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Venerdi, 29 marzo 2024 - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi)

Dio


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La Bibbia non contiene un trattato su Dio, non si pone a distanza Come per descrivere un oggetto, non Ci invita a parlare di Dio, ma ad ascoltarlo parlare ed a rispondergli confessando la sua gloria e servendolo. A condizione di rimanere nell‘obbedienza e nel ringraziamento, è possibile formulare ciò che Dio dice di se stesso nella Bibbia. Dio non parla di sé allo stesso modo nel VT e nel NT, quando si volge a noi mediante i suoi profeti e mediante il Figlio suo (Ebr 1, 1 s). Più Che su qualunque altro oggetto, la distinzione tra il VT e il NT si impone qui in modo rigoroso, perché «nessuno mai ha visto Dio; soltanto il Figlio unico Che è nel seno del Padre lo ha fatto conoscere» (Gv 1, 18). Come bisogna rigettare l‘opposizione eretica tra il Dio vendicativo del VT ed il Dio buono del NT, così bisogna tener fermo Che Gesù Cristo solo ci rivela il segreto dell‘unico Dio dei due testamenti.

VT



I. DIO É PRIMO

Fin «dall‘inizio» (Gen 1, 1; Gv 1, 1), Dio esiste e la sua esistenza si impone Come un fatto iniziale, che non ha bisogno di alcuna spiegazione. Dio non ha né origine, né, divenire; il VT ignora le teogonie Che, nelle religioni dell‘Oriente antico, spiegano la costruzione del mondo con la genesi degli dèi. Poiché egli solo è.. «il primo e l‘ultimo» (Is 41, 4; 44, 6; 48,12), il mondo tutto inteso è opera sua, sua creazione. Essendo il primo, Dio non ha bisogno di presentarsi, si impone allo spirito dell‘uomo per il solo fatto di essere Dio. Non si suppone mai una scoperta di Dio, un cammino progressivo dell‘uomo Che termina con l‘affermazione della sua esistenza. Conoscerlo, significa essere Conosciuto (cfr. Am 3, 2) e scoprirlo alla fonte della propria esistenza; fuggirlo, significa ancora sentirsi perseguitato dal suo sguardo (Gen 3, 10; Sal 139, 7). Poiché Dio è il primo, dal momento Che si fa conoscere, la sua personalità, le sue reazioni, i suoi disegni sono nettamente dichiarati. Per poco Che si sappia di lui, fin dal momento in cui lo si scopre, si sa Che Dio vuole qualche Cosa di preciso e sa esattamente dove va e quel che fa. Questa anteriorità assoluta di Dio è espressa nelle tradizioni del Pentateuco in due modi Complementari. La tradizione detta jahvista mette in scena jahve fin dall‘inizio del mondo e, ben prima dell‘episodio del roveto ardente, lo mostra in atto di perseguire il suo unico disegno. Le tradizioni elohiste sottolineano invece la novità che la rivelazione del nome divino a Mosè apporta, ma notano nello stesso tempo che, sotto vocaboli diversi, che sono quasi sempre epiteti del nome divino El, Dio si era già fatto Conoscere. Di fatto Mosè non può riconoscere Jahve come il vero Dio se non Conosce già, oscuramente ma nettamente, Dio. Questa identità del Dio della ragione e del Dio della rivelazione, questa priorità di Dio, presente allo spirito dell‘uomo non appena si risveglia, è caratterizzata in tutta la Bibbia dalla identificazione immediata e costante tra jahve ed Elohim, tra il Dio che si rivela ad Israele ed il Dio Che le nazioni possono nominare. Perciò Jahve, tutte le volte che si rivela presentandosi, si nomina e si definisce pronunziando il nome di El/Elohim, con tutto Ciò che esso evoca: «il Dio del tuo padre» (Es 3, 6), «il Dio dei vostri padri» (Es 3, 15), «il vostro Dio» (Es 6, 7), «Dio di misericordia e di pietà» (Es 34, 6), «il tuo Dio» (Is 41, 10; 43, 3), o semplicemente «Dio» (1 Re 18,21. 36 s). Tra il nome di Dio e quello di jahve si stabilisce una relazione viva, una dialettica: per potersi rivelare Come Jahve, il Dio di Israele si pone come Dio, ma, rivelandosi come Jahve, dice in modo assolutamente nuovo chi è Dio e ciò che è.

