Scrutatio

Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

Ezechiele


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Il terzo grande profeta scrittore, E. (jehezqe'l "Dio è forte" o "Dio fortifica") visse nel periodo più tormentato del valico tra l'antico e il rinnovato Israele. Insieme a Geremia, E. cronologicamente e per importanza è al centro del profetismo, che, a sua volta, è al centro della religione, della storia d'Israele.
Nel 605 a. C., con la vittoria di Kar-kemis sugli Egiziani, Nabucodonosor (605-562) divenne padrone incontrastato del Medio Oriente dal Nilo all'Eufrate (2Reg. 24, 7). Anche Ioaqim, re di Giuda, passò suo dipendente e tributario; ma, dopo ca. tre anni, superbo e follemente fiducioso sull'Egitto, si ribellò.
Nel 589 Nabucodonosor assediò Gerusalemme; Ioaqim morì, forse ucciso, e il figlio e successore Ieconia (Ioakin), dopo tre anni di regno, si arrese. Il vincitore deportò in Babilonia (597 a. C.) il re, la corte; 7000 Giudei della classe dirigente e sacerdotale, 1000 operai specializzati e un numero imprecisato di altre persone (2Reg. 24, 16). Pose Mattania, zio di Ieconia, sul trono di Giuda, mutandogli il nome in Sedecia. Tra i deportati c'era il sacerdote E. (l, 1-3; 24, l ecc.). Essi vennero sistemati per lo più lungo il gran canale (Nar-Kabari) tra Babel e Nippur" in colonie agricole (Tell-Abib = colle delle spighe: Ez. 3, 15), servivano così alle gigantesche realizzazioni di quello che fu il periodo più splendido della risorta Babilonia. Godevano di larga autonomia, in comunità delle quali gli anziani avevano la rappresentanza e la direzione (cf. Ez. 8, 1; 14, 1; 20, 1). Potevano migliorare le proprie condizioni e divenire proprietari (cf. Ier. 29); E. possedeva una sua casa (Ez. 3, 24 s.; 8, 1).
Gli animi però erano eccitati. Gli esuli sognavano una rivincita sul grandioso impero babilonese, più per convinzioni religiose che per la fiducia su l'Egitto, che in Giudea ebbe sempre fautori numerosi.

Secondo gli antichi Semiti ogni comunità ha il proprio dio, che le è indissolubilmente legato. Solo da essa, infatti, egli riceve un culto che lo delizia col profumo dell'incenso e l'abbondanza delle vittime. Egli deve difendere la comunità che lo onora, deve salvarne l'indipendenza; fuori del territorio di essa, egli non ha influenza alcuna. I Giudei, entrati nel gioco delle forze politiche, praticando un sincretismo idolatrico e trasgredendo i precetti morali, concepivano ormai l'alleanza del Sinai alla stregua dei rapporti cultuali degli altri Semiti; riducevano il severo monoteismo ad una superstizione. Iahweh li deve difendere, come suoi cultori, senza badare ai loro peccati, perché se vuol salvare se stesso deve salvare Gerusalemme: Egli è il Dio d'Israele e solo nel Tempio riceve omaggi (Ier. 7, 4.8.10). (e il Signore (=il Tempio) è in mezzo a noi? La sventura non potrà colpirci» (Mi. 3, 11). Il castigo poteva essere temporaneo; ma sicura era la rivincita di Iahweh. La deportazione del 597 veniva vista sotto tale aspetto. Si aspettava contro Nabucodonosor quel che era avvenuto a Sennacherib (2Reg. 19, 35 ss.; Is. 37, 36 ss.). Era il trionfo della religione popolare (v.). Falsi profeti, sacerdoti venali alimentavano siffatte illusioni in patria (Mi. 2, 7-11; Ier. 23, 9-50) e tra gli esuli (Ier. 29, 21-32; Ez. 13). Questi aspettavano che si realizzassero in loro le profezie mirabili di Isaia (40-66) sul ritorno da Babilonia.
In patria, i nuovi dirigenti posti dai Caldei, per nulla ammaestrati dalla sorte toccata a Samaria nel 722 (Ier. 3, 6-10; Ez. 23), ripresero pertanto, con maggiore accanimento e testardaggine, la politica di insofferenza e sorda ribellione contro Babel; che portò alla rivolta del 588, all'assedio di Gerusalemme (Ez. 21, 23-27), durato ca. 18 mesi, interrotto per respingere gli Egiziani che movevano in suo aiuto (Ez. 30, 21 ss.; Ier. 37, 3-10). La città fu presa (28-29 giugno 587), saccheggiata, bruciata. Sedecia, dopo un tentativo di fuga (Ez. 12, 10-14) fu preso, accecato e deportato insieme ai superstiti. Era la fine del regno.

