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Martedi, 23 aprile 2024 - San Giorgio ( Letture di oggi)

Fede


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Nel Vecchio Testamento non è tanto un'adesione intellettuale a verità fondamentali circa l'esistenza di Dio (v.) ed i suoi attributi quanto un completo abbandono, sia individuale che nazionale, alla bontà divina, alla sua parola manifestata dai profeti ed all'idea di un continuo intervento di Dio nella storia, in preparazione del Messia e del suo regno.
Già nella Genesi (15, 6) il sorgere del popolo ebraico è connesso intimamente con un atto di f. del suo capostipite Abramo. La vita dei Patriarchi, l'esodo dall'Egitto con i miracoli avvenuti nel deserto, l'occupazione della Palestina e tutta la storia del popolo ebraico, prima dell'esilio (cf. Tob. 2, 18; 13, 4; Iudt. 6, 15; Esth. 14, 12.19) e fino all'epoca maccabaica (cf. specialmente 2Mac.), presuppongono una continua e profonda f. (cf. Hebr. 11, 2-40; e v. alleanza).
La mancanza di f., con l'affannosa ricerca di alleanze politiche e di mezzi umani, genera il disastro nazionale, per cui i grandi profeti (Elia, Eliseo, Isaia, Geremia ecc.) consigliano l'unico rimedio nel ritorno al genuino concetto della religione e ad una viva f. in Dio, base dello Stato teocratico.
I profeti insistono per una f. totalitaria, ispiratrice di ogni rapporto fra uomo e Dio (Is. 7, 9; 28, 16); f. legata al Messia, termine ultimo del Vecchio Testamento, pegno e garanzia della perennità della dinastia davidica.
Tale atteggiamento si fonda su l'onnipotenza e bontà di Dio, da una parte, e su la relazione che vige fra l'uomo - ed in modo particolare il popolo eletto - ed il suo Creatore, cui si deve sottomissione completa. La f., perciò, sarà il primo principio etico del V. T. (cf. Hab. 2, 4). Per essa un pio Israelita era obbligato a subire anche la morte (cf. 2Par. 24, 20 s.; 2Reg. 21,16; 2Mac. 6, 8-11. 18-31; 7, 1-42).

Nel Nuovo Testamento f. è l'adesione totale al Cristo e alla Sua rivelazione. Fra gli scritti che parlano più della f. s'impongono i Vangeli sinottici, s. Giovanni e s. Paolo. I primi evitano ogni trattazione od allusione teoretica, mentre gli altri insistono particolarmente su la necessità e su alcune caratteristiche della f. Molti miracoli riferiti dai sinottici esaltano la potenza della f. perché essi sono compiuti per premiare o per corroborare tale virtù (cf. Mc. 5, 34.36~ 7, 29; 9,22 ss.; 10, 52; Mt. 8, 13; 9,28; Lc. 17, 19). A chi crede (cf. Mc. 2, 5; Mt. 11, 22 ss. ecc.) sono rimessi i peccati; mentre la mancanza di f. rende impossibile il miracolo (cf. Mc. 6, 5 s.; Mt. 15, 31; 17, 20; Lc. 13, 34 s.; 19, 41-54). Gesù esige innanzi tutto una fiducia, che escluda ogni incertezza (Mc. 11, 22 ss.), nel suo potere. Nel Vangelo di s. Giovanni si accentua il valore della f. come vincolo di unione intima fra il Cristo e il credente (6, 56; 15, 1-8). La f. è innanzi tutto un dono di Dio Padre (6, 35.37-40.44-51.65; 17, 6.9). Dio è l'oggetto naturale della f.; per il cristiano è indispensabile credere nel Cristo, Figlio unigenito (3, 18). Sia il Padre, che Lo ha inviato nel mondo (5, 24.36; 11, 42; 12, 44; 17, 8.21.25), che il Figlio, il quale procede dal Padre (16, 27; 17, 8) ed è stato mandato a noi (6, 29), sono oggetto di un medesimo atto di f. Tanto i Sinottici quanto Io. illuminano circa le disposizioni richieste da Dio per comunicare un dono sì eccelso. I primi abbondano di riferimenti alle "prove" od ai "segni" miracolosi, che rendono ragionevole l'assenso dell'intelletto e della volontà; ma si ricordi che per Io. in genere tutti i miracoli sono innanzi tutto segni per suscitare la f. (cf. 2, 11; 9, 3; 11, 4.15.42). In tutti e quattro i Vangeli, infine, si rileva il carattere pratico della f. (cf. Mt. 16, 16; Io. 3, 21; 13, 19; 14, 6), che è quanto mai impegnativa per tutto l'uomo. Credere in Dio vuol dire innanzi tutto adempiere la sua volontà, convertirsi e vivere secondo i dettami del Vangelo.

