Scrutatio

Martedi, 16 aprile 2024 - Santa Bernadette Soubirous ( Letture di oggi)

Accoglienza


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I. Nella Scrittura. Tutta la storia biblica mostra come l'iniziativa dell'incontro con Dio parta sempre da lui. « Non lo cercheresti se egli non ti avesse cercato per primo » annota s. Agostino. « In principio era la Parola » (Gv 1,1). E allora l'uomo non può essere che ascolto: « Audi, Israel ». Insomma, l'uomo nei confronti di Dio non può essere che risposta e a.
Sarà diverso il rapporto con i fratelli? Certo, almeno in parte. Il rapporto interpersonale è quasi sempre un « dare?ricevere ». Ma più saggio non è colui che parla; è colui che ascolta, come dice tutta la tradizione orientale. Più saggio non è colui che impone agli altri il suo « io »: è colui che accetta e accoglie l'altro come un dono irripetibile.
Per esprimere questo processo di a. il greco adopera il verbo chôréo che vuol dire dare spazio, ricevere, accogliere, raggiungere. E una derivazione verbale da chôros o chôrra che equivale a spazio libero, terra libera. Nell'uso intransitivo il verbo assume il significato di giungere al pentimento (cf 2 Pt 3,9) che corrisponde al significato di decidersi ad un'azione e ad eseguirla. Nell'uso transitivo assume il significato di capacità, ad esempio di recipienti per l'acqua (cf Gv 2,6), di uno spazio determinato (cf Mc 2,2) o anche dell'universo intero (cf Gv 21,25). A volte, assume anche il significato di comprensione di un insegnamento e forse anche messa in pratica di tale insegnamento (cf Mt 19,11ss.).
Per chiarire meglio questa stessa idea il greco adopera due verbi, lambáno e déchomai. Il primo esprime l'aspetto attivo dell'iniziativa, mentre il secondo quello passivo della ricettività. In ultima analisi, entrambi i verbi vengono ad esprimere aspetti tra loro complementari tra fede attiva e passiva nei confronti di Dio o della Parola.
A., però, non equivale a passività. Accogliere è un verbo attivo: e non solo sul piano grammaticale. Quando gli amici di Betania accolgono Gesù, Marta è « affaccendata » (Lc 10,38), perché la sua casa sia in festa: fino a meritarsi il rimprovero del Maestro.
La felice sorte di Betania è la sorte di ognuno nella vita. La esprime bene una immagine dell'Apocalisse: « Sto alla porta e busso: se qualcuno mi apre entrerò da lui e cenerò con lui » (Ap 3,20). E il Maestro che prende l'iniziativa di venire alla porta del cuore umano. Egli « bussa » con le mozioni interiori. Ma non è suo stile sfondare la porta.
Nella Scrittura si possono ritrovare diversi modelli di a.: Natanaele che riconosce il Messia appena lo incontra e lo accoglie (cf Gv 1,48?50). Lidia alla quale il Signore ha aperto il cuore per aderire alle parole di Paolo e che subito ha accolto l'Apostolo in casa sua (cf At 16,14?15). I discepoli della Chiesa primitiva che accolsero la Parola con grande entusiasmo (cf At 17,11).
E poiché la Parola di Dio è « uno specchio », dall'ascolto nasce la conversione, come attesta la storia della santità. In quello specchio non si vedono solo le meraviglie di Dio, ma anche le macchie del proprio volto interiore. Il Vangelo è quella novità radicale che spinge a rinnovare la propria esistenza. Qualcuno ha detto che il verso più bello della Divina Commedia è il seguente: « En la sua voluntade è nostra pace ».1 Quella volontà è scritta nel cuore e nella storia personale di ogni uomo. C'è un momento di grazia nella vita di ciascuno in cui tutti i tasselli del mosaico si compongono armoniosamente: e allora il progetto divino appare con chiarezza. La risposta richiede l'a., perché Dio solo « sa cosa c'è nel cuore dell'uomo » (Rm 8,29). « Egli mi conosce fino in fondo » (Sal 138,14). Fin dal grembo della madre conosce l'uomo e gli affida un compito: nell'attuarlo stanno la piena realizzazione della persona e la certezza di percorrere un cammino di gioia. Il « sì » è il monosillabo più importante: pronunciarlo con pienezza è la porta della santità.