II. EL, ELOHIM, JAHVE

Nella pratica, El è l‘equivalente arcaico e poetico di Elohim; come Elohim, come la nostra parola Dio, El è ad un tempo nome Comune, che designa la divinità in genere, e nome proprio, Che designa la persona unica e definita che è Dio. Elohim è un plurale; non un plurale di maestà - l‘ebraico lo ignora, - e neppure sopravvivenza politeistica, inverosimile nella mentalità ebraica su un punto così sensibile; ma probabilmente traccia di una concezione semitica comune, Che vede il divino come una pluralità di forze.

1. El. - El è conosciuto e adorato fuori di Israele. Come nome comune designa la divinità in quasi tutto il mondo semitico; Come nome proprio è quello di un grande dio Che pare sia stato dio supremo nel settore occidentale di questo mondo, particolarmente in Fenicia e in Canaan. El fu, fin dalle origini semitiche, un dio comune, supremo ed unico, la cui religione, pura ma fragile, sarebbe stata più tardi eclissata da un politeismo più seducente e Corrotto? Fu piuttosto il dio Capo e guida dei diversi Clan semiti, dio unico per ciascun clan, ma non in grado di far prevalere la sua unicità quando si scontrava con altri gruppi, declassato poi ad una delle figure del pantheon pagano? Questa storia è oscura, ma il fatto Certo è che. i patriarchi sotto diversi epiteti, El‘Eljon (Gen 14, 22), El Roj (16, 13), El Saddaj (17, 1; 35, 11; 48, 3), El Bethel (35, 7), El `Olam (21, 33), chiamano il loro Dio El, e che particolarmente nel caso di El `Eljón, il dio di Melchisedech, re di Salem, questo El è presentato Come identico al Dio di Abramo (14,20 ss). Questi fatti non mostrano soltanto Che il Dio di Israele è il «giudice di tutta la terra» (18, 25), ma anche che è suscettibile di essere riconosciuto ed effettivamente adorato come il vero Dio persin fuori del popolo eletto. Tuttavia questo riconoscimento è eccezionale; nella maggioranza dei Casi gli dèi delle nazioni non sono dèi (Ger 2, 11; 2 Re 19, 18). El/Elohim praticamente non è riconosciuto come il vero Dio che rivelandosi al suo popolo sotto il nome di jahve. Capi- divino, sempre più o meno sbiadito e Costantemente sfigurato dai diversi paganesimi, una consistenza ed una vita Che si impongono.

2. Jahve. - In jahve Dio rivela ciò che egli è e dò che egli fa, il suo nome e la sua azione . La sua azione è meravigliosa, inaudita, e il suo nome misterioso. Mentre le manifestazioni di El ai patriarchi avvengono in paesi familiari, sotto forme semplici e note, Jahve si rivela a Mosè nella cornice selvaggia del deserto e nella miseria--del=- l‘esilio, sotto la figura terribile del fuoco (Es 3,1-15). La rivelazione complementare di Es 33, 18, 23; 34, 1-7 non è meno terrificante. Tuttavia questo Dio dalla santità con-sumante è un Dio di fedeltà e di salvezza. Egli si ricorda di Abramo e dei suoi discendenti (3, 6), è attento alla miseria degli Ebrei in Egitto (3, 7), deciso a liberarli (3, 8) e a fare la loro felicità. Il nome di jahve, sotto il quale si manifesta, risponde all‘opera Che persegue. Certamente questo nome racchiude un mistero; dice di per sé qualcosa di inaccessibile: «lo sono Chi sono» (3, 14); nes suno lo può contenere, e neppure penetrare. Ma dice pure qualcosa di positivo, una presenza straordinariamente attiva -e attenta, una potenza invulnerabile e liberatrice, una promessa inviolabile: «Io sono». ,

