Scrutatio

Venerdi, 26 aprile 2024 - San Marcellino ( Letture di oggi)

Tessalonicesi (Lettere I e II ai)


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Le prime due lettere che s. Paolo diresse da Corinto (ca. 50-51 d. C.), a pochi mesi d'intervallo tra loro, ai fedeli di Tessalonica (= la moderna Salonicco) importante capoluogo della Macedonia; punto di transito e di grande traffico, tra la Tracia, l'Acaia e il mare, sulla via Egnazia, dove confluivano funzionari di governo, autorità militari, mercanti; incrocio di razze e di religioni; con una importante colonia di Giudei.
L'Apostolo vi giunse da Filippi, dopo aver toccato Anfipoli ed Apollonia, all'inizio del suo secondo viaggio missionario; e per tre sabati espose, nella sinagoga locale, la catechesi apostolica; Gesù, vero Messia, realizzatore delle profezie del Vecchio Testamento; sua morte e risurrezione. Solo alcuni Giudei accettarono l'evangelo; ma grande fu il numero dei "proseliti e greci; che divennero cristiani, insieme a «non poche donne delle prime famiglie» (At. 16, 25-17, 4).

Fanaticamente i Giudei assoldarono i parassiti del mercato e delle piazze e inscenarono una sommossa per disfarsi di Paolo e Sila. Circondarono la casa che li ospitava; e non trovandoli, ne trascinarono dai politarchi il padrone, Giasone, giudeo convertito, con altri pochi fedeli. «Son tutti dei ribelli agli statuti di Cesare, proclamano do come fanno che c'è un altro re, Gesù». È la stessa accusa dei Farisei a Pilato contro Gesù. Giasone per l'ospitalità concessa a dei "fuorilegge" (secondo l'accusa), se la cavò con una multa. Paolo e Sila nella notte abbandonarono Tessalonica. Dopo aver tentato di fermarsi a Berea, lì vicino, l'Apostolo fu ancora costretto, dai furenti Giudei, colà recatisi, a partire per Atene, angosciato di non poter curare i T., quel campo che così ferace si era presentato alla sua predicazione. Per tale scopo lasciò lì i suoi collaboratori (At. 17, 1-15). La persecuzione intanto si accaniva senza tregua contro i neo-convertiti T. (1Ts. 1, 6; 2, 14 ss,); per incoraggiarli, Paolo vuol tornare, ma ne è impedito, e manda loro Timoteo (1Ts. 3, 2-8). Questi ritorna direttamente a Corinto, dove egli è passato; il suo rapporto è consolante: i neofiti perseverano nella fede (s. Paolo non aveva potuto condurre a termine l'insegnamento sulle verità del cristianesimo: 1Ts. 3, 10), nonostante le violenze d'ogni specie da parte dei Giudei persecutori; praticano esemplarmente la carità; e, nonostante tutte le calunnie messe in giro per infangare la figura dell'Apostolo, gli rimangono fortemente affezionati. Questa relazione fu la causa immediata della I lettera. Contenuto. In essa Paolo, con energia e fierezza, difende la dignità e la santità del suo ministero (come farà in Gal. e II Cor.); intrecciando le più grandi lodi per i neofiti fedeli al Vangelo e all'Apostolo. Contro coloro che vorrebbero farne un vago annunziatore di futili novità, per motivi d'interesse personale, egli ricorda i miracoli (testimonianza di Dio) che hanno accompagnato la predicazione, e il risultato ottenuto (1, 5-9); egli ha sempre agito con la più retta intenzione, compiendo la volontà del Signore, tra sofferenze e umiliazioni continue (2, 1-6); il suo disinteresse è palese ai T., perché rinunziando al diritto di ogni missionario, d'essere sostentato dai fedeli, egli stesso ha procurato il necessario per sé e per i suoi collaboratori col proprio lavoro manuale, di facitor di tende (2, 7). E non fu diffidenza verso i diletti T., con i quali si è comportato come una nutrice, un padre (2, 8- 11), ma per motivo soprannaturale (cf. I Cor 9, 7-18: espiazione ed amore). Il suo affetto è immutato; non è vero che sia fuggito pensando a sé e non curandosi di loro (2, 13; 3, 1- 13); per ben due volte tentò di ritornare, ma senza riuscirvi; mandò allora il diletto Timoteo, le cui buone notizie lo han tanto consolato (3, 8). Ringrazia Iddio, loda i fedeli, formulando per essi i voti del suo tenerissimo cuore.