« La tua parola è lampada ai miei passi » (Sal 118,105) dice tranquillamente il salmista. Non è cosa facile perché il cuore dell'uomo è spesso incline al male, e il male si rifugia nelle tenebre. Ciò è quanto Giovanni esprime sinteticamente nel Prologo del suo Vangelo: « Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo... Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto » (Gv 1,9.11). Per questo motivo, la storia della salvezza è drammatica: e il nodo del dramma è nel contrasto tra la luce e le tenebre; la luce della Parola e le tenebre del rifiuto. « A quanti però l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio » (Gv 1,12). La posta in gioco è decisiva. Il vertice dell'a. sta nell'amare Dio che è amore, come afferma Giovanni (cf Gv 4,8). Se ci si lascia amare, prima ancora l'amore di Dio si diffonde nel cuore. L'espressione è di Paolo, il quale precisa che mediante lo Spirito Santo l'amore di Dio viene ad abitare nell'uomo. Si ama « quasi con il cuore di Dio », secondo un'espressione tomista parallela a quella già citata. L'amore cristiano non è solo un sentimento che sgorga dal cuore umano: è un dono divino che, accolto, permette di amare in modo divino: perciò è « un comandamento nuovo » (Gv 13,34) che non conosce frontiere né misure né ostacoli.
La risposta dell'uomo a Dio amore significa accogliere il muto messaggio che si sprigiona dal creato e trasformarlo in lode cosciente. Nelle creature e nel creato risplende la gloria del Creatore.
II. Un esempio insuperabile, gli anawim. Quello degli anawim, è un filone aureo di fedeltà che attraversa tutta la Bibbia, e, in qualche modo, riscatta tutte le infedeltà di Israele. Essi sono l'incarnazione più luminosa dell'a.
Chi sono? Sono un gruppo di Israeliti fedeli, designati con il termine di « resto di Israele »: « Un popolo umile e povero... confiderà nel nome del Signore il Resto di Israele » (Sof 3,12). Sono uomini che non hanno nulla e lo sanno. Non possono contare su nessuno. E non avendo nulla da aspettarsi dal mondo, aspettano tutto da Dio. Si presentano a lui come una mano vuota, aperta al dono. Si fanno a. I potenti li guardano dall'alto commiserandoli. Dio abbassa su di loro il suo sguardo e li colma dei suoi beni. Li solleva dalla polvere e li proclama « beati », cioè felici! (cf Mt 5,1?12). Maria è l'incarnazione più luminosa di questo « resto di Israele ». Il suo Magnificat il canto insuperabile di questa povertà: il Potente guarda la bassezza della sua serva e lui, lui solo, compie in lei grandi cose (cf Lc 1,46?55). S. Benedetto condensa tutto questo in una frase: operantem in se Dominum magnificant: « Lodano il Signore che compie in essi grandi cose » (Prol. 30).
III. A.: misura dell'essere cristiano. Non è detto che l'a. sia un atteggiamento facile. Ogni volta che qualcuno si offre e chiede di entrare nella vita di un altro (quando si ha cioè una condensazione di presenza) tutto si scuote nell'esistenza. Si attua un risveglio di interesse. I meccanismi di reazione che scattano in tale situazione possono essere due: il primo, negativo, è quello della istintiva difesa. Ogni novità è in qualche modo una minaccia. Meglio « quieta non movere ». Può essere qualcuno che chiede troppo. E allora si ha la chiusura del « no ». Ciò è quanto ha fatto il giovane ricco che « se ne andò triste » (Mt 19,22).
Il secondo atteggiamento - positivo - è quello di fervido assenso. S'intuisce che può essere importantissimo colui che viene. Se scombina le carte della vita è solo per combinarle in meglio. E allora ci si decide per lui. Il cuore si apre al Signore della vita e viene trasformato in lui.
