Scrutatio

Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

Omelia 54: Cristo rivelatore del Padre.

Sant'Agostino d'Ippona

Omelia 54: Cristo rivelatore del Padre.
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Ha suscitato in noi un forte desiderio di penetrare nella sua intimità. E' necessario crescere per capire, e per crescere bisogna camminare, e camminare vuol dire progredire finché si arriva.

1. In seguito alle parole che nostro Signore Gesù Cristo pronunciò e ai tanti segni prodigiosi che egli compì, alcuni tra i Giudei, che erano predestinati alla vita eterna e che egli chiamò sue pecore, credettero; altri invece non credettero, né potevano credere per il fatto che, secondo un occulto ma non ingiusto giudizio di Dio, erano stati accecati e induriti, essendo stati abbandonati da colui che resiste ai superbi mentre dà la sua grazia agli umili (cf. Gc 4, 6). Di quelli poi che avevano creduto, alcuni lo confessavano al punto da andargli incontro con rami di palme, accogliendolo con lodi e canti di gioia; altri invece, anche tra i notabili, non osavano dichiararsi, per non essere scacciati dalla sinagoga; e sono questi che l'evangelista ha bollato dicendo che preferivano la gloria degli uomini alla gloria di Dio (Gv 12, 43). Anche tra quelli che non avevano creduto ve n'erano alcuni che avrebbero creduto in seguito, e questi il Signore li aveva già presenti quando disse: Allorché avrete levato in alto il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che io sono (Gv 8, 28); altri invece sarebbero rimasti nella loro incredulità, nella quale hanno imitatori i Giudei di oggi la cui nazione, dopo essere stata annientata a conferma delle profezie riguardanti il Cristo, è stata dispersa in quasi tutto il mondo.

[Non si può credere nel Padre senza credere nel Figlio.]

2. In tale situazione, e nell'imminenza ormai della sua passione, Gesù gridò e disse - così è cominciata la lettura di oggi -: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; e chi vede me, vede colui che mi ha mandato (Gv 12, 44-45). Già in altra occasione aveva detto: La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato (Gv 7, 16). Parole che noi abbiamo interpretato nel senso che per sua dottrina intendeva il Verbo del Padre, che è egli stesso, e che dicendo La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato, voleva far capire che egli non procedeva da se stesso, ma aveva origine da un altro: Dio da Dio, Figlio del Padre; il Padre invece non è Dio da Dio, ma Dio Padre del Figlio. E come dobbiamo intendere queste sue parole: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato, se non nel senso che egli appariva agli uomini come uomo, mentre rimaneva occulto come Dio? E affinché non credessero che egli era soltanto ciò che essi vedevano, e volendo esser creduto tale e quale il Padre, chi crede in me - dice - non crede in me, cioè in quello che vede, ma in colui che mi ha mandato, cioè nel Padre. Ma chi crede nel Padre dovrà necessariamente credere che egli è Padre; e chi crede che egli è Padre di conseguenza ammette che ha un Figlio; quindi chi crede nel Padre, necessariamente dovrà credere anche nel Figlio. Ma qualcuno potrebbe ritenere che il Figlio unigenito è chiamato Figlio di Dio alla maniera di quanti sono chiamati figli di Dio per grazia, non per natura, secondo che dice l'evangelista: ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Gv 1, 12), e dei quali il Signore stesso, citando la testimonianza della legge, dice: Chi crede in me, non crede in me, affinché non si creda in Cristo solamente come uomo. Crede dunque in me - egli sembra affermare - chi non crede in me secondo ciò che vede di me, ma crede in colui che mi ha mandato; e così, credendo nel Padre, creda anche che egli ha un Figlio uguale a se stesso e perciò creda veramente in me. Infatti chi pensa che il Padre abbia soltanto figli secondo la grazia, figli che sono sue creature, che non sono il Verbo ma che per mezzo del Verbo furono create; chi pensa che il Padre non abbia un Figlio a lui uguale e con lui coeterno, nato da sempre, ugualmente immutabile, in nessuna cosa dissimile e inferiore; chi pensa così non crede nel Padre che lo ha mandato, perché ciò che pensa non corrisponde al Padre che lo ha inviato.

