Scrutatio

Martedi, 23 aprile 2024 - San Giorgio ( Letture di oggi)

Efesini (Lettera agli)


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Insieme a Col., Phil. e Philem. appartiene al gruppo della cattività romana di s. Paolo (61-63); v. Colossesi.
Le relazioni tra s. Paolo e gli Efesini ebbero inizio sul finire del secondo viaggio apostolico, probabilmente nel 52, ma per un brevissimo spazio di tempo (At 18, 19 ss.). Poco dopo vi compare l'alessandrino Apollo, che i due coniugi Aquila e Priscilla, creature spirituali di Paolo, istruiranno completamente nella religione cristiana. Apollo servì da preparazione al messaggio di Paolo. Questi infatti negli anni 54-56 vi svolse un magnifico apostolato, anche se accompagnato da terribili prove di vario genere e da molte tribolazioni (cf. At 19-20, 1; 1Cor 16, 8 s.; 2Cor 1,8).
A causa del tumulto, sollevato dall'argentaio Demetrio, l'Apostolo fu costretto ad abbandonare la città, per la quale aveva tanto lavorato e sofferto. Lasciava però dietro a sé una cristianità abbastanza numerosa e rigogliosa. E diciamo anche molto affezionata e riconoscente, come è dimostrato dall'incontro, avvenuto sul termine del terzo viaggio apostolico, a Mileto, con i presbiteri di Efeso (At 20, 16-38). Rivide questa città, contrariamente al suo presentimento; dopo la liberazione dalla prima cattività romana, come ne fan fede le lettere a Timoteo, a cui aveva lasciato la cura della chiesa efesina. Ma "la lettera agli Efesini" era destinata proprio agli abitanti di Efeso? Ed in caso affermativo: ad essi soli esclusivamente? Sono queste due questioni che la critica moderna, cattolica ed acattolica, si è ripetutamente poste e che ancora non ha affatto deciso.
a) Molti autori moderni (dopo Harnack) affermano l'identità della nostra epistola con quella indirizzata a quei di Laodicea, di cui si parla in Col. 4, 16. Il nome di Laodicea sarebbe in seguito caduto per una specie di damnatio memoriae, cagionata da quanto si legge in Ap. 3, 14-19. Lé fu sostituita Efeso, la capitale della provincia romana dell'Asia e la metropoli ecclesiastica della stessa regione. Il solo Marcione, che come eretico era fuori della comunione ecclesiastica, avrebbe conservato l'intestazione originale. È una pura ipotesi.
b) T. Beza (fin dal 1598) propose che la nostra epistola sia stata una specie di lettera "circolare" per tutte le chiese dell'Asia. Questa congettura ha trovato e trova moltissimi sostenitori tra esegeti d'opposte tendenze, i quali cercano in varia guisa con nuovi argomenti di avvalorarla e sostenerla. Fin dall'origine essa portò scritto il nome della metropoli dell'Asia, data la sua importanza e la funzione di centro per tutta quella regione. Non si può stabilire con certezza l'occasione prossima di questa lettera "enciclica". Dall'esame interno e dal libro degli Atti (cf. 20, 28 ss.) siamo forse autorizzati a pensare che con essa l'Apostolo abbia voluto immunizzare i fedeli contro possibili infiltrazioni pregnostiche e deleterie influenze giudaiche o di giudaizzanti (v. Colossesi). Il contenuto è per la sua profondità e - diciamolo pure - per la sua liricità tra le cose più profonde non solo della letteratura paolina, ma di tutta la Scrittura. Dal punto di vista ideale è in linea con Col. di cui viene riprodotta una buona metà letteralmente, o quasi. La nostra lettera è stata definita dal Pirot come la lettera dell'unione e dell'unità: i cristiani, quale sia la loro origine o la loro nazionalità, non formano che una Chiesa, prolungamento e complemento di Cristo nel tempo e nello spazio (Initiation Biblique, Parigi 1949, p. 146 s.). Ed ecco una breve analisi dottrinale, molto schematica.