Si susseguono quindi (cc. 4-5), senza l'unità della parte precedente (che è la principale), raccomandazioni pratiche, varie e distinte tra loro, talvolta brevissime. Si conservino puri (4, 1-8); progrediscano nella carità (4, 9-12); temperino il lutto esterno (4, 13-18); aspettino con fervore il trionfo della Chiesa (5, 1-12); rispettino i capi della comunità; riprendano gli oziosi; perseverino nella preghiera; attenti ai doni dello Spirito Santo (5, 16-22.). Invoca per i fedeli ogni grazia dal Signore e li saluta (5, 23-28). La terza esortazione (4, 13-18) suona così: «Non vogliamo poi che siate nell'ignoranza ( = vogliamo che siate ben istruiti), fratelli, circa i defunti (= coloro che si addormentano o che si vanno addormentando), affinché non vi abbandoniate al dolore (= nella tristezza) come gli altri (i pagani) che non hanno speranza (della beatitudine celeste e della risurrezione dei corpi). Poiché se crediamo che Gesù è morto e risuscitato, dobbiamo anche credere che Iddio condurrà con Gesù (risurrezione) quanti muoiono in Lui (beatitudine immediata delle anime dei giusti, subito dopo la morte) ». S. Paolo quindi si ferma sulla risurrezione. «Questo infatti vi diciamo per parola del Signore: Noi - vivi superstiti - (noi che attualmente ancora siamo in vita, in confronto di quelli che erano morti e venivano a morire) non saremo separati dai nostri defunti quando il Signore verrà (o "alla parusia del Signore"). Perché il Signore in persona, al comando, al grido di un arcangelo, scenderà dal cielo; mentre i motti nel Cristo (tutti) prima risorgeranno; quindi noi - attualmente vivi, superstiti - insieme ad essi (= i cari defunti che piangiamo), saremo rapiti sulle nubi verso il Signore in cielo; e così saremo sempre con Lui. Consolatevi pertanto con tali detti».
Questa traduzione, stabilita solidamente con la filologia e la sintassi, da A. Romeo, in VD 1929 è accettata da K. Staab nel suo recente commento (1950) come l'unica esatta, rispondente al testo, al contesto, e a tutto l'insegnamento di s. Paolo. Questi, esplicitamente e varie volte, insegna categoricamente l'universalità della morte, senza eccezioni (Rom. 5, 12-21; Hebr. 9, 27 ecc.); ha la certezza e il desiderio di morire per essere col Cristo (2Cor 5, 6 ss.; Phil. 1, 21 ss.; 2Tim. 4, 6 ss.; ecc.; cf. A. Romeo, Parusia, in Enc. Catt. It., IX, coll. 875-82).
Non è ammissibile il ricorso ad una evoluzione nel pensiero di s. Paolo, perché contraddetta dai testi citati. «Noi affermiamo la continuità e l'unità del pensiero di s. Paolo» (Bonsirven, L'évangile de Paul, 1948, p. 339 ss.).
Se c'era qualche difficoltà in 1Ts. 4, 15 andava risolta con i testi chiarissimi ora citati che escludono sempre, in Paolo e nei fedeli, qualsiasi illusione circa la imminente fine del inondo.

Questa illusione, d'altronde, veniva sempre motivata con la interpretazione del discorso, cosiddetto escatologico, di Gesù: Mt. 24, il quale avrebbe parlato insieme della distruzione di Gerusalemme e della, fine del mondo, lasciando i discepoli nella persuasione che la seconda fosse connessa con la prima. Ora questa base è crollata: Gesù ha parlato soltanto della fine di Gerusalemme, e i discepoli non hanno mai avuto l'errata persuasione, attribuita loro (v. Escatologia; F. Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme, Rovigo 1950).
Per il testo: il v. *** (essere superstiti) non si costruisce mai con *** e l'accusativo; è errato quindi tradurre: «noi lasciati per la parusia»; mentre *** (Grimm, Zorell nei loro dizionari del greco biblico: «nequaquam ante illos aut sin e illis ad gloriam perveniemus»), in s. Paolo (come negli autori greci del tempo) si costruisce sempre con *** e l'accusativo, posti prima del verbo (= Rom. 9, 31; Phil. 3, 16).
Per il contesto immediato: lo scopo della raccomandazione è esplicito: «perché non si rattristino l'Alme gli altri che non hanno speranza»; «perché si consolino». Solo ammonimento pratico; e secondario, anche se pigliando da esso lo spunto, s. Paolo parli nettamente della risurrezione finale dei corpi e del trionfo dei giusti col Redentore (cf. I. Cor 15). Sta effettivamente al terzo posto, in mezzo a una serie di altre esortazioni pratiche.
Per il contesto remoto: non si ha traccia in s. Paolo e in tutto il Nuovo Testamento di questi pretesi vantaggi o svantaggi a proposito della venuta del Cristo, per quei fantasticamente ritenuti ancora superstiti, al momento della risurrezione finale! Solo con un arbitrio si è spiegata la naturalissima raccomandazione di Paolo contro gli oziosi (I Ts. 5, 14), con l'inesistente attesa della fine imminente. Anche, in Eph. 4, 28 (tardi nella prigionia) e più tardi ancora nella I Tim. 5, 13 (scritta dopo la precedente), s. Paolo ripeterà la medesima esortazione.
A Tessalonica, grande città di mare, doveva esserci una moltitudine di siffatti fannulloni (cf. At. 17, 15); tra i convertiti ne capitarono alcuni che non adusi da tempo al lavoro, preferivano magari sfruttare la carità degli altri fedeli. S. Paolo contro di essi ritornerà, ancora (2Ts. 3, 6-12).