III. DIO PARLA DI SÉ

jahve è l‘eco, ripetuta dagli uomini in terza persona, della rivelazione fatta da Dio in prima persona: heieh, «Io sono». Questo nome, che dice tutto, Dio stesso lo Commenta costantemente con le diverse formule che dà di se stesso. 1. Dio vivente. - La formula
3. «Io sono un Dio geloso» (Es 20, 5). - Lo zelo geloso di Dio è un altro aspetto della sua intensità interiore. È la passione ch‘egli porta in tutto quel che fa ed in tutto quel che tocca. Egli non può sopportare che una mano estranea venga a profanare tutto ciò Che gli sta a cuore, tutto ciò che la sua attenzione «santifica» e rende sacro. Non pub soffrire che nessuna delle sue imprese fallisca (cfr. Es 32, 12; Ez 36, 22 ...), non può «Cedere la sua gloria a nessuno» (Is 48,11). Quando i profeti scoprono che questa passione di Dio per la sua opera è quella di uno sposo, il tema assume un‘intensità e un‘interiorità nuove. La gelosia divina è ira terribile e nello stesso tempo vulnerabile tenerezza.

4. «Non avrai altro Dio all’infuori di me» (Es 20, 3). - a el sia di Dio ha come og-getto essenziale «gli altri dèi.». Il monoteismo israelitico non è il frutto né di una riflessione metafisica, né di una integrazione politica, né di una evoluzione religiosa; è un‘affermazione della fede, ed in Israele è antico Come la fede, cioè Come la certezza della sua elezione, di essere stato, tra tutti i popoli, scelto da un Dio al quale tutti i popoli appartengono. Questo monoteismo della fede ha potuto per molto tempo conciliarsi Con rappresentazioni che implicavano l‘esistenza di «altri dèi», ad es. di Chemosh in Moab (Giud 11, 23 s), o l‘impossibilità di adorare jahve fuori delle frontiere della «sua eredità» (1 Sam 26,19; 2 Re 5,17). Ma fin dalle origini jahve non può sopportare pre- senze competitrici e tutta la storia di Israele svolge le sue vittorie sui suoi rivale, gli dèi d‘Egitto, i Baal di Canaan, le divinità imperiali di Assur e di Babilonia, fino al trionfo definitivo che fa apparire chiaro il nulla dei falsi dèi. Trionfo Che è acquistato a volte per mezzo dei miracoli, ma Che è in permanenza quello della fede. Geremia, che annunzia la rovina totale di Giuda e di Gerusalemme, nota col tono di una semplice osservazione che gli dèi delle nazioni «non sono neppure dèi» (Ger 2, 11), ma «degli inesistenti» (5, 7). In pieno esilio, dinanzi agli splendori della idolatria, di mezzo ad un popolo vinto e disonorato prorompono le affermazioni definitive: «Prima di me non fu formato alcun dio e non ve ne sarà dopo di me; io, io sono Jahve, non C‘è altro salvatore all‘infuori di me» (Is 43, 10 s...). Il ricordo dell‘Horeb appare evidente, e la continuità spirituale tra testi così profondamente diversi è significativa: jahve è il solo Dio perché è il solo capace di salvare, «il primo e l‘ultimo», sempre presente, sempre attento. Se l‘idolatria lo colpisce «mortalmente», si è perché mette in dubbio la sua Capacità e la sua volontà di salvezza, perché nega che egli sia sempre presente ed attivo, che sia Jahve.

