre è nel segreto, cioè nell’intimo, per mezzo della fede, e ricompensa ciò che viene fatto nel segreto. Quindi nel segreto si deve digiunare, perché lui solo veda. Ed è necessario che chi digiuna, digiuni in modo da piacere a colui che porta in seno. Amen.

 

II. l’elemosina

 

6. “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano” (Mt 6,19).

La ruggine consuma i metalli, la tignola le vesti; ciò che si salva da questi due flagelli, lo rubano i ladri. Con queste tre espressioni viene condannata ogni forma di avarizia. Vedremo il significato morale delle cinque parole: terra, tesori, ruggine, tignola e ladri.

La terra, così chiamata perché si dissecca (lat. torret) per la siccità naturale, raffigura la carne, che è talmente assetata da non dire mai basta. I tesori sono i preziosi sensi del corpo. La ruggine, malattia del ferro, così chiamata da erodere, indica la libidine che, mentre dilet­ta, distrugge lo splendore dell’anima e la consuma. La tignola, così chiamata perché “tiene”, indica la superbia oppure l’ira. I ladri (lat. fures, da furvus: oscuro), che lavorano nell’oscurità della notte, raffigurano i demoni.

Quindi se lavoriamo portiamo qualcosa nella carne, nascondiamo i tesori nella terra, vale a dire che, mentre occupiamo i preziosi sensi del corpo nei desideri terreni o della carne, la ruggine, cioè la libidine, li consuma. Inoltre la superbia, l’ira e gli altri vizi distruggono la veste dei buoni costumi, e se resta ancora qualche cosa i demoni la rubano, poiché sono sempre intenti proprio a questo: spogliare dei beni spirituali.

“Accumulatevi dei tesori nel cielo” (Mt 6,20). Grande tesoro è l’elemosina. Disse Lorenzo: Le ricchezze della Chiesa sono state riposte nel tesoro celeste dalle mani dei poveri. Accumula tesori in cielo chi dà a Cristo. Dà a Cristo chi largisce al povero: Ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (cf. Mt 25,40).

“Elemosina” è un termine greco: in latino è misericordia. Misericordia significa “che irrìga il misero cuore” (miserum rigans cor). L’uomo irrìga l’orto per ricavarne i frutti. Irrìga anche tu il cuore del povero miserabile con l’elemosina, che è detta l’acqua di Dio, per riceverne il frutto nella vita eterna. Il tuo cielo sia il povero: in lui riponi il tuo tesoro, affinché in lui sia sempre il tuo cuore: e ciò soprattutto durante questa santa quaresima.

E dov’è il cuore è anche l’occhio; e dove sono il cuore e l’occhio, lì è anche l’intel­letto, del quale dice il salmo: “Beato chi fa attenzione (intelligit, comprende, ha cura) al misero e al povero (Sal 40,2). E Daniele disse a Nabucodonosor: “Ti sia accetto, o re, il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con opere di misericordia verso i poveri” (Dn 4,24).

Molti sono i peccati e le iniquità, e perciò molte devono essere le elemosine e le opere di misericordia verso i poveri: riscattati con esse dalla schiavitù del peccato, possiate ritornare liberi alla patria celeste. Ve lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.

 

III. sermone morale

 

7. Si legge nel libro dei Giudici che Gedeone espugnò gli accampamenti di Madian con lucerne, trombe e brocche (cf. Gdc 7,16-23). Anche Isaia dice: “Ecco il Dominatore, il Signore degli eserciti spezzerà con il terrore la brocca di terracotta; gli alti di statura saranno troncati, e i potenti saranno umiliati. Il folto della selva sarà di­strutto col ferro, e il Libano cadrà con i suoi alti cedri” (Is 10,33-34). Vediamo che significato morale abbiano Gedeone, la lucerna, la tromba e la brocca.