È facile comprendere la rovina morale che tale evento avrebbe prodotto sui sogni degli esuli. Per loro il pericolo di uno smarrimento era gravissimo: si trovavano esposti al fascino dei grandiosi culti tributati agli dei vincitori; il crollo delle illusioni avrebbe segnato il loro passaggio all'idolatria; scomparendo nel mare delle genti, come era avvenuto per i deportati del regno di Samaria. Le illusioni, infatti, impedivano agli esuli di trarre dalla loro sventura, quel profitto spirituale inteso dal Signore: la loro conversione (Lev. 26; Deut. 28), la costituzione del nuovo Israele, coll'attuazione fedele dell'alleanza (v.) del Sinai (Ier. 24, 1-10; 30-31; Ez. 16, 53-63; 20, 32-44).
Mentre in Giudea, Geremia, ultimo appello del Signore al popolo ribelle, esorta invano i suoi concittadini alla penitenza, al ravvedimento che soli avrebbero impedito la catastrofe (Ier. 13, 65 ss. ecc.), in Babilonia E. lavora intensamente per la riforma e la continuità del popolo eletto. In una visione sublime, che richiama quella di Is. 6, E. nel 593 (1, 1) lungo le rive del Canal grande, riceve la missione profetica. Forse aveva allora una trentina d'anni. Egli eserciterà il suo lungo ministero (almeno 22 anni) a Tell-Abib. L'ultima data indicata in Ez. 29, 17 ci porta al 571. A differenza di Geremia, E. aveva una sposa che perdette nel 90 anno dell'esilio (24, 1-26 ss.). Secondo un'antica tradizione, E. fu ucciso da un capo del popolo, da lui ripreso per la sua idolatria (s. Atanasio, PG 25, 160; Ps. Epifanio, PG 43, 401).
La missione di profeta e pastore, svolta da E. tra gli esuli, è dominata dalla distruzione di Gerusalemme (587), che la distingue nettamente in due periodi.
Nel primo (593-587) egli combatte gli errori e le illusioni, per preparare gli esuli alla conversione e alla salvezza. Muove contro corrente, incontra ostilità e disprezzo (2, 5 s. 8; 3, 8.26 s.; 12, 22.27). La sua predicazione, spesso è limitata a coloro che vengono a trovarlo, a interrogarlo nella sua abitazione (3, 24 s. 8, 1; 14, 1), arriva però e si diffonde tra tutti gli altri (2, 3-8; 3, 16-21 ecc.). È necessario infatti che questi, ora ribelli e ostili, sentano le parole del Signore, in modo che, quando si avvereranno (distruzione del Tempio e di Gerusalemme), rientrino in sé e ne riconoscano la verità; faccian penitenza ritornando di cuore a Iahweh (2, 5; 12, 2; 14, 22 s. ecc.). È il miracolo della profezia che dovrà risvegliare quest'intorpiditi dall'errore. Ecco le verità che E. oppone alle false idee in voga.

1°) Il Signore non è soltanto a Gerusalemme ed in Palestina. Egli è presente con la sua maestà infinita e la sua onnipotenza anche lì, in Babilonia. Egli non dimentica gli esuli; è in mezzo ad essi, ed opererà la loro conversione, facendoli l'oggetto principale dei suoi mirabili disegni (11, 14-20; 20, 34-44). È questo il significato della sublime visione descritta minutamente dal profeta e in modo da farne risaltare la trascendenza assoluta (cc. 1-3; 3, 25; 8-10; 43, 2 ss.). Il Signore è l'unico Dio: tutti gli splendori e tutte le potenze venerate dai Caldei gli servono da sgabello.

