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Venerdi, 26 aprile 2024 - San Marcellino ( Letture di oggi)

Linguaggio mistico


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I. Il mistico e la parola. Sul difficile rapporto che il mistico ha con il l. si sono soffermati, sia pur talora incidentalmente, tutti coloro che hanno fatto del misticismo l'oggetto delle loro ricerche. La parola del mistico, si è detto, è una parola " spezzata ", una parola cioè che è chiamata a dire ciò che non le è possibile dire. La scrittura mistica è sincopata, frammentata, irregolare, fortemente trasgressiva.

Per il mistico le parole non sono domestiche né addomesticabili, esse rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo parlare non è mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale, bensì un gesto di grande impertinenza verbale. I mistici, scrive Massignon, ci fanno " dimenticare la prigione delle regole metriche e retoriche ", i loro scritti liberano il " pensiero dalle regole sintattiche abituali ". Il l. per loro non è un " semplice strumento commerciale, un giocattolo estetico ", ma " una fiocina destinata a trarre l'anima a Dio per la sua salvezza o la sua dannazione ".

Al mistico il l. spesso si impunta, talora egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la parola è sempre una barriera che gli riesce difficile superare. " Vi è un conflitto costante - scrive K. Vossler - tra il mago che si serve del l. come di uno strumento e di conseguenza tenta di ridurre, per quanto è possibile, anche Dio sotto il suo controllo, e il mistico che spezza, svaluta e respinge tutte le forme ". Il mistico non crede che il l. possieda una onnipotenza semiotica, anzi egli giunge a mettere in dubbio la stessa possibilità di parlare. La parola sulla sua bocca si fa timida, teme di profanare il totalmente Altro, teme continuamente di cadere in un antropomorfismo irriguardoso.

II. Nuovo l. Ecco che il mistico aspira a fabbricarsi una lingua nuova, una lingua degli angeli. Talora tra i mistici si verificano fenomeni di glossolalia, che più raramente danno luogo alla fabbricazione di una vera e propria lingua (glossopoiesi). La glossolalia, cioè il parlare in lingue inesistenti e che, si afferma, solo Dio o gli angeli possono capire, è una delle direzioni che il mistico può, sui sentieri del l., imboccare.

Da quanto abbiamo sinora detto si può comprendere quanto sia complessa la problematica del l. mistico. Di ciò si era, del resto, già accorto Jean Baruzi agli inizi degli anni Trenta, come risulta da un suo bel saggio intitolato Introduction à des recherches sur le langage mystique. " Il mistico - egli scriveva - aspira a trovare un l. nuovo, suscettibile di esprimere ciò che prova. Se per un verso ritiene qualsiasi traduzione impossibile, dall'altro fa appello a una rigenerazione di tutto ciò che può aiutarlo a tradurlo ".

Gli scandali linguistici dei mistici, le loro trasgressioni categoriali, le loro innovazioni semantiche, ma soprattutto quel loro mettere a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora, furono a lungo fortemente combattutti. Per ottenere che le loro " eccentricità " linguistiche non fossero duramente condannate, i mistici, scrive Michel de Certeau, dovettero combattere " una guerra di cento anni sulla frontiera delle parole ".

Il mistico, scrive sempre il de Certeau, celebra a livello linguistico l'apologia dell'imperfetto e pregia la retorica dell'eccesso. Del resto, già Diego di Gesù aveva difeso la licenza da parte del mistico " di usare "termini imperfetti, impropri e diversi", "viziosi per eccesso" e di "abbassarsi a delle similitudini non decorose" ". Lo stile del mistico è lessicalmente e stilisticamente " impudico ". Il mistico, cioè, non teme di sovvertire la grammatica (i versi di Silesio, nota H. Plard, sono costruiti, talora, nel " disprezzo della correttezza grammaticale ") né di far uso, come notava già il Sandeus, di termini " semibarbari e persino del tutto barbari ".