Gedeone s’interpreta “che gira nell’utero”, e indica il penitente che, prima di accostarsi alla confessione, deve girare nell’utero della sua coscienza, nella quale viene concepito e generato il figlio della vita o della morte. [Deve pensare] alla sua età, a quanti anni poteva avere quando incominciò a peccare mortalmente, e poi quanti e quali peccati mortali ha commesso e quante volte; quali furono i luoghi, quali i tempi; se ha peccato in privato o in pubblico, se è stato costretto, se è stato prima tentato oppure se ha peccato prima ancora di essere tentato, ciò che è molto più grave.

E se si è già confessato di tutte queste cose; e se, dopo essersi confessato, è ricaduto negli stessi peccati, e quante volte; perché in questo caso è stato molto e molto più ingrato verso la grazia di Dio. Se ha trascurato la confessione e per quanto tempo è rimasto in peccato senza confessarsi; e se in peccato mortale ha ricevuto il corpo del Signore.

Di questo giro di ricerca è detto nel primo libro dei Re: “Samuele fu giudice (iudicabat) in Israele tutti i giorni della sua vita. E ogni anno andava in giro a Betel, a Gàlgala e a Masfa. Ritornava poi a Rama perché lì era la sua casa” (1Re 7,15-16). Samuele s’interpreta “che ascolta il Signore”, Betel “casa di Dio”, Gàlgala “colle della circoncisione”, Masfa “che contempla il tempo”, Rama “vidi la morte”. Quindi il penitente, sentendo il Signore che dice “fate penitenza” (Mt 3,2), deve giudicare se stesso per tutti i giorni della sua vita, per vedere se egli è Israele, cioè se è uno che vede Dio.

Ogni anno, durante questa quaresima, deve perquisire la propria coscienza, che è la casa di Dio, e tutto ciò che vi trova di nocivo o di superfluo deve circonciderlo nel­l’u­mi­l­tà della contrizione; e deve anche considerare il tempo passato, cercando diligentemente ciò che ha commesso, ciò che ha omesso, e, dopo tutto questo, ritornare sempre al pensiero della morte, che deve avere davanti agli occhi, anzi in questo pensiero deve dimorare.

 

8. Il penitente, attento esploratore, fatto in questo modo il giro, deve subito accendere la lampada che arde e illumina (cf. Gv 5,35); in essa è indicata la contrizione, la quale, per il fatto che arde, per questo anche illumina. Infatti dice Isaia: “La luce d’Israe­le diverrà un fuoco e il suo Santo una fiamma; e sarà acceso e divorerà le sue spine e i suoi rovi in un giorno. La magnificenza della sua selva e del suo Carmelo sarà consumata dall’anima fino alla carne” (Is 10,17-18) .

Ecco che cosa fa la vera contrizione. Quando il cuore del peccatore si accende con la grazia dello Spirito Santo, brucia per il dolore e illumina per la cognizione di se stesso; e allora le spine, cioè la coscienza piena di triboli e di rimorsi, e i rovi, vale a dire la tormentosa lussuria, tutto viene distrutto, perché all’interno e all’esterno viene riportata la pace. E la magnificenza della selva, cioè del lusso di questo mondo, e del Carmelo, che s’inter­preta “molle”, e cioè la dissolutezza carnale, vengono estirpate dall’anima fino alla carne, poiché tutto ciò che c’è d’immondo, sia nell’anima che nel corpo, viene consumato dal fuoco della contrizione.

Fortunato colui che brucia e illumina con questa lampa­da, della quale dice Giobbe: “Lampada disprezzata nel pensiero dei ricchi, preparata per il tempo stabilito” (Gb 12,5). I pensieri dei ricchi di questo mondo sono: custo­dire le cose conquistate e sudare nel conquistarne altre; e perciò raramente o mai si trova in essi la vera contrizio­ne; essi la disdegnano perché fissano l’animo nelle cose transitorie. Infatti mentre perseguono con tanto ardore il piacere delle cose temporali, dimenticano la vita dell’ani­ma, che è la contrizione, e così vanno incontro alla morte.