La quarta raccomandazione (5, 1-11) è un nuovo tema: si tratta del "giorno del Signore"; eco esatta di Mt.24; Lc. 17, 22-18, 8; e cioè del grande castigo che si abbatterà sui Giudei persecutori; con le medesime esortazioni ad essere vigilanti. Invece di essere curiosi circa il tempo e le circostanze che sono segreto di Dio (= Mt. 24, 36.42; At. l, 6 ss.), i fedeli badino ad essere fiduciosi e perseveranti. È la grande profezia di speranza per la Chiesa nascente perseguitata (v. Escatologia), che Paolo aveva comunicato ai fedeli di Tessalonica, dove si era verificata la identica situazione della Chiesa di Palestina, come dice espressamente s. Paolo in I Ts. 2, 14 ss. «I Giudei, perseguitando in quel modo la Chiesa, colmano sempre più la misura dei loro peccati. Ma già l'ira di Dio piomba su essi, in tutta la sua potenza» (2, 15 s. = Mt. 23, 32.34.36.38).
La II lettera ai T., scritta alcuni mesi dopo, è un prolungamento naturale della I; contiene una rettifica. S. Paolo anima i fedeli, perseveranti pur sotto le vessazioni giudaiche, con la certezza del trionfo del regno di Dio e della grave punizione dei persecutori (2Ts. 1, 1-10). È ripreso lo stesso tema di 1Ts. 5, 1-11. Cf. 2Ts. 1, 7.10 = Mt. 24, 30 s. La rettifica riguarda il tempo. Devono prima realizzarsi i segni dati da Nostro Signore e principalmente il segno inconfondibile della profanazione del Tempio. Per ora la potenza di Roma infrena la sinagoga; l'esplosione si avrà dopo la ribellione all'impero (***) e la sconfitta del locale rappresentante di esso (***); ciò scrive velatamente s. Paolo, ma rimandando alle spiegazioni date a viva voce (come esposto alla voce Anticristo). Seguono quindi un ammonimento generico che è anche un voto di s. Paolo (2Ts. 3, 1-5), Una nuova ed energica riprensione degli oziosi (3, 6-15), l'augurio e il saluto finali (3, 16 ss.). S. Paolo sapeva dalla catechesi apostolica e dal Vangelo di Mt. (24.) che la distruzione di Gerusalemme sarebbe avvenuta prima che finisse la generazione contemporanea del Redentore (Mt. 24, 34), ma ne ignorava la data precisa, taciuta da Nostro Signore (Mt. 24, 36). Erano passati circa 20 anni (dal 30 d.C. al 51 ca.) e Paolo la ritiene già prossima (1Ts. 1, 10; 2, 16; cf. 5, I-II). Nessuna meraviglia e nessun errore (particolarmente nessuna dottrina nuova), se ancor più i fedeli, sotto la sferza delle persecuzioni, l'abbiano creduta e sperata imminente. Ma s. Paolo aveva anche comunicato loro i segni premonitori, e quello immediato, inconfondibile della ribellione dei Giudei a Roma e della profanazione del Tempio. Non dovevano pertanto crearsi facili illusioni, che potevano essere pericolose per la loro fede e la loro perseveranza. Così si spiega perché s. Paolo non ritorni più su quest'argomento nelle altre lettere (Gal., Cor., Rom. ecc.); è questione di circostanza ambientale. Vi ritornerà invece, con accenni abbastanza chiari, in Hebr. Nessun accenno anche qui, alla fine del mondo. Quanto al parallelismo tentato recentemente tra 2Ts. 2, 1- 10 e Ap. 11, 3-13 v. Apocalisse; la pericope dei due testimoni è attualmente (e ben a ragione) spiegata del martirio di Pietro e Paolo a Roma; Satana sembra trionfare nei suoi satelliti, ma i ved vincitori sono gli uccisi; Nerone è perito, la persecuzione è passata, ma la Chiesa permane e si sviluppa, sempre più purificata.
Le lettere ai T. sono l'eco della solenne profezia di Gesù sulla fine di Gerusalemme; la loro dipendenza letteraria da essa (le identiche frasi: Lc. 17; Mt. 24) è ormai da tutti riconosciuta (Plummer, Orchard, in Biblica, 19 [1938] 24-31; Buzy; Rinaldi ecc.); basta trarne le conseguenze.

[F. S.]
BIBL. - A. ROMEO. in VD, 9 (1929) 307.12, 339-47: F. SPADAFORA. 1-2 Ts, in Rivista Biblica, 1 (1953) pp. 5.-23; K. STAAB-.T. FREUNDORFER, Die Thess. -Briefe, die Gefangenschaftbriefe, Regensburg 1950. pp. 9.49; G. RINALDI, Le lettere ai Tessalonicesi, Milano 1950; E. COTHENET, La 2Ts. et l'Apocalypse synoptique, in RScR, 42 (1954) 5-39; F. SPADAFORA, L'Escatologia in san Paolo, Roma 1957.

Autore: Mons. Francesco Spadafora
Fonte: Dizionario Biblico diretto da Francesco Spadafora