Le due parti: dommatica e parenetica, in cui si divide la lettera, sono come separate dalla dossologia del c. 3, 20 s. Precede un breve esordio (1, 1 s.) e un breve epilogo la chiude (6, 21-24).
a) La parte dommatica (l, 3-3, 21) è come un inno che celebra entusiasticamente i benefici grandiosi della redenzione della umanità, sgorgati dal cuore del Padre celeste, il quale prima della stessa creazione dell'universo ci ha scelti e predestinati ad essere suoi figli per opera del suo Figlio diletto. Questo disegno eterno di Dio fu realizzato nel tempo da Cristo, che ci ha riscattato dai nostri peccati col suo sangue e ci ha rivelato il mistero sublime della bontà di Dio, che consiste nel riunire ogni cosa in Gesù Cristo. Il risultato è che sia i Giudei, che avevano le promesse, sia i Gentili, che hanno creduto nel Vangelo, sono uniti in Dio nel Cristo e per il Cristo per formare il nuovo popolo di Dio (1, 3-14). Paolo prega Dio senza interruzione affinché i fedeli comprendano sempre più perfettamente il mistero della "economia" della salvezza, soprattutto l'onnipotenza di Dio, che ha risuscitato Cristo e Lo ha costituito Capo della Chiesa (1, 15-23). Nel grembo di questa Chiesa tutti sono congregati in una mirabile unità: ogni divisione è stata abolita dal sacrificio di Cristo. La Chiesa è come una splendida casa fondata su Cristo e sulla dottrina apostolica (2, 1-22). Paolo ha coscienza d'essere il ministro di questo mistero (per elezione divina), d'annunziare ai Gentili l'universalità della salvezza in Gesù Cristo. Perciò egli prega Dio affinché i fedeli possano comprendere l'immenso amore di Gesù Cristo. Lo prega anche perché essi siano pieni di scienza e carità e forti nella fede (3, 1-21). b) Nella seconda parte «morale» o parenetica, l'Apostolo esorta i cristiani all'unione nella pace e nell'amore, costituendo tutti un solo corpo, animato dallo stesso spirito, le cui membra devono cospirare all'unità (4, 1-16).

Scendendo a raccomandazioni particolari insiste affinché i fedeli evitino i vizi ripugnanti della gentilità, seguendo la magnifica vocazione cristiana nella virtù e nella santità (4, 17- 5, 20). I doveri sociali sono ricordati ed inculcati in modo del tutto particolare. Ce n'è per tutti: per i coniugi, per gli schiavi (5, 21-6, 9). Che tutti rivestano l'armatura apprestata da Dio per strenuamente combattere le sante battaglie della fede (6, 10-20). Da questa sommaria esposizione si può intravedere quanto giustamente questa epistola sia stata chiamata «l'epistola della Chiesa».

Secondo L. Cerfaux il termine «mistero» è come la caratteristica delle epistole della cattività e comanda il loro vocabolario. Il messaggio cristiano della salvezza si chiamerà d'ora innanzi il mistero di Dio (genitivo soggettivo) o il mistero di Cristo (genitivo oggettivo). Una conoscenza più profonda del piano divino, infinitamente sapiente, giustifica questo termine di mistero. Ma nel tempo stesso che l'attenzione, contemplante il piano divino, l'ammira e l'approfondisce, la conoscenza di Cristo, di Colui cioè che porta e realizza il mistero, si fa più penetrante. La cristologia così si arricchisce di nuove formule (Le Christ dans la théologie de Saint Paul, Parigi 1951, p. 304).

L'autenticità paolina di Eph. è stata pacificamente creduta dall'antichità più remota fino al secolo scorso. Non vi sono seri motivi di dubbio, tanto più che l'Autore dice esplicitamente d'essere Paolo (1, 1; 3, 1-3, ecc.) e dall'esame interno della lettera non si nota alcunché di men che paolino. Allude ad essa già, Clemente Romano, Ignazio; e dopo Policarpo, viene citata spessissimo, anche da eretici, come Marcione, Basilide e Valentino.

Molta è la somiglianza tra Col. ed Eph.; ma questo fatto è abbastanza comprensibile qualora si pensi ai destinatari delle due lettere ed al momento storico e psicologico dell'agiografo; né vanno sottovalutate le sensibili differenze tra le due lettere.
[G. T.]

BIBL. - P. MÉDEBIELLE, ne La Ste Bible (ed. Pirot, 12), Parigi 1938 [1946], pp. 9-74; HOPFL-GUT-METZINGER, Intr. spec. in N.T., 5a ed., Roma 1949, pp. 407-416; CH. MASSON, L'ép. aux Ephés, (Comm. du N. T., IX), Neuchatel 1953, pp. 133-228.

Autore: Sac. Giuseppe Turbessi
Fonte: Dizionario Biblico diretto da Francesco Spadafora