Dice la Storia Naturale che la caccia ai cervi si fa in questo modo. Due uomini partono, e uno di loro zufola e canta: allora il cervo segue il canto perché ne è attrat­to; intanto il secondo scocca la freccia, lo colpisce e lo uccide. Nello stesso modo viene data la caccia ai ricchi. I due cacciatori sono il mondo e il diavolo. Il mondo davanti al ricco zufola e canta, perché gli mostra e gli promette i piaceri e le ricchezze; e mentre quello stolto lo segue incantato, perché in quelle cose trova diletto, viene ucciso dal diavolo e portato nella cucina dell’inferno per esservi cotto e arrostito.

 

9. Ma ecco finalmente il tempo della quaresima, istituito dalla chiesa per espiare i peccati e salvare le anime: in esso è preparata la grazia della contrizione, che ora sta spiritualmente alla porta e bussa; se vorrai aprirle e accoglierla, cenerà con te e tu con lei (cf. Ap 3,20). E allora comincerai a suonare la tromba in modo meraviglioso.

La tromba è la confessione del peccatore contrito. Di essa è detto nell’Esodo: “Tutto il monte Sinai fumava, perché su di esso era disceso il Signore nel fuoco, e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace, e tutto il monte metteva terrore. E un suono di tromba a poco a poco si faceva più forte e persistente” (Es 19,18-19).

Queste parole descrivono come deve comportarsi il peccatore nella sua confessione. Il monte è così chiamato perché non si muove. Il monte Sinai, nome che s’interpreta “i miei denti”, raffigura il penitente, forte e intrepido nel tempo della tentazione, che con i denti, cioè con i castighi che si infligge, lacera le sue carni, vale a dire le sue tendenze carnali. Egli fuma tutto per le lacrime che salgono dalla fornace della contrizione: e ciò proviene dalla discesa della grazia celeste.

“E tutto il monte incuteva terrore”, perché il penitente ha le lacrime e la mestizia nel volto, la povertà nelle vesti, il dolore nel cuore e i sospiri nella voce.

“E il suono della tromba, cioè della confessione, a poco a poco si faceva più forte e insistente”, ecc. Qui è indicato il modo di confessarsi. All’inizio della confes­sione deve incominciare dall’accusa di sé, come è passato dalla suggestione al piacere, dal piacere al consenso, dal consenso alla parola, dalla parola all’azione, dall’azione alla ripetizione del peccato, dalla ripetizione all’abitu­dine.

Incominci prima dalla lussuria, da tutte le sue modalità e circostanze, secondo natura e contro natura. Poi dall’avarizia, usura, furto e rapina e da tutto il mal tolto, che è tenuto a restituire se ne ha la possibilità.

Se poi è chierico incominci dalla simonia, e se ha ricevuto gli ordini mentre era scomunicato, o se li ha esercitati, o se nel riceverli ha commesso delle irrego­larità. In fine potrà confessarsi di tutte le altre cose, come sembrerà meglio al penitente e al confessore.

 

10. Fatta la confessione, dev’essere imposta la penitenza (soddisfazione), che è indicata nella rottura della brocca o del vaso di terracotta. Il vaso viene spezzato, il corpo viene fatto soffrire; Madian, che s’interpreta “dal giudizio” o “iniquità”, cioè il diavolo che dal giudizio di Dio è già condannato, viene sconfitto e la sua iniquità annientata.

Ed è appunto ciò che dice Isaia: “Gli alti di statura”, cioè i demoni, “saranno troncati”, “e i potenti”, cioè gli uomini superbi “saranno umiliati, e il folto della selva”, cioè la dovizia della cose temporali, “sarà distrutta dal ferro” del timore di Dio; “e il Libano”, cioè lo splendore del lusso mondano, “con i suoi alti cedri”, cioè le nullità, le truffe e le apparenze, “tutto crollerà” (Is 10,33-34).

Fa’ attenzione che la soddisfazione, cioè la penitenza, consiste in tre cose: nell’ora­zione per ciò che riguarda Dio, nell’elemosina per ciò che riguarda il prossimo, e nel digiuno per ciò che riguarda noi stessi, affinché la carne, che nel piacere ha condotto al peccato, nell’es­piazione e nella sofferenza conduca al perdono.

Si degni di concedercelo colui che è benedetto nei secoli. Amen.