2°) Ogni speranza di rivincita contro Babel è vana: Dio stesso ha dato a Nabucodonosor tutta la Palestina. Gerusalemme e lo stesso Tempio saran distrutti (4, 1- 3.9b-11; 5-12; 20, 45-49; 21; 23-24); lo esige la divina giustizia oltraggiata fin nella sua casa (8; 22). Il profeta descrive in anticipo l'avvicinarsi di Nabucodonosor (21), l'assedio di Gerusalemme (4, 1-3.9b-11), la sorte degli assediati (5), la desolazione del paese (6), la deportazione dei superstiti (4, 12-15; 12).

3°) È vero, il Signore ha eletto il popolo d'Israele a sua porzione particolare, sua regale riserva (Ex. 19, 5), ma questa scelta procede soltanto dalla sua misericordia (16, 1.14; 20, 5 ss.) ed impone dei doveri: Israele deve osservare i precetti del Signore e fuggire l'idolatria. Esso invece ha violato e continua a violare l'alleanza (v.): 5, 5-17; 16, 15-34; 20. Iddio dunque per la sua stessa dignità di sposo offeso e tradito, per la sua stessa santità, deve punirlo (14,12-21; 15; 17).

4°) Mediante il castigo Dio mira al ritorno d'Israele all'alleanza (16, 35-63; 20). il Signore infatti, compirà i suoi disegni misericordiosi: ed ha scelto proprio gli esuli del 597 perché trasformati spiritualmente, costituiscano il nucleo centrale di quel "resto" che egli ricondurrà in patria, per ristabilire l'alleanza e ricostituire la teocrazia che verrà elevata ed assorbita dal regno del Messia (11, 13-20; 20, 32-44).

Il profeta esalta la divina giustizia, esorta principalmente ad un esame di coscienza che, facendo risaltare i propri peccati, spingerà ciascuno al pentimento, all'umile confessione e implorazione del perdono. Gli esuli non hanno nulla a che vedere col castigo collettivo che si abbatterà su Gerusalemme; invece di criticare empiamente per esso la divina giustizia, si dispongano a rispondere alla misericordiosa disposizione del Signore nei loro riguardi (18). Lo stesso giorno in cui Nabucodonosor inizia l'assedio di Gerusalemme (588), E. ne dà l'annunzio agli esuli; indi tace; per lui parleranno gli eventi (24). Cinque mesi dopo la distruzione della capitale, uno scampato ne porta la notizia ad E. (33, 21) che inizia la seconda parte della sua missione. Egli predica ormai apertamente (33, 21 s.), consola, impedendo l'abbattimento degli animi; lavora in profondità alla loro conversione. Le disposizioni degli animi sono mutate: l'adempimento di tutti gli annunzi precedenti svela ai deportati le loro illusioni i loro errori. Più non ironizzano sulle parole del profeta che insiste ora sul perdono e la misericordia: previa sempre la conversione (33). Il grande teologo che ha dimostrato dal passato la necessità del castigo nazionale; il profeta severo che lo ha passo passo preannunziato nei particolari; ora con la medesima sicurezza descrive in quadri mirabili, affascinanti, il futuro glorioso che l'onnipotenza di Iahweh realizzerà per la sua gloria. il Signore piglia personalmente il governo del suo popolo rinato, escludendo i cattivi pastori (34). Preparerà la Palestina per il ritorno d'Israele, colpendo severamente i popoli vicini che vi si erano insediati (35-36). Nonostante sembri allora impossibile, la restaurazione avrà luogo, come dimostra la grandiosa visione simbolica delle ossa nude e inaridite, che, al comando di Dio, si rivestono di carne e ritornano uomini (37); nulla è impossibile alla divina Onnipotenza. Anzi, il nuovo Israele, fedele alla ristabilita alleanza, vien già descritto nella sua vita serena sui colli della Palestina; lo stesso Dio lo proteggerà contro le potenze soverchianti che un bel giorno moveranno sicure per annientarlo (38-39). Profezia che si realizzerà nel prepotente tentativo dei Seleucidi, e nella vittoria dei Maccabei.
La visione della nuova teocrazia (40-48): il nuovo tempio, il nuovo culto, la nuova sistemazione della terra promessa, costituisce un quadro grandioso che integra e suggella l'opera così notevole e tipica di E. La restaurazione è qui presentata nella sua natura (cf. 11, 19 s.; 31, 26 ss.): più che il fatto è vaticinato il modo. Non si avrà un ritorno al passato, ma un rinnovamento, un perfezionamento.
Oggetto della profezia non è l'edificio materiale, gli atti esterni del culto, quanto il rispetto, l'intima venerazione con cui si deve custodire il primo e compiere gli altri; non la spartizione materiale della Palestina, quanto lo spirito di giustizia e di solidarietà fraterna che deve informare i rapporti sociali. Viene così manifestato, operante nel culto e nella vita sociale, il "nuovo spirito" che il Signore infonderà nei rimpatrianti (36, 25-29; 37, 14.23).