Ma, siccome egli è « altro », anzi il « Tutt'Altro », egli diventa una sfida alle abitudini dell'uomo vecchio. Occorre allora cambiare, convertirsi a un incontro vivo che si fa a. E una Persona da incontrare e da accogliere, che diventa poi la novità di ogni giorno, se si conserva viva la capacità di stupore e se si vince quell'« abitudine cosificante » che trasforma in « cose morte » le realtà più vive dell'esistenza. Come l'accettazione della croce è condizione essenziale per seguire il Signore così accogliere l'altro senza riserve è segno di fedeltà al comandamento nuovo dell'amore fraterno senza frontiere. Non solo l'a. del compagno, del familiare o dell'amico, ma quella del forestiero, del lontano, del povero, di colui che non può ricambiare. Un'a. che invita alla rinuncia, alla disponibilità, alla gratuità perché vede nell'ospite, nel forestiero, nel povero specialmente il divino Forestiero che non ha una pietra dove posare il capo (cf Mt 8,20). Nell'affamato, nell'assettato nel pellegrino, nell'ignudo, nell'ammalato, nel prigioniero... è sempre il Cristo che bussa alla porta del cristiano e chiede ospitalità e aiuto (cf Mt 25,35?36).
Ma l'a. e l'ascolto si manifestano e ci interpellano anche in altre situazioni: nell'attenzione all'altro, nella capacità di dialogo, nel fare spazio all'altro diverso da sé. E un atteggiamento questo, una disposizione di fondo che sa accogliere senza animo diffidente e sospettoso, ma con attenzione e amore, di ascolto e di rispetto per l'altro.
III. A. interiore: il mistero della grazia. L'aspetto forse più fascinoso e più misterioso di tale a. è quello che viene denominato « inabitazione ». La grazia non è solo « qualcosa » che Dio comunica all'uomo. E il mistero stesso di Dio che entra nell'uomo. Mai l'uomo avrebbe potuto immaginare questa realtà ineffabile, se Cristo Gesù non lo avesse rivelato: « Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14,23). Non si tratta di una visita passeggera, di un ospite, per un giorno: è una dimora permanente.
Chi nella vita moderna ha compreso meglio questa verità, facendone il centro della sua vita, è stata Elisabetta della Trinità, la carmelitana mistica di Digione. I suoi scritti sono una splendida sinfonia, in cui questa è la nota dominante. Ecco qualche passaggio: « E così bella questa presenza di Dio! E laggiù in fondo, nel cielo della mia anima che amo trovarlo, perché non mi abbandona mai ».2 Ed ella ritorna spesso su questo « piccolo angolo di me stessa », su questa « cella che vuoi costruita nel mio cuore ». Si può, dunque, affermare che un piccolo cielo è il cuore dell'uomo. Perché « i cieli non ti possono contenere, ma il cuore dell'uomo sì », ama ripetere la tradizione del Carmelo. E la ragione è semplice: Dio è Spirito, e il cuore umano è uno spazio spirituale. Sicché Elisabetta esclama: « Mi sembra di aver trovato il mio cielo sulla terra perché il cielo è Dio e Dio è nella mia anima. Il giorno in cui ho capito questo, tutto si è illuminato in me ».3 Questo la trasforma in « laudem gloriae », le permette di entrare nella vita intima di Dio e di essere trascinata in un misterioso rapporto « con i suoi Tre »: « Beatitudine infinita, immensità nella quale mi perdo ».
Più che preoccupata di ciò che deve fare per Dio, è attenta ed accogliente verso ciò che Dio ha fatto e vuole fare per lei. L'accento non va sullo sforzo umano, ma sull'a. del dono. Sempre ricordando tutto l'impegno che ciò esige.