5. «Io sono Dio e non uomo» (Os 11, 9). -Dio è assolutamente diverso dall‘uomo; è spirito, mentre l‘uomo è carne (cfr. Is 31, 3), fragile e perituro Come l‘erba. (Is 40, 7 s). Questa differènza é così radicale Che l‘uomo l‘interpreta sempre in modo falso. Nella potenza di-Dio-vede la forza efficace, ma non la fedeltà del Cuore (cfr. Num 23, 19),.nella sua santità non Vede Che distanza invalicabile, senza sospettare che essa è nello stesso tempo Vicinanza e tenerezza: «In mezzo a te io sono il santo e non amo distruggere» (Os 11, 9). La trascendenza incomprensibile di Dio fa sì che egli è nello stesso tempo «l‘altissimo» nella sua «dimora (cfr. rímanere) alta e santa», e colui «che abita con l‘uomo Contrito ed umiliato» (Is 57, 15). Egli è l‘onnipotente ed il Dio dei poveri, fa risuonare la sua Voce nello strepito dell‘uragano (Es 19, 18 ss) e nel mormorio della brezza (1 Re 19, 12), è invisibile e neppure Mosè ha Visto la sua faccia (Es 33, 23), ma, facendo appello, per rivelarsi, ai riflessi del Cuore umano, apre il suo proprio Cuore; vieta ogni sua rappresentazione, ogni immagine di cui l‘uomo farebbe un idolo adorando l‘opera delle sue mani, ma si offre alla nostra immaginazione sotto i tratti più concreti;, egli è «il Completamento diverso» Che sfida tutti i paragoni (Is 40,25), ma sta di casa dovunque e non è per noi un estraneo; le sue reazioni ed il suo modo di Comportarsi si traducono con i nostri atti più familiari«egli plasma» con le sue mani l‘argilla che sarà l‘uomo (Gen 2, 7), Chiude dietro Noè la porta dell‘arca (Gen 7, 16) per essere sicuro Che nessuno dei suoi abitanti si perda; ha lo slancio trionfante del guerriero (cfr. guerra) (Es 15, 3...) e la sollecitudine del pastore per i suoi animali (Ez 34, 16); tiene l‘universo nelle mani, ed ha per il minuscolo Israele l‘attaccamento del Vignaiolo per la sua vigna (Is 5, 1-7), la tenerezza del padre (Os 11, 1) e della madre (Is 49,15), la passione dell‘uomo Che ama (Os 2,16 s). Gli antropomorfismi possono essere ingenui, ma esprimono sempre in modo profondo un tratto essenziale del vero Dio: se ha creato l‘uomo a sua immagine, è Capace di rivelarsi attraverso reazioni di uomo. Senza genealogia, senza sposa, senza sesso, se egli è diverso da noi, ciò non Vuol dire che sia meno uomo di noi, ma, al Contrario, è in perfezione l‘ideale Che noi sogniamo dell‘uomo: «Dio non è un uomo per mentire, né un figlio d‘uomo per pentirsi» (Num 23, 19). Sempre Dio ci supera, e sempre nella direzione in cui meno Ce l‘aspetteremmo.