3. Perciò dopo aver detto: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato, affinché non si pensasse che voleva presentare il Padre come Padre dei molti figli rigenerati per grazia, e non del Verbo unico ed uguale a sé, aggiunge subito: E chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Dice forse: Chi vede me, non vede me ma colui che mi ha mandato, come prima aveva detto: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato? Si era espresso così per non essere creduto soltanto Figlio dell'uomo, come appariva; ora invece si esprime in quest'altro modo per essere creduto uguale al Padre. E così dice: Chi crede in me, non crede a ciò che vede di me, ma crede in colui che mi ha mandato. O meglio, quando crede nel Padre che mi ha generato uguale a sé, deve credere in me non secondo ciò che vede di me, ma come in colui che mi ha mandato; e a tal punto non c'è differenza tra me e lui, che chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Certamente Cristo Signore inviò i suoi Apostoli, come lo indica il loro stesso nome: infatti, come in greco sono chiamati angeli coloro che in latino si chiamano messaggeri, la parola greca apostoli si traduce in latino con inviati. Tuttavia, mai nessun apostolo oserebbe dire: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha inviato; in nessun modo potrebbe dire: chi crede in me. Noi crediamo all'apostolo, ma non crediamo nell'apostolo; poiché l'apostolo non giustifica l'empio. E' a colui che crede in chi giustifica l'empio che la fede viene computata in giustizia (cf. Rm 4, 5). L'apostolo potrà dire: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato; oppure: Chi ascolta me, ascolta colui che mi ha mandato; è questo infatti che il Signore disse agli Apostoli: Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato (Mt 10, 40). Infatti il signore viene onorato nel servo e il padre nel figlio; ma il padre come presente nel figlio e il signore nel servo. Il Figlio unigenito invece ha potuto dire: Credete in Dio, e credete in me (Gv 14, 1); e come dice ora: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato. Dicendo così non allontana da sé la fede dei credenti, ma vuole che il credente non si limiti alla sua forma di servo; infatti se uno crede nel Padre che lo ha mandato, senza dubbio crede anche nel Figlio, in quanto sa che il Padre non è senza il Figlio, e crede in lui come uguale al Padre, secondo quanto segue: E chi vede me, vede colui che mi ha mandato.

4. Proseguiamo: Io sono venuto nel mondo per essere la luce, affinché chiunque crede in me, non resti nelle tenebre (Gv 12, 46). In altra occasione egli disse ai suoi discepoli: Voi siete la luce del mondo. Una città non può star nascosta se è situata su di un monte; né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e risplende per tutti quelli che sono in casa. Similmente risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre che è nei cieli (Mt 5, 14-16). Non disse ai discepoli: Voi come luce siete venuti nel mondo, affinché chiunque crede in voi non resti nelle tenebre. Posso garantire che questo non si trova in nessuna parte del Vangelo. Sì, è vero, tutti i santi sono luci, ma in quanto vengono illuminati da lui mediante la fede: se si allontanassero da lui cadrebbero nelle tenebre. La luce, invece, da cui essi sono illuminati, non può allontanarsi da se medesima, perché essa è assolutamente indefettibile. Noi crediamo quindi alla luce illuminata, come è il profeta e come è l'apostolo. Crediamo a lui, cioè al profeta e all'apostolo, ma non in lui che viene illuminato. Con lui crediamo in quella luce che lo illumina, in modo da essere anche noi illuminati, non dal profeta o dall'apostolo, ma, insieme al profeta e all'apostolo, dalla luce che li illumina. Però dicendo: affinché chiunque crede in me non resti nelle tenebre, il Signore esplicitamente dichiara che ha trovato tutti nelle tenebre; e per non rimanere nelle tenebre in cui sono stati trovati, essi debbono credere nella luce che è venuta nel mondo, poiché è per mezzo di essa che il mondo è stato creato.