A sostegno di questa verità vissuta dai mistici c'è un'espressione pregnante della liturgia rinnovata che nella memoria di s. Gertrude implora: « Te in nobis praesentem et operantem laetanter experiamur », cioè: fa' che facciamo la gioiosa esperienza d'incontrare Te che, presente nel nostro cuore, non cessi di agire. La stessa s. Gertrude scrive: « Hai voluto concedermi l'inestimabile familiarità della tua amicizia con l'aprirmi in diversi modi quel nobilissimo scrigno della divinità che è il tuo cuore divino, e offrirmi in esso con grande abbondanza ogni tesoro di gioia ». Dio entra nel cuore dell'uomo e l'uomo entra nel cuore di Dio.
IV. A. dei fratelli: ospitalità. Non si può accogliere Dio, e poi lasciare i fratelli fuori della porta. Il cristiano arde di carità per il Cristo, ma sa poi incontrarlo ed accoglierlo nella persona concreta dei poveri e dei sofferenti. Queste due facce della carità sono inseparabili come il concavo e il convesso. Cristo nella Incarnazione non ha assunto solo quella umanità germinata nel grembo di Maria, in qualche modo ha assunto ognuno dei cinque miliardi di uomini che vivono sulla terra. Sicché ha potuto dire: « Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me » (Mc 9,37). Basti citare al riguardo quattro esperienze emblematiche. La prima dall'apostolo Paolo che scrivendo a Filemone dice: « Accogli Onesimo come me stesso » (Fm 17). La seconda dalla Regola di s. Benedetto, che ha creato nei secoli miriadi di « ospizi » in tutti gli angoli dell'Europa: « Nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono: inclinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che si accoglie. I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzione, perché specialmente in loro si accoglie Cristo » (c. 53). Il latino è ancora più scultoreo « in ipsis magis Christus suscipitur ».
Nel filone francescano basta richiamare il fatto che Francesco inizia la sua vita nuova dopo che, vincendo la ripugnanza iniziale, ha baciato le piaghe purulenti di un lebbroso.
Più vicino a noi in epoca moderna è il padre Peyriguère, discepolo di Charles de Foucauld e contemplativo come lui. Passava ore davanti al SS. Sacramento in adorazione. Ma, conoscendo la sua competenza di infermiere cominciano a chiedere il suo servizio per i malati ed egli acconsente. Poi scrive ad un amico in Europa: « Come è reale, come è terribilmente reale il Cristo nelle membra di questi mocciosi che mi sporcano la barba con il muco del loro naso ». Aveva coscienza insomma per dirla con s. Vincenzo de' Paoli, di « lasciare il Signore per il Signore ».
La storia della santità è tutta disseminata di esperienze come queste. Forse la più splendida vicino a noi è quella del beato Luigi Orione, apostolo della carità, ma che ha fatto riferimento per la sua Congregazione alla Regola di s. Benedetto di impronta chiaramente contemplativa. E ha voluto avere « eremiti » a sostegno di quanti si impegnano a servizio dei fratelli.
L'incontro con gli altri deve superare gli stretti confini della pura cortesia e della civile convivenza per non vanificarsi. La categoria sociale fondamentale è il rapporto « io?tu ». Ora il « tu » dell'altro uomo è il « tu » divino. Ogni tu umano è immagine del tu divino. Di conseguenza, la via verso gli altri e la via verso Dio coincidono. E questa la natura stessa dell'a., atteggiamento tipico dell'esperienza mistica.

Note: 1 Par. III, 85; 2 Lettera 62, in B. Elisabetta della Trinità, Opere, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 215; 3 Lettera 122, 279.

Bibl. Aa.Vv., Cultura dell'accoglienza, Roma 1983; G. Agresti, Elogio della gratuità, Roma 1980; A.P. Frutaz, Ospitalità, in DES II, 1792?1793; F. Gioia, Accoglienza dello straniero, Roma 1986; H.J.M. Nouwen, Hospitality, in Monastic Studies, 10 (1974), 1?48; C. Spicq, Agape dans le Nouveau Testament, 3 voll., Paris 1958?1959; P. Viard, Hospitalitè, in DSAM VII, 808?831; C. Zanetti, Dinamismo dell'amore nella relazione di servizio, Milano 1969.

Autore: M.A. Magrassi
Fonte: Dizionario di Mistica (L. Borriello - E. Caruana M.R. Del Genio - N. Suffi)