Scrutatio

Mercoledi, 24 aprile 2024 - San Fedele da Sigmaringen ( Letture di oggi)

Messia


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Messia, ricalcato sull‘ebraico e sull‘aramaico, e Cristo, trascritto dal greco, significano entrambi «unto». Questo appellativo all‘epoca apostolica è divenuto il nome proprio di Gesù ed ha assunto il Contenuto degli altri titoli da lui rivendicati. D‘altronde esso sottolinea felicemente il legame profondo che collegava la sua persona alla speranza millenaria del popolo ebraico, accentrata sull‘attesa del messia, figlio di David. Tuttavia gli usi della parola «unto» nel VT e poi nel giudaismo non implicavano ancora la ricchezza di senso che il NT ha dato alla parola Cristo. Bisogna risalire fino alle origini di questo vocabolario per vedere quale trasformazione il NT gli ha fatto subire proiettando su di esso la luce di una rivelazione insíta nelle parole e nella storia di Gesù. VT Nel VT il termine unto è stato applicato innanzitutto al re; ma ha designato anche altre persone, specialmente i sacerdoti. Tuttavia il primo uso è quello Che ha lasciato più tracce nell‘escatologia e nella speranza ebraiche.

I. DAL RE AL MESSIA REGALE

1. L’unto di Jahve nella storia. - In virtù dell‘unzione con olio, Che simboleggia la sua investitura da parte dello spirito di Dio (1 Sam 9, 16; 10, l. 10; 16, 13), il re è consacrato per una funzione Che ne fa il luogotenente di Jahve in Israele. Questa consacrazione è un rito importante dell‘incoronazione regale (cfr. Giud 9, 8). Perciò è ricordata per Saul (1 Sam 9 - 10) per David (2 Sam 2, 4; 5, 3), per Salomone (1 Re 1, 39), e per quelli tra i suoi discendenti che salirono al potere in un contesto di Crisi politica (2 Re 11, 12; 23, 30). Il re diventa così «l‘unto di Jahve» (2 Sam 19, 22; Lam 4, 20), cioè una persona sacra a cui ogni fedele deve manifestare un rispetto religioso (1 Sam 24, 7. 11; 26, 9. 11. 16. 23; 2 Sam 1, 14. 16). A partire dal momento in cui l‘oracolo di Natan ha fissato la speranza di Israele sulla dinastia di David (2 Sam 7, 12-16), ogni re discendente da lui diventa a sua volta il «messia» attuale, per mezzo del quale Dio vuole Compiere i suoi disegni nei Confronti del suo popolo. 2. L’unto di Jahve nella preghiera. - I salmi preesilici mettono in evidenza il posto di questo messia regale nella vita di fede di Israele. L‘unzione che egli ha ricevuto è il segno di una preferenza divina (Sal 45, 8) e fa di lui il figlio adottivo di Jahve (Sal 2, 7; cfr. 2 Sam 7, 14). Egli quindi è sicuro della protezione di Dio (Sal 18, 51; 20, 7; 28, 8). La rivolta Contro di lui è una follia (Sal 2, 2), perché Dio non mancherà di intervenire per salvarlo (Ab 3, 13) e per «esaltare il suo Corno» (1 Sam 2, 10). Si prega tuttavia per lui (Sal 84, 10; 132, 10). Ma, in base alle promesse fatte a David, si spera che Dio non mancherà mai di perpetuarne la dinastia (Sal 132, 17). Grande perciò è la confusione degli spiriti dopo la caduta di Gerusalemme, quando l‘unto di Jahve è prigioniero dei pagani (Lam 4, 20): perché Dio ha rigettato in tal modo il suo messia, sl che tutti i pagani lo oltraggiano (Sal 89, 39.52)? L‘umiliazione della dinastia davidica è una prova per la fede, e questa prova sussiste anche dopo la restaurazione postesilica. Di fatto, la speranza di ristabilimento dinastico suscitata per un momento da Zorobabele è presto delusa: Zorobabele non sarà mai incoronato (nonostante Zac 6, 9-14) e non ci sarà più messia regale a capo del popolo giudaico. 3. L’unto di Jahve nell’escatologia. - I profeti, spesso severi con l‘unto regnante che giudicavano infedele, hanno orientato la speranza di Israele verso il re futuro, al quale d‘altronde non danno mai il titolo di messia, Il messianismo regale si è sviluppato dopo l‘esilio partendo appunto dalle loro promesse. I salmi regali, che un tempo parlavano dell‘unto presente, sono ora cantati in una nuova prospettiva che li mette in relazione Con l‘unto futuro, messia nel senso stretto della parola. Ne descrivono in anticipo la gloria, le lotte (cfr. Sal 2), le vittorie, ecc... La speranza giudaica radicata in questi testi sacri è estremamente viva all‘epoca del NT, specialmente nella setta farisaica. L‘autore dei Salmi di Salomone (63 a. C.) fa voti per la venuta del messia figlio di David (Sal Salmm. 17; 18). Lo stesso tema è frequente nella letteratura rabbinica. In tutti questi testi il messia è posto sullo stesso piano degli antichi re di Israele. Il suo regno è inquadrato nelle istituzioni teocratiche, ma lo si intende in un modo molto realistico che accentua l‘aspetto politico della sua funzione.

