CAPITOLO XXI: ANCORA IL DIVINO AMORE
Santa Matilde di Hackeborn
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Metilde una volta pregava il Signore che le volesse dare qualche cosa
che l'eccitasse ad una continua memoria di Lui. Il Signore le disse:
“Ecco,
io ti dono gli occhi miei, affinché con quelli tu veda ogni cosa; ti
dono le mie orecchie perché con quelle tu intenda tutto ciò che senti;
ti dono la mia bocca perché per suo mezzo tu proferisca tutto ciò che
dici nel parlare, pregare o cantare; ti dono il mio Cuore, perché per
lui tu pensi tutte le cose, per lui tu ami ed ami pure tutte le cose per
mio amore”.
A queste ultime parole, la Serva di Cristo si sentì
tutta attirata al Signore e a Lui intimamente unita, a segno che le
sembrava di vedere con gli occhi di Dio, udire con le orecchie di Dio,
parlare Con la bocca di Dio e infine non aver più altro cuore che il
Cuore di Dio.
Il Signore le disse ancora: “Quanto più ti
allontanerai dalle creature rinunciando alle consolazioni che ne
potresti ricevere, tanto più sarai sollevata all'altezza inaccessibile
della mia maestà. Quanto più la tua carità si estenderà su le creature
con la compassione e la misericordia verso tutti, tanto più sarai
strettamente e con tenerezza circondata dalla mia incomprensibile
larghezza. Quanto più col disprezzo di te medesima ti umilierai sotto
ogni creatura, tanto più ti sprofonderai in me e con maggior dolcezza ti
inebrierai al torrente della mia Divinità”.
Una volta, mentre
cercava con, ardore il Diletto dell'anima sua, il quale non solamente
esaudisce ma si degna prevenire il desiderio del povero, lo udì cantare
con voce dolce e forte questo invito: “Veni, dilecta mea ad me; Vieni da
me, o mia diletta!”. La voce del Signore era così forte che tutto il
cielo ne risonò sin nelle sue profondità. Metilde intese che le
estremità dei cieli figuravano le anime che lietamente applaudivano alla
voce del Signore.
L'anima così invitata si presentò tosto e si tenne
in piedi alla presenza del Diletto seduto sur un trono meraviglioso ed
elevatissimo. Le colonne di questo trono erano di ambra, i capitelli di
smeraldo e le basi di zaffiro. Lo smeraldo significava la giovinezza
dell'eternità e lo zaffiro la nobiltà ed il pregio della Divinità.
L'Amore,
sotto la figura di una bellissima vergine, passeggiava intorno al trono
dove sedeva Cristo e cantava: Gyrum coeli circuivi sola: Feci sola il
giro del cielo (Eccl. XXIV, 8).
Da queste parole Metilde conobbe come
solo l'Amore avesse potuto rendere schiava l'onnipotenza della divina
Maestà rendere pazza, per così dire secondo il giudizio umano,
l'inscrutabile Sapienza e spargere in effusioni tutta la sua soave
bontà. Solo l'Amore poté vincere i rigori della divina Giustizia e
cambiarli in mansuetudine, onde abbassare il Signor della gloria sino
nell'esilio della nostra miseria.
Nelle parole seguenti: Et in
fluctibus maris ambulavi: E camminai nelle onde del mare; ella intese
che tanto prima della Legge come sotto la Legge e sotto la grazia, tutti
quelli che per amore si conservarono fedeli a Dio nelle loro
tribolazioni, per la forza dell'amore trionfarono di tutte le avversità e
di tutti i vizi.
E l'Amore continuava a cantare: Audit eum in gyro
sedis etc.: Essa sente intorno al trono. Metilde intese come i Santi ora
cantino le opere grandi dal Signore compiute in loro, cioè la loro
elezione per la sua inscrutabile sapienza, la loro gratuita
giustificazione accompagnata dal dono della grazia, la loro liberazione
da ogni miseria per quell'amore potente e forte che convertì in
vantaggio della loro salvezza non solo tutti i beni, ma anche tutti i
mali. Dio accetta questa lode dai Santi tanto volentieri come se non
avessero ricevuto da Lui tutti questi beni, ma li avessero da sé
medesimi, e nondimeno a Lui solo ne dessero la gloria.