III. Il l. poetico. Come è stato osservato da molti studiosi, le produzioni verbali del mistico sono profondamente consonanti con quelle del poeta. Infatti, tanto il mistico quanto il poeta tendono ad essere dei sovversivi sul piano della lingua, creano il loro l. via via che procedono. Anche il mistico compie a livello linguistico ciò che Eliot diceva essere tipico del poeta, e cioè " deviare il l. rendendolo significativo ", e per entrambi vale ciò che Paul Valery affermava essere proprio del vero scrittore e cioè l'essere " un uomo che non trova le parole ".

Il mistico ama le metafore assolute, audaci, vive. La metafora, per il mistico, non è un semplice ornamento o un sostituto della similitudine, essa è destinata a provocare incrementi semantici, a fornire nuove informazioni, a generare nuove conoscenze e scoperte. Le metafore, in breve, spesso sono per il mistico strumenti cognitivi, talora essi se ne servono per rimediare ad un vuoto del vocabolario. La metaforicità erompente dei mistici fa violenza all'intuizione, cosicché comprendere le loro metafore equivale a decifrare un codice, ecco perché la loro parafrasi letterale comporta sempre una perdita di contenuto cognitivo.

IV. Figure retoriche. La trasgressività linguistica del mistico privilegia alcune figure retoriche invece di altre. Per Warren e Wellek, in particolare, sono " figure cristiane, mistiche e pluralistiche ", il paradosso, l'ossimoro e la catacresi. A questo proposito Gershom Scholem afferma: " E noto universalmente che le descrizioni date dai mistici delle loro esperienze e del mondo del divino sono piene di paradossi d'ogni specie e d'ogni genere ". Il paradosso, quindi, è la casa del mistico. Ad esso, in verità ricorrono anche i teologi, ma in quelli dei mistici vi è una maggiore selvaggeria, la brutalità logica di una contraddizione che non si cela, ma anzi ama mostrarsi.

Il paradosso non è per il mistico una semplice espressione retorica, è piuttosto una " vigorosa formulazione di qualcosa di essenziale alla fede cristiana ", ma nello stesso tempo è anche una spia significativa delle difficoltà linguistiche in cui egli si dibatte, ci fa avvertiti che siamo in presenza di una impasse, di una insufficienza di l., in altre parole che ci stiamo avvicinando a grandi passi verso il balbettamento e il silenzio.

Oltre al paradosso, anche l'ossimoro è una costante stilistica delle produzioni verbali dei mistici; gli esempi a questo proposito, potrebbero essere infiniti: in Maria Maddalena de' Pazzi ci imbattiamo in " sollazzoso martirio ", " cieco vedere ", " infedeltà di fede ", " cantare con silenzio ", " vedere di nulla vedere ", e così via. La predicazione ossimorica degli opposti serve ai mistici per cancellare i confini logici stabiliti, per produrre enunciati autocontraddittori significativi, per spingere sempre più lontano le frontiere del non senso.

L'ossimoro è, a ben guardare, " la sola espressione soddisfacente dell'estasi che provoca l'esperienza del sacro ". Ed è tale perché nel mondo della dualità crea linguisticamente la coincidentia oppositorum (che secondo Cusano era la definizione meno imperfetta di Dio), perché fonde in unità due immagini contrastanti o due entità linguistiche portatrici di significati concettuali opposti. In breve, l'ossimoro è preferito dal mistico perché gli consente di esprimere qualcosa di ineffabile, perché è lo strumento migliore per parlare del non dicibile.

Conclusione. Riassumendo, possiamo dire che le parole dei mistici sono, in primo luogo, delle parole fortemente trasgressive. In secondo luogo, esse non sono tanto delle parole parlate quanto piuttosto delle parole parlanti. Nelle loro pagine, infatti, ci si imbatte in una lingua giovane, sorgiva, originaria, festiva, in una lingua " sorvolata di stelle, inondata di mare ". In terzo luogo, le parole dei mistici sono, in genere, parole più dette che scritte. Esse, infatti, presentano vuoti e trascuratezze, discontinuità e tortuosità, in breve un incedere talora precipitoso che è proprio delle parole parlate. In quarto luogo, sono parole, per così dire, clandestine, nel senso che non nacquero, nella quasi totalità dei casi, per circolare né tantomeno per essere stampate e lette da un pubblico occasionale. I mistici non scrissero in vista della pubblicazione, non furono scrittori di mestiere, spesso anzi scrissero controvoglia e con riluttanza.