[Misericordia e giustizia.]

5. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo giudico (Gv 12, 47). Penso che ricordiate quanto avete ascoltato nelle precedenti letture; e chi l'avesse dimenticato, lo richiami alla memoria; e se mai allora eravate assenti, ma ora siete presenti, ascoltate come si esprime il Figlio. Egli dice: Io non lo giudico. In un'altra occasione aveva detto: Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio (Gv 5, 22), mentre qui dice: "ora non giudico". Perché non giudica ora? Attenzione a ciò che segue: Perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo (Gv 12, 47), cioè per rendere salvo il mondo. Ora è infatti il tempo della misericordia, poi verrà quello del giudizio, poiché io canterò la tua misericordia e il tuo giudizio, o Signore (Sal 100, 1).

6. Ma notate anche cosa dice del medesimo giudizio futuro: Chi rigetta me e non accetta le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho annunciato, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno (Gv 12, 48). Non dice: Chi rigetta me e non accetta le mie parole, io non lo giudicherò nell'ultimo giorno. Se avesse detto questo, evidentemente avrebbe contraddetto la sua precedente affermazione: Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio. Siccome però ha detto: Chi rigetta me e non accetta le mie parole ha chi lo giudica, per chi aspettava di capire chi fosse questo giudice, ha aggiunto: La parola che ho annunciato, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno, facendo capire abbastanza chiaramente che sarà egli stesso a giudicare nell'ultimo giorno. Quindi ha parlato di sé, si è annunciato, ha posto se stesso come porta per la quale egli stesso, come pastore, entra nell'ovile delle pecore. E così quelli che non lo hanno ascoltato saranno giudicati in un modo, e quelli che lo hanno ascoltato e hanno disprezzato la sua parola, in un altro. Quanti infatti hanno peccato senza la legge - dice l'Apostolo -, senza legge pure periranno; quanti invece hanno peccato avendo la legge, per mezzo della legge saranno giudicati (Rm 2, 12).

[Il Verbo rivela la volontà del Padre.]

7. Perché io - dice - non ho parlato da me (Gv 12, 49). Dice che non ha parlato da se stesso, appunto perché egli non è da se stesso. Una cosa, questa, che vi abbiamo detto più volte, e consideriamo a voi troppo nota per doverla insegnare; ma vogliamo solo ricordarvela. Ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso, mi ha prescritto ciò che dovevo dire e annunciare (Gv 12, 49). Non ci preoccuperemmo se sapessimo di parlare alle stesse persone che ci hanno ascoltato precedentemente, e ricordano ciò che hanno ascoltato; ci saranno però alcuni che non ci hanno ascoltato, e nelle stesse condizioni si trovano quelli che hanno dimenticato; per amore di questi, quanti ricordano abbiano pazienza se ci soffermiamo alquanto. In che modo il Padre esprime la sua volontà al suo unico Figlio? Di quale parola si serve per parlare al Verbo se lo stesso Figlio è il Verbo unico de] Padre? Forse gli parla per mezzo di un angelo? Ma è per mezzo del Verbo che sono stati creati gli angeli. Forse per mezzo di una nube? Ma quando si rivolse così al Figlio, non fu per lui che si fece sentire quella voce - come egli stesso ebbe a dire - ma perché fosse udita dagli altri. Forse per mezzo di un suono articolato dalle labbra? Ma Dio non ha corpo e tra il Padre e il Figlio non vi è spazio occupato da aria che vibri e faccia giungere la voce all'orecchio. Non sia mai che immaginiamo simili cose di questa sostanza incorporea ed ineffabile. Il Figlio unico è il Verbo del Padre e la Sapienza del Padre, nella quale sono contenuti tutti gli ordini del Padre. Non ci fu mai un tempo in cui il Figlio ignorasse gli ordini del Padre, da dover avere in un determinato momento ciò che prima non aveva. Quanto ha lo ha ricevuto dal Padre con la nascita, in quanto il Padre glielo ha comunicato generandolo. Egli è la vita, e ha ricevuto la vita nascendo, non esistendo prima senza vita. Anche il Padre ha la vita, ed è ciò che ha: e tuttavia egli non l'ha ricevuta, in quanto non ha origine da nessuno. Il Figlio invece ha ricevuto la vita, avendogliela comunicata il Padre dal quale ha origine. Ed egli stesso è ciò che ha: ha la vita ed è la vita. Ascolta ciò che dice: Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso (Gv 5, 26). Forse ha dato la vita ad uno che già esisteva e non l'aveva? No, ma colui che ha generato la vita gliel'ha comunicata nell'atto di generarlo, sicché la vita ha generato la vita. E siccome ha generato una vita identica, non diversa, perciò il Figlio dice: Come il Padre ha in se stesso la vita, così ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso. Gli ha dato la vita, perché, generando la vita, che cosa gli ha dato se non di essere la vita stessa? E poiché la sua nascita è eterna, sempre è esistito il Figlio che è la vita e non è mai stato senza vita; e siccome la sua nascita è eterna, colui che è nato è la vita eterna. Allo stesso modo il Padre non ha dato un comandamento che il Figlio non avesse; ma, come ho detto, nella sapienza del Padre, cioè nel Verbo del Padre, sono contenuti tutti i comandamenti del Padre. Il Signore dice che questo comandamento gli è stato dato, perché colui al quale fu dato non è da sé: dare al Figlio una cosa senza della quale egli non è mai esistito, è lo stesso che generare il Figlio che sempre è esistito.