IV. I NOMI DATI DALL’UOMO A DIO

Il Dio del VT si rivela infine nel comportamento di Coloro che lo Conoscono e nei nomi che essi gli danno. A prima Vista si crede di poter distinguere i titoli ufficiali, usati nel culto Comunitario, e gli epiteti creati dalla pietà personale. Di fatto gli stessi epiteti si ritrovano, Con le stesse risonanze, nella preghiera collettiva e nella preghiera individuale. Dio è tanto «la roccia di Israele» (Gen 49,24; 2 Sam 23, 3...) quanto «la mia roccia» (Sal 18, 3 s; 144,1) o semplicemente «roccia» (Sal 18, 32), «mio scudo» (Sal 18, 3; 144, 2) e «nostro scudo» (Sal 84, 10; 89,19), «il pastore del suo popolo» (Mi 7,14 ...) e «il mio pastore» (Sal 23,1). Segno Che l‘incontro Con Dio è personale e vivo. Questi epiteti sono sorprendentemente semplici, desunti dalle realtà familiari, dalla Vita quotidiana. La Bibbia ignora le interminabili litanie d‘Egitto o di Babilonia, i titoli Che si moltiplicano attorno alle divinità pagane. Il Dio di Israele è infinitamente grande, ma è sempre alla portata della mano e della Voce; egli è l‘altissimo (`Eljón), l‘eterno (Olam), il santo (Qados), ma nello stesso tempo «il Dio che mi Vede» ( ‘El Roj, Gen 16, 13). Quasi tutti i suoi nomi lo definiscono per mezzo della sua relazione con i suoi: «il terrore di Isacco» (Gen 31, 42. 53), «il forte eli Giacobbe» (49, 24), il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Es 3, 6), il Dio di Israele, il nostro Dio, il mio Dio, il mio signore. Anche l‘epiteto «il santo», che a rigore lo separa da ogni Carne, diventa sulle sue labbra «il santo di Israele» (Is 1, 4...) e di questa santità fa qualcosa Che appartiene al popolo di Dio. In questo possesso reciproco appare il mistero dell‘alleanza, e l‘annunzio della relazione che unisce al suo Figlio unico il Dio del nostro Signore Gesù Cristo.

NT



I. IN GESÙ CRISTO, L’ACCESSO A DIO

In Gesù, Dio si è rivelato in modo definitivo e totale: avendoci donato il suo proprio Figlio, non ha più nulla da riservare a se stesso e non può più che donare (cfr. Rom 8, 32). Là cértezza fondamentalé della Chiesa, la scoperta Che illumina tutto il NT è che, Con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù, Dio ha compiuto il suo atto supremo ed ogni nomo può oramai avere accesso a lui. Questo atto unico e definitivo può prendere nomi diversi, secondo le prospettive. Le formule più arcaiche proclamano semplicemente: «Questo Gesù crocifisso... Dio lo ha fatto Signore e Cristo... la promessa è per Voi, per i Vostri figli e per i lontani» (Atti 2,36-39), «per mezzo suo ravvedimento e remissione dei peccati» (Atti 5, 31). Queste espressioni sembrano modeste, ma, benché meno esplicite, hanno già una portata Così ampia come le formule più piene di Paolo sul «mistero di Dio, che è Cristo» (Col 1, 27; 2, 2), «nel quale abbiamo... accesso al Padre» (Ef 2, 18; 3, 12), oppure quelle di Giovanni. «Dio, nessuno l‘ha mai Visto; il Figlio unico che è nel seno di Dio lo ha fatto conoscere» (Gv 1,18). Fin dal primo giorno la fede cristiana sa che sul figlio dell‘uomo si sono aperti i cieli, dimora di Dio (Atti 7,56; Gv 1, 51; cfr. Mc 1, 10). Sotto forme Varie e nomi diversi, «rivelazione della giustizia di Dio» (Rom 3, 21), «riconciliazione» (Rom 5, 11; Ef 2,16), «riflesso sui nostri Volti della gloria di Dio» (2 Cor 3,18), «conoscenza di Dio» (Gv 17, 3), il fondo dell‘esperienza Cristiana è identico: Dio è alla nostra portata; Con una dimostrazione inaudita di potenza e di amore, nella persona di Cristo egli si offre a chi Vuole accoglierlo. A quindi tutt‘uno aderire a Gesù Cristo nella fede e conoscere il vero Dio: «La vita eterna è di... conoscere il solo Vero Dio ed il [suo] inviato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3). Dinanzi al fatto di Gesù Cristo l‘uomo che accede alla fede, sia proveniente dal giudaismo o dal paganesimo, sia formato dalla ragione o dalla tradizione di Israele, scopre il vero Volto e la presenza vivente di Dio.