Anche per s. Paolo, che parla moltissimo della f., adesione al Cristo, in opposizione alle pratiche varie cui tanto tenevano i Farisei, la f. è l'accettazione incondizionata del Vangelo; "credere" è quasi sinonimo di «professare il cristianesimo». Abramo, che - nonostante l'apparente assurdità - crede ad un messaggio divino, è il tipo dei credenti (Rom. 4, 5.17-22). La f., presuppone la predicazione (ivi, 10, 17) ed ha come articoli fondamentali l'affermazione cc Gesù è il Signore» (ivi, 10, 9), ossia la divinità del Cristo, riconosciuto con l'influsso illuminante dello Spirito Santo (1Cor 12, 3), e la risurrezione di Gesù (Rom. 4, 24; 10, 9; 1Cor 15, 14; 2Cor 4, 14; Col. 2, 12). La f. è intimamente unita alle altre virtù, in modo particolare alla carità ed alla speranza da una parte (I Cor 13, 13) e all'obbedienza e alla conversione dall'altra (Rom. 1, 5). Essa ha le sue "opere" (1Ts. 1, 3; 2Ts. 1, 11) ed "agisce" per mezzo della carità (Gal. 5, 6). La f. è anche adesione della volontà (Rom. 10, 9 s.), alle verità rivelate da Dio e annunziate dai suoi ministri; verità, che la ragione naturale, pregna di una sapienza mondana, accomodante, ritiene stoltezza (1Cor 2, 4; Col. 2, 4).

Se il cuore dell'uomo è ben disposto (Rom. 11, 7-10), egli potrà attendersi «la prova che viene dallo Spirito» (1Cor 2, 4). La f. che aspira sempre ad una maggiore chiarezza (cf. 2Cor. 3, 18; 4, 4 ss.; Eph. 1, 17 s.; 5, 13 s.; Col. 1, 9; 2, 2), è suscettibile di perfezione (1Cor 3, 1 s.; 2Cor 10, 15; Col. 2, 7; 2Ts. 1, 3); ma essa è nettamente distinta dalla visione beatifica, cui è opposta.

Specialmente in Rom. e Gal. s. Paolo pone la f. quale presupposto indispensabile per la giustificazione, negando tale caratteristica alle "opere". Secondo l'analisi del Prat (La Teologia di San Paolo, II, trad. ital., Torino 1942, pp. 239-42), s Paolo vuol accentuare l'iniziativa da parte di Dio, non provocata né meritata da atti speciali, la corrispondenza dell'uomo con l'accettazione completa e volontaria nell'atto di f. Agganciato al mondo soprano naturale, l'uomo però ha l'obbligo di avanzare di virtù in virtù (cf. Iac. 2, 14 ss.). In questa maniera egli acquista dei meriti, che Dio incorona nell'al di là.
[A. P.]

BIBL. - S. VIRGULIN. La "fede" nel profeta Isaia. in Biblica, 31 (1950) 346-64. 483-503; J. HUBY, Le discours de Jésus après la Cène, Parigi 1932, pp. 145-191; G. BONSIRVEN, Teologia del Nuovo Testamento. trad. ital., Torino 1952, pp. 112-22; P. ANTOINE, in DBs, III, coll. 276-310.

Autore: Sac. Angelo Penna
Fonte: Dizionario Biblico diretto da Francesco Spadafora