I dettagli minuziosi accentuano quest'idea del rispetto e della venerazione per il temo pio e le cose sacre; e della giustizia che deve regnare nel paese.
E. vuol suscitare negli esuli il pentimento più vivo per le profanazioni del tempio compiute da Israele nel passato (cc. 8-11).
Il timor di Dio, lo zelo per il suo culto sono alla base del sentimento religioso. Forse in Baruc (1-3, 8; ca. 582-1 a. C.) possiamo vedere i frutti realizzati dalla missione di E. Quanto alla forma sono caratteristiche le visioni grandiose e complesse descritte fin nei minimi particolari e le numerose azioni simboliche. Le visioni sono presentate come reali, oggettive e non c'è motivo di intenderle diversamente; rispondono esattamente ai dati dell'ambiente babilonese; avvengono nei sensi interni del profeta e sono congiunte a rivelazioni intellettuali. Le azioni simboliche effettivamente compiute erano di un'efficacia straordinaria per colpire ed attirare l'attenzione degli esuli, così mal disposti. Alcune di esse: la reclusione volontaria (3,25), il mutismo (3, 26 s.), l'immobilità, (4, 4-8) e qualche espressione «caddi faccia a terra» 1, 28; ecc.) sono servite al Klostermann per varare l'ipotesi dell'epilessia di E. (Kraetzschamar, Bertholet). Interpretazione futile che dispensa da ogni confutazione.

Il libro, cui si riconosce concordemente un ordine sistematico perfetto, segue la duplice attività del profeta, rispettivamente nella 1 a (cc. 1-24) e nella 2 a parte (cc. 33-48). Tra l'una e l'altra, E. ha disposto i suoi vaticini contro le genti (cf. Is. 13-23; Ier. 46-51). Il Signore castiga il suo popolo, ma non permette che i suoi nemici godano impunemente dopo aver infierito al tempo della rovina (587). Punirà pertanto i popoli confinanti (Ammon, Moab ecc.; 25); punirà Tiro che, dopo aver fomentato la ribellione di Giuda contro Babel, crede nella sua superbia che la rovina di Gerusalemme rafforzi la sua potenza (26-28); umilierà l'Egitto che col suo fascino ha spinto Giuda all'idolatria e alla ribellione (29-32). Questi vaticini furono in gran parte composti tra il gennaio del 587 e il 585. L'idea che in essi presiede è il dominio universale di Iahweh, che regola tutti gli eventi umani; si serve dei pagani per punire il suo popolo, ma punisce poi anch'essi per la loro superbia, per la loro crudeltà. E mentre il castigo per Israele è solo temporaneo e medicinale, per costoro è definitivo.

