Gola
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I. Con questo termine, usato in senso metaforico, s'intende abitualmente il desiderio smodato di cibi o di bevande. La smodatezza può riguardare sia la quantità che l'esigenza di raffinatezza e squisitezza. In quanto " recedit ab ordine rationis in quo bonum virtutis moralis consistit ",1 è un vero e proprio vizio che si iscrive dentro il genere più ampio dell'intemperanza e che viene considerato uno dei vizi capitali.
Naturalmente la particolare viziosità della g. non dipende tanto dalla materialità dell'eccesso nell'assunzione di cibo o di bevande (che riguarderebbe piuttosto la dietetica), quanto dall'abbandono di sé a una voglia non regolata dalla ragione,2 che è evidentemente un fatto di rilevanza morale.
E quando la persona si attaccasse ai piaceri della g. come a un fine così coinvolgente da essere disposta, per appagarlo, ad agire contro Dio e i suoi comandamenti, la g. diventerebbe un vero e proprio peccato grave, capace di separare da Dio e dal suo amore.3 Naturalmente la g. non arriva facilmente a questo eccesso se non all'interno di una storia di vita e di una personalità morale segnata dalla resa incondizionata all'immediatezza del piacere e dominata dalla tirannia di quelli che A.H. Maslow chiama i " bisogni bassi " della vita psichica.4
A sua volta il vizio della g. tiene avvinti a questi bisogni bassi e produce un più generale ottundimento dello spirito, caratterizzato da quelle che, nella letteratura spirituale, vengono qualificate come specifiche sequelae di questo vizio: tali erano considerate la inepta laetitia, la scurrilitas, la immunditia, il multiloquium e la hebetudo mentis.
In psicologia si distigue spesso tra bisogni bassi (o di omeostasi) e bisogni alti (o di autorealizzazione): gli uni sarebbero legati alla dimensione corporea dell'uomo e apparirebbero per primi all'orizzonte nella storia di vita delle persone e solo una saggia educazione aprirebbe lo spirito ad esperienze più elevate e permetterebbe, insieme con una certa " autonomia funzionale " nei loro confronti, l'emergenza di bisogni gradualmente più " alti ". Se consideriamo l' esperienza di Dio e delle realtà divine come l'esperienza più alta e più degna dell'uomo, appare chiaro quanto il vizio della g., legato a una dipendenza infantile dai bisogni più elementari, possa ostacolare questa esperienza e l'emergenza dei relativi bisogni.
II. Nella vita cristiana. Si capisce quindi come, per gli spirituali la g. non sia un vizio minore: essi la vedono come parte integrante della concupiscenza carnale che ogni uomo porta in sé.
E resta naturalmente vero anche l'inverso: soltanto la dedizione a interessi degni dell'uomo e veramente capaci di appagare il suo bisogno di espansione e di pienezza di vita potrà svuotare dal di dentro la schiavitù nei confronti della g.: come diceva Cassiano: " Noi non potremo mai disprezzare i piaceri dei nutrimenti presenti, se l'anima non troverà una gioia più grande nella contemplazione divina ".
Appare, quindi, evidente come la lotta contro questo vizio, o anche soltanto contro i suoi residui a livello di struttura psichica dei bisogni e delle motivazioni, faccia parte dell'abicì della vita spirituale e dell'esercizio della contemplazione.
Tale combattimento non potrà prescindere dalla mortificazione (dimensione repressiva o negativa), ma dovrà essere comunque sostenuta da mezzi positivi: la dedizione appassionata ed appagante a compiti " elevati " e ai beni dello spirito: sarà soprattutto l'efficacia della delectatio victrix proveniente dalle gioie dell'intimità con Cristo a svuotare della loro capacità di suggestione e di presa i piaceri della g.
Va detto a questo punto che il Dictionnaire de spiritualité, fa seguire alla voce " gourmandise ", una voce meno scontata, dedicata a quella che gli autori (W. Yeomans e A. Derville) chiamano " gourmandise spirituelle ", definibile come intemperanza nel desiderio, uso e fruizione delle gioie e delle consolazioni dello spirito. Ci può essere quindi anche una intemperanza in questo campo: il desiderio di queste consolazioni, legittimo e utile nel cammino verso la perfezione della carità, se subordinato alla ricerca di ciò che è sostanziale nell'intimità con Dio e nella tensione dell'amore verso di lui, può prendere abusivamente il posto di direttore d'orchestra nell'esperienza spirituale, trasformando la " sobria ebbrezza dello Spirito " in una ricerca egoistica e disordinata dei sentimenti e delle sensazioni piacevoli ed appaganti che sovente accompagnano, soprattutto all'inizio, il percorso dell' itinerario spirituale.
Del resto, il loro inevitabile rarefarsi e anche il venir meno nelle lunghe stagioni di aridità (la " notte dei sensi ") sono lo strumento abituale di cui si serve Dio per educare le anime a cercare lui per se stesso e non le consolazioni che possono accompagnare la sua esperienza.
Note: 1 STh II-II, q. 148, a. 1; 2 Ibid., ad 2; 3 Ibid.; 4 A.H. Maslow, Motivazione e personalità, Roma 1983, 94-106.
Bibl. V. Oblet, s.v., in DTC VI, 1520-1525; P. Sciadini, s.v., in DES II, 1195-1196; W. Yeomans - A. Derville, s.v, in DSAM VI, 612-626.
Autore: G. Gatti
Fonte: Dizionario di Mistica (L. Borriello - E. Caruana M.R. Del Genio - N. Suffi)