CAPITOLO II. - LA LUCE DEL CUORE
Santa Gertrude di Helfta

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Io ti saluto, o mio Salvatore, luce dell'anima mia: tutto ciò che i
cieli racchiudono nelle loro sfere, la terra nel suo globo, l'abisso
dei mari nelle loro profondità, ti ringrazino dello straordinario
favore per cui mi hai fatto conoscere e considerare i segreti del mio
cuore. Prima di quel giorno non me n'ero mai preoccupata, e, se posso
così esprimermi, mi ero curata del mio interno poco più delle calzature
de' miei piedi.
In questa nuova luce potei ricercare con cura e scorgere nella mia
anima più d'una macchia e parecchie cose che offendevano la tua somma
purezza; vidi di più un tale disordine e una tale confusione, da
rendere impossibile la tua dimora in me. Non pertanto nè il disordine,
nè l'indegnità ti hanno da me allontanato, o Gesù mio amatissimo: ogni
volta che mi nutrivo dell'alimento vivificante del tuo Corpo e del tuo
Sangue, godevo della tua visibile presenza, benché in una specie di
luce fioca, come si scorgono gli oggetti all'incerto chiarore dell'alba.
Con simile dolce accondiscendenza Tu hai voluto impegnare la mia anima
a fare nuovi sforzi, per unirmi più familiarmente a Te, per
contemplarti con occhio più limpido e per gioire con pienezza del tuo
amore.
Lavoravo alacremente per ottenere tali favori nella festa
dell'Annunciazione della Santa Vergine Maria, il cui purissimo grembo
fu l'asilo benedetto, ove Tu ti sei degnato di sposare in quel giorno
l'umana natura.
O Dio, che prima di essere invocato rispondi « Eccomi », Tu hai voluto
anticiparmi le gioie di quella giornata, prevenendomi fin dalla vigilia
con le benedizioni della tua dolcezza (Ps. XX, 4).
Si teneva il Capitolo dopo Mattutino, perchè era domenica; nessuna
parola umana può esprimere in qual modo, o « Luce che scendi dall'alto
hai visitato l'anima mia, nelle viscere della tua dolcezza e della tua
bontà » (Luc. I, 78). Dammi, o sorgente di ogni bene, dammi d'immolare
sull'altare del mio cuore l'ostia di giubilo, perché ottenga
d'esperimentare spesso, con tutti i tuoi eletti, quest'unione sì dolce,
questa dolcezza sì unitiva che, fino adesso, mi era stata completamente
sconosciuta.
Quando considero cos'era la mia, vita in passato, e quale fu in
seguito, debbo proclamare, con sincerità, che tale beneficio fu dono
gratuito e immeritato. Da quel benedetto istante ebbi una conoscenza
così luminosa di Te stesso, da essere più commossa per la dolce
tenerezza della tua familiarità che per timore degli stessi tuoi
castighi. Ricordo però d'aver provato queste ineffabili delizie
soltanto nei giorni della S. Comunione, quando mi chiamavi al tuo
regale banchetto. Era disposizione della tua Sapienza? Era risultato
dalla mia grande negligenza? Non saprei dirlo con esattezza.