Scrutatio

Sabato, 20 aprile 2024 - Beata Chiara Bosatta ( Letture di oggi)

Apatheia


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I. Il termine. A. è sostantivo greco composto da alfa privativo e patos, che indica sia l'evento subíto (in genere doloroso) sia i sentimenti che esso suscita nell'animo. A. significa, dunque, « non sentire », « non essere toccati » (o non lasciarsi toccare) dalle realtà esterne. Lo si traduce con impassibilità, imperturbabilità, e diventa così sinonimo di assenzasuperamento delle passioni, intese come la totalità degli stati d'animo, in un'ampia gamma che comprende ira e compassione, paura e desiderio, invidia e gioia.
Non meno importante del significato etimologico, è la storia di questo termine. Esso appartiene al vocabolario filosofico, e più precisamente a quello della filosofia stoica, dove segna il vertice della perfezione, l'ideale teoretico ed etico. In un mondo che è cosmo, ossia universo regolato da un ordine necessario e impersonale, l'uomo saggio accetta passivamente gli eventi e trova la sua felicitàlibertà nel dominio volontaristico di se stesso, reprimendo turbamenti ed emozioni che lo renderebbero schiavo o, meglio, gli rivelerebbero la sua radicale schiavitù. Stolto è agitarsi per ciò che non è suscettibile di cambiamento ed è giusto così com'è. Emozioni e passioni sono malattie dell'animo, un disordine da cui liberarsi e guarire.

II. Nella vita spirituale. Dall'ambito filosofico, il termine a. è poi entrato nella spiritualità cristiana orientale. In Occidente, invece, non ha mai avuto grande fortuna. In passato è stato contestato da autori come Lattanzio ( 325 ca.), Girolamo, Agostino, ecc., che vi scorgevano sia una negazione della natura dell'uomo, ridotto all'impassibilità della pietra, sia soprattutto la radice diabolica della superbia, che sfocia nell'individualismo e nella ricerca di un'orgogliosa invulnerabilità e impeccabilità.
Oggi questo vocabolo è piuttosto desueto, estraneo. Indubbiamente contrasta con le tendenze più specifiche dell'epoca contemporanea, nella quale da una parte si sottolinea l'unità psicofisica dell'uomo (valorizzando in particolare proprio la sfera dell'emotività), dall'altra, in campo teologico e religioso, si pone viva attenzione al tema della « sofferenza » di Dio, e soprattutto si ha, per esperienza, un'acuta intuizione del valore redentivo della sofferenza umana, come partecipazione alla passione morte di Cristo. L'a. appare non solo disumana, ma addirittura contraria al cristianesimo, fondato sulla « follia della croce », sulla « stoltezza » di un Dio che sceglie di salvare l'uomo percorrendo la via della povertà, del disprezzo e dell'umiliazione. In Gesù, il cristiano incontra un Dio fatto carne, un uomo che si commuove, prova compassione ed anche sdegno, conosce la tristezza e l'angoscia, fino all'agonia del Getsemani e al grido straziante del venerdì santo. Di fronte alla sconvolgente realtà della passione, l'a. perde tutta la sua forza. Nondimeno, nell'Oriente cristiano tale termine fu accolto con particolare benevolenza, e non vi è Padre che non vi si soffermi. Evagrio ne fa il centro e il fine stesso della vita spirituale. Il loro pensiero, tuttavia, non è unitario. Grande è, ad esempio, la distanza tra l'apologia dell'a. stoica di Gregorio di Nazianzo e la concezione di Teodoreto ( 460), che vede nell'a. un dono concesso da Dio al primo Adamo e perduto con la caduta originale. Comunque, molto sinteticamente, si può dire che essa presso i Padri non ha più il carattere volontaristico che aveva presso gli stoici. Si è, infatti, trasformata in quel combattimento « sovrumano » che il cristiano è chiamato ad ingaggiare non solo contro i propri istinti cattivi, ma contro il potere stesso delle tenebre. In questa lotta, che non si combatte se non con la forza di Cristo, si riceve in dono la purezza di cuore che coincide con l'a. stessa e apre l'uomo alla visione di Dio. Inoltre, l'a., tendendo all'eliminazione dei sentimenti, è spesso associata a uno stile di vita solitaria e all'esercizio della preghiera apofatica. Ecco perché Evagrio può affermare che non c'è contemplazione senza a., e Giovanni Climaco ( 649) definire l'a. come « il cielo all'interno dello spirito », dove si può già sperimentare qualcosa dell'unione intima con Dio.

Bibl. G. Bardy, s.v., in DSAM I, 727 746; O. Clément, Alle fonti con i Padri. I mistici cristiani delle origini. Testi e commento, Roma 1987 (cf in part. parte II); G. Colombàs, Il monachesimo delle origini. Spiritualità, II, Milano 1990; I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa secondo l'esicasmo, Brescia 1978; P. Lamma, s.v., in Enciclopedia filosofica, I, Firenze 19672, 373 374; Padri esicasti, L'amore della quiete. L'esicasmo bizantino tra il XIII e il XV sec., Magnano (BI) 1993; M. Pohlenz, La Stoa, 2 voll., Firenze 1967; S. Siedl, s.v., in DES I, 181 182; T. Spidlík, s.v., in DIP I, 714 715.

Autore: Benedettine dell'isola San Giulio (NO)
Fonte: Dizionario di Mistica (L. Borriello - E. Caruana M.R. Del Genio - N. Suffi)