II. IN GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE DEL VERO DIO

1. L’idolatria. - Posto da Paolo di fronte al Vangelo (Rom 1, 16 s), l‘idolatra Vi scopre in Cristo il Vero Volto di Dio e quello del suo proprio peccato. Il Vangelo di Cristo smaschera nello stesso tempo il pervertimento della sapienza pagana Che «sostituisce la gloria del Dio incorruttibile Con l‘immagine di un essere perituro» (Rom 1, 23), la sorgente di questo pervertimento, «la prefe renza data alla creatura sul creatore» (1, 25), «il rifiuto di rendergli gloria» (1, 21), ed il suo termine fatale, la degradazione dell‘uomo e la morte (1, 32). «Rinunziando agli idoli... per aspettare» Gesù Cristo, il pagàno scopre «il Dio vivo e Vero» (1 Tess 1, 9); ritrova sulla faccia di Cristo la gloria di Dio (2 Cor 4,6) di cui era privo (Rom 3,23).

2. Per il pagano che cerca Dio a tastoni (Atti 17, 27), e rimane capace di raggiungere Dio mediante la sapienza (1 Cor 1, 21; Rom 1, 20), la scoperta Che fa in Cristo non è meno nuova ed il cambiamento meno profondo. Nel Dio di Gesù Cristo egli ritrova certamente la «natura» divina, l‘essere eterno, inalterabile, onnipotente, onnisciente, infinitamente buono e desiderabile; ma questi attributi non hanno più la luce uguale e lontana della evidenza metafisica, bensì lo splendore folgorante e misterioso delle iniziative, mediante le quali Dio ha manifestato la sua grazia e rivolto a noi la sua faccia (cfr. Num 6,25). La sua onniscienza diventa lo sguardo personale che Ci segue nel segreto (Mt 6, 4 ss) e scruta il fondo dei cuori (LC 16,15); la sua onnipotenza è la sua capacità di «suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo» (Mt 3, 9), «di chiamare all‘esistenza il nulla» (Rom 4, 17), sia che si tratti di far sorgere la Creazione, di far nascere un figlio ad Abramo o di risuscitare dai morti il Signore Gesù (Rom 4,24); la sua eternità è la fedeltà della sua parola e la saldezza della sua promessa, è «il regno Che Dio prepara ai suoi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34); la sua bontà è la meraviglia inaudita Che «Dio ci abbia amati per primo» (1 Gv 4,10.19) quando noi eravamo suoi nemici (Rom 5,10). Alla conoscenza naturale di Dio che in definitiva, per quanto reale, non è che una conoscenza più profonda di questo mondo, la rivelazione di Gesù Cristo sostituisce la presenza immediata, l‘abbraccio personale del Dio vivente. Infatti conoscere Dio è essere da lui conosciuto (Gal 4, 9).

3. Il giudeo che attendeva Dio, lo conosceva già. Nella elezione Dio gli aveva fatto sentire la sua vocazione; nell‘alleanza si era assunto l‘onere della sua esistenza; per mezzo dei suoi profeti gli aveva rivolto realmente la parola (Ebr 1, 1); dinanzi a lui Dio era un essere vivente che lo Chiamava al dialogo. Ma il VT non può dire fin dove debba giungere questo dialogo, fino a qual impegno da parte di Dio, a quale risposta nell‘uomo. Sussiste una distanza tra il Signore ed i suoi servi più fedeli. Dio è un «Dio di tenerezza e di pietà» (Es 34, 6), ha la passione dello sposo e la tenerezza di un padre, ma, dietro queste immagini che, pur avendo di che nutrire indefinitamente i nostri sogni, ci dissimulano ancora la realtà, quale segreto Dio ci riserva? Il segreto è rivelato in Gesù Cristo. Dinanzi a lui si compie un giudizio, la divisione dei cuori. Coloro che rifiutano di credere in Gesù hanno un bel dire del Padre suo: «È il nostro Dio»; non lo conoscono e non proferiscono che menzogna (Gv 8, 54 s; cfr. 8, 19). Coloro che credono non sono più fermati da alcun segreto, o meglio, sono entrati nel segreto, nel mistero impenetrabile di Dio, sono di casa in questo mistero, sentono il Figlio che lo confida loro: «Tutto ciò che ho inteso dal Padre mio, ve l‘ho fatto conoscere» (Gv 15,15). Non più figure, non più parabole: Gesù parla del Padre apertamente (16,25). Non più questioni da porgli (16, 23), non più inquietudini (14, 1): i discepoli «hanno visto il Padre» (14, 7).

