Scrutatio

Mercoledi, 24 aprile 2024 - San Fedele da Sigmaringen ( Letture di oggi)

Peccato


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Già tra i Babilonesi, il p. «è più di una semplice impurità rituale: è un'infrazione di questa legge morale che doveva regolare i rapporti tra gli uomini e gli dèi, come tra gli uomini e i loro fratelli» (Dhorme).
Per gli Egiziani, cf. il c. 125 del Libro dei morti, la cosiddetta "confessione negativa", come indice più eloquente del loro sentimento morale (L. Speleers). Corrispondentemente a quanto l'etnografia attesta del concetto elevato di morale tra i primitivi (Cathrein, Schmidt).
Nel Vecchio Testamento risalta la superiorità incomparabile della dottrina morale del iahwismo su quella di tutte le altre religioni dell'antico Oriente.
Specialmente per il concetto di colpa, sia che si tratti delle relazioni della collettività con Iahweh, sia per quelle del singolo israelita. Il p. è sempre una trasgressione di un dato positivo della legge religiosa; il concetto di p. e di castigo è adeguato al concetto purissimo della giustizia assoluta di Iahweh; infrazione morale con piena responsabilità del colpevole.
Gli stessi termini principali adoperati per indicare il p. sembrano supporre e confermare anch'essi tale nozione: hata', più generico = "p.", "colpa", è ogni azione che devia, che non è secondo la regola del bene: mancare lo scopo, il segno; pesa = "infrazione", spezzare, infrangere una barriera; 'awon = "delitto", "violazione", agire di traverso (Bonsirven). Oltre alle trasgressioni della legge religiosa, Iahweh, con non minor rigore, castiga le colpe morali dei suoi fedeli, senza distinguere tra quelle che lo riguardano personalmente e quelle che importano danno al prossimo. Basti ricordare la punizione del p. di David (2Sam 11-13.16.18).
Nei Salmi, tra i più antichi, è celebrata frequentemente la sovrana giustizia di Iahweh, vindice delle colpe morali. Cf. Ps. 4, 3.5.6. Queste vengono così elencate, ad es., nel Ps. 7, 4 S. «Se c'è iniquità nel mio operato, se ho fatto del male a chi mi voleva bene, se ho depredato colui che mi odia senza motivo,... mi perseguiti pure il nemico... ecc. ». I Salmi deprecano frequentemente l'orgoglio dell'empio, gl'intrighi contro il pio e l'afflitto; la spudorata spregiudicatezza dell'iniquo; la bocca piena di maledizione e d'inganno. Ad essi oppongono l'azione onnipotente della giustizia divina. «Giudicami, o Signore... Tu sorreggi il giusto, Tu che scruti i cuori e le viscere, Dio giusto ... Giusto Giudice». Ps. 7, 7-12; Ps. 10. ecc.
E nel Ps. 51 abbiamo un attestato indiscusso della più elevata vita interiore: «Crea in me un cuor puro o Dio, e rinnova dentro di me uno spirito fermo»; donami uno spirito nuovo che sia stabile; il salmista supplica Dio di purificarlo delle sue colpe e, nel timore di ricadervi, d'operare in lui una trasformazione radicale, che equivale ad una creazione (Van Imschoot).