8. E continua: E io so che il suo comandamento è vita eterna (Gv 12, 50). Se dunque il Figlio stesso è la vita eterna e il comandamento del Padre è vita eterna, che altro ha voluto dire se non che egli stesso, il Figlio, è il comandamento del Padre? Sicché quando aggiunge: Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me (Gv 12, 50), non dobbiamo prendere l'espressione le ha dette a me nel senso che il Padre abbia detto delle parole all'unico suo Verbo, come se il Verbo di Dio avesse bisogno di parole di Dio. Il Padre dunque ha parlato al Figlio, così come ha dato la vita al Figlio; non gli ha detto qualcosa che non sapesse o che non avesse, ma gli ha detto e gli ha dato ciò che il Figlio stesso è. Che significa perciò la frase: io dico ciò che il Padre mi ha detto, se non questo: io dico ciò che è vero? Allo stesso modo che il Padre glielo ha detto in quanto è verace, così il Figlio a sua volta lo dice in quanto è verità. Colui che è verace ha generato la verità. E che aveva da dire ancora alla verità? Non era infatti una verità imperfetta da aver bisogno di altra verità. Il Padre, dunque, ha parlato alla verità nel senso che ha generato la verità. A sua volta la verità parla così come le è stato detto, e solo a chi è in grado di intendere rivela la sua origine. Perché gli uomini credessero ciò che ancora non riuscivano a comprendere sono risuonate le parole su una bocca di carne, disperdendosi: attraverso l'aria hanno fatto sentire il loro suono scandito nel tempo. Ma al contrario le cose di cui i suoni erano segno, sono passate nella memoria di quanti hanno udito, e, mediante la scrittura che è un segno visibile, sono pervenute fino a noi. Non è in questo modo che parla la verità: essa parla interiormente alla mente che intende, istruendola senza bisogno di suoni, inondandola di luce spirituale. Chi riesce a vedere in questa luce l'eterna sua nascita, può intendere quella parola che il Padre ha rivolto al Figlio, per dirgli ciò che voleva rivelare a noi. Egli ha acceso in noi un ardente desiderio della sua intima dolcezza: ma è crescendo che diventiamo capaci d'intendere, ed è camminando che cresciamo, ed è progredendo che camminiamo in modo da raggiungere la meta.