4. Dio è amore. - Questo è il segreto (1 Gv 4, 8. 16), al quale non si accede se non attraverso Gesù Cristo, «riconoscendo» in lui «l‘amore che Dio ha per noi» (4,16). Il VT aveva potuto presentire che l‘amore, essendo il grande comandamento (Deut 6, 5; Mt 22, 37) ed il valore supremo (Cani 8, 6 s), doveva essere la definizione più esatta di Dio (cfr. Es 34, 6). Ma si trattava ancora di un linguaggio creato dall‘uomo, di immagini da trasporre. In Gesù Cristo, Dio stesso ci- dà, la p r o v a decisiva, esente da ogni equivoc, hé l‘evento al quale è sospeso il destinò del mondo è un atto del suo amore. Consegnando alla morte per n o i a i l s u o Figlio diletto» (Mc 1, 11; 12, 6), Dio ci ha dimostrato (Rom 5,8) che il suo atteggiamento definitivo verso di noi è di «amare il mondo» (Gv 3, 16) e che, con questo atto s u p r emo e irrevocabile, ci ama dello stesso amore con c u i ama i l s u o Figlio unico, e ci rende capaci di amarlo dell‘amore che gli porta il Figlio suo, ci fa dono dell‘amore che unisce il Padre ed il Figlio e che è il loro Spirito Santo.

III. LA GLORIA DI DIO SUL VOLTO DI GESÙ CRISTO

La certezza cristiana di essere ammessi al segreto stesso di Dio non poggia su una deduzione; il ragionamento la può esplicitare: «Egli, che ha sacrificato il suo Figlio unico, come non ci darà tutto?» (Rom 8, 32), ma la sua forza non viene dalla nostra logica, bensì dalla rivelazione assoluta costituita per noi, uomini viventi nella carne, dalla presenza del Verbo vivente nella carne. In Cristo realmente u apparso l‘amore di Dio per l‘uomo,» (Tit 3,4). Colui ché «néssunno ha malvisto» (Gv 1, 18), Gésú non ce l‘hà sol tanto descritto e dipinto, non ce n‘ha dato soltanto una giusta idea. «Fulgore. della gÌoria di Dio, impronta della sua sostanza» (Ebr 1, 3), egli ce l‘ha fatto vedere e reso come visibile: «chi ha visto me, ha visto il Padre» (CV 14, 9). Non si tratta soltanto di una riproduzione, sia pure perfetta, di un duplicato identico all‘originale. Essendo il Figlio unico, essendo nel Padre e possedendo in sé il Padre (14, 40), Gesù non può dire una parola, compiere un atto, senza volgersi al Padre, senza ricevere da lui il suo impulso ed orientare su di lui tutta la sua azione (5,19 s. 30). Poiché non può far nulla senza guardare al Padre, non può dire quel che è senza riferirsi al Padre (Mt 11, 27). Alla fonte di tutto ciò che egli fa, di tutto ciò che è, c‘è la presenza e l‘amore del Padre suo; qui sta il segreto della sua personalità, della gloria che sfavilla sul suo volto (2 Cor 4, 6) e contrassegna tutti i suoi atti.