Ma basti ricordare la stessa carta costituzionale del iahwismo, il Decalogo (v.); tutti devono riconoscerne il valore religioso e morale. E al primo precetto del monoteismo, e agli altri nove precetti morali, hanno perenni riferimenti gli scritti profetici e didattici. Il p. deve essere espiato; la giustizia di Dio lo esige, sia per la nazione, come per ciascun individuo: la pena, pur manifestandosi quaggiù, va però oltre la vita presente. "Morte" (v.) e vita, come si può constatare specialmente in Ez. 18, stanno in rapporto con la condotta morale di ciascuno. La misericordia di Dio però attende: «non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva»; e l'uomo può passare dal p. alla giustizia, come dalla giustizia all'iniquità; Dio adegua la sua sanzione alla condotta dell'uomo. Il p. è fonte pertanto di ogni dolore, di sventura; la sola giustizia o sapienza (pratica dei precetti morali o della religione) è la fonte della nostra gioia e di ogni bene; come inculcano frequentemente i libri sapienziali (dai Ps. ai Prov,. Eccli., Sap.). Tra le molteplici distinzioni, tra p. di pensiero, di parole, di opere, tra p. di azione e di omissione (cf. il p. di Eli, I Sam 3, 13-), il V. T. ha anche quella tra i p. commessi per errore, involontariamente contro qualcuno dei precetti di Iahweh, facendo qualcosa che era proibita; e i p. commessi "a mano alzata" (cf. Num. 15, 30 s.), cioè i P. audaci e scandalosi, che direttamente ledono l'autorità ,divina. Il p. per errore" involontario, abbraccia il vasto campo delle colpe, più o meno gravi, più o meno volontarie, che 'hanno la loro fonte nella fragilità umana. Per essi era offerto il sacrificio di espiazione (volg. "pro peccato"): Lev. 4, 1-5, 13. Per i secondi invece era comminata la pena di morte (Deut. 13, 6; 22, 21-24 ecc.).
Quattro p. «gridano vendetta al cospetto di Dio»: l'omicidio (Gen. 4, 10; Ex. 20, 13); il p. di sodomia (Gen. 18, 20; Lev. 18, 22); l'oppressione dei poveri, delle vedove, degli orfani (Ex. 22, 21 ss. 26); il defraudare la giusta mercede (Deut. 24, 14 s.; Lev. 19, 13; cf. Iac. 5, 4).
Nel Nuovo Testamento viene adoperato il ricco vocabolario della versione greca del V; T. per indicare il p.: violazione della legge, impurità, empietà, errore, disobbedienza, trasgressione, mancare lo scopo (dieci termini, *** ecc.); quest'ultimo termine è il più frequente, cf. l'ebr. hata; al plur., indica i p. personali; al sing., molto spesso esprime sia la potenza, del p., sia la nozione generica del p.
Da questi termini si deduce la definizione del p.: mancanza, contro Dio (contro la sua volontà), che produce un debito e muove l'ira divina. Gesù precisa che il p. viene dal cuore, cioè dalla facoltà spirituale dell'uomo, sede dei suoi pensieri, dei suoi desideri, fonte delle sue decisioni coscienti (Mt. 15, 10-20; Mc. 7, 14.23): Ma scorge in Satana l'autore del p. (Io. 8, 41.44; Mc. 1, 13; 8, 33).

La liberazione dal p. è opera esclusiva del Redentore; egli solo lo può (v. Romani, lettera ai) e l'ha fatto (Rom. 6 ecc.); egli con la sua morte ci ha riscattato (Mt. 20, 28: «Il Figliuol dell'uomo, non è venuto a esser servito, ma a servire, e a dare la sua vita in riscatto per tutti)); cf. Phil. 2, 5-11: 1Cor. 6, 20; 7, 23; Rom. 3, 24 s., ecc.). Egli è venuto a portare la salvezza a tutti coloro che erano perduti (Mt. 9, 13; 10, 6; 15, 24; Lc. 19, 9.10; 10.10, 91; 12, 47; ecc.). Egli è l'agnello che toglie il p. del mondo (Io. 1, 19-33). Non c'è pagina, in cui più profondamente e adeguatamente venga offerta la psicologia del peccatore, le vie, gli effetti del p. in noi; e, d'altra parte, l'accesso al ritorno, al pentimento; l'azione, la risposta di Dio; della parabola del figliuol prodigo (Lc. 15, 11-32). «Vi è più festa in cielo per un solo peccatore, che si converte, che per novantanove giusti che non han bisogno di pentimento» (Lc. 15, 7).

La prima condizione per ottenere il perdono, è il riconoscimento della propria miseria (Lc. 18, 13 s.), della propria indegnità; il desiderio della nuova vita, l'amore (Lc. 7, 42.47- 50), Gesù ha comandato e comunicato agli Apostoli, alla Chiesa il suo senso di misericordia, e il potere di rimettere i p. (Io. 20, 22 s.). Incentivo al p.; anche per il battezzato, rimane la concupiscenza, i pravi istinti della nostra carne; il seguirli porta alla morte eterna; perciò la necessità della mortificazione, della preghiera (Rom. 7; Gal. 5, 16- 6, 10; 1Cor. 9.10; Lc. 13, 5; 1Cor 9, 27 «maltratto il mio corpo e lo rendo schiavo, perché non accada che dopo aver predicato agli altri, io stesso divenga reprobo»; Mt. 26, 41; Lc. 21, 36; 1Ts. 5, 17 «pregate incessantemente»).

BIBL. - v. ***, in ThWNT, I, pp, 267. 336; Ibid., III, pp, 302-311; P. HEINISCH, Teologia del Vecchio Testamento, (trad. it.), Torino 1950, pp. 273-94; .l'. GUILLET, Thèmes Bibliques, Paris 1951, pp, 94-129, 141-49, 151-58; L, CERFAUX, Le Christ dans la théologie de s. Paul, ivi 1951, pp. 105-117; J. BONSIRVEN, Teologia del N. T., (trad. it.), Torino 1952, pp. 54-59; ID., Il Vangelo di Paolo, Roma 1951, pp. 113 ss. 121-28; F. SPADAFORA, Collettivismo e individualismo nel V. T., Rovigo 1953, pp. 331 s. 347-50. 94 s. 222-30.

Fonte: Dizionario Biblico diretto da Francesco Spadafora