II. GLI ALTRI USI DELLA PAROLA «UNTO»

1. Gli «unti di Jabve» in senso largo. - L‘unzione divina consacrava i re in vista di una missione relativa al disegno di Dio sul suo popolo. In un senso largo, metaforico, il VT parla talvolta di unzione divina anche quando c‘è soltanto una missione da compiere, soprattutto se questa missione implica il dono dello spirito divino. Ciro, inviato da Dio per liberare Israele dalla mano di Babilonia, è qualificato Come unto di Jahve (Is 45, 1), quasi che la sua Consacrazione regale lo avesse preparato alla sua missione provvidenziale. I profeti non erano Consacrati alla loro funzione Con un‘unzione mediante olio; tuttavia Elia riceve l‘ordine «di ungere Eliseo Come profeta al suo posto» (1 Re 19, 16): l‘espressione si può spiegare Col fat to che egli gli trasmetterà «due terzi del suo spirito» (2 Re 2, 9). Effettivamente questa unzione dello spirito ricevuta dal profeta è espressa in Is 61, 1: essa lo ha consacrato per annunziare la buona novella ai poveri. Ed anche i membri del popolo di Dio, Come «profeti di Jahve», sono chiamati una volta i suoi unti (Sal 105, 15; cfr. forse Sal 28, 8; Ab 3, 13). Ma tutti questi usi della parola restano occasionali. 2. 1 sacerdoti-unti. - Nessun testo anteriore all‘esilio parla di unzione per i sacerdoti. Ma dopo l‘esilio il sacerdozio vede aumentare il suo prestigio: ora che non c‘è più re, il sommo sacerdote diventa il capo della comunità. Ed allora, per Consacrarlo alla sua funzione, gli si conferisce l‘unzione. I testi sacerdotali posteriori, per sottolineare l‘importanza del rito, lo fanno risalire fino ad Aronne (Es 29,7; 30, 22-23; cfr. Sal 133,2). D‘altronde, in seguito, l‘unzione è estesa a tutti i sacerdoti (Es 28, 41; 30, 30; 40,15). A partire da quest‘epoca il sommo sacerdote diventa il sacerdote-unto (Lev 4, 3. 5. 16; 2 Mac 1, 10), quindi un «messia» attuale com‘era una volta il re (cfr. Dan 9, 25). Prolungando taluni testi profetici Che associavano strettamente regalità e sacerdozio nell‘escatologia (Ger 33, 14-18; Ez 45,1- 8; Zac 4,1-14; 6,13), alcuni ambienti attendono persino, negli ultimi tempi, la venuta di due messia: un messia-sacerdote, Che avrà la preminenza, ed un messia-re incaricato dei negozi temporali (Testamenti dei dodici patriarchi, Testi di Qumràn). Ma questa forma particolare della speranza messianica sembra ristretta ai circoli essenici Caratterizzati da un‘influenza sacerdotale preponderante. 3. Escatologia e messianismo. - L‘escatologia giudaica dà quindi un posto importante alla attesa del messia: messia regale dovunque, messia sacerdotale in Certi ambienti. Ma le promesse scritturali non si riducono a questo messianismo nel senso stretto della parola, legato sovente a sogni di restaurazione temporale. Esse annunziano parimenti la instaurazione del regno di Dio. Presentano anche l‘artefice della salvezza sotto i tratti del servo di Jahve e del figlio dell‘uomo. La coordinazione di tutti questi dati Con l‘attesa del messia (o dei messia) non si realizza in modo Chiaro e facile. Soltanto la venuta di Gesù dissiperà su questo punto la ambiguità delle profezie.