IV. IL DIO DEL NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

Il Dio di Gesù Cristo è il Padre suo; e Gesù, quando si rivolge a lui, lo fa con la familiarità e lo slancio del figlio: «Abba». Ma è pure il suo Dio, perché il Padre, possedendo la divinità senza riceverla da nessun altro, la dona tutta intera ai Figlio che genera da tutta l‘eternità ed allo Spirito Santo nel quale entrambi si uniscono. Così Gesù ci rivela l‘identità del Padre e di Dio, del mistero divino e del mistero trinitario. Per tre volte Paolo ripete la formula che esprime questa rivelazione: «il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo» (Rom 15, 6; 2 Cor 11, 31; Ef 1, 3). Cristo ci rivela la Trinità divina per la sola via che, se osiamo dirlo, ci sia accessibile, quella a cui Dio ci ha predestinati creandoci a sua immagine, della dipendenza filiale. Il Figlio, essendo dinanzi al Padre l‘esemplare perfetto della creatura dinanzi a Dio, ci rivela nel Padre la figura perfetta del Dio che si fa conoscere alla retta sapienza, e che si è rivelato ad Israele. Il Dio di Gesù Cristo possiede in pienezza e con una originalità che l‘uomo non potrebbe immaginare, i tratti che rivelava di se stesso nel VT. Per Gesù egli è, come non lo è per nessuno di noi, «il primo e l‘ultimo», colui dal quale Cristo viene ed al quale ritorna, colui che spiega tutto e dal cui tutto discende, colui la Cui ,volontà deve compiersi ad ogni costo e che è sempre sufficiente. Egli è il santo, il solo buono, il solo Signore. È l‘unico presso il quale nulla conta; e Gesù per mostrare ciò che vale, «affinché il mondo sappia che [egli] ama il Padre [suo]» (Gv 14,31), sacrifica tutti gli splendori della creazione ed affronta la potenza di Satana, l‘orrore della croce. Egli è il Dio vivente, sempre attivo, attento a tutte le sue creature, appassionato per i suoi figli, ed il suo ardore divora Gesù, finché non ha rimesso il regno al Padre suo (Lc 12, 50).

V. DIO È SPIRITO

Questo incontro del Padre e del Figlio avviene nello Spirito Santo. Nello Spirito Gesù Cristo sente il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio» e riceve la sua gioia (Mc l, 10). Nello Spirito egli fa risalire al Padre la gioia d‘essere il Figlio (LC 10, 21 s). Come non può unirsi al Padre se non nello Spirito, Gesù Cristo non può neppure rivelare il Padre senza rivelare nello stesso tempo lo Spirito Santo. Rivelando che lo Spirito è una persona divina, Gesù Cristo rivela pure nello stesso tempo che «Dio è spirito» (Gv 4, 24), e quel che ciò significa. Se il Padre ed il Figlio si uniscono nello Spirito, è perché non si uniscono per godere l‘uno dell‘altro nel possesso, ma nel dono; è perché la loro unione è un dono, e produce un dono. Ma se lo Spirito che è dono suggella in tal modo l‘unione del Padre e del Figlio, è perché nella loro essenza essi sono dono di se stessi, perché la loro comune essenza è di donarsi, di esistere nell‘altro. Ora questa potenza di vita, di comunicazione e di libertà è lo spirito. Dio è spirito, e ciò vuol dire ch‘egli è nello stesso tempo onnipotenza e onnidisponibilità, sovrana affermazione di se stesso e totale distacco, vuol dire che, prendendo possesso delle sue creature, le fa esistere in tutta la loro originalità. È ben altro che non essere fatto di materia; è sfuggire a tutte le barriere, a tutti i ripiegamenti, è essere eternamente e ad ogni istante forza nuova ed intatta di vita e di comunione.

Autore: J. Guillet
Fonte: Dizionario di Teologia Biblica