Sembrò
ancora a quella divota vergine che l'Amore stesse alla destra di Dio, e
dal Divin Cuore uscisse un istrumento melodioso rivolto verso il cuore
di questa vergine: era un salterio con dieci corde, il quale ricordava h
parole del salmo: Vi loderò sul salterio di dieci corde (Ps. XXXII, 2).
Nove di queste corde rappresentavano i nove cori angelici nei quali è
ordinato il popolò dei Santi. La decima corda rappresentava il Signore
medesimo Gesù Cristo, Re degli Angeli e santificatore di tutti i santi.
L'anima allora prostrata davanti al Signore, leggermente toccò la prima
corda e lo lodò con queste parole43: Te Deum Patrem ingenitum: Voi, o
Dio Padre, non generato; alla seconda corda continuò: Te Filium
unigenitum: Voi, o Figlio, unico generato; alla terza: Te Spiritum
Paraclitum: Voi, Spirito Santo Paracleto; alla quarta corda disse:
Sanctam et individuam Trinitatem: Santa ed indivisibile Trinità; alla
quinta: Toto corde et ore confitemur: Noi vi esaltiamo col cuore e con
la bocca; alla sesta: Laudamus: Vi lodiamo; alla settima: Atque
benedicimus: Vi benediciamo; all'ottava: Tibi gloria: A voi gloria; alla
nona: In saecula: Per i secoli dei secoli.
Ma su la decima corda ella non poté nulla cantare, perché non poteva raggiungere la suprema altezza di Dio.
Dopo,
ella vide sul petto del Signore uno specchio trasparente nel quale
appariva una faccia d'uomo rassomigliante al disco della luna. Nella sua
sorpresa, pensava cosa ciò potesse significare, ma il Signore le disse:
“Ciò ti serva di istruzione”. Metilde capì che Lui solo è l'eterna
Sapienza indicata dagli occhi, sapienza che sa tutto, che sola conosce e
vede perfettamente Sé medesima, sapienza che da nessuna creatura può
essere compresa. “Chi t'insegna così?” riprese il Signore. “Voi stesso, o
Distributore di tutti i beni, rispose la Santa, Voi che all'uomo
insegnate la scienza e ispirate ogni sapienza”.
Nel considerare la
bocca di quella faccia meravigliosa, Metilde capì che Dio è
incomprensibile nella sua onnipotenza e che il cielo e la terra riuniti
non bastano a lodarlo pienamente; Lui solo può essere una lode adeguata a
sé medesimo, Lui che conosce l'estensione dell'amore con cui dona sé
stesso all'anima amante, e ogni giorno su l'altare offre sé stesso a Dio
Padre come vittima per la salvezza dei fedeli, in un mistero nascosto
persino alle profonde investigazioni dei Serafini, dei Cherubini e di
tutte le Virtù dei cieli.
Il Signore parlò di nuovo, dicendo: “E
questo, chi te lo ha insegnato?” Ella rispose: “Voi, o Maestro migliore
di tutti i maestri, Autore di ogni bontà, vera luce che illuminate ogni
uomo che viene al mondo”.
Così dicendo quell'anima si chinò sul petto
del suo carissimo Signore, lodandolo con trasporto ed affetto, con
tutte le sue forze, in Lui e per mezzo di Lui medesimo. Quanto più lo
lodava unendosi a Lui, tanto più svaniva in sé medesima sino a trovarsi
annientata. Come la cera si fonde alla presenza del fuoco, così Metilde
si liquefaceva, per così dire, e veniva assorta in Dio, felicemente
unita con Lui e a Lui attaccata, diremo, col vincolo di una unione
indissolubile. Questo stato le faceva desiderare che tutti, in cielo e
in terra, fossero partecipi della grazia divina, perciò prese la mano
del Signore e con quella tracciò un segno di croce grande abbastanza per
abbracciare il cielo e la terra. Questo atto, che accrebbe il gaudio
degli abitanti del cielo, procurò pure perdonò ai colpevoli,
consolazione agli afflitti, forza e perseveranza ai giusti, ed alle
anime del Purgatorio sollievo e liberazione.