Scrutatio

Venerdi, 26 aprile 2024 - San Marcellino ( Letture di oggi)

Redenzione


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La nozione di «redenzione» (gr. lytrosis o apolytrosis) in virtù della quale Dio «libera» o «riscatta» (gr. lytroùsthai) il suo popolo, e quella, molto affine, di «acquisizione» (gr. peripòiesis), in virtù della quale egli l‘«acquista» (gr. agoràzein), sono strettamente Collegate nella Bibbia all‘idea di «*salvezza»: designano il mezzo privilegiato scelto da Dio per salvare Israele liberandolo dalla schiavitù egiziana (Es 12, 27; 14, 13; cfr. Is 63, 9) e costituendolo suo «popolo particolare» (Es 19, 5; Deut 26, 18); nel NT, un testo come Tit 2, 13 s, riflesso visibile di una catechesi primitiva, rivela chiaramente la fonte a cui si riferisce l‘autore per descrivere l‘opera di Cristo: Gesù è «salvatore» in quanto ci «redime da ogni iniquità» e «purifica un popolo che è sua proprietà». Appare Così ia continuità del disegno salvifico, senza che sia tuttavia negato Ciò che offre di nuovo e di imprevedibile il compimento di ogni vera profezia.
VT
1. Esodo ed Alleanza.
- Il VT parla per lo più di «redenzione» a proposito dell‘*esodo: l‘esperienza religiosa, Che allora fece Israele, permette di afferrare nel miglior modo il contenuto di questa nozione. Infatti nella coscienza ebraica l‘esodo non si può dissociare dall‘*alleanza: Dio non strappa il suo popolo alla *schiavitù se non per legarlo a sé: «Io sono Jahve,... io vi salverò dalla schiavitù... e vi libererò (?redimerò?) colpendo forte... Io ¢t adotterò come mio popolo e sarò il vostro Dio» (Es 6, 6 s; cfr. 2 Sam 7, 23 s). In virtù dell‘alleanza, Israele diventa un popolo «santo», «consacrato a Jahve», il «popolo particolare» di Dio (Es 19, 5 s). «Popolo santo» e «redenti da Jahve» sono due equivalenti (Is 62, 11 s) e Geremia può datare l‘alleanza dal giorno in cui «Dio ha preso per mano il suo popolo per farlo uscire dall‘Egitto» (Ger 31, 32). La nozione di redenzione è quindi essenzialmente positiva: l‘unione con Dio non vi è affermata meno della *liberazione dalla schiavitù del peccato. Tale è d‘altronde il senso etimologico del termine latino redemptio: designa innanzitutto una «compera» (emere) che non ci «libera» (cfr. red-) se non per «acquistarci» a Dio; la stessa cosa vale della parola inglese «atonement», che lo traduce abitualmente, ed il cui senso originale è «riunione», «riconciliazione» («ai - one - ment»). 2. La redenzione messianica. - I profeti riprendono intenzionalmente le stesse formule a proposito della liberazione dall‘*esilio, ed il «redentore» diventa allora uno dei titoli preferiti di Jahve, specialmente nel DeuteroIsaia. Nessuno si stupirà che l‘oggetto della grande speranza messianica sia ancora espresso in termini di «redenzione»: «Presso Jahve è la grazia, presso di lui l‘abbondanza del ?riscatto?, egli ?riscatterà? Israele da tutte le sue colpe» (Sal 130, 7 s). Più di tutti Ezechiele sottolinea l‘assoluta gratuità di una simile «redenzione» accordata a dei peccatori (Ez 16, 60-63; 36, 21 ss); precisa inoltre la natura di questa «nuova alleanza», e mentre in Ger 31, 33, Jahve aveva detto: «Porrò la mia legge nel loro intimo», in Ez 36,27 dichiara: «Porrò il mio *Spirito nel vostro intimo». La redenzione consisterà nella comunicazione dello Spirito stesso di Jahve, a guisa di legge (cfr. Gv 1, 17. 29. 33; 7, 37 ss; Rom 8, 2-4).
NT 1. La continuità con il VT. - Il riferimento a questo contesto messianico è talvolta esplicito: Zaccaria celebra il Dio che «ha redento il suo popolo» e la profetessa Anna parla del bambino a «tutti coloro Che aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 1, 68; 2, 38). Il termine «redenzione», come la maggior parte delle nozioni messianiche derivate dal VT, che possono applicarsi sia al primo Che al secondo avvento di Cristo, non serve quindi soltanto a designare l‘opera compiuta da Cristo sul Calvario (Rom 3, 24; Col 1, 14; Ef 1, 7), ma anche quella che egli compirà alla fine dei tempi al momento della parusia e della risurrezione gloriosa dei corpi (Lc 21, 28; Rom 8, 23; Ef 1, 14; 4, 30; 1 Cor 1, 30 [?]); e nei due casi si tratta di una liberazione, ma più ancora forse di una «acquisizione», di una «presa di possesso da parte di Dio», dapprima iniziale, poi definitiva, quando l‘uomo, corpo ed anima, e Con lui l‘universo, «entreranno nella pienezza di Dio» (Ef 3, 19): allora Dio sarà «tutto in tutti» (l Cor 15, 28), anzi «tutto in tutto» (Ef l, 23). Questa, d‘altronde, è la ragione per cui il NT ha potuto esprimere la stessa nozione mediante il verbo «comperare» (gr. agorà-ein, 1 Cor 6, 20; 7, 23; cfr. Gal 3,13; 4, 5). Non già che esso abbia voluto assimilare la redenzione ad una transazione commerciale regolata dalla legge della equivalenza o della compensazione, in cui il Carceriere non accetta di consegnare il suo prigioniero oppure il venditore la sua mercanzia, se non alla condizione di non perderci nulla! Esso intendeva senza dubbio significare che noi siamo diventati la proprietà di Dio in virtù di un Contratto, le cui Condizioni sono state tutte adempiute, specialmente quella che non si mancava di segnalare: la somma è stata versata (1 Cor 6, 20; 7, 23; cfr. 1 Piet 1, 18). Ma bisogna notare che qui si ferma la metafora; non si fa mai questione di una persona Che reclami oppure riceva il prezzo della compera. Di fatto anche qui il NT sembra riferirsi alla nozione di acquisizione quale era conosciuta dal VT; in ogni Caso Con lo stesso verbo «comperare» l‘Apocalisse si riferisce esplicitamente al fatto del Sinai: nel *sangue dell‘agnello gli uomini di tutte le nazioni sono diventati proprietà particolare di Dio, Come già Israele lo era diventato in virtù dell‘alleanza suggellata anch‘essa nel sangue (Apoc 5,9); mentre Atti 20, 28, per evocare la stessa realtà, conserva il termine proprio del VT e parla della «Chiesa di Dio che egli si è acquistata con il proprio sangue» (cfr. 1 Piet 2, 9; Tito 2, 14). D‘altronde l‘interpretazione risale a Cristo in persona: la cornice pasquale scelta deliberatamente ed il ricordo esplicito del sangue dell‘alleanza erano abbastanza chiari perché nessuno potesse essere tratto in inganno (Mt 26, 28 par.; 1 Cor 11, 25). 2. La morte volontaria di *Gesù Cristo. - Ma il NT sottolinea non meno nettamente la distanza che separa la *figura dal suo *compimento. La nuova alleanza, come l‘antica, è suggellata nel sangue; ma questo sangue è quello del Figlio stesso di Dio (1 Piet 1, 18 s; Ebr 9, 12; cfr. Atti 20, 28; Rom 3,25). Redenzione «costosa»: alla immolazione di vittime senza ragione succede il *sacrificio personale e volontario del *servo di Jahve che «ha dato la propria vita alla morte» (Is 53, 12) e «ha ben servito la comunità» (53, 11 LXX). Gesù «non è venuto per essere servito, ma per *servire e per dare la sua vita in riscatto per la Comunità» (Mt 20,28; Mc 10,45): il suo sacrificio sarà lo strumento della nostra liberazione (lytron). Il racconto giovanneo della passione vuol mettere in rilievo appunto questo carattere volontario della morte di Cristo (ad es. Gv 18,4-8), come lo fa ancora più chiaramente, se è possibile, nei sinottici, il racconto della cena *eucaristica, in cui Cristo si vota letteralmente in anticipo alla morte. 3. La vittoria di Cristo sulla morte. - Per i discepoli questa *morte era stata uno *scandalo, la prova Che Cristo non era il «redentore» atteso (Le 24, 21). Illuminati dalla esperienza di Pasqua e da quella della Pentecoste, divenuti testimoni della *risurrezione (Atti 1, 8; 2, 31 s; ecc.), essi comprendono che la passione e la morte del loro maestro, lungi dal Costituire un fallimento del disegno salvifico di Dio, lo Compivano «secondo le Scritture» (1 Cor 15, 4); la *pietra rigettata dai Costruttori è diventata la pietra d‘angolo (Mt 21, 42 par.; Atti 4, 11 = Sal 118, 22; 1 Piet 2, 7), fondamento del nuovo *tempio; il *servo è stato veramente «esaltato» (Atti 2,33; 5,31) e «glorificato» (3, 13), secondo i due termini desunti da Is 52,13; più ancora, egli lo è stato «per aver dato la sua *anima alla morte» (Is 53, 12; Fil 2, 9). Sconfitta apparente, la morte di Cristo era in realtà una *vittoria sulla morte e su *Satana, autore della morte (cfr. Gv 12, 31 s; Ebr 2, 14). 4. Morte e risurrezione. - Nella prima predicazione del mistero redentore la *risurrezione ha una parte tale che talvolta viene ricordata da sola (ad es. 1 Piet 1, 3) Con la parusia (1 Tess 1, 10). Ma gli apostoli, guidati dallo Spirito Santo, distingueranno sempre più nettamente nella passione e nella risurrezione due avvenimenti non soltanto ordinati l‘uno all‘altro (ad es. Fil 2, 9), ma che si compenetrano vicendevolmente al punto da costituire due aspetti indissociabili di un unico mistero di *salvezza. Così Luca ha cura di collocare sotto il segno della *ascensione (LC 9, 51) tutto il lungo racconto della salita di Gesù a Gerusalemme e, in cambio, quando descrive la vita «gloriosa» di Cristo, di ricordare con una voluta insistenza la sua passione e la sua morte (24, 7. 26. 39. 46; cfr. 9, 31). Similmente Paolo, anche là dove non ricorda che la morte, non Cessa di pensare anche alla risurrezione: la vita, alla quale fa Così spesso allusione, è sempre Concepita Come una partecipazione a quella del risorto (ad es. Gal 2, 20; 6, 14 s; Rom 6, 4. 11; 8, 2. 5). Infine, in Giovanni, l‘unità del mistero è Così profonda che i termini, i quali nella catechesi primitiva designavano la risurrezione di Gesù, hanno potuto essere usati per designare nello stesso tempo la passione e la glorificazione di Cristo (Gv 12,23.32.34); così pure l‘agnello dell‘Apocalisse appare al veggente di Patmos «in piedi», in segno di risurrezione, e nello stesso tempo «come sgozzato», in segno di immolazione (Apoc 5, 6). 5. Mistero d‘amore. a) S. Giovanni. - Per Giovanni, infatti, il mistero redentore è essenzialmente un mistero di amore e, per conseguenza, di vita divina, poiché «Dio è amore» (1 Gv 4,8). Amore del Padre, certamente, che ha «tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio unico» (Gv 3, 16; 17, 23; 1 Gv 4, 9); ma parimenti amore del Figlio per il Padre (Gv 14,31) e per gli uomini (10, 11; 1 Gv 3,16; Apoc 1, 5); amore Che egli riceve dal Padre suo da cui dipende in tutto e, pertanto, amore «obbediente» (Gv 14,31); amore, infine, del quale non ne esiste uno maggiore (15, 13). Infatti, se tutta la vita di Cristo fu «amore per i suoi», la passione è il momento in cui egli «li amò fino alla fine», fino alla «consumazione» (gr. telos) dell‘amore (13, 1): il che significa, in concreto, fino ad accettare di essere tradito da uno dei Dodici (18,2 s), rinnegato dal loro capo (18, 25 ss), condannato Come bestemmiatore in nome della stessa legge (19, 7), e di morire del supplizio più infamante, quello della Croce, come uno scellerato il cui cadavere appeso al patibolo contaminava la terra di Israele (19, 31). In quel momento preciso egli può dichiarare in tutta verità Che «è compiuto» (19, 30: gr. tetèlestai) - ha raggiunto la sua «attuazione» suprema - l‘amore del Padre quale era rivelato nelle Scritture e si era incarnato nel Cuore umano di Gesù. E se egli muore per amore, lo fa per Comunicate questo amore agli uomini, suoi fratelli: dal Costato «trafitto» (19,37; Zac 12,10), Giovanni vede scaturire «la sorgente aperta alla casa di David ed agli abitanti di Gerusalemme, per il peccato e l‘impurità» (Zac 13, 1; Ez 47, 1 ss), preludio della effusione di quello *spirito (Gv 20, 22) che Giovanni Battista aveva visto discendere al *battesimo e fermarsi sul Messia (1, 32 s). b) S. Paolo - Ora questo aspetto non presenta minor rilievo in Paolo. Anche egli vede anzitutto nella morte di Cristo un mistero di amore: amore del Padre (Rom 5,5-8; 8, 39; Ef 1, 3-6; 2,4; cfr. Col 1, 13), «quando ancora noi eravamo peccatori» (Rom 5, 8), suoi «nemici» (5, 10); amore del Figlio sia per il Padre, sotto la forma di *obbedienza che ripara in tal modo la disobbedienza del primo Adamo (5, 19; Fil 2, 6), sia per gli uomini (Rom 5, 7 s; 8, 34). A questo proposito non soltanto Paolo riprende la formula della catechesi primitiva (cfr. Mc 10, 45), che si ispirava verosimilmente ad Is 53, 10. 12, e dichiara Che «Cristo si è dato per noi» o «per i nostri peccati» (Gal 1, 4; 1 Tim 2, 6; Tit 2, 14), ma ci tiene a precisare che lo ha fatto «perché mi ha amato» (Gal 2,20; Ef 5,2. 25). Al pari di Giovanni egli sa che non c‘è amore maggiore del morire per coloro Che si amano (Gv 15,13); in altre parole, che ogni amore umano è condizionato, «influenzato» dalle circostanze in cui si attua. A Circostanze eccezionali Corrisponde necessariamente un amore eccezionale; più precisamente, ricevendo questo amore dal Padre suo, Cristo lo ha ricevuto in grado supremo in funzione delle circostanze stesse in Cui il Padre lo collocò. Paolo, quindi, nell‘affermazione che «Dio non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti» (Rom 8, 32), vede la prova per eccellenza della «carità di Cristo» (8, 35), meglio, della «carità di Dio in Cristo nostro Signore» (8, 39). Tra tutte queste circostanze Paolo, al pari di Giovanni, evoca specialmente l‘infamia del supplizio della *croce, di Cui i primi cristiani sembrano aver sentito in modo particolare l‘obbrobrio (cfr. Atti 5, 30; 10, 39): come già il *servo, che «era considerato come un colpito da Dio» (Is 53, 4), il «giusto» ha accettato di apparire agli occhi del mondo come un «*maledetto», violatore della legge (Gal 3, 13). Per Cristo non si poteva concepire umiliazione più profonda (Fil 2, 8), ma anche, per ciò stesso, atto di obbedienza e di amore più sublime, dal momento Che una simile morte era accettata, voluta. Proprio con Ciò Cristo «redime» l‘umanità, «l‘acquista al Padre suo». 6. Vittoria sul peccato nella carne. - D‘altra parte, poiché si tratta dell‘atto di un membro della nostra umanità, che condivide pienamente la nostra condizione mortale, pur superandola con la sua divinità, l‘umanità viene ad essere «redenta», «acquistata a Dio», mediante una trasformazione che si compie nel suo interno. Secondo Giovanni, sulla croce, «il principe di questo mondo è stato condannato» (Gv 16, 11), cioè «cacciato fuori» (12,31; cfr. Apoc 12,9s), privato del suo dominio. Dichiarando che «Dio ha Condannato il peccato nella carne» (Rom 8, 3), come nella «lotta escatologica» predetta da Ez 38-39 (cfr. 38,22s; 39,21s,, preludio all‘instaurazione dei tempi messianici (40-42), Paolo precisa Che questa vittoria di Dio per mezzo del suo Cristo sul *peccato, si è compiuta proprio là dove Satana credeva di regnare per sempre, «nella carne»; spiega che a questo fine «Dio mandò il suo Figlio nella rassomiglianza di una carne di peccato», cioè una condizione in cui la *carne di Cristo, senza essere come la nostra «strumento di peccato», era nondimeno, come la nostra, passibile e mortale a motivo del peccato; ed il contesto mostra Che, per l‘apostolo, Dio ha trionfato del peccato nella carne, comunicando la vita dello spirito (8, 2. 4) a questa carne stessa, a quella di Cristo divenuto, attraverso la sua morte e la sua risurrezione, «spirito vivificatore» (1 Cor 15, 45), ed anche alla nostra, perché ormai «noi non siamo più nella Carne, ma nello spirito» (Rom 8, 9; cfr. 8, 4). Il «ritorno a Dio», la «redenzione» si è effettuata in quanto Cristo è passato dallo stato «Carnale» allo stato «spirituale», e noi in lui. Altrove, Con una formula particolarmente ardita, Paolo dichiara che «Dio ha fatto il Figlio suo peccato per noi, affinché in lui divenissimo giustizia di Dio» (2 Cor 5, 21). Sembra Che queste espressioni, di cui si è sovente abusato, possano essere interpretate in funzione dello stesso Contesto: affinché in Cristo, per solidarietà con lui divenuto uno di noi, fossimo soggetti agli effetti benefici di questa potenza di vita, che la Bibbia e Paolo chiamano la «*giustizia di Dio», il Padre ha voluto Che il Figlio suo, per solidarietà Con gli uomini peccatori, fosse soggetto agli effetti malefici di quella potenza di morte che è il *peccato; questi effetti costituirebbero quindi la conditio opnma del più grande atto di amore e di obbedienza che si possa concepire. In tal modo è riparata l‘opera nefasta del peccato, l‘umanità è restaurata, «redenta», riunita a Dio, nuovamente in possesso della vita divina. Secondo l‘antico oracolo (Ez 36, 27), alla carne è stato comunicato lo spirito stesso di Jahve. Ma la profezia si è compiuta, con una pienezza insospettata, mediante l‘atto supremo di amore del Figlio stesso di Dio fatto uomo.

Autore: S. Lyonnet
Fonte: Dizionario teologico biblico