All'unità di tracciato e di composizione, va aggiunta quella dello stile: le stesse stereotipe flessioni ed espressioni ricorrono per tutto il libro. Tuttavia oltre alle corruzioni testuali, non mancano in esso, pur così omogeneo, correzioni ed aggiunte; ma riguardano soltanto dettagli o brevissime pericopi, diversamente definiti. L'opinione, ripresa e sviluppata nel recente commento di Bertholet (1936), che il libro risulti di due o più abbozzi o appunti scritti da E. in tempi diversi (la maggior parte in Giudea - redazione palestinese - dove si fantastica abbia esercitato E. il suo ministero, prima di recarsi in esilio verso il 585, dove avrebbe scritto solo pochi vaticini) e fusi nella forma attuale da un esule, ha basi fragili. Essa ricorre ai cosiddetti doppioni: spesso in E. pensieri simili o identici vengono espressi con forma leggermente diversa. Ma tale fatto è da attribuire senz'altro allo stile caratteristico del profeta e al testo, spesso corrotto, per aggiunte e mutazioni.

E. si ferma a lungo nell'esporre un'idea, vi ritorna su illustrandola sotto i suoi vari aspetti. Nel narrare un episodio, una visione, vi si indugia per non lasciarsi sfuggire alcun dettaglio. Questo appare evidente nelle parti, dove non si è potuto od osato introdurre le varie recensioni (cf. 1, 4-2, 1; 4-5; 11, 1-13 ecc.).
Data questa caratteristica, non è possibile evitare le ripetizioni, specialmente se manca quel lavoro di lima che si esige in un'opera letteraria. E in realtà: «la dizione del libro di E. non è molto elegante né del tutto rozza, ma partecipa dell'uno e dell'altro carattere» (s. Girolamo).
Basta ammettere che lo stesso E. ha redatto definitivamente il libro verso la fine della sua esistenza (570 ca.), servendosi di suoi scritti o raccolte antecedenti, perché cessi ogni difficoltà o meraviglia per queste apparenti ripetizioni che spesso riecheggiano la lunga attività del profeta.
L'ipotesi d'altronde fu subito confutata da H. Cornill, G. Jahn, E. Kreife, e contro il Bertholet da J. Hempel (in ZatW, 55 [1937] 299).

Per il ministero palestinese di E., del quale nessuno accenno è nel testo, c'è la grave difficoltà dell'ambiente sciovinista e arroventato; è incredibile che E. abbia potuto svolgere il suo minaccioso messaggio in Gerusalemme o nelle vicinanze, nelle condizioni storiche a noi ben note dal libro di Geremia (cf. Ier. 37-38: il profeta poté sfuggire alla morte per il particolare intervento segreto dello stesso re, Sedecia; mentre un altro profeta dovette fuggire in Egitto e ancora lì fu fatto assassinare dai Giudei esasperati), e dalle lettere di Lachis (lettera VI; A. Vaccari, in Biblica, 20 [1939] 196 ss.; cf. VD, 26 [1948] 379). Il libro di E. scritto quasi esclusivamente in prosa, ha carattere didattico, discorsivo: vuol convincere. Non mancano però splendide immagini e componimenti di vera poesia (15.19.21.27.31).

La lingua risente fortemente l'influsso aramaico e, per il lessico, quello accadico che dà al libro l'inconfondibile colore babilonese, valido argomento d'autenticità. Il testo ebraico è particolarmente corrotto; ma è superiore alla versione greca dei Settanta, che risulta molto mediocre; nelle pericopi più difficili essa trascrive l'originale senza capirlo, anzi molto spesso omette quel che non sa spiegare o lo rende in maniera cervellotica. La volgata segue passo passo il testo ebraico, che rende spesso servilmente.
[F. S.]

BIBL. - F. SPADAFORA, Ezechiele (La S. Bibbia, S. Garofalo), 2a ed., Torino 1950; H. H. ROWLEY, The Book of Ez. in Modern Study, in BjRy Libr. 36,1 (1953) 146-190; G. - FOHRER, Die Hautprobleme des Buches Ez., Berlin 1952; ID., Ezechiel, Tubingen 1955; A. VAN DEN BORN, Ezechiel, Roe 1954; G. C. AALDERS, Ezechiel, Kampen 1955; A. VACCARI, La S. Bibbia, Firenze 1961, pp. 1497-1587.

Autore: Mons. Francesco Spadafora
Fonte: Dizionario Biblico diretto da Francesco Spadafora