Numerosi studiosi, infine, hanno approfondito i nessi e le differenze che intercorrono tra il l. mistico e quello teologico (R. Garrigou-Lagrange, J. Maritain, Y. Congar) e tra il l. dei mistici e quello dei profeti (A. Heschel, G. Scholem). Per Garrigou-Lagrange tanto il l. dei mistici quanto quello dei profeti hanno i " loro meriti ". Quello teologico è " più astratto e più preciso ", quello mistico " più vivo, più affascinante e anche più sintetico e, in un modo concreto, più comprensivo. Ciò è dato dal fatto che esso non esprime solo delle idee astratte, ma delle idee vissute e un ardente amore di Dio; di conseguenza, evita molte circonlocuzioni e distinzioni speculative che bloccherebbero lo slancio dell'amore di Dio ".

Il l. dei mistici, inoltre, nonostante la sua imprecisione e, talora, la sua oscurità è " più elevato di quello dei teologi " ed è tale poiché esprime una conoscenza più alta e si avvicina al " modo di parlare del Signore nella Scrittura " ben più di quanto faccia il linguaggio teologico. A suo avviso, il linguaggio dei mistici e quello della teologia debbono " illuminarsi scambievolmente ". Per Maritain, teologia e mistica pur parlando " un l. differente " si trovano d'accordo, anche se, ovviamente, pena il loro corrompimento, le formule proprie del mistico non possono essere immesse tali e quali nel traffico dei discorsi del teologo e viceversa.

Non pochi studiosi, tra cui Abraham Heschel e Gershom Scholem, hanno sottolineato le differenze che intercorrono tra la rivelazione profetica e l'esperienza mistica. E tra i tratti caratteristici che consentono di distinguere a priori e radicalmente l'esperienza del mistico da quella del profeta vi è anche un diverso uso del l. Il mistico, infatti, è protagonista di un'esperienza ineffabile, di un'esperienza il cui contenuto non è esprimibile mediante le parole, talora il mistico è costretto a rinunciare a qualsiasi formulazione verbale per rifugiarsi nel silenzio. Ebbene, " la profezia, dal canto suo, è priva di significato senza espressione verbale. La sua vera sostanza è una parola che dev'essere trasmessa, un messaggio da impartire ad altri".

La funzione del profeta, dunque, consiste " nel presentare un messaggio in termini crudi e chiari più che in oracoli e presagi oscuri... A differenza della balbuzie dell'estatico o del linguaggio negativo del mistico, la parola del profeta è come fuoco, come un martello che spezza le pietre". Se il mistico inciampa sui sentieri del linguaggio, il profeta li percorre con grande sicurezza, senza alcuna incertezza. Le parole non costituiscono un inciampo ai suoi passi e per il messaggio che è chiamato ad annunciare trova sempre una formulazione verbale adeguata.

Bibl. V.C. Aldrich, Linguistic Mysticism, in The Monist, 59 (1976)4, 470-492; M. Baldini, Il linguaggio dei mistici, Brescia 19902; J. Baruzi, Introduction à des recherches sur le langage mystique, in Recherches philosophiques, 32 (1931), 66-82; Y. Congar, Langage des spirituels et langages des théologiens, in Id., Situation et tâches présentes de la théologie, Paris 1967, 135-158; A. Dagnino, Il linguaggio dei mistici e quello dei teologi speculativi, in RivAM 2 (1957), 478-485; R. Garrigou-Lagrange, Le langage des spirituels comparé à celui des théologiens, in VSpS 41 (1936), 257ss.; G. Pattaro, Il linguaggio mistico, in La Mistica II, 483-506; G. Pozzi - C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988; F. Watts - M. Williams, Psicologia della fede, Cinisello Balsamo (MI) 1996, 190-196.




Autore: M. Baldini
Fonte: Dizionario di Mistica (L. Borriello - E. Caruana M.R. Del Genio - N. Suffi)