I. GESÙ E L‘ATTESA DEL MESSIA

1. Il titolo dato a Gesù. - Colpiti dalla santità dall‘autorità e dalla potenza di Gesù (cfr. Gv 7, 31), i suoi uditori si domandano: «Non sarà lui il messia?» (Gv 4, 29; 7, 40 ss), oppure, ed è la stessa cosa: «Che non sia costui il figlio di David?» (Mt 12, 23). E lo sollecitano a dichiararsi apertamente (Gv 10, 24). Dinanzi a questa questione gli uomini si dividono (cfr. 7,43). Da una parte le autorità giudaiche decidono di scomunicare chiunque lo riconoscerà per il messia (9,22). Ma coloro Che ricorrono al suo potere miracoloso lo invocano apertamente come figlio di David (Mt 9,27; 15, 22; 20, 30 s) e la sua messianità costituisce l‘oggetto di atti di fede espliciti: da parte dei primi discepoli, fin dal giorno successivo al battesimo (Gv l, 41. 45. 49), da parte di Marta, nel momento in cui egli si rivela Come la risurrezione e la vita (11, 27). I sinottici danno una particolare solennità all‘atto di fede di Pietro: «Chi dite voi che io sia?» - «Tu sei il messia» (Mc 8, 29). Questa fede è autentica, ma rimane imperfetta, perché il titolo di messia rischia ancora di essere inteso in una prospettiva di regalità (cfr. re) temporale (cfr. Gv 6, 15). 2. Atteggiamento di Gesù- - Gesù quindi adotta un atteggiamento riservato a questo riguardo. Eccetto che in Gv 4,25 s (dove il termine traduce senza dubbio in linguaggio Cristiano un‘espressione della fede samaritana), egli non si dà mai il titolo di messia. Si lascia Chiamare figlio di David, ma proibisce agli indemoniati di dichiarare che egli è il messia (Lc 4, 41). Accetta le confessioni di fede, ma dopo quella di Pietro raccomanda ai Dodici di non dire Che egli è il messia (Mt 16,20). D‘altronde, a partire da questo momento, egli tenta di purificare la concezione messianica dei suoi discepoli. La sua Carriera di messia incomincerà come quella del servo sofferente; figlio dell‘uomo, egli entrerà nella sua gloria attraverso il sacrificio della sua vita (MC 8,31 par.; 9,31 par.; 10,33s par.). I suoi discepoli sono sconcertati, Come lo saranno i Giudei quando egli parlerà loro della «elevazione del figlio dell‘uomo» (Gv 12, 34). Tuttavia, nel giorno delle palme, Gesù si lascia intenzionalmente acclamare Come il figlio di David (Mt 21,9). Poi, nelle controversie con i farisei, sottolinea la superiorità del figlio di David sul suo antenato, di Cui è il Signore (Mt 22, 41-46 par.). Infine nel suo processo religioso, il sommo sacerdote gli intima di dire se è il messia. Gesù, senza respingere questo titolo, lo interpreta subito in una prospettiva trascendente: egli è il figlio dell‘uomo destinato a sedere alla destra di Dio (Mt 26,63 s). Ora questa confessione è fatta nel momento in Cui incomincia la passione, e d‘altronde proprio essa causerà la sua condanna (26, 65 s). Perciò il suo titolo di messia sarà particolarmente schernito (26,68; MC 15,32; Le 23, 35.39), assieme al suo titolo di re. Soltanto dopo la sua risurrezione i discepoli potranno comprendere ciò che esso implica esattamente: «Non bisognava forse che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Le 24, 26). Evidentemente non si tratta più di gloria temporale, ma di ben altra cosa: secondo le Scritture «il Cristo doveva morire e risorgere perché in suo nome sia proclamata la conversione a tutte le nazioni in vista della remissione dei peccati» (24, 46).

II. LA FEDE DELLA CHIESA IN GESù CRISTO

1. Gesù risorto è il Cristo. - Alla luce di Pasqua, la Chiesa nascente attribuisce quindi a Gesù questo titolo di messia-Cristo, liberato ora da ogni equivoco. Le sue ragioni sono apologetiche e teologiche. Bisogna far vedere ai Giudei Che il Cristo, oggetto della loro speranza, è venuto nella persona di Gesù. Questa dimostrazione poggia su una teologia sicurissima che sottolinea la continuità delle due alleanze e vede nella seconda il compimento della prima. Gesù appare così Come il vero figlio di David (cfr. Mt 1,1; Le 1, 27; 2,4; Rom 1, 3; Atti 2, 29 s; 13, 23), destinato fin dal concepimento a ricevere il trono di David suo padre (Le 1, 32), per portare a termine la monarchia israelitica stabilendo sulla terra il regno di Dio. È stata la risurrezione ad intronizzarlo nella sua gloria regale: ora che ha «ricevuto lo Spirito Santo, Che è la promessa» (Atti 2,33), «Dio lo ha fatto Signore e Cristo» (2, 36). Ma questa gloria appartiene all‘ordine della nuova creazione; la gloria temporale degli antichi unti di Jahve non ne era che una figura lontana. 2. I titoli di Gesù Cristo. - Dal quel momento il termine Cristo, unito indissolubilmente al nome personale di Gesù, conosce un prodigioso allargamento, perché tutti gli altri titoli che definiscono Gesù si concentrano attorno ad esso. Colui che Dio ha unto, è il suo santo servo Gesù (Atti 4, 27), l‘agnello immacolato descritto da Is 53 (1 Piet 1, 19; cfr. 1 Cor 5, 7). Per questo era scritto Che egli doveva soffrire (Atti 3, 18; 17, 3; 26, 22 s) ed il Sal 2 descriveva in anticipo il complotto delle nazioni «contro Jahve e contro il suo messia» (Atti 4, 25 ss; cfr. Sal 2, 1 s). Perciò il vangelo di Paolo è un annunzio del Cristo crocifisso (1 Cor 1, 23; 2, 2), morto per gli empi (Rom 5, 6 ss), e la prima lettera di Pietro si dilunga sulla passione del messia (1 Piet 1, 11; 2, 21; 3, 18; 4, 1. 13; 5, 1). Nel libro di Isaia la missione del servo era descritta Come quella di un profeta perseguitato. Di fatto, la sola unzione che Gesù abbia mai rivendicato, è la unzione profetica dello Spirito (Le 4, 16-22; cfr. Is 61, 1), e Pietro, negli Atti, non manca di ricordare Come «Dio ha unto Gesù con lo Spirito Santo e la potenza» (Atti 10, 38). Alla vigilia della sua morte Gesù proclamava la sua dignità di figlio dell‘uomo (Mt 26, 63 s). La predicazione apostolica annunzia effettivamente il suo ritorno nell‘ultimo giorno in qualità di figlio dell‘uomo per instaurare il nuovo mondo (Atti 1, 11; cfr. 3, 20 s; Mt 25, 31. 34), ed a questo titolo egli siede già alla destra di Dio (Atti 7, 55 S; Apoc 1, 5. 12-16; 14, 14). Senza punto attribuirgli il messianismo sacerdotale che il tardo giudaismo sognava, l‘Apocalisse lo presenta con le vesti sacerdotali (Apoc 1, 13) e la lettera agli Ebrei ne Celebra il sacerdozio regale, sostituito definitivamente al sacerdozio figurativo di Aronne (Ebr 5, 5...; 7). Non si esita a dargli il titolo più alto, quello di Signore (cfr. Atti 2, 36): egli è «il Cristo Signore» (Le 2, 11; 2 Cor 4, 5 s), «il nostro Signore Gesù Cristo» (Atti 15, 26). Di fatto la sua risurrezione ha manifestato con splendore che egli possiede una gloria più che umana: Cristo è il Figlio di Dio nel senso stretto della parola (Rom 1, 4), è Dio stesso (Rom 9, 5; 1 Gv 5, 20). Cristo non è più per lui un titolo tra altri, ma è diventato come il suo nome proprio (usato senza articolo: 1 Cor 15, 12-23), che ricapitola tutti gli altri. E Coloro che egli ha salvato portano giustamente il nome di «Cristiani» (Atti 11,26).

Autore: P.E. Bonnard e P. Grelot
Fonte: